nemico – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 18 Sep 2025 12:52:28 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Mikasa ti amo. L’attacco dialettico dei giganti https://www.carmillaonline.com/2025/07/22/mikasa-ti-amo-lattacco-dialettico-dei-giganti/ Mon, 21 Jul 2025 22:01:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89757 di Luca Cangianti

L’antagonista, il villain, il mostro, il nemico si presentano come doppio dell’eroe. Di questo abbiamo parlato in un articolo precedente. Nell’Attacco dei giganti – manga di Hajime Isayama dal quale è stato in seguito realizzato un anime – si fa un passo avanti verso una relazione dialettica dalle tinte hegeliane.

Uno spoiler titanico Per argomentare questa tesi partiamo da un’esposizione priva di qualsiasi cautela in materia di spoiler. Da cento anni l’umanità residua vive nella città di Paradis protetta da un muro alto cinquanta metri. Fuori c’è il “nemico naturale”, i giganti. Si tratta di umanoidi che ricordano [...]]]> di Luca Cangianti

L’antagonista, il villain, il mostro, il nemico si presentano come doppio dell’eroe. Di questo abbiamo parlato in un articolo precedente. Nell’Attacco dei giganti – manga di Hajime Isayama dal quale è stato in seguito realizzato un anime – si fa un passo avanti verso una relazione dialettica dalle tinte hegeliane.

Uno spoiler titanico
Per argomentare questa tesi partiamo da un’esposizione priva di qualsiasi cautela in materia di spoiler. Da cento anni l’umanità residua vive nella città di Paradis protetta da un muro alto cinquanta metri. Fuori c’è il “nemico naturale”, i giganti. Si tratta di umanoidi che ricordano degli zombie in formato ciclopico. Nei documenti storici non c’è traccia della causa che ha portato alla loro apparizione; divorano solo gli esseri umani, ma non disponendo di un apparato digerente li rigurgitano; non respirano, non soffrono la fame né la sete, non hanno organi sessuali e se privati di un arto lo rigenerano. Hanno bisogno solo di luce e il loro punto debole si trova dietro il collo.
L’incidente scatenante avviene quando due giganti, il Colossale e il Corazzato, aprono una breccia nelle mura: i mostri dilagano causando morte e distruzione. Eren Jaeger, l’eroe, assiste impotente alla morte della madre. Giura vendetta e, insieme ai suoi amici Armin e Mikasa, si unisce al Corpo di Ricerca, il cui scopo è scoprire l’origine e la natura dei giganti. I suoi militi, tenaci e indomiti, sono gli unici a uscire dalle mura. Sono rivoluzionari e sognatori: in una società chiusa e dominata dalla paura, rappresentano la speranza di un mondo migliore, il coraggio di andare oltre i limiti, praticamente e metaforicamente. Il loro motto è: «Offriamo i nostri cuori!»
Nel corso degli eventi Eren scopre di avere la capacità di trasformarsi egli stesso in gigante, pur conservando la sua coscienza umana. Inizia così una lunga guerra, non solo per sconfiggere i giganti, ma anche per svelare molti misteri. Si scopre che i giganti sono esseri umani trasformati e che il vero nemico è il mondo esterno alle mura – in particolare la nazione di Marley, che da secoli opprime gli eldiani, gli unici esseri umani capaci di trasformarsi in giganti. L’isola di Paradis altro non è che l’ultimo rifugio di questo popolo dopo la caduta dell’impero di Eldia. Gli abitanti della città fortificata pensavano di combattere contro i mostri e adesso scoprono che i mostri sono loro, o almeno che il mondo li considera tali.
Ereditando i ricordi del padre, Eren scopre l’origine dei nove giganti primordiali, la storia del popolo di Ymir, cioè Eldia, e i conflitti tra questa e Marley. Eren decide allora di distruggere il mondo per garantire la sopravvivenza del suo popolo. Alleatosi temporaneamente con il fratellastro Zeke Jaeger, s’impossessa del potere della Fondatrice Ymir che permette il controllo assoluto su tutti i giganti. Infine scatena il Boato della Terra che consiste nella liberazione di milioni di giganti colossali imprigionati nelle mura di Paradis. Questi si mettono in marcia per sterminare l’umanità fuori dall’isola.
Quando Mikasa e Armin scoprono gli intenti di Eren, si ribellano al suo piano e formano un’alleanza con alcuni ex avversari, uniti da un obiettivo comune: fermare Eren e salvare l’umanità. Quest’ultimo nel frattempo si è trasformato in un mega-mostro osseo. Durante lo scontro finale, Armin colpisce la bestia con il potere del Colossale, mentre Mikasa penetra all’interno della struttura titanica per cercare il corpo umano di Eren. Lo trova in stato semicosciente, con un’espressione di pace sul volto. Mikasa, da sempre legata a Eren da un amore tragico e sconfinato, si trova di fronte alla scelta più difficile: salvare il mondo oppure l’uomo che ama. Gli taglia la testa e lo bacia (esattamente in quest’ordine). In una realtà alternativa mostrata nei capitoli finali, Eren rivela a Mikasa di aver voluto essere fermato da lei. Sapeva di essere oltre ogni redenzione, ma desiderava che fosse Mikasa a chiudere il cerchio. Il potere dei giganti scompare e l’umanità, pur se ridotta a un misero venti per cento, sopravvive. Ciò nonostante la tensione tra Paradis e le altre nazioni rimane.

La negazione determinata
L’attacco dei giganti è una narrazione di scontro, di guerra, di svolte, di rivelazioni e di paradossi, ma i termini che si oppongono e cozzano non sono estrinseci. Essi si strutturano secondo uno schema prossimo alla negazione determinata di Hegel. Come il filosofo spiega nella Scienza della logica «L’unico punto, per ottenere il progresso scientifico […] è la conoscenza […] che il negativo è insieme anche il positivo, ossia che quello che si contraddice non si risolve nello zero, nel nulla astratto, ma si risolve essenzialmente solo nella negazione del suo contenuto particolare, vale a dire che una tale negazione non è una negazione qualunque, ma la negazione di quella cosa determinata che si risolve, ed è perciò negazione determinata. […] Codesta negazione è un nuovo concetto, ma un conetto che è superiore e più ricco che non il precedente […] ed è l’unità di quel concetto e del suo opposto.»1 Facciamo un esempio: nel confliggere frontale di due figure sociali (negazione astratta), una potrebbe esser pronta a sottomettersi all’altra per salvare la propria vita (negazione di sé). Si genera così la relazione tra servo e signore descritta nella Fenomenologia dello spirito.2 Hegel dice che il lato dominato di questo rapporto è costretto a lavorare per quello dominante, ma in questo modo apprende a plasmare gli oggetti e il mondo, dunque acquisisce potere e coscienza di sé (negazione determinata), mentre il signore si limita a fruire immediatamente dei prodotti creati dal servo. Quest’ultimo grazie al lavoro nega sé stesso come pura passività e trasforma tale negazione in un momento positivo: si forma nel lavoro e si riconosce come soggetto più libero e cosciente del signore. La negazione determinata non comporta distruzione, ma trasformazione e conservazione di un contenuto in un nuovo contesto più avanzato.

Le contraddizioni dei giganti
Riassumiamo ora i conflitti principali dell’Attacco dei giganti. 1) I giganti sono nemici degli umani rinchiusi in Paradis, ma poi si rivela che anche quest’ultimi possono trasformarsi in giganti. L’alterità nemica è quindi interiorizzata e il conflitto si sposta fuori le mura. 2) Le mura proteggono l’umanità dai giganti, ma la loro capacità di resistenza è dovuta al potere d’indurimento dei giganti che sono intrappolati all’interno delle fortificazioni stesse. 3) Eren e Armin sognano il mare e la libertà oltre le mura e i giganti, ma scopriranno che al di là dell’oceano c’è Marley che vuole sterminare gli abitanti di Paradis considerandoli mostri. È da Marley infatti che provengono i giganti che assediano Paradis. Essi altro non sono che parte della popolazione eldiana trasformata forzosamente. 4) Eren è l’eroe che sogna un mondo migliore, ma si trasforma nel distruttore della Terra. 5) Sempre lui dichiara: «Io sono uno schiavo della libertà!». Vuole andare oltre le mura, conoscere il mondo, essere libero di scegliere, ma quando accede ai ricordi del futuro del Gigante Fondatore si rende conto che le sue azioni erano già state previste. È lui che ha mostrato al padre gli eventi a venire per costringerlo a compiere determinate azioni. 6) Mikasa ama Eren, ma lo uccide: la ragazza compie l’impresa dell’eroe Eren sconfiggendo l’antagonista Eren e la sua dialettica priva di sintesi – il Boato della Terra.

L’amore di Mikasa
«Il primo momento nell’amore», sostiene Hegel nei Lineamenti di filosofia del diritto, «è che io non voglio essere una persona autonoma per me e che, se lo fossi, mi sentirei manchevole e incompleto. Il secondo momento è che io acquisto me in un’altra persona, che io valgo in lei ciò che a sua volta essa consegue in me. L’amore è pertanto la contraddizione più prodigiosa, che l’intelletto non può sciogliere, giacché non vi è nulla di più arduo di questo carattere puntiforme dell’autocoscienza, che viene negato e che io pur tuttavia devo avere come affermativo.»3 Il primo momento è simbolizzato da Mikasa che non si separa mai dalla sciarpa regalatale da Eren; il secondo dalle caratteristiche di Eren che attraggono Mikasa: lo spirito combattivo, il desiderio di giustizia e di libertà. Il motto ricorrente dell’eroe è infatti: «Combatti, devi combattere!» Nel momento in cui questi stessi elementi rischiano di provocare la distruzione, Mikasa compie il più grande atto di amore. Uccide il suo amato per conservarne le aspirazioni. Gli taglia la testa e, dopo un bacio che toglie il fiato, la trattiene in grembo. In questo modo, prossemicamente, Mikasa nega, ma conserva Eren e ciò che egli simbolizza. Dando la morte, Mikasa è la vita che trionfa sulla morte, la dialettica allo stato puro, lancinante, eroica, struggente. Per questo non si può che amare Mikasa.

L’antagonista come motore della storia
Jean Hyppolite afferma che nella Fenomenologia dello spirito «la dialettica producentesi nell’esteriorità si traspone all’interno dell’autocoscienza stessa». In questo modo «la dualità delle autocoscienze viventi diviene la duplicazione dell’autocoscienza all’interno di sé. L’indipendenza del signore e la severa educazione del servo divengono la padronanza-di-sé dello stoico – sempre libero quali che siano le circostanze o i casi della sorte – o l’esperienza della libertà assoluta dello scettico, il quale dissolve ogni posizione diversa da quella dell’io stesso.»4 E così come Alexandre Kojève ricorda che la negazione dell’Altro in Hegel non è assoluta, ma sempre determinata,5 noi possiamo affermare che il gigante rappresenta la negazione determinata di Eren e che, più in generale in narratologia, l’antagonista nega determinatamente l’eroe. Questo infatti riesce a compiere il proprio viaggio6 grazie alla lotta con l’antagonista così come il servo progredisce spiritualmente in virtù del conflitto con il signore, che funge da catalizzatore. Il nemico, l’antagonista, non è mera opposizione esterna, ma momento interno del processo dialettico che permette all’eroe di confliggere, negarsi e autogenerarsi in una nuova superiore identità. Non si sconfigge il nemico annientandolo, ma passandoci attraverso, interiorizzandolo come negativo.
Marx affermava che «È il lato cattivo a produrre il movimento che fa la storia». Noi possiamo aggiungere che senza «questo inconveniente della società»7 non ci sarebbe stato né incidente scatenante né conflitto. Saremmo rimasti a casa, non avremmo intrapreso viaggio alcuno e di conseguenza non ci saremmo evoluti. Nessuna storia sarebbe stata scritta o raccontata; non ci saremmo innamorati di Mikasa, non saremmo morti e non continueremmo a vivere in lei.


  1. G.W.F. Hegel, Scienza della logica, vol. I, Laterza, 1988, p. 36. 

  2. Cfr. id., Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, 1988, pp. 159-164. 

  3. Id. Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello stato in compendio con le aggiunte di Eduard Gans, a cura di G. Marini, Laterza, 1999, pp. 332-333. 

  4. Jean Hyppolite, Genesi e struttura della «Fenomenologia dello spirito» di Hegel, La Nuova Italia, 1989, p. 191. 

  5. Cfr. A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, Adelphi, 1996, p. 65. 

  6. Cfr. A. Penequo (a cura di), Il viaggio rivoluzionario dell’eroe. Narrare, conoscere, ribellarsi, Mimesis 2020. 

  7. K. Marx, Miseria della filosofia, Editori Riuniti, 1993, pp. 78-79. 

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L’eternauta e le declinazioni del nemico https://www.carmillaonline.com/2025/07/03/leternauta-e-le-declinazioni-del-nemico/ Wed, 02 Jul 2025 22:01:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89460 di Mazzino Montinari

Quattro amici, la solita partita a carte, le battute, le allusioni, il rischio di esagerare, qualcuno ride, qualcuno ci resta male, ma è questione di un attimo, un bluff, una combinazione giusta di semi e numeri e si riparte. Nel fare le stesse cose, trascorrono i giorni, i mesi, gli anni. Passerebbero anche se riempissimo la vita di innumerevoli novità, perché il tempo, il nostro tempo, avanza inesorabile, pronto ad assorbire tutto ciò che non è ancora accaduto. Per Juan e gli altri il passato è memoria condivisa, ricordi offuscati o, forse, accuratamente selezionati. Per loro, come per noi, [...]]]> di Mazzino Montinari

Quattro amici, la solita partita a carte, le battute, le allusioni, il rischio di esagerare, qualcuno ride, qualcuno ci resta male, ma è questione di un attimo, un bluff, una combinazione giusta di semi e numeri e si riparte. Nel fare le stesse cose, trascorrono i giorni, i mesi, gli anni. Passerebbero anche se riempissimo la vita di innumerevoli novità, perché il tempo, il nostro tempo, avanza inesorabile, pronto ad assorbire tutto ciò che non è ancora accaduto. Per Juan e gli altri il passato è memoria condivisa, ricordi offuscati o, forse, accuratamente selezionati. Per loro, come per noi, tutto appare allo stesso modo. Finché una cesura interrompe quel tempo. Un’irruzione dal cielo che sconvolge tutto.

La neve è un evento di per sé sorprendente. Cambia il paesaggio e le abitudini, almeno per quei cittadini che abitano al livello del mare e che accolgono quella precipitazione atmosferica con sentimenti opposti, inquieti, che si tratti di gioia ludica o di irritazione pragmatica. Se però quei fiocchi cadono in una stagione calda, lo stupore prende il sopravvento.
Non finisce qui. Juan e i suoi compari comprendono presto che quella nevicata è devastante, uccide al solo contatto con la pelle. Le persone cadono al suolo, le macchine sbandano e concludono la loro corsa contro un muro o un palo della luce. Il quotidiano ora è avvolto dalla morte. Il tempo si è trasformato in un buco nero che divora indiscriminatamente ciò che incontra, per non farlo più essere. I quattro amici sono testimoni, pur non sapendo di cosa.
De L’eternauta qui hanno già scritto molto bene Marco Sommariva e Walter Catalano. Motivo per cui non è necessario dare le coordinate di un’opera fondamentale nel mondo del fumetto e non solo. Così come sarebbe ridondante ricordare il tragico destino di Héctor Oesterheld, l’autore che scomparve durante l’orrenda dittatura argentina capeggiata dal generale Jorge Rafael Videla.
Non una recensione, perciò, e nemmeno un paragone con l’omonima serie visibile su Netflix, bensì alcuni appunti sull’insorgere di un nemico, sulla sua non immediata riconoscibilità e, poi, sulla capacità di allearsi per fronteggiare qualcosa di mostruoso che sembra inattaccabile e inaccettabile.

Ne L’eternauta la minaccia arriva inaspettata, anche se poi nel fumetto di Oesterheld (non per ora nella serie) scopriremo che l’invasione preceduta dalla nevicata tossica è frutto di un patto tra gli alieni e le potenze mondiali che, pur di salvarsi, hanno venduto (e condannato) il Sud America. Ad ogni modo, Juan e gli altri non sanno niente, non sono preparati al rovesciamento della loro esistenza. Sono impegnati nelle loro faccende come qualsiasi abitante del pianeta prima di un’invasione degli zombie o come i villeggianti che in una spiaggia fanno il bagno ignari di potersi trasformare in cibo per uno squalo. È la metafora di un presente che non dà segnali se non quelli che siamo già abituati a decriptare. Accanto a noi si muove qualcosa ma non siamo in grado di vederlo, quasi avessimo bisogno dei prodigiosi occhiali di Essi vivono (They Live, 1988), il film scritto e diretto da John Carpenter nel quale, appunto, solo con delle lenti rivelatrici è possibile scoprire che la Terra è stata invasa a nostra insaputa da una potenza extraterrestre.
Lo squalo di Steven Spielberg (Jaws, 1975) non sa di essere un nemico. È inconsapevole del suo ruolo, si dovrà adeguare suo malgrado. Procede seguendo il suo istinto, peraltro falsificato dal cinema perché lui avrebbe fatto altro nella sua vita. I nemici creati da Oesterheld, invece, come il governo e i militari israeliani, hanno pianificato il loro attacco, sanno cosa vogliono, quanta distruzione infliggere, quanto dolore arrecare. Dall’altra parte della barricata, prima che si formi una forza antagonista, uomini e donne sbandano, si dividono, lottano tutti contro tutti, magari per contendersi un’arma o una maschera antigas, una borsa con del cibo o una tuta che resista meglio all’impatto della neve.
È una colpa cercare di sopravvivere? È un delitto, di fronte all’irruzione del radicalmente nuovo di arendtiana memoria, crearsi delle regole inedite? Non è semplice reagire a una guerra che altri hanno dichiarato prevaricando i desideri, l’esistere quotidiano qui e ora, una sola volta e mai più. E poi dove e chi colpire?

Il nemico sotterraneo è destinato a uscire allo scoperto, non può nascondere la sua identità indefinitamente. Gli extraterrestri (insettoni umanoidi, robot e altro ancora) dopo aver colpito le abitudini di una collettività, manifestano i propri intenti in modo chiaro: lo scopo è sterminare per conquistare, disumanizzando le vittime al pari dei carnefici.
È a questo punto che Oesterheld non si accontenta di una Guerra dei mondi (The War of the Worlds, H.G. Wells, 1897) e aggiunge un altro tipo di contendente, il nemico mimetizzato che vive come le persone che inganna e vuole sopprimere. Tre esempi, di cui due abbastanza simili: l’Avversario (L’Adversaire, 2000) di Emmanuel Carrère, dove un uomo ben inserito nella comunità uccide la sua famiglia solo per conservare il suo aspetto. Truffa le persone per potersi permettere un tenore di vita che possa farlo sentire come gli altri e gli altri lo eleggono a uno di loro non potendo credere che si tratti di un impostore omicida. Lo straniero (The Stranger, 1946) di Orson Welles con il protagonista, Charles Rankin, che è uno stimato professore di Harper nel Connecticut. Sta per sposarsi con Mary Longstreet, la figlia del giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti. I suoi allievi lo adorano e lui compiaciuto ripara persino l’orologio del campanile della chiesa. Manca un dettaglio. Rankin non è chi dice di essere. Sotto una falsa identità, si cela quella spaventosa di Franz Kindler, uno spietato carnefice nei campi di concentramento nazisti, che ha trovato riparo negli Stati Uniti. E infine, forse i più noti e inquietanti imitatori e annientatori del genere umano, i baccelloni immaginati da Don Siegel nell’Invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, 1956) che si schiudono e replicano gli abitanti di un’intera cittadina, sostituendoli definitivamente.

Gli alieni di Oesterheld padroneggiano corpi e menti umane e dunque producono un conflitto tra simili. Tuttavia, Juan e i resistenti non si arrendono, contrattaccano sacrificandosi e alleandosi, formando una resistenza. Non basta. Non è sufficiente vincere una battaglia. L’orrore rimane, non si può cancellare o addirittura giustificare come fanno i Jair Bolsonaro e Javier Milei del nostro mondo. E così si torna all’inizio e alla fine de L’eternauta, con Juan, il naufrago del pianeta, che vaga per epoche e spazi alla ricerca di un tempo diverso e alternativo, per riportare sulla Terra chi altrimenti non sarà mai più.

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Il nemico siamo noi https://www.carmillaonline.com/2025/04/21/il-nemico-siamo-noi/ Sun, 20 Apr 2025 22:01:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87991 di Maurizio Marrone

Ήθος ανθρώπω δαίμων. Il daimon è per ciascuno il suo carattere. (Eraclito, fr. 119 D.-K.)

Oltre la costruzione identitaria del nemico Mai come in questi giorni cupi, in cui l’Antropocene sembra voler immortalare il proprio suicidio simbolico nell’istantanea di un corpo che annega nelle sue stesse deiezioni, la percezione del mondo è per lo più filtrata da una nozione di soggettività posticcia che, come mera appropriazione identitaria, si nutre di separazione; una divergenza progressiva che esaspera, fino a farla esplodere, non solo la dialettica amico/nemico, ma anche la nozione stessa d’identità dell’individuo in quanto tale, espungendone alla radice l’alterità [...]]]> di Maurizio Marrone

Ήθος ανθρώπω δαίμων.
Il daimon è per ciascuno il suo carattere.
(Eraclito, fr. 119 D.-K.)

Oltre la costruzione identitaria del nemico
Mai come in questi giorni cupi, in cui l’Antropocene sembra voler immortalare il proprio suicidio simbolico nell’istantanea di un corpo che annega nelle sue stesse deiezioni, la percezione del mondo è per lo più filtrata da una nozione di soggettività posticcia che, come mera appropriazione identitaria, si nutre di separazione; una divergenza progressiva che esaspera, fino a farla esplodere, non solo la dialettica amico/nemico, ma anche la nozione stessa d’identità dell’individuo in quanto tale, espungendone alla radice l’alterità intrinseca che la costituzione più intima del soggetto stesso reca in sé, come proprio fondamento inespresso. In forza di questo costante svuotamento di senso, entrambi i termini della relazione – io/altro, amico/nemico – si presentano spesso come significanti vuoti e, soprattutto la nozione di nemico, declinata a uso e consumo di una propaganda dissennata, rimane irrimediabilmente cristallizzata in una sterile costruzione identitaria ad escludendum in forza della quale dalla parte giusta della storia ci siamo noi e da quella sbagliata ci sono gli altri, i nemici, gli stranieri, gli usurpatori, da additare ed eliminare, come gli ultracorpi nel celebre remake del film di Don Siegel. Con buona pace di Edmond Jabès quando ci dice che «lo straniero ti permette di essere te stesso, facendo di te uno straniero»1.

Mai come in questi giorni cupi sarebbe invece opportuna una riflessione ponderata proprio sulla figura del nemico; un’analisi critica, depurata da ogni hybris etnocentrica, capace di restituirne la complessità proteiforme e di scardinare la logica tanatopoietica che, in forza di una fatwa perenne e di una separazione postulata ma fittizia, domina la costruzione del soggetto come mera appartenenza identitaria. Ma di tale riflessione non v’è traccia perché, si sa, la sfida della complessità è merce rara, mentre la semplificazione è in saldo in tutte le vetrine dell’impero. Ciò a cui si assiste, al contrario, è una saga del declino in forma di farsa, messa in scena da una grottesca schiera di saltimbanchi dell’apocalisse che, se non fosse drammaticamente reale, potrebbe a pieno diritto figurare come episodio pilota di una serie distopica di grande successo. Mentre a Gaza va in scena l’atto finale di uno sterminio annunciato e i tecnocrati del dominio giocano a dadi con il nostro futuro. Il vero è diventato un momento del falso, avrebbe detto Debord; e dato che il vero si presenta ormai come un deserto di senso, per trovarne traccia, come spesso accade, è utile volgere lo sguardo proprio al falso, alla finzione, ovvero al territorio dell’immaginario.

Nel vasto panorama della recente produzione fantastica – sia letteraria che cinematografica o seriale – vale la pena di citare almeno due esempi di indubbia originalità e acume. Il primo è il romanzo incompiuto di Valerio Evangelisti intitolato La fredda guerra dei mondi (Mondadori, 2023) che doveva essere composto da 45 capitoli di 5 pagine ciascuno e, nella volontà dell’autore, avrebbe dovuto rappresentare l’ampliamento dell’omonimo racconto uscito nel 2020 in un fascicolo Urania Millemondi chiamato Distopia, (Mondadori, 2020). Data la scomparsa prematura di Evangelisti, del libro, purtroppo, sono disponibili solo i primi 17 capitoli, con l’eccezione del capitolo 10 che il curatore Franco Forte non è mai riuscito a trovare nel lascito dello scrittore bolognese. Il secondo esempio è Scissione (Severance), la serie televisiva creata da Dan Erickson, la cui seconda stagione è da poco andata in onda su Apple Tv.

Valerio Evangelisti

La fredda guerra dei mondi
Nella Fredda guerra dei mondi Evangelisti mette in scena un conflitto globale che vede come protagonisti da una parte la Terra (o meglio le potenze occidentali) e dall’altra una presunta razza aliena dalle sembianze vagamente umanoidi. Una potenza «straniera» venuta dallo spazio profondo, dotata di tecnologie sofisticatissime che sta distruggendo, uno a uno, tutti i monumenti delle principali città impegnate nei combattimenti, senza però fare alcuna vittima, né tra i civili né tra i militari. L’esistenza degli alieni è nota ai governanti di turno da molti anni – da quando cioè alcuni di loro sono stati catturati – ma è stata tenuta nascosta alla popolazione civile, fino a quando «gli extraterrestri» individuano i loro compagni rapiti e scatenano l’attacco contro la Terra per riportarli a casa. Il conflitto è gestito da un’entità sovranazionale, composta da capi di stato, militari e tecnocrati che, senza alcun mandato, si sono intestati il diritto di condurre la parte sana dell’umanità alla vittoria, costi quel che costi; ed è lecito presumere che il tempo della narrazione, ambientata tra Parigi e Tolosa, sia più o meno quello del nostro presente. Le vicende legate alla guerra, però, intersecano anche quelle di una scalcinata accolita di malviventi dalla raffazzonata quanto traballante vocazione anarchica. Il capo, soprannominato «il Reverendo», durante una rapina a casa di un generale, assiste per caso a una videoconferenza tra i potenti della Terra, dalla quale apprende dell’invasione aliena. Seguendo le gesta del Reverendo e della sua banda di sodali, si scoprirà che in realtà gli invasori alieni non sono altro che gli umani di un lontano futuro che, grazie a un entanglement spazio-temporale, sono tornati a salvare i loro fratelli tenuti prigionieri. Per questa ragione non uccidono i propri presunti nemici: perché la morte di ciascun nemico nel presente eliminerebbe migliaia di loro nel futuro. La chiamata alle armi e la rivelazione della minaccia aliena – con il consueto corredo di fanatismo nazionalista e vaneggiamenti su una imminente sostituzione etnico-culturale – vengono annunciate a reti unificate, senza però svelare la reale provenienza degli invasori. Perché, dice Evangelisti per voce del segretario di Stato americano, «L’uomo del popolo deve individuare confusamente chi è il nemico e starsene al riparo a sostenere chi combatte, oppure arruolarsi e obbedire agli ordini». Lo stato di guerra contro un nemico di cui non si rivela mai il vero volto (perché è il nostro), consente al potere di perpetrare se stesso e di stroncare sul nascere ogni forma di dissenso, così come di giustificare impunito – in nome di una ragione superiore – qualsiasi ripugnante metodo repressivo. Ma la chiamata alle armi nasconde anche un duplice e più agghiacciante obbiettivo: in moltissime città, a contingenti di 20 mila per volta, i riservisti che si sono offerti volontari per combattere gli alieni, vengono sterminati col gas, come bestie da macello. Perché, annuncia tronfio un autorevole burocrate dello sterminio, il sacrificio di 20 mila dei nostri nel presente, annienterà all’istante milioni dei loro nel futuro dal quale provengono.
Il romanzo in sostanza si conclude qui. Purtroppo Evangelisti ci ha lasciati prima di poter comporre il puzzle ma, tenendo fede al finale dell’omonimo racconto del 2020 e avendo una qualche dimestichezza con l’universo narrativo dello scrittore bolognese, è lecito avanzare qualche ipotesi. Fatte salve le sorti, rimaste indecise, del Reverendo e della sua banda possiamo infatti immaginare che un entanglement spiraliforme travolga nel suo vortice il presente della narrazione, per proiettarlo in un tempo X dalla struttura ignota, nel quale però un altro gruppo di ladri e puttane deciderà che resistere non è mai inutile.

Rispetto alle questioni relative allo statuto del nemico/straniero sollevate nella nostra breve quanto sommaria premessa, è utile ribadire come Evangelisti, soprattutto nel ciclo di Eymerich, si sia confrontato principalmente con la natura del potere, che egli incarna nella figura dell’inquisitore catalano: una natura spietata, pervasiva ma, allo stesso tempo, estremamente seducente (tutti i lettori tifano per il Magister) e, per questo, ancor più subdola e pericolosa. Lo stesso personaggio di Eymerich, tuttavia, diventa anche un topos narrativo di sperimentazione nel quale soprattutto da un punto di vista archetipico, agisce proprio la questione del nemico come alterità consustanziale al soggetto. Perché se è vero, da una parte, che il Magister rappresenta il villain per eccellenza (spietato, determinato, feroce, astuto, implacabile e quasi sempre malvagio), dall’altra il lettore è portato a schierarsi sempre dalla sua parte e, in tutto il ciclo, sembra mancare un vero e proprio antagonista in senso narratologicamente codificato. Perché, in realtà, i vari avversari che Eymerich inesorabilmente sconfigge nel corso delle sue imprese e investigazioni (eretici, catari, giudei, alchimisti, falsi profeti e soprattutto donne, alle quali egli imputa il peccato originale dell’empatia e della carnalità), in virtù di un rovesciamento tanto intrigante quanto sofisticato, rappresentano il lato vitale di sé, che egli detesta e dal quale è terrorizzato. Corpus vs dogma, il volto lunare di Ecate e del femminile vs fede e ragione. Ogni forma di partecipazione emotiva e di contatto col corpo vivo del mondo, che Eymerich avverte dentro di sé, viene vissuta come l’azione strisciante del demonio, repressa e esternalizzata in una schiera di nemici da abbattere ad ogni costo.

Nella Fredda guerra dei mondi, per quanto è dato rilevare vista l’incompiutezza del romanzo, questo medesimo meccanismo di rifiuto e outsourcing del rimosso viene declinata in modo più esplicito e secondo uno schema più squisitamente politico e interno alle dinamiche di conservazione del potere. Non importa, infatti, che gli umani si facciano la guerra tra di loro perché, purtroppo, è cosa fin troppo comune; non importa neanche che siano disposti ad annientarsi come specie, perché anche questa, purtroppo, è un’ipotesi sul tavolo. Importa però in maniera cogente che gli umani del futuro, universalmente trattati come nemici da eliminare, vengano costantemente definiti e considerati «alieni», anche e soprattutto da chi è a conoscenza della loro vera natura, che è la nostra. Importa l’incapacità di accettare un corpo – e un volto – che il tempo ha trasformato e verso il quale non si nutre alcune curiosità o empatia, ma disgusto e derisione. Importa la reductio a semplice entità malevola (l’alieno da abbattere) di una specie – la nostra – che ha percorso milioni di anni di storia a ritroso nel tempo e nello spazio per salvare i propri fratelli. Per tornare a Jabès, importa la manifesta e patologica volontà di disconoscere lo straniero che è in noi. Ma, soprattutto, in chiave sociopolitica, importa l’arroganza del potere che, per affermare e salvaguardare se stesso, è disposto a cancellare con un gesto milioni di possibili storie future. E rileva importa che la vera natura degli invasori, tenuta sapientemente nascosta alla popolazione, sembra venir dimenticata anche da chi siede nella stanza dei bottoni. Perché, appunto, il nemico deve rimanere un significante vuoto, uno stereotipo strumentale che definisce per via negationis tanto il soggetto quanto la sua appartenenza ad una comunità di eletti che blinda il proprio perimetro al grido di «Morte all’invasore, morte al mostro!».

Scissione
Scissione (Severance) – il secondo dei nostri esempi – è una serie del 2022 targata Apple Tv, di cui per ora sono disponibili due stagioni, anche se è già stata annunciata la messa in onda della terza. Ideata da Dan Erickson e prodotta da Ben Stiller (che dirige magistralmente anche metà degli episodi) rappresenta un piccolo capolavoro, sia per quanto riguarda la scrittura che le scelte estetico-formali. La vicenda, situata in un tempo imprecisato, ma ragionevolmente prossimo tanto al nostro passato recente, quanto al nostro futuro imminente, è ambientata in parte nella desolata cittadina di Kier – nello stato di New York – e in parte negli uffici della Lumen Industries, un’azienda tanto misteriosa quanto potente, che ha brevettato una procedura neurologica in grado di scindere la coscienza dei propri impiegati in due entità completamente distinte e irrelate. I dipendenti che sono stati sottoposti al processo di scissione – gli interni – sono completamente ignari di quanto accade loro al di fuori dell’ambiente lavorativo, mentre i loro corrispettivi mondani – gli esterni – non sanno nulla di ciò che avviene negli uffici dell’azienda con la quale hanno sottoscritto il contratto di assunzione. L’unica differenza di consapevolezza tra le due parti del sé scisso è che gli esterni hanno scelto di sottoporsi alla procedura, mentre gli interni l’hanno subita. Oltre a ciò, ed è un distinguo di non poco conto nell’economia dell’impianto narrativo, solo gli esterni possono risolvere il contratto, a significare che gli interni sono, loro malgrado, imprigionati in una realtà che non hanno scelto e dalla quale, al contrario degli alter ego che gli hanno in qualche modo generati, non possono evadere se non al prezzo del loro stesso autodissolvimento. Quanto alle ragioni che hanno portato ciascuno dei protagonisti a sottoporsi alla procedura e ad avere – si fa per dire – una seconda vita ignara della prima, sono sia di carattere personale (l’incapacità di sopportare il dolore di una perdita, un’omosessualità repressa vissuta come colpa, il senso di fallimento per la mancanza di un lavoro stabile) che dettate da deliri di marketing aziendale (l’erede al trono della famiglia Eagan – proprietaria della Lumen – che decide di sottoporre se stessa al processo di scissione per santificarne la fulgida efficacia).
L’ambiente lavorativo è asettico, labirintico, claustrofobico, volutamente estraniante, dominato da un bianco privo di spessore e di tempo; mentre la vita lavorativa degli interni – che è l’unica di cui dispongono – è sempre identica a se stessa, se non per il fatto che, di tanto in tanto, è costellata da surreali siparietti fatti di recite, cappellini e premi produzione della portata di un dolcetto in più da consumare durante la pausa pranzo. Per il resto il loro lavoro consiste nell’individuare e rimuovere numeri «pericolosi» da enormi set di dati, senza sapere realmente quale sia il loro significato. Una surreale distopia dell’assurdo che però scompare dalla memoria una volta oltrepassata la soglia dell’azienda. Così come scompaiono lo sfruttamento, le vessazioni e le torture psicologiche a cui vengono sottoposti gli interni ogni volta che cercano di evadere dalla routine alienante.
Un dispositivo espropriante quasi perfetto che però si inceppa quando un ex collega di Mark (il personaggio principale della serie) viene ucciso dopo aver contattato il suo esterno e avergli fatto capire che è possibile la reintegrazione parziale delle due parti scisse e che la Lumen non è esattamente quello che sembra. È questo l’evento scatenante che, in una atmosfera cupa e straniante, nella quale si fondono noir, thriller, spy story e qualche venatura horror, mette in moto il meccanismo che porterà gli interni a voler accedere con la coscienza intatta al mondo dei propri esterni, per carpire le ragioni di un esilio che è tutt’uno con la loro nascita tardiva.

Oltre il rimosso
Come si evince da questa breve ricostruzione la trama, di cui non sveleremo altro, è molto sofisticata e si presta a molteplici livelli di lettura. Se in forma piuttosto esplicita l’idea centrale della serie allude a Freud e al rapporto tra Io e Es (anche se ovviamente in forma rovesciata, visto che la parte rimossa non è quella sofferente ma quella apparentemente felice che trova nel lavoro una distrazione dalla nevrosi del quotidiano), il modo in cui evolve il racconto intercetta una serie di riflessioni e di tematiche ognuna delle quali meriterebbe di essere trattata a parte. Alienazione (nel senso marxiano del termine), disumanizzazione, dominio, controllo, potere, memoria, identità; e, anche se in forma non immediata, ma non per questo meno stimolante, la questione del nemico posta in relazione proprio con il concetto di identità scissa e alterità rimossa. Perché dal momento in cui ciascuno degli interni, grazie a un breve episodio di reintegrazione, entra in contatto con la parte a lui sconosciuta della propria vita, si innesca un movimento a spirale che porterà le due metà della coscienza disgregata a diventare una nemica dell’altra; un processo di progressiva e sistematica ostilizzazione del rimosso che, se declinata in chiave politico-sociale, rischia di congelarsi in una frattura insanabile – quasi un nuovo nomos della Terra in forma di muro – che pone come inaggirabile e costituente del nostro stesso patto fondativo la distinzione fittizia tra «noi» – i buoni – e «loro» – i nemici. Dicevano Chamosieau e Glissant che «Ogni volta che una cultura o una civiltà non è riuscita a pensare l’altro, a pensarsi con l’altro, a pensare l’altro in sé, queste rigide difese di ferro, di filo spinato, di reti elettrificate o di ideologie chiuse si sono innalzate, sono crollate e ora ritornano con nuovi stridori»2. Perché se è vero che l’identità pensata come «muro» è presente in tutte le culture, è in Occidente che ha mostrato (e continua a mostrare) tutta la sua forza di devastazione.

Per ora non è dato sapere se l’umanità presente e futura della Fredda guerra dei mondi troverà un modo di convivere pacificamente o se i personaggi di Scissione riusciranno a ricomporre la lacerazione che, per loro stessa mano, ha precipitato parte della loro identità in territorio ostile. Certo è che solo accettando l’altro che è in noi riusciremo ad abbattere il muro da noi stessi edificato e forse, come auspicava il compianto Alessandro Leogrande, a farci testimoni dell’unicità di ogni ferita, compresa la nostra.


  1. Cfr. E. Jabès, Uno straniero con sotto il braccio un libro di piccolo formato, SE, Milano, 1991. 

  2. Cfr. P. Chamosieau-E. Glissant, Quando cadono i muri, Nottetempo, Roma 2008. 

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Il volto di Marte e le sue forme. Note su guerra asimmetrica e guerra simmetrica / 1 https://www.carmillaonline.com/2022/10/01/il-volto-di-marte-e-le-sue-forme-note-su-guerra-asimmetrica-e-guerra-simmetrica-1/ Sat, 01 Oct 2022 20:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73960 di Emilio Quadrelli

Il mezzo più sicuro per perdere una guerra è impegnarsi su due fronti. (Karl von Clausewitz, Della guerra)

La fine dei confini politici

Le tensioni Russia – Usa in merito alla “questione Ucraina”e nel Mediterraneo riporta la guerra al centro dell’interesse politico, ciò ci offre l’occasione per affrontare la “questione guerra” nelle diverse sfaccettature che ha assunto, a tal fine cercheremo di analizzarne i vari volti. Non occorre essere degli specialisti di cose militari per comprendere come le forme della guerra siano radicalmente mutate e di come, nel [...]]]> di Emilio Quadrelli

Il mezzo più sicuro per perdere una guerra è impegnarsi su due fronti. (Karl von Clausewitz, Della guerra)

La fine dei confini politici

Le tensioni Russia – Usa in merito alla “questione Ucraina”e nel Mediterraneo riporta la guerra al centro dell’interesse politico, ciò ci offre l’occasione per affrontare la “questione guerra” nelle diverse sfaccettature che ha assunto, a tal fine cercheremo di analizzarne i vari volti. Non occorre essere degli specialisti di cose militari per comprendere come le forme della guerra siano radicalmente mutate e di come, nel presente, parlare di guerra significa, per prima cosa,cogliere il nesso tra guerra esterna e guerra interna. Questa la principale differenza rispetto al passato quando la prima cosa di cui si preoccupavano gli stati era la più completa pacificazione interna e la ricerca di una sostanziale adesione della popolazione alle logiche di guerra. Oggi, al contrario, guerra interna e guerra esterna sono continuamente intrecciate e gli stati tendono a combattere senza alcuna preoccupazione su entrambi i fronti. In passato, non per caso,si è sempre parlato di “nazione in guerra” mentre, nel presente è lo stato e non la nazione a essere in guerra. Ciò implica, di fatto, una radicale frattura tra stato e nazione, dove con nazione si intende popolazione, e il delinearsi di un fronte, per quanto di gradi e intensità diversi, che vede guerra eterna e guerra interna come un continuum. Partiamo, pertanto, da quest’ultima poiché è proprio lì che è possibile cogliere come il paradigma della guerra si sia modificato. A differenza del passato il “fronte interno” riveste un ruolo non meno importante di quello esterno per cui una disamina su questo appare estremamente necessaria ma non dilunghiamoci ed entriamo subito nel merito delle cose.

La notizia è di qualche tempo addietro ed passata pressoché inosservata. Una parte dei militari impegnati tra le montagne dell’Afghanistan è stata spostata in Val Susa con compiti pressoché analoghi: la pacificazione del territorio. Un’operazione intorno alla quale è opportuno ragionare poiché, attraverso un dato empirico, è possibile cogliere per intero un paradigma politico. Tutto ciò, ovviamente, non è frutto di una improvvisazione né, tanto meno, l’effetto di una decisione estemporanea priva di razionalità e progettualità bensì il naturale e ovvio approdo di una linea di condotta che affonda le sue radici dentro l’insieme delle trasformazioni che hanno caratterizzato il “politico” nella fase imperialista globale e dei modi in cui, la tendenza alla guerra, o almeno un suo aspetto, prende concretamente forma nel mondo contemporaneo. I tratti di tale tendenza appare sensato investigare poiché, la loro decifrazione, sono in grado di raccontare con non poca esattezza la cornice entro la quale siamo immessi.

Notoriamente, a partire dal post ’89, il nemico in quanto entità politica legittima, almeno nell’utopia coltivata nei mondi occidentali, è scomparso. Da quel momento in poi contendenti di pari grado e dignità hanno cessato di esistere. Repentinamente abbiamo assistito alla messa in circolo di un ordine discorsivo il cui cuore strategico era esattamente rappresentato dalla svalutazione del nemico e, pertanto, della sua dimensione politica. Un passaggio intorno al quale è bene interrogarsi poiché è proprio l’analisi di tale trasformazione a consentirci di entrare per intero negli arcani del presente. Parlare del modo in cui la guerra, o almeno un suo aspetto non secondario, è messa in forma ha ben poco di specialistico così come, per altro verso, non denota una particolare propensione verso le cose militari ma, al contrario, significa entrare direttamente nelle prosaiche cose di tutti i giorni poiché la guerra, in quanto sintesi massima del “politico”, non può che informare e governare per intero tutti gli ambiti di una formazione economica e sociale. Il modo in cui la guerra è pensata, organizzata, pianificata e condotta indica esattamente il tipo di società entro cui siamo immessi.

Della sequela di guerre che hanno preso l’avvio dal 1991 in poi si è perso persino il conto. Queste, indipendentemente dalla loro particolarità e specificità, erano unite da un comune elemento: la dimensione impolitica dell’avversario di turno. Non per caso la stessa parola guerra, dal 1991 in poi, non è più stata pronunciata se non accompagnata da un qualche aggettivo. Nasce proprio in quel contesto la dicitura di guerra umanitaria mentre il termine guerra tout court comincia a essere bandito dal lessico comune. Perché? Per quale motivo, a un certo punto, non è più possibile parlare di guerra? Per quale motivo, il termine guerra senza aggettivi, crea non pochi imbarazzi? Perché le varie coalizioni statuali che, volta per volta, hanno dato il la a una qualche operazione bellica si sono sentite in dovere, di fatto, di scongiurare la guerra proprio mentre davano fuoco alle polveri? A un primo sguardo, tutto ciò, potrebbe sembrare la semplice reiterazione di un modus operandi che, nelle vicende storiche, è stato più volte utilizzato. In ciò i nazisti sono stati autentici maestri.

L’Austria, la Cecoslovacchia e la Polonia sono state operazioni di guerra diversamente nominate. In quei contesti, però, a delinearsi non era un modello teorico/concettuale ma la più prosaica esigenza di occupare nazioni e territori facendo in modo che, agli occhi delle compiacenti e impaurite democrazie imperialiste europee, la legalità internazionale non risultasse sovvertita più di tanto. Questione contingente dettata dal più cinico dei tatticismi senza alcun altro tipo di rimando. Uno scenario, pertanto, del tutto diverso da quello inaugurato a partire dalla Prima guerra del Golfo.
Nessun tatticismo, nessun problema di ordine legale è stato posto alla base del “nuovo corso” in cui la forma guerra ha iniziato a essere ascritta bensì un modello teorico concettuale ex novo del quale è opportuno coglierne il senso.

Per quanto strano possa apparire, e con buona pace dei pacifisti, se c’è qualcosa che non è mai uguale a se stessa è la guerra. La guerra non è, come gli stolti solitamente immaginano, pensano e proclamano, l’elemento irrazionale che sovverte l’ordinato e razionale mondo della pace bensì il massimo della razionalità, storicamente determinata, che una forma politica “concreta” è in grado di mettere in campo. Guerra e pace sono, e non potrebbe essere altrimenti, comprese nella medesima forma politica la quale non può darsi, pena la sua estinzione, escludendo uno dei suoi poli. In altre parole ogni “forma guerra” non può che essere già compresa nella sua “forma pace”. La guerra, quindi, non presenta alcuna invarianza come se, questo, fosse un mondo astorico e avulso dalla formazione economica e sociale perché di questa, invece, ne è la massima espressione. Non esiste la guerra ma le guerre le quali sono sempre il frutto di formazioni politiche storicamente determinate. A decidere della e sulla guerra sono classi storiche concrete, espressioni di determinati rapporti di forza e di potere e, soprattutto, di una determinata base strutturale.

La Prima guerra mondiale è stata qualcosa di assolutamente incommensurabile rispetto alla guerra franco/prussiana così come, il Secondo conflitto mondiale, è stato ben diverso dal Primo. E questo, per essere chiari, non tanto per le obiettive trasformazioni che scienza e tecnica hanno apportato al modo di combattere ma per la differenza dei sistemi politici ed economici che facevano da sfondo al conflitto. Nessun “dominio della tecnica” è in grado di sovvertire le ragioni politiche della guerra così come, l’irrompere prepotente della “battaglia dei materiali”, non è altro che il modo in cui, un determinato sviluppo delle forze produttive, determina “concretamente” la forma guerra. Non vi è mai stata una guerra bella, onorevole e cavalleresca bensì una guerra che poggiava per intero sulle possibilità che una base strutturale le consentiva di porre in campo. Ogni fase storica ha il suo modello bellico e questo va compreso e analizzato.

Non è possibile, pertanto, comprendere la forma guerra contemporanea se non si affronta la questione della fase imperialista globale che ne rappresenta il cuore politico. Difficile, infatti, spiegare la presenza dei militari in val Susa se non si comprende il modo in cui, la fase imperialista globale, ha ridefinito l’idea stessa di confine, di Stato e il rapporto di questi con le popolazioni interne a questi perimetri. Allo stesso modo, senza comprendere che cosa è mutato nel rapporto tra stato e popolazione nelle nostre società, diventa di difficile comprensione la presenza ormai abituale dei militari in servizio di ordine pubblico nelle nostre città. Non si possono decifrare i volti di Marte se non si comprende di quali trasformazioni questi ne sono gli effetti. Ricorrere alla facile, e buona per tutte le stagioni, categoria della repressione è un modo per spiegare tutto e non spiegare nulla. Così come la guerra è sempre l’effetto di una condizione storicamente determinata, la repressione è sempre il frutto di un modello politico “concreto” e il risultato di rapporti di forza “concreti”. Per quanto possa essere in qualche modo vero che: “I Governi cambiano, le polizie restano”, i modelli polizieschi, al pari della guerra, non sono astorici bensì il frutto maturo di una determinata formazione economica e sociale.

La compenetrazione di polizia e militare, perché di ciò stiamo parlando, non è un semplice fatto repressivo ma un passaggio strategico nella messa in forma della guerra. Ciò ha ricadute a trecentosessanta gradi su tutta la formazione economica e sociale. Capirne il senso è qualcosa di più di un vezzo intellettuale. Decifrarne il portato e il significato significa, almeno sul piano della teoria e dell’analisi politica, fare già un passo dentro la guerra, la sua forma, le sue dinamiche. Sicuramente non è tutto, ma certamente è qualcosa.

Quanto accade in Val Susa, e in forma apparentemente più mesta si è manifestato poco tempo addietro attraverso l’impiego dei militari in servizi di ordine pubblico nelle metropoli, rappresenta esattamente il rimpatrio di un modello bellico la cui genealogia è possibile rintracciare nel momento stesso in cui, il crollo del “Blocco sovietico” e il dispiegarsi della fase imperialista globale, hanno inaugurato non solo un nuovo modo di combattere ma, ed è questo il punto che proveremo ad argomentare, hanno declinato la forma guerra all’interno di un paradigma nuovo e distante da quello ampiamente conosciuto in quelle che, ormai, possiamo definire come fasi classiche dell’imperialismo. Fasi sicuramente non del tutto identiche e omogenee tra loro ma assai più simili e affini rispetto alle rotture prodotte dalla fase imperialista globale. Il senso di queste rotture, delle quali la forma guerra ne incarna l’aspetto più puro e cristallino, segnano e modellano per intero la formazione economica e sociale contemporanea. Ciò è quanto è necessario comprendere.

Poche righe sopra abbiamo parlato di compenetrazione di poliziesco e militare come aspetto centrale assunto nel mondo contemporaneo dalla forma guerra. Non ci stiamo inventando nulla poiché, proprio una delle diciture in cui le operazioni belliche odierne sono state ascritte, sono denominate operazioni di polizia internazionale. Se guerra umanitaria è termine non solo ambiguo ma indeterminato e indistinto operazione di polizia internazionale ha sicuramente il merito di essere chiara ed esplicita poiché consente di comprendere appieno il modo in cui, dentro la fase imperialista globale, il conflitto è stato, prima agito, poi concettualizzato.

Classicamente, polizia ed esercito, rimandano a due mondi ben distinti tra loro. Non è certo un caso che, nelle classiche guerre tra entità statuali, quando un Paese veniva occupato le forze di polizia autoctone rimanevano al loro posto. La polizia continuava a occuparsi di crimini comuni i quali, grosso modo, rimangono identici sotto tutte le latitudini. Il nemico, proprio in quanto nemico pubblico, poteva e doveva essere combattuto solo da forze militari regolari. Un qualche problema, sotto tale profilo, è stato rappresentato dalla figura del partigiano rispetto alla quale, il riconoscimento di nemico pubblico, è stato oggetto di non poche resistenze. Aspetto importante, sul quale torneremo, ma che per il momento poniamo tra parentesi.

Ciò che vogliamo evidenziare è il fatto che, nelle guerre che ci hanno preceduto, la compenetrazione di poliziesco e militare non è mai stata presa in considerazione. La polizia, in sostanza, non era deputata ad altro che alla messa in sicurezza di colui o coloro i quali, proprio in virtù dei loro comportamenti, non potevano andare oltre, rispetto alla società, alla figura del nemico privato. Un nemico che, per definizione, non è assolutamente e legittimamente fisicamente eliminabile. Ciò è facilmente dimostrabile. Un soldato nemico placidamente addormentato sotto una pianta può essere tranquillamente fatto fuori, da chi porta una divisa di altro colore, senza che la cosa susciti o possa suscitare una qualche forma di riprovazione. Il fatto stesso di indossare una divisa nemica lo espone a un pericolo mortale. Per meritarsi la morte, il soldato, non deve compiere una qualche azione riprovevole. La sua stessa esistenza, sotto quelle vesti, gli procura la concreta possibilità di essere ucciso. Allo stesso modo il soldato che cogliendo di sorpresa uno o più militi nemici arricchisce di un certo numero di tacche il suo fucile mitragliatore oltre a non essere passibile di incriminazione può aspirare a una qualche menzione al valore. Del tutto diverso si mostra lo scenario quando si entra alle prese con un nemico privato.

Le “regole di ingaggio”, nel contesto, cambiano completamente. Legalmente nessun poliziotto è autorizzato a eliminare un bandito. Solo nel caso in cui, il bandito, metta a repentaglio la vita del poliziotto o di qualche altro la sua uccisione diventa possibile altrimenti, poiché la sua esistenza rimane rigidamente ascritta nell’ambito del privato, nessuno è autorizzato a estirparne la vita. Del resto la stessa linea di condotta del nemico privato si modella esattamente dentro questa cornice. Nessun fuorilegge, infatti, attacca apertamente le forze di polizia ma, per lo più, tende a starne alla larga. Da ciò ne consegue che esercito e polizia rimandano a mondi e procedure assai diversi tra loro tanto che trasformare la guerra in operazione di polizia internazionale appare, sotto il profilo concettuale, un’operazione più che ardita impossibile a meno che non intervenga qualcosa che sovverta per intero la cornice entro cui la guerra è pensata e agita. La messa in forma della guerra contemporanea ha segnato esattamente questo passaggio. Ciò è quanto è necessario investigare.

(fine prima parte – continua)

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La guerra e il lato oscuro dell’Occidente/ 3: a proposito di oligarchie https://www.carmillaonline.com/2022/06/26/la-guerra-e-il-lato-oscuro-delloccidente-3-oligarchie-a-confronto/ Sat, 25 Jun 2022 22:10:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72650 di Fabio Ciabatti

Nella saga di Star Wars, vera e propria fabbrica di moderni archetipi, l’intero universo è permeato e governato da una sorta di misterioso campo di energia, la “forza”. Questa però ha anche il suo lato scuro, che, in ultima istanza, genera il più terrificante dei nemici, l’Impero. C’è un momento di verità in questo modo di concepire il nemico. Ed è per questo che può essere utilmente applicata alla Russia di Putin che, al di là dei punti di scontro, condivide con l’Occidente l’accettazione dei principi del capitalismo [...]]]> di Fabio Ciabatti

Nella saga di Star Wars, vera e propria fabbrica di moderni archetipi, l’intero universo è permeato e governato da una sorta di misterioso campo di energia, la “forza”. Questa però ha anche il suo lato scuro, che, in ultima istanza, genera il più terrificante dei nemici, l’Impero. C’è un momento di verità in questo modo di concepire il nemico. Ed è per questo che può essere utilmente applicata alla Russia di Putin che, al di là dei punti di scontro, condivide con l’Occidente l’accettazione dei principi del capitalismo neoliberista, a differenza di quanto avveniva con l’URSS che proponeva un sistema socioeconomico diverso da quello capitalistico (quanto poi fosse migliore è un’altra questione). Rimanendo all’allegoria cinematografica, possiamo considerare la forza come i flussi di valore capitalistici che oramai attraversano e plasmano l’intera realtà producendo anche il tenebroso capitalismo russo. Ovviamente il meccanismo narrativo e quello ideologico funzionano finché lo scontro tra il bene e il male è raffigurata come la lotta tra Davide e Golia. Nella realtà i rapporti di forza sono ribaltati, ammesso che la guerra attuale è uno scontro tra Usa e Russia per interposta Ucraina.

Potrebbe sembrare frivolo, di fronte alle tragedie della guerra, chiamare in causa Hollywood, ma la guerra si combatte anche sul piano dell’immaginario. Continuiamo perciò ad approfondire gli elementi che la metafora del nemico come lato oscuro ci consente di cogliere. A questo proposito un’obiezione sorge immediata: cosa c’entra un sistema statalista, oligarchico, autoritario con l’Occidente caratterizzato da mercato, concorrenza e democrazia? Se parliamo di regime politico, bisogna notare che da molto tempo il problema per i paesi capitalisticamente sviluppati non è quello di approfondire la democrazia, ma di limitarla. Già nel 1975 il rapporto della famigerata Trilateral Commision1 parla di un “eccesso di democrazia” che comporta una “carenza di governabilità”. Il problema, in sostanza nasce dal fatto che “Le richieste al governo democratico si fanno più pressanti, mentre le sue possibilità ristagnano”. Il linguaggio è ancora prudente, ma il messaggio è chiaro: lo stato eccessivamente democratico è in difficoltà “in relazione alla sua capacità di mobilitare i cittadini per il raggiungimento di fini sociali e politici e di imporre loro i sacrifici che ciò comporta”. Insomma, le esigenze dello sviluppo economico capitalistico richiedono che la rappresentatività democratica sia sacrificata sull’altare della governabilità. La logica dell’evoluzione delle istituzioni politiche occidentali non è molto diversa da quella che, come abbiamo visto nella prima parte di questo articolo, ha indirizzato lo sviluppo della “democrazia gestita” russa. Una logica “postdemocratica” che, per fare l’esempio forse più drammaticamente evidente, abbiamo visto all’opera quando il governo greco è stato costretto dall’Eurogruppo ad accettare draconiane misure di austerità pochi giorni dopo un referendum che a netta maggioranza le aveva respinte.

Va bene, si potrà ancora obiettare, la nostra democrazia non è più quella di una volta, ma in occidente c’è il libero mercato mentre la Russia è un paese dominato da un pugno di oligarchi che detengono il potere economico e che sono direttamente conniventi con il potere politico. La realtà però suggerisce altro:

oltre l’80 per cento del capitale azionario globale è oggi controllato da meno del 2 per cento degli azionisti, un ristretto manipolo di grandi capitalisti che tende a ridursi ulteriormente a cavallo delle crisi. La tendenza è generale, trova conferma in tutte le aree geopolitiche: negli Stati Uniti, in Europa, persino in Cina. Ed è interessante notare che il nucleo di giganti situati al comando della rete del capitale non muta granché nel tempo.2

La natura sostanzialmente oligarchica del capitalismo contemporaneo non può che influenzare l’intera architettura del potere. Tony Woods, descrivendo il profondo intreccio tra i membri del potere politico e di quello economico in Russia, commenta:

Questo traffico a doppio senso tra il mondo dello stato e quello dell’impresa privata sarà senza dubbio del tutto familiare a molti lettori: lo stesso tipo di porta girevole sostiene notoriamente le élite in gran parte del mondo, consentendo loro di muoversi di qua e di là senza sforzo tra le sale del consiglio di Goldman Sachs e i corridoi del potere a Washington, Londra, Roma e altrove.3

Ci possiamo forse dimenticare che Mario Draghi, prima di diventare Presidente del Consiglio italiano è stato Direttore Esecutivo della Banca Mondiale, Direttore Generale del ministero del Tesoro, membro del Comitato esecutivo di Goldman Sachs, Governatore della Banca d’Italia e Governatore della Banca Centrale Europea? Di esempi di questo tipo se ne potrebbero fare a bizzeffe, ma andiamo al cuore del problema. Nel “mondo libero” l’azienda si è fatta modello istituzionale e in questo modo i suoi valori, strumenti e obiettivi sono stati introiettati dal mondo politico. Il neoliberismo condivide con il liberalismo classico l’idea che il pubblico sia inefficiente al contrario del privato, ma da ciò non discende necessariamente il ritorno allo stato minimo. Una cosa, infatti, è sostenere che lo stato non debba occuparsi di questioni economiche e che i titolari di incarichi pubblici debbano mantenersi separati dagli uomini d’affari, altro è affermare, come fa per esempio la scuola del New public management, che una serie di servizi e produzioni debbano essere finanziati dallo stato e gestiti dai privati, e che le imprese devono poter influenzare il governo, ma non viceversa. Un’influenza che tende ad autorafforzarsi perché, con il depauperamento delle competenze statali conseguenza delle esternalizzazioni, il regolatore deve fare sempre più affidamento sul sapere specialistico del regolato: è il fenomeno noto come regulatory capture.4
Questa dinamica in Occidente si è imposta con la forza di una sorta di processo naturale, una volta che i nemici storici, interni ed esterni, del capitalismo sono stati sconfitti. Gli analoghi processi in Russia, dato il minor radicamento del modo di produzione capitalistico, sono avvenuti attraverso un ruolo più manifesto del potere statale. Di conseguenza in Occidente si è potuta mantenere una distinzione formale più marcata tra istituzioni politiche ed economiche rispetto a quanto accade nelle cosiddette democrature, anche se si tratta di una membrana sempre più sottile e permeabile. Il fatto che la commistione tra oligarchia economica e ceto politico rimanga più opaca produce un indubbio vantaggio: l’élite economico finanziaria capitalistica non appare direttamente responsabile del benessere dei cittadini. Può sempre scaricare sulla classe politica di turno le responsabilità della macelleria sociale che essa stessa sostiene e promuovere alla bisogna un ricambio del ceto politico: cambiare tutto (politicamente), per non cambiare nulla (socio-economicamente). L’estrema personalizzazione della politica accomuna l’Occidente democratico e la Russia autocratica, ma le leadership carismatiche da noi sono più facilmente sostituibili. Morto un pupazzo se ne fa un altro! Quello che è stato definito “capitalismo politico” è più vulnerabile nei confronti del conflitto economico-sociale perché quest’ultimo diventa immediatamente politico, nel senso che si scontra direttamente con le istituzioni statali.
Ma c’è il rovescio della medaglia. Le istituzioni del “mondo libero” sono costrette a mantenere un livello minimo di mediazione con le istanze che si esprimono attraverso la rappresentanza politica, per quanto essa sia estremamente depotenziata. In Italia, prima di arrivare al Governo Draghi si è dovuti passare per l’apparente autocombustione delle esperienze di governo gialloverde e giallorossa. Formalmente si è costretti a riconoscere anche la legittimità delle istanze provenienti dalla cosiddetta “società civile”, anche se queste possono trasformarsi in movimento reale e antagonista (in quest’ultimo caso, però, la carota si rimpicciolisce fino quasi a scomparire mentre il bastone si ingrandisce a dismisura). Quando la crisi morde i polpacci, la classe capitalistica diviene sempre più insofferente rispetto a ogni forma, per quanto tenue, di mediazione e agogna al potere diretto che le democrature sembrerebbero assicurare. Per quanto depotenziata, la democrazia è sempre in eccesso. È questo il punto in cui siamo. È questo il punto in cui il mostro che l’Occidente nasconde dentro di sé si rivela essere l’oggetto oscuro del suo desiderio.

Non bisogna mai dimenticare che il sistema capitalistico esprime strutturalmente un doppio standard. Nel segreto laboratorio della produzione “il capitale formula come privato legislatore e arbitrariamente la sua autocrazia sugli operai, prescindendo da quella divisione dei poteri tanto cara alla borghesia e da quel sistema rappresentativo che le è ancor più caro”.5 Il rapporto tra capitale e lavoro non però è rilevante soltanto per le relazioni economiche, ma assume un significato politico perché “È sempre il rapporto diretto tra proprietari delle condizioni di produzione e produttori diretti … in cui troviamo l’intimo arcano, il fondamento nascosto di tutta la costruzione sociale e quindi anche della forma politica del rapporto di sovranità e dipendenza, in breve della forma specifica dello Stato in quel momento”.6 È vero che, secondo Marx, per il corso ordinario delle cose l’operaio può rimanere affidato alle “leggi naturali della produzione” cioè alla sua dipendenza materiale dal capitale, senza utilizzare la coercizione extraeconomica. Ma ci troviamo oggi in tempi “ordinari”?
Sembrerebbe proprio di no se è vero, come sostiene Raffaele Sciortino che “la crisi ucraina è la precipitazione di un grumo di contraddizioni che sono ormai sistemiche”.7 I due principali attori sull’agone mondiale hanno infatti interessi opposti: la Cina, che ha nella Russia un partner strategico, vuole risalire le catene del valore, mentre gli Stati Uniti perseguono un decoupling selettivo della Cina stessa, cioè un suo parziale sganciamento dall’accesso a capitali e tecnologie elevate occidentali. Tutto ciò favorisce tentativi di dedollarizzazione dell’economia mondiale, crisi della globalizzazione americana e possibili processi di deglobalizzazione. Senza considerare che il modello attuale della produzione del valore è energivoro come non mai e si sta scontrando con la tendenza storica dell’aumento del costo della materia prima energetica. Per questo il capitale occidentale avrebbe bisogno di una Russia sottomessa alla sua necessità di aumentare il volume della produzione di gas e petrolio.8

Oggi, insomma, non assistiamo ad uno scontro di civiltà tra autoritarismo oligarchico e democrazia di mercato. Siamo di fronte ad uno scontro fra potenze, molto più simili di quanto entrambe siano disposte ad ammettere. Un’oligarchia capitalistica internazionalizzata con base negli USA, espressione autentica della “forza”, si sta scontrando con un’oligarchia semiperiferica, anch’essa capitalistica ma concentrata nel territorio russo, lato oscuro della medesima “forza”. Uno scontro che oggi si gioca sulla pelle della popolazione ucraina, vera carne da cannone cinicamente mandata allo sbaraglio dagli USA e massacrata senza pietà dalla Russia. Con buona pace di Star Wars, la luce non è destinata a sconfiggere l’oscurità. Per quanto possa aiutarci a capire alcuni importanti elementi di realtà, l’espressione artistica si presenta spesso, se non sempre, come una soluzione immaginaria a contraddizioni reali (per dirla con Frederic Jameson). Nella realtà la Russia potrà pure rappresentare l’oscurantismo, ma i lumi dell’Occidente sono sempre più fiochi.

(3 – continua – le precedenti puntate qui e qui)


  1. Michel J. Crozier, Samuel P. Huntington e Joji Watanuki, La crisi della democrazia. Rapporto Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione trilaterale, Franco Angeli. Milano 1977. 

  2. Emiliano Brancaccio, Democrazia sotto assedio, Piemme, Milano 2022, p. 22. 

  3. Tony Wood. Russia Without Putin: Money, Power and the Myths of the New Cold War, Verso Books, London 2020, edizione Kindle, p. 51 (traduzione nostra). 

  4. Cfr, Colin Crouch, Combattere la postdemocrazia, Laterza, Bari-Roma 2020, edizione kindle, p. 62. 

  5. K. Marx, Il capitale, Libro I, Editori Riuniti, Roma, 1980, pp. 468-69. 

  6. K. Marx, Il capitale, Libro III, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 903. 

  7. Raffaele Sciortino, La temperatura del sistema. Guerra e scongelamento della crisi globale, pubblicato in www.infoaut.org

  8. Cfr. La verità in tempo di guerra, pubblicato in https://noinonabbiamopatria.blog/.  

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La guerra e il lato oscuro dell’Occidente /1: il nemico esterno https://www.carmillaonline.com/2022/06/12/la-guerra-e-il-lato-oscuro-delloccidente-1-il-nemico-esterno/ Sat, 11 Jun 2022 22:10:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72287 di Fabio Ciabatti

E ci risiamo. Mondo libero contro autocrazia, bene contro male. L’orso sovietico si è estinto ma è stato sostituito da una specie di predatore se possibile ancora più pericoloso, la Russia di Putin. Ma stiamo davvero assistendo al remake della guerra fredda? In realtà la ripetizione porta con sé una significativa variazione. Il nemico attuale ha un carattere diverso da quello passato. Se l’Unione Sovietica rappresentava un’alterità reale rispetto al mondo occidentale, la Russia di Putin può essere caratterizzata come il versante osceno del nostro mondo. O, per dirla in altro modo, la cosiddetta democratura putiniana può essere [...]]]> di Fabio Ciabatti

E ci risiamo. Mondo libero contro autocrazia, bene contro male. L’orso sovietico si è estinto ma è stato sostituito da una specie di predatore se possibile ancora più pericoloso, la Russia di Putin. Ma stiamo davvero assistendo al remake della guerra fredda? In realtà la ripetizione porta con sé una significativa variazione. Il nemico attuale ha un carattere diverso da quello passato. Se l’Unione Sovietica rappresentava un’alterità reale rispetto al mondo occidentale, la Russia di Putin può essere caratterizzata come il versante osceno del nostro mondo. O, per dirla in altro modo, la cosiddetta democratura putiniana può essere considerata come il lato oscuro della postdemocrazia occidentale (quest’ultima intesa, sulla scia di Colin Crouch,1 come un sistema che è svuotato progressivamente da ogni reale possibilità di partecipazione collettiva alle decisioni politiche, lasciando in vita le sole procedure formali della democrazia). Per questo il rapporto con il nemico oggi dà luogo ad una dinamica differente per quanto riguarda la costituzione della soggettività occidentale. Se in passato il confronto con nemico venuto dall’Est aveva avuto degli esiti per certi versi positivi nei paesi a capitalismo avanzato, oggi assistiamo ad una dinamica sostanzialmente regressiva. Partendo da questo punto di vista, la riflessione che segue non ha come obiettivo quello di stabilire chi ha torto e chi ha ragione nell’attuale guerra o come andrà a finire il conflitto. Vuole essere soprattutto un ragionamento sugli effetti della guerra sull’immaginario occidentale.

Ciò nonostante, dovendo parlare del rapporto con il nemico bisognerà per prima cosa fare alcune considerazioni sulla sua natura che, senza pretesa di esaustività, saranno utili per approfondire successivamente il filo principale del nostro ragionamento e che, al tempo stesso, serviranno a sgomberare il campo da alcuni dei più diffusi luoghi comuni della propaganda bellicista dell’Occidente. Il primo pregiudizio implicito nella narrazione occidentale è che la Russia post-sovietica si era incamminata verso l’economia di mercato e la democrazia durante gli anni di Yeltsin, ma che questo processo è stato invertito a causa di Putin. Insomma, l’unico russo buono è un russo ubriaco! In realtà gli anni di Yeltsin furono un disastro completo: tra il 1991 e il 1995 il PIL crollò di poco più di un terzo, mentre tra il 1991 e il 1994 l’aspettativa di vita tra gli uomini precipitò di 5 anni, solo per citare alcuni dati clamorosi. Per quanto riguarda la democrazia basterà ricordare il bombardamento del parlamento russo che si opponeva ai voleri di Yeltsin nel 1993.
Considerando questi antefatti, Tony Woods nel suo testo Russia Without Putin, da cui prenderemo molti spunti nelle righe che seguono, sostiene che “L’autoritarismo per il quale Putin è ampiamente criticato non è il prodotto di una sinistra preferenza personale, ma piuttosto una caratteristica integrante del sistema che ha ereditato e ha continuato”.2 Gli anni Novanta e gli anni Duemila devono dunque essere visti come due fasi nell’evoluzione dello stesso sistema: nel prima turbolento periodo si assiste alla distruzione del sistema sovietico e all’installazione di un nuovo ordine capitalistico, nel secondo si verifica processo di stabilizzazione e consolidamento in cui il nuovo modello si radica in profondità nel tessuto socioeconomico del Paese. La priorità, però, è sempre rimasta la difesa del capitalismo, come dimostra il fatto che Putin, nel corso dei suoi mandati, ha introdotto molti provvedimenti di stampo neoliberale: flat tax sul reddito al 13%, tagli di tasse per il capitale privato, codice del lavoro con il ridimensionamento dei diritti dei salariati, accrescimento del ruolo dei privati nell’educazione, nella sanità e nel settore immobiliare, trasformazione di servizi sociali in pagamenti in denaro.
In altri termini il sistema politico russo si è sviluppato dalla contraddizione tra i suoi dichiarati obiettivi democratici e la mancanza di un supporto popolare per il suo programma di trasformazione verso il libero mercato. Anche Putin non ha mai negato il principio democratico in sé, ma ha sostenuto che va declinato sulla base della specificità russa. Di fatto, la sovranità popolare è stata sacrificata ogni volta che è entrata in contraddizione con le necessità della transizione capitalistica. Se tra democrazia e capitalismo si sviluppa un rapporto contraddittorio non altrettanto si può dire a proposito della relazione tra i principi dell’economia neoliberale e la logica statalista. In questo caso si può parlare di due impulsi paralleli che ispirano la gestione putiniana del potere. È fuori di dubbio che lo stato sotto Putin abbia riguadagnato il controllo sulle leve fondamentali dell’economia nazionale, a cominciare dal controllo sulle risorse naturali, in particolare petrolio e gas. Ma questo significa che abbiamo assistito ad un ribaltamento della dinamica che vedeva il capitale privato utilizzare lo stato per il suo profitto a favore di un processo in cui lo stato si serve del capitale privato per perseguire le sue politiche di potenza? Probabilmente le cose sono un po’ più complesse. Il rapporto tra potere e ricchezza nella Russia post-sovietica è stato sempre molto stretto, quantomeno perché il capitalismo è iniziato con la vendita a prezzi di saldo da parte dello stato di pezzi dell’economia pianificata. Se all’inizio i principali beneficiari sono stati i cosiddetti outsider (persone prive di significativi rapporti con l’élite economico-politica sovietica) che hanno prosperato principalmente nei settori della finanza, dei media e dell’industria leggera, con l’inizio del nuovo millennio, complici la crisi finanziaria del 1998, la crescita dei prezzi delle commodities e il consolidamento dello stato, a emergere come vincitori sono stati gli insider che controllavano l’industria delle materie prime.
Insomma, ciò che è cambiato con Putin sono state le fonti della ricchezza, l’identità dei suoi possessori individuali e i metodi per mantenerla e estenderla. “Dopo il 2000, i termini del rapporto tra stato e ricchezza privata hanno cominciato a cambiare, ma l’impegno dello stato nei confronti del principio del guadagno privato – e delle enormi disuguaglianze che ha generato – no”.3 C’è stata una sempre maggiore convergenza nelle logiche e nelle pratiche dello stato e del settore privato dell’economia. Molte persone provenienti dal settore del business entravano nella sfera del governo mentre il settore privato reclutava i suoi dirigenti tra le fila dei funzionari governativi. È dunque emersa una élite ibrida capace di attraversare facilmente due domini formalmente separati, quello della politica e quello dell’economia privata. La promiscuità tra un capitale privato sempre più centralizzato e un potere statale che ha ristabilito la “verticale del potere” ha dato luogo a un sistema fortemente oligarchico in cui la democrazia diventa una forma sempre più svuotata di contenuto: democrazia gestita, democrazia sovrana, democrazia per imitazione, democratura sono le varie definizioni che se ne sono date (le prime due dagli stessi ideologi del Cremlino).

Sottolineare i momenti di continuità tra gli anni Novanta e i Duemila non significa però ignorare che la Russia di Putin sia stata protagonista di un progressivo slittamento ideologico che ha incentrato la sua rinnovata identità nazionale su alcuni princìpi di stampo conservatore, se non propriamente reazionari: Stato, sovranità, autocrazia, ortodossia, patriottismo, militarismo, famiglia tradizionale e status di grande potenza.  In particolare, la difesa dei valori cristiani e tradizionali, è nato in opposizione a quello che viene considerato il declino morale dell’Occidente e al relativismo culturale dell’Europa. Per certi versi il nemico non è tanto l’Occidente in quanto tale ma la sua degenerazione postmoderna, come testimonia la crociata anti LGBT.
Questa dinamica non è una novità nella storia russa, sostiene Luca Gori nel suo saggio La Russia eterna,4 perché il conservatorismo ha sempre accompagnato il percorso di sviluppo della Russia, offrendole un “rifugio” ogni qual volta si è sentita minacciata dall’esterno o messa sotto pressione da spinte riformiste interne di segno “eccessivamente” liberale. La “svolta conservatrice” della Russia andrebbe dunque letta come un riflesso ricorrente e difensivo, come la ricerca di una risposta tranquillizzante alla sensazione di una minaccia esistenziale o al rischio di un cambiamento troppo radicale.
Questa natura difensiva della identità ideologica della nuova Russia è confermata dal rapporto particolare che la lega al suo nemico. La ricerca post-sovietica di una nuova identità nazionale, nota Gori, ha individuato negli Stati Uniti l’”altro” dalla Russia: gli USA, più che l’Europa, sono stati il termine di paragone per valutare la bontà del proprio percorso e l’interlocutore privilegiato per vedersi riconosciuto lo status di grande potenza. Per molto tempo l’élite post-sovietica, Putin compreso, ha aspirato ad un’alleanza o anche a un’integrazione con l’Occidente. Il confronto, però, è diventato scontro perché le reciproche aspettative si sono dimostrate irrealistiche.

Da un lato, quella russa di vedersi riconosciuta – in cambio dell’adesione alle regole del gioco occidentale – una “partnership egualitaria” con Washington e una sorta di “sfera di influenza” nello spazio ex sovietico. Dall’altro, quella di Stati Uniti ed Europa per cui la Russia, sconfitta dalla Storia, fosse ormai pronta a svestire gli abiti imperiali per diventare un Paese “normale”, una democrazia liberale secondo i canoni del paradigma impostosi nel post Guerra fredda.5

Il risultato è stata l’impossibilità di conciliare due forme diverse di “eccezionalismo”: da una parte, l’aspirazione universalistica americana a sostegno della diffusione universale di libertà e democrazia e, dall’altra, l’ispirazione conservatrice a difesa di ordine, stabilità, equilibrio multipolare e di una missione speciale della Russia ortodossa.
Da un punto di vista ideologico, il richiamo all’ortodossia può però costituire una debolezza perché condanna la Russia a oscillare tra “particolarismo” e “universalismo”, tra il riconoscimento del diritto di ciascun popolo alla propria specificità in un mondo multipolare e l’attribuzione a Mosca di una missione unica, rivolta a tutti i Paesi. Una seconda possibile mancanza è costituita dal fatto che Mosca si è proposta come una potenza a difesa dello status quo che enfatizza i principi di sovranità e di non ingerenza negli affari interni in opposizione alla freedom agenda statunitense.
Queste debolezze, insieme ad una sproporzione di mezzi materiali rispetto ai suoi competitor, hanno determinato il fatto che la Russia post-sovietica difficilmente sia riuscita a presentarsi come una potenza in grado di esercitare un ruolo egemonico. Putin non è in grado di offrire un progetto di sviluppo attrattivo per le classi e le nazioni subalterne. Priva di soft power ha deciso alla fine di fare ricorso all’hard power della sua potenza militare. I successi degli anni passati della politica internazionale di Mosca sono non a caso il frutto di una maggiore prontezza e spregiudicatezza che la forte concentrazione del potere politico consente, anche in campo militare, alla Russia. Ma si può sostenere che questi successi, più che essere frutto di una strategia compiuta, siano dovuti a reazioni estemporanee a situazioni critiche che, in ultima istanza, hanno creato effetti opposti a quelli desiderati. Di qui la spericolata fuga in avanti rappresentata dall’invasione dell’Ucraina che si sta trasformando in una guerra di lunga durata rischiosissima per le sorti della Russia.

In estrema sintesi, “il capitale e lo stato della Federazione Russa sono predatori (come tutti i capitali e tutti gli stati capitalistici), ma predatori di ‘secondo rango’” perché sono incapaci, a differenza degli Stati Uniti, di manipolare gli altri attori del processo economico e politico mondiale imponendo le proprie “regole del gioco” a livello globale.6
Da un punto di vista strutturale, seguendo gli autori appena citati, si può definire la Russia un capitalismo semi-periferico nato da un’incompleta trasformazione dell’economia pianificata sovietica che ha dato luogo a un sistema di transizione estremamente contraddittorio, non organico, ma al tempo stesso relativamente stabile. Un sistema caratterizzato dal dualismo tra una sfera integrata nel sistema capitalistico mondiale e una contraddistinta da un’ampia gamma di forme pre-borghesi o da rimanenze di ordinamenti sovietici. Nonostante il consolidamento dei rapporti di produzione capitalistici, l’economia russa è ancora  deindustrializzata rispetto all’epoca sovietica e per questo  fortemente dipendente dall’esportazione di materie prime ed energetiche, ha istituzioni finanziarie sottodimensionate rispetto ai competitor internazionali, non esporta capitali in misura significativa se non nella forma di ricchezze private alla ricerca di paradisi fiscali, è piagato da una corruzione e una burocratizzazione endemiche.

In conclusione, la Russia non può essere considerata una potenza imperialistica, almeno non nel significato che a questo termine viene attribuito da una classica analisi marxiana. Ciò, come risulta ovvio dall’invasione dell’Ucraina, non esclude che possa perseguire progetti di restaurazione della sua passata grandezza imperiale e praticare politiche di aggressione nei confronti di stati e capitali più deboli. Ma, aggiungiamo, proprio per il suo carattere di predatore di secondo rango, sembra davvero eccessivo considerare la Russia “la minaccia più diretta all’ordine mondiale con la guerra barbara contro l’Ucraina”, come ha sostenuto Ursula von der Leyen. Ingigantire il pericolo rappresentato dal nemico può essere una mera mossa propagandistica, ma può anche essere una spia di debolezza. E se l’“aggressione barbara” più che una minaccia all’“ordine internazionale” fosse un sintomo della sua crisi già in atto?

(1 – continua)


  1. Colin Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2005. 

  2. Tony Wood. Russia Without Putin: Money, Power and the Myths of the New Cold War, Verso Books, London 2020, edizione Kindle, p. 5 (traduzione nostra). Dello stesso autore si veda anche Matrix of war, in New Left Review, n. 133/134, January/April 2022. 

  3. Ivi. p. 5. 

  4. Luca Gori, la Russia eterna. Origini e costruzione dell’ideologia post sovietica, Luiss University Press, Roma 2021. 

  5. vi, p. 52-53, edizione Kindle. 

  6. Aleksandr Buzgalin, Andrey Kolganov, Olga Barashkova, “Russia: A New Imperialist Power?” in Boris Kagarlitsky, Radhika Desai, Alan Freeman (a cura di), Russia, Ukraine and Contemporary Imperialism, Routldge, London-New York. p. 169, edizione Kindle. 

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Il nuovo disordine mondiale / 13: Guerra e ipocrisia. Un’invettiva. https://www.carmillaonline.com/2022/05/02/il-nuovo-disordine-mondiale-13-guerra-e-ipocrisia-uninvettiva/ Mon, 02 May 2022 20:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71645 di Sandro Moiso

“Mai pensare che la guerra, anche se giustificata, non sia un crimine” (Ernest Hemingway) “Cosa preferiamo: la pace oppure star tranquilli con l’aria condizionata accesa tutta l’estate?” (Mario Draghi)

In tutte le guerre la prima a morire è la verità, così come hanno indirettamente dichiarato alcuni corrispondenti di guerra (qui) sulla falsariga di una ben più celebre e interessata frase di Winston Churchill (“in tempo di guerra la verità è così preziosa che dovrebbe essere circondata da un muro di bugie“), ma certamente il suo funerale è accompagnato dal [...]]]> di Sandro Moiso

“Mai pensare che la guerra, anche se giustificata, non sia un crimine” (Ernest Hemingway)
“Cosa preferiamo: la pace oppure star tranquilli con l’aria condizionata accesa tutta l’estate?” (Mario Draghi)

In tutte le guerre la prima a morire è la verità, così come hanno indirettamente dichiarato alcuni corrispondenti di guerra (qui) sulla falsariga di una ben più celebre e interessata frase di Winston Churchill (“in tempo di guerra la verità è così preziosa che dovrebbe essere circondata da un muro di bugie“), ma certamente il suo funerale è accompagnato dal trionfo dell’ipocrisia che la sostituisce con la propaganda intesa come unica fonte di informazione.

Il primo esempio di tale ipocrisia, forse il più importante e fuorviante, è proprio quello di voler definire, all’interno del ben più vasto crimine costituito dalla guerra, quelli che dovrebbero essere i crimini di guerra da addossare a qualcuno dei partecipanti a un conflitto. Una questione di lana caprina che trasforma le violenze odiose e i soprusi ignobili che accompagnano, inevitabilmente, i conflitti tra Stati e imperialismi in colpe specifiche di cui occorre accusare una delle parti in guerra. Possibilmente quella che la parte avversa spera destinata alla sconfitta.

Dalla prima guerra mondiale e dal congresso di Versailles e, in particolare, dal secondo dopoguerra in poi gli sconfitti del macello imperialista devono risultare colpevoli di “aggressione” e crimini indescrivibili, proprio per giustificare la parte svolta dei “buoni”, ovvero i vincitori, nel corso del conflitto. Motivo per cui la Germania, stato aggressore secondo i parametri individuati a Versailles nel corso del processo di risistemazione dei confini europei dopo il primo conflitto mondiale, fu condannata a pagare le riparazioni di guerra agli stati vincitori. Non importava se i generali di questi ultimi avevano mandato al macello, fatto fucilare o condannato alla follia milioni di giovani in divisa.

Dopo la seconda guerra mondiale furono i “criminali” di un’unica parte, quella sconfitta e nazista e possibilmente anche i più insignificanti sul piano politico ed economico, a sedere sui banchi del processo di Norimberga. Lo fecero rassegnati, spesso indossando occhiali scuri per nascondere gli occhi chiusi dei dormienti e degli annoiati, consapevoli che su quegli stessi banchi non avrebbero mai preso posto gli ideatori dei bombardamenti a tappeto sulle città tedesche, delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki oppure i generali sovietici che avevano mandato all’assalto le proprie fanterie senza alcun riguardo nel trattarle come autentica carne da cannone. La colpa doveva essere soltanto degli sconfitti. I buoni trionfavano, nelle ridefinizione del mondo e nell’immaginario.

Anche se a proprio in “casa” dei buoni alcuni dei principali esponenti dei cattivi avrebbero trovato riparo come scienziati (Wernher von Braun, ideatore delle V1 e V2 tedesche utilizzate per bombardare Londra e poi responsabile del primo programma spaziale americano), spie (tutti coloro che furono messi a capo di settori dei servizi occidentali nella Germania Ovest e in America Latina, dove avevano trovato rifugio, dopo aver accumulato “esperienze” negli apparati polizieschi e militari nazisti) e così via. Grazie anche all’aiutino fornito in molti casi dal Vaticano.

Già, crimini di guerra, ma solo quelli di una parte, e guai a sostenere, come fece Hemingway, che la guerra è un crimine in sé. Guai a sostenere che chi si oppone alla guerra, non si schiera, si dichiara antimilitarista, pacifista e antimperialista lo fa perché sa già in anticipo che la guerra porta con sé soltanto dolore, violenza, morte e distruzioni che ricadranno quasi sempre e principalmente sugli strati meno agiati della società, sulle donne, sui bambini, sui giovani, sugli anziani e sui lavoratori.

Domenico Quirico, in un testo già citato nella puntata precedente di questa serie di interventi sulla guerra, ha giustamente affermato:

Con leggerezza si parla della guerra, della sua necessità senza averne mai saggiato la pornografia della morte e la crudezza delle sue perversioni. Senza accorgersi che si lustra così la sua forza di attrazione, le si offre uno scopo, un senso, una dignità, una causa, un quarto di nobiltà. E’ un errore fatale1.

Spesso chi parla con troppa facilità e superficialità di “crimini di guerra” sembra voler far credere, oppure credere egli stesso, che esistano guerre pulite, senza ricadute sui civili. Ammaestrati da un immaginario cinematografico di stampo hollywoodiano in cui al massimo sono gli “eroi” a morire. Ignorano, i sostenitori della guerra pulita e intelligente, possibilmente democratica, che dal secondo conflitto mondiale e per tutta la seconda metà del secolo appena trascorso sono stati i civili a subire il maggior numero di perdite, violenze di ogni genere e patimenti. In un crescendo in cui dalla Palestina a tutto il Medio Oriente, dal Vietnam a tutte le tragedie asiatiche fino alle guerre balcaniche (di cui i media si dimenticano sempre, fingendo che prima della guerra in Ucraina non vi siano più state guerre sul territorio europeo fin dal 1945) e passando per le tragedie infinite del continente africano e del sub-continente latino-americano sono stati milioni i civili uccisi, mutilati, stuprati, torturati. Di ogni genere e età, ma non sempre appartenenza sociale, poiché in fondo alla scala stanno sempre i poveri, i lavoratori, i senza riserve. Vittime della violenza del capitale sia in guerra che in pace.

Se poi qualcuno osasse ricordare le bufale che accompagnarono la caduta di Ceausescu, senza per altro voler affatto difendere la sua dittatura personale, con i cadaveri tirati fuori dalle fosse per dimostrare una strage mai avvenuta a Timisoara nel 1989, oppure ricordare che sulle pagine del «Guardian», quotidiano britannico tutt’altro che filo-putiniano, sarebbe apparsa un’inchiesta in cui si rileverebbe che diverse vittime di Bucha sarebbero state abbattute da proiettili ucraini2 o, ancora, ricordare come tre ben noti salotti televisivi (Piazza Pulita, Controcorrente e Porta a porta) abbiano utilizzato immagini tratte da un videogioco per illustrare la “struttura inespugnabile” dei bunker sottostanti alle acciaierie Azovstal di Mariupol, allora apriti cielo e caccia all’untore filo-putiniano e creatore di fake news anti-occidentali.

Guai a dire che il diritto che riconosce la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali e imperiali è un diritto che non è tale, che è nato morto per disseminare la Morte in nome degli interessi nazionali, geopolitici e proprietari. Guai a dire soltanto che, anche nel contesto di un diritto internazionale segnato dal marchio di produzione capitalistico e borghese, chi invia armi ad un paese in guerra è cobelligerante di fatto. Tanto poi ci penserà la propaganda a spiegare che era inevitabile finire in guerra a causa dell’aggressività del nemico. E che le armi servono a disseminare la Pace. Anche quando, nelle parole di leader come Boris Johnson e dei media occidentali, non servono più a difendere la nazione “offesa”, ma ad aggredire e colpire l’ avversario. In casa, sul “suo” territorio.

Un “nemico odioso” che ci obbliga a scegliere tra il nostro meritato benessere e la rinuncia a qualche grado di fresco in estate e di caldo in inverno, mentre i nostri democratici governanti si arrovellano tra l’accontentare le richieste del socio di maggioranza a stelle strisce e le necessità, non della popolazione civile e reale, dei soci di minoranza (impresari, investitori, compagnie petrolifere e del gas, banchieri e finanzieri) che potrebbero subire gravi perdite nei loro interessi economici e manifatturieri.

Già, ma non chiamateli oligarchi. Loro no, loro sono altra cosa. Si nutrono di carne umana e di lavoro vivo, di prebende statali e interessi politico-mafiosi ma, non scherziamo, son mica russi!
Hanno giornali e televisioni, si son comprati giornalisti, intellettuali e politici di ogni risma, colore, sesso, età e origine sociale. Controllano il mercato azionario e delle materie prime, magari rivendendo le scorte accumulate ad altri paesi per approfittare degli alti prezzi causati dalla speculazione ancor prima che dalla guerra, ma no chiamateli oligarchi. No, magari squali e profittatori, come furono definiti dopo il primo conflitto interimperialista da coloro che seppero ribellarsi alla prima carneficina su scala mondiale.

Un “nemico odioso” che, nella vulgata propagandistica a favore della guerra, si annida in ogni Stato che non abbia accolto a braccia aperte la predicazione liberal-democratica troppo spesso associata al biancore della pelle e alla religione cristiana. Stati canaglia che perseguono interessi contrastanti con quelli del ricco Occidente. Nemici sicuramente nazionalisti, autoritari, fascisti e imperialisti e per questi motivi, appunto, non troppo diversi dai governi che ci vogliono armare in difesa dei propri interessi che qui, come nei paesi “nemici”, non coincidono mai con quelli della maggioranza della popolazione e della specie.

E non importa che i governi dei paesi democratici, come l’Italia, possano agire in piena libertà extra-costituzionale per fornire armi di ogni genere al novello alleato. Senza sentire la necessità di informare, almeno formalmente, quel parlamento che nella narrazione democratico-liberale dovrebbe costituire il cuore della democrazia rappresentativa. Ma non preoccupiamocene, poiché ogni guerra è stata dichiarata sempre sopra e oltre il dibattito parlamentare. La centralizzazione del potere riguarda anche, e forse soprattutto, questo: lo stato d’eccezione. E cosa può esserci di più eccezionale di una guerra, magari mondiale?

Motivo per cui anche il piagnisteo del pacifismo generico o di chi vorrebbe salvare almeno la facciata di sinistra di partiti scaduti da tempo, appartiene, in fin dei conti alla stessa ipocrisia. Quella che non denuncia mai le reali radici della guerra, delle mafie, della distruzione ambientale e sociale, dell’impoverimento e dello sfruttamento esercitato da una classe sociale ristretta sul resto dell’umanità.

Umanità che, soprattutto nel continente africano e in Medio Oriente, sarebbe condannata soltanto ora, secondo la vulgata ipocrita della propaganda di guerra, alla fame, a causa del conflitto scatenato dall’”odioso nemico” in Ucraina3. Minaccia cui la gestione capitalistica e imperiale dell’esistente intende rispondere con quelle scelte e tecnologie che proprio hanno contribuito a creare quella fame e quella povertà diffusa soprattutto in Africa. Magari suggerendo, proprio per l’Africa sub-sahariana, strategie innovative basate sulla digitalizzazione e il “miglioramento genetico” delle colture tradizionali4.

Umanità che non è più costituita da proletari o poveri, ma da “persone fragili”, in modo da disconoscerle qualsiasi caratteristica sociale riconducibile alle classi e ai loro conflitti nei confronti di una sempre più diseguale ripartizione delle ricchezze e delle risorse. Umanità che là dove alza la testa e si ribella al giogo infame dell’imperialismo, del sionismo e dei corrotti governi locali, non ha mai potuto usufruire dell’appoggio militare dei paesi che oggi foraggiano abbondantemente la “resistenza” ucraina. Umanità per la quale il presidente Mattarella non ha mai speso parole di elogio, non soltanto quando era sottosegretario alla Difesa ai tempi dei bombardamenti sulla Serbia e i Balcani. Umanità che quando si arma e resiste è definita dai nostri governanti come dagli altri governi occidentali non “resistente”, ma “terrorista”. Motivo per cui, a differenza degli “eroici” volontari che accorrono in difesa dell’Ucraina, non importa se nazisti o membri effettivi delle forze speciali americane e inglesi, quelli che vanno a combatter sul fronte del Rojava, pur in qualche modo riconosciuto dagli Occidentali in funzione anti-turca, al ritorno in patria devono sottostare a pesanti misure di sicurezza preventive. Come nel caso di Eddi Marcucci e tanti altri militanti italiani.

Affermazioni che nel loro insieme rendono evidente la necessità dello spaccio dell’ipocrisia trionfante, parafrasando l’eretico Giordano Bruno e la sua opera intitolata Spaccio de la Bestia trionfante (1584), opera filosofica di cui uno degli intenti principali resta fondamentalmente quello della polemica di Bruno contro la Riforma protestante, che agli occhi del Nolano rappresentava il punto più basso di un ciclo di degenerazione iniziato col cristianesimo. E in cui il termine “spaccio” sta per “cacciata”. Unica e definitiva degli antichi vizi che da secoli accompagnano la vulgata occidentale, razziale e cristiana del mondo.

(13 – continua)


  1. Domenico Quirico, L’ebbrezza militarista che spinge al conflitto, «La Stampa» 28 aprile 2022  

  2. Si veda: Francesco Borgonovo, Intervista a Toni Capuozzo – «La propaganda non è da una parte sola: il dubbio è un dovere», «La Verità», 28 aprile 2022, p.9  

  3. Si veda, a solo titolo di esempio: La guerra mondiale del cibo. Gli effetti alimentari del conflitto in Ucraina minacciano miliardi di persone fragili, «Scenari» n°5, a29 aprile 2022  

  4. Ancora su «Scenari» n°5: Roberto Pretolani, La tecnologia alimentare può salvarci dalle crisi; Mario Enrico Pè e Leonardo Caproni, Il matrimonio fra genetica e tradizione contadina.  

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Le politiche dell’odio https://www.carmillaonline.com/2020/10/03/le-politiche-dellodio/ Fri, 02 Oct 2020 22:01:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62990 di Antonio Senta

Laura Fotia (a cura di), Le politiche dell’odio nel Novecento americano, Nova Delphi, 2020, pp. 243, € 22,00.

Il neonato progetto Nova Delphi Academia, nato dall’esperienza editoriale di Nova Delphi libri, ha recentemente dato alle stampe una raccolta di saggi curata da Laura Fotia, docente di Storia dell’America latina contemporanea presso l’Università degli Studi Roma Tre, dal titolo Le politiche dell’odio nel Novecento americano. Si susseguono così una decina di case studies specifici volti ad analizzare le varianti che le politiche dell’odio e quindi di [...]]]> di Antonio Senta

Laura Fotia (a cura di), Le politiche dell’odio nel Novecento americano, Nova Delphi, 2020, pp. 243, € 22,00.

Il neonato progetto Nova Delphi Academia, nato dall’esperienza editoriale di Nova Delphi libri, ha recentemente dato alle stampe una raccolta di saggi curata da Laura Fotia, docente di Storia dell’America latina contemporanea presso l’Università degli Studi Roma Tre, dal titolo Le politiche dell’odio nel Novecento americano.
Si susseguono così una decina di case studies specifici volti ad analizzare le varianti che le politiche dell’odio e quindi di individuazione e stigmatizzazione del nemico o del diverso, hanno assunto in diversi momenti e contesti della storia del XX secolo negli Stati Uniti e in America Latina.
Alcuni segni di continuità si ritrovano in molti saggi: su tutti la questione della componente etnica nelle politiche repressive e l’anticomunismo come insieme più grande al cui interno si inseriscono le politiche dell’odio. Nel contesto americano l’indissolubilità del legame tra il concetto di sicurezza e la lotta alle varie forme che l’espansionismo sovietico poteva assumere è stata oggetto di teorizzazioni quali la Doctrina de Seguridad Nacional che ha posto le condizioni per la sospensione di fatto dello stato di diritto in diversi paesi dell’area.

Giuliano Santangeli Valenzani indaga quindi la retorica dell’odio nella politica del Sud segregato (1900-1965) e il ruolo che in essa giocò il Ku Kux Klan. Francesco Davide Ragno si occupa della delegittimazione politica in Argentina (1912-1943) – prima sotto Yrigoyen e la sua “repubblica radicale” e poi con il generale Uriburu, autore, nel 1930, del primo golpe militare della storia repubblicana argentina – analizzando la delegittimazione come strumento di una politica “dell’unanimità”.
Roberto Carocci si concentra sulla repressione antianarchica negli Stati Uniti del primo Novecento, che monta in seguito al ferimento a morte del presidente McKinley per mano dell’operaio di origini polacche, e di simpatie libertarie, Leon Czolgosz (Buffalo, settembre 1901) e sottolinea come tale repressione delineò una nuova cornice giuridico-politica e culturale di stampo maggiormente autoritario, che negli anni della prima guerra mondiale e della rivoluzione russa si generalizzò all’insieme del dissenso sociale.
Fulvia Zega invece analizza in Argentina e Brasile (1937-1945) la figura del nemico e le politiche della paura messe in campo dalla rivista argentina antisemita “Clarinidada” e, in Brasile, dal Departamento de Ordem Político e Social de Rio Grande do Sul contro i migranti.
Alice Ciulla, nel suo intervento “Stati Uniti, ideologia e anticomunismo liberale. Il caso del Partito comunista italiano (1945-1964)” mette in evidenza, d’altra parte, un confronto con il comunismo che non passa attraverso il processo di costruzione strumentale della figura del nemico. Si occupa infatti di cogliere l’evoluzione, sul piano teorico, dell’anticomunismo liberale del dopoguerra statunitense che, nel suo studio del Pci, si fa progressivamente meno rigido, mutando alcune proprie interpretazioni precedenti sul partito e sul suo ruolo nella politica italiana.
Claudia Bernardi si confronta con il tema della violenza della razzialità contro i lavoratori messicani e i chicanxs negli anni settanta, ripercorrendo una fase storica, con evidenti parallelismi con l’oggi, in cui la costruzione di un immaginario ostile ai messicani ha prodotto politiche istituzionali di espulsione e di stigmatizzazione.

Vito Ruggiero nel saggio “Con el testamiento bajo el brazo. L’anticomunismo violento come ponte tra America Latina e Italia” indaga i legami tra i regimi instauratisi a partire dal golpe militare del 1964 in Brasile e l’estrema destra italiana, su tutti i terroristi provenienti dalle file di Ordine Nuovo e di Avanguardia Nazionale. La Doctrina de Seguridad Nacional – riferimento teorico su cui i regimi latinoamericani fondarono la propria azione – e il pensiero evoliano, alla base della dottrina delle due formazioni neofasciste, furono distinti su temi quali la questione della vicinanza agli Stati Uniti e la scelta del capitalismo come sistema economico di riferimento. Tuttavia Ruggiero mette in evidenza il fatto che essi siano stati fortemente accomunati dalla pratica di un anticomunismo violento, ritenuto legittimo e necessario.
Francesca Casafina rende conto di un’originale ricerca sullo sterminio della Unión Patriótica in Colombia (1984-2002), partito a maggioranza comunista nato nel 1985 dopo i primi accordi di pace tra il governo e le Farc-Ep, accusato di essere il braccio politico della guerriglia e oggetto di una politica sistematica di omicidi che ha fatto oltre seimila vittime.
In ultimo la curatrice Laura Fotia studia le dinamiche connesse alla pratica della desaparición forzada nella guerra civile in El Salvador (1980-1992), un conflitto che ha provocato oltre settantamila vittime civili in cui il ricorso a tale pratica ha costituito un elemento cardine di una strategia del terrore particolarmente atroce.

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Guerrevisioni. L’eredità delle immagini delle guerre mondiali https://www.carmillaonline.com/2018/10/22/guerrevisioni-leredita-delle-immagini-delle-guerre-mondiali/ Mon, 22 Oct 2018 21:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47905 di Gioacchino Toni

Su come le immagini dalle guerre mondiali possano essere di aiuto nella comprensione dei conflitti odierni si soffermano diversi studiosi nella prima parte del volume curato da Maurizio Guerri, Le immagini delle guerre contemporanee (Meltemi, 2018) [su Carmilla 12]. Prenderemo qua in esame i saggi di Pierandrea Amato, Raffaele Scolari e Adolfo Mignemi che si occupano rispettivamente di come la gestione delle immagini da parte dei media abbia determinato uno scollamento tra visione ed esperienza, il primo, del rapporto tra essere umano e paesaggio nell’esperienza bellica, il secondo, e dell’interazione [...]]]> di Gioacchino Toni

Su come le immagini dalle guerre mondiali possano essere di aiuto nella comprensione dei conflitti odierni si soffermano diversi studiosi nella prima parte del volume curato da Maurizio Guerri, Le immagini delle guerre contemporanee (Meltemi, 2018) [su Carmilla 12]. Prenderemo qua in esame i saggi di Pierandrea Amato, Raffaele Scolari e Adolfo Mignemi che si occupano rispettivamente di come la gestione delle immagini da parte dei media abbia determinato uno scollamento tra visione ed esperienza, il primo, del rapporto tra essere umano e paesaggio nell’esperienza bellica, il secondo, e dell’interazione tra immagini di guerra e memoria relativa al confitto, l’ultimo.

Pierandrea Amato, nel suo intervento “Dov’è il nemico? Il paradigma della Grande guerra”, riflette su come la guerra possa essere negata tanto dalla mancanza di immagini che ne diano testimonianza, quanto da un eccesso di rappresentazione che finisce con il sottrarle i suoi caratteri specifici e perturbanti. A volte è lo stesso nemico ad essere fatto scomparire; se si pensa al conflitto irakeno del 1991, le immagini televisive non hanno mostrato che uno spettacolo luminoso notturno costituito da traccianti verdastri. «Tutto ciò ha una conseguenza ontologica ed estetica straordinaria che porta a compimento un processo esploso circa un secolo fa; la relazione tra la guerra e le immagini sancisce l’epilogo di un fenomeno registrato da Walter Benjamin: l’eclissi dell’esperienza per l’uomo contemporaneo. Di fronte all’orrore della guerra, rimaniamo attoniti spettatori di un evento cui non facciamo alcuna esperienza (neppure, in fondo, visiva; meno che mai verbale, psicologica, affettiva). Nella vicenda della Prima guerra mondiale Benjamin riesce a estrarre un carattere essenziale dell’età contemporanea: l’ordinaria esperienza dell’impossibile. La prima guerra totale del Novecento, cioè, si colloca oltre la misura del concepibile, determinando la definizione di assi concettuali in grado di fornire un senso all’insensato in cui, evidentemente, le prerogative del logos sono ampiamente sottomesse ad altre costellazioni concettuali» (pp. 23-24).

«In Benjamin la guerra è il centro di gravità di un’operazione che distilla la sua violenza mediante l’adozione di una serie di filtri estetici in grado di rimuovere la profondità del suo orrore. Questa operazione è reazionaria non soltanto perché si riferisce a categorie ampiamente corrose dalla guerra industriale – eroismo, coraggio, ecc. – e quindi si preoccupa di rendere torbido il valore del massacro della Grande guerra (il riferimento diretto di Benjamin) ma più essenzialmente perché fa della guerra un evento estetico» (p. 28). Dunque, sostiene Amato, rifacendosi al ragionamento del filosofo tedesco, qualsiasi guerra contemporanea, caratterizzata com’è da una notevole sublimazione iconica, potrebbe essere intesa strutturalmente un avvenimento fascista per il suo «rimuovere gli umori della guerra: cadaveri, dolore, traumi permanenti. Celerebbero una matrice fascista i conflitti armati contemporanei, se analizzati secondo il caleidoscopio benjaminiano, perché impongono una forma d’estetizzazione della violenza militare il cui destino è sviare dalla sua esperienza effettiva sollecitando, invece, la sua rappresentazione spettacolare. […] La condizione della guerra contemporanea è la perdita di un’esperienza visiva in grado di strapparci da ciò che normalmente vediamo; di produrre uno scollamento tra noi è le nostre esperienze. Ma proprio questa eclissi dell’esperienza ci consegna immancabilmente al cuore dell’esperienza – o meglio: non esperienza – della Grande guerra» (pp. 28-29).

Raffaele Scolari, nel suo “Kurt Lewin e la mutazione dell’immagine dei territori di guerra”, prende invece in esame Paesaggio di guerra (1917) dello studioso tedesco ragionando attorno alla mutevolezza e alla complessità dei legami tra essere umano e paesaggio nell’esperienza bellica. Nella parte finale del suo intervento Scolari si sofferma sull’immagine della guerra come narrazione. «La latente ubiquità e la progressiva invisibilizzazione dei dispositivi impiegati rendono obsolete le nozioni di teatro bellico, di fronte, di retrovia eccetera. Terra, acqua e cielo non configurano più un territorio verso cui avanzare, bensì […] un corpo in cui sono introdotte sonde aventi lo scopo di osservarlo dall’interno per poi eventualmente disabilitarne talune funzioni. Non diversamente dalle immagini fornite per esempio dalla tomografia computerizzata, che per essere comprese richiedono particolari competenze disciplinari, quelle sulla scorta delle quali agiscono i combattenti o, com’è meglio chiamarli, gli operatori bellici delle guerre contemporanee sono elaborati digitali. Propriamente non sono immagini, nel senso che non narrano la storia di eventi in corso, bensì grafici, visualizzazioni di insiemi complessi di dati, ossia riduzioni di complessità che consentono di operare in tempi estremamente stretti» (p. 89).

In un contesto come quello contemporaneo in cui le operazioni belliche vengono sempre più raccontate in maniera addomesticata dai reportage giornalistici, quando non direttamente messe in scena dagli apparati militari, converrebbe concedere scarsa credibilità a tali narrazioni, ma, sostiene Scolari, nonostante tutto, «continuano a circolare immagini potenzialmente capaci di “porci dentro” l’evento e il luogo della guerra. Sono lampi nell’oscurità prodotta [dal] processo generale di invisibilizzazione […]. In quanto tali, riprendendo un concetto chiave delle teorizzazioni di Benjamin, sono “immagini dialettiche”, le quali però non si contrappongono alle “immagini arcaiche”, bensì a quelle prodotte e poste in circolazione da un complesso di dispositivi appunto invisibilizzanti» (p. 90).

Nel saggio di Adolfo Mignemi, “La fotografia e la memoria. Osservazioni sulla violenza nelle immagini e sulla violenza delle immagini”, lo studioso, a partire dall’analisi di diverse fotografie, riflette sulla narrazione della violenza e sulla durezza della sua rappresentazione. «Ciò che lega la fotografia alla memoria è la reciproca interazione che consente, da un lato, di riconoscere le situazioni ed i contesti che strutturano l’immagine, dall’altro di trasformare la narrazione proposta in una esperienza verosimile» (p. 94).

Visto che ogni conflitto si differenzia dai precedenti ed elabora una propria immagine della guerra, l’autore si sofferma in particolare su alcuni casi emblematici: il primo esempio di immagine-rappresentazione di caduti in combattimento che ritrae una delle fosse comuni di Melegnano realizzate dopo la battaglia dell’8 giugno 1859; le raccolte da Paolo Valera del 1912 relative alla repressione in Libia delle resistenze all’occupazione italiana come primo utilizzo di fotografie di denuncia di crimini di guerra; il filmato comparso sul web nel gennaio del 2012 realizzato da alcuni militari americani mentre infieriscono sui cadaveri dei nemici; il video girato e diffuso in internet dall’Isis relativo alla decapitazione del giornalista americano James Wright Foley ad al-Raqqua nell’agosto del 2014.

Il saggio si sofferma anche sul fatto che in numerose pubblicazioni edite nel corso del Primo conflitto mondiale i caduti vengono mostrati con immagini che li ritraggono in abiti borghesi e non in divisa. «Che cosa può aver indotto le famiglie a consegnare alla memoria pubblica questo tipo di ritratti? È l’assenza di una foto in divisa militare tra le immagini conservate a casa? È la volontà di confermare il proprio ricordo della persona cara fissando la memoria visiva alle condizioni di vita normale, precedente la guerra?» (p. 99). Oltre a tali possibili motivazioni, secondo lo studioso, vi sarebbero parecchi elementi che rendono possibile ipotizzare anche un cosciente atto di contrarietà alla guerra.

«Nell’ambito di una riflessione sulla memoria visiva dei caduti è molto interessante soffermarsi sui ricordini di lutto familiari intesi come espressione del percorso di elaborazione del lutto. In generale possiamo affermare che, a partire dalla prima guerra mondiale, progressivamente la retorica patriottica si impossessa della memoria e l’immagine diviene l’elemento costitutivo principale delle rappresentazioni. Successivamente la simbolica istituzionale prende a impossessarsi di tutto: compaiono i simboli politici al posto delle tradizionali simbologie del sacrificio, del dolore, della consacrazione alla Volontà superiore. Progressivamente, in conseguenza anche della ritualizzazione della politica autoritaria, la rappresentazione del soprannaturale lascia il posto all’immagine della Nazione, arbitra unica delle sorti dei cittadini e soggetto pienamente legittimato all’esercizio della violenza collettiva. È in questo contesto che la contrarietà alla guerra si manifesta in innumerevoli forme» (p. 99).

Una riflessione viene riservata dall’autore alla diffusione di immagini dai teatri di guerra da parte di militari: se è pur vero che oggi grazie agli smartphone è facile realizzare e diffondere immagini, dunque disporre di documentazione circa episodi di violenza nei teatri di guerra, Mignemi sottolinea come, in molti casi, le fotografie e i filmati testimonianti episodi particolarmente violenti non vengano realizzati dai militari per denunciare i fatti ma per diffondere una “immagine-ricordo” compiaciuta del loro essere combattenti.

Alle immagini si è fatto ricorso, sin dall’avvio del Secondo conflitto mondiale, anche per la loro capacità di rappresentare e proporre violenza: tra le prime pubblicazioni che ricorrono a tale uso delle fotografie nel saggio viene citato il libro prodotto ufficialmente dal governo tedesco, dopo l’annessione della Polonia, sulle atrocità commesse dai polacchi nei confronti delle minoranze tedesche.

Venendo invece agli interventi militari italiani novecenteschi, di questi esiste, ad esempio, un’ampia documentazione visiva delle guerre di aggressione in territorio balcanico a partire dal 1940, che «ben rappresenta il ripetersi del progetto imperiale fascista di conquista e dominazione del Mediterraneo» ma, denuncia lo studioso, ancora oggi, in Italia, la ricerca storica sembra non riuscire a scalfire «l’opinione assolutoria diffusa nella mentalità comune circa il ruolo di aggressore del nostro Paese» (p. 107).

Un caso su cui si sofferma il saggio riguarda invece alcune immagini che testimoniano le infami modalità con cui l’Italia ha partecipato all’Operazione Ibis in Somalia; dalle foto dei nemici incappucciati e con mani e piedi legati dietro la schiena con una corda intorno al collo, a quelle del prigioniero denudato e sottoposto a scariche elettriche, fino all’episodio dello stupro con razzo di segnalazione di una donna somala effettuato dai militari italiani nel novembre 1993 ad un posto di blocco tra Mogadiscio e Balad. Di tutte queste immagini non si parla più, così come è sceso il silenzio su quella e altre operazioni militari tricolori. Si tratta di un oblio sicuramente utile sia a evitare, nuovamente, al Paese di fare i conti con le proprie responsabilità, che a non intralciare la costruzione del capro espiatorio del momento: il migrante che spinge alle porte di casa.


Serie “Guerrevisioni

 

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Guerrevisioni. Corpi, droni e kamikaze nelle guerre contemporanee https://www.carmillaonline.com/2018/09/23/guerrevisioni-corpi-droni-e-kamikaze-nelle-guerre-contemporanee/ Sat, 22 Sep 2018 22:01:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48021 di Gioacchino Toni

«il terrorismo sfida costantemente l’Occidente nella sua evidente difficoltà di gestire il corpo dell’Altro, di percepirlo, comprenderlo e accettarlo [come testimonia il riemergere] di una cultura pseudoscientifica del controllo dei corpi, che affonda le proprie radici nella criminologia tardo-ottocentesca» (Barbara Grespi)

«l’operatore del drone è un’immagine specchio di quella del suicide bomber» (Hugh Gusterson)

«i kamikaze sono gli uomini della morte certa, i piloti di droni sono gli uomini della morte impossibile» (Grégoire Chamayou)

In questo scritto verranno presi in esame i saggi di Barbara Grespi e Maurizio Guerri relativi [...]]]> di Gioacchino Toni

«il terrorismo sfida costantemente l’Occidente nella sua evidente difficoltà di gestire il corpo dell’Altro, di percepirlo, comprenderlo e accettarlo [come testimonia il riemergere] di una cultura pseudoscientifica del controllo dei corpi, che affonda le proprie radici nella criminologia tardo-ottocentesca» (Barbara Grespi)

«l’operatore del drone è un’immagine specchio di quella del suicide bomber» (Hugh Gusterson)

«i kamikaze sono gli uomini della morte certa, i piloti di droni sono gli uomini della morte impossibile» (Grégoire Chamayou)

In questo scritto verranno presi in esame i saggi di Barbara Grespi e Maurizio Guerri relativi rispettivamente al controllo del corpo nei conflitti contemporanei e al confronto tra il ricorso ai droni occidentale e ai kamikaze da parte mediorientale nelle guerre recenti, pubblicati sul volume curato da Maurizio Guerri, Le immagini delle guerre contemporanee (Meltemi, 2018) [su Carmilla].

Barbara Grespi, nel saggio “Il controllo dei corpi nel quadro dei conflitti contemporanei”, si sofferma sulla rilevanza etica, ideologica e culturale del rapporto tra corpo e guerre e sul suo trattamento iconico nella contemporaneità. La studiosa mette in luce come nei conflitti contemporanei sembrano confrontarsi una politica occidentale tendente alla rimozione del corpo e una politica mediorientale votata invece alla sua esposizione. Se da un lato i bombardamenti occidentali effettuati con i droni determinano una «fantasmatizzazione del pilota, che attacca da un altrove radicale» e una «cancellazione del corpo del nemico bombardato, ridotto a puro disturbo visivo a malapena registrato dalle riprese a bassa definizione» (p. 343), dall’altro il nemico mediorientale sembra fare del corpo del combattente il centro delle proprie tattiche di guerra soprattutto attraverso il corpo-bomba del kamikaze e la decapitazione di alcuni prigionieri da parte dell’Isis. A tal proposito, la documentazione filmata e diffusa in internet «costituisce non soltanto la cruda esibizione del corpo del nemico ucciso, ma anche l’autorappresentazione di un Sé radicalmente altro, che alla “civile” soppressione dell’avversario, senza contatto fisico e di conseguenza senza una netta auto-percezione della propria responsabilità, contrappone la presa in carico dell’atavico gesto del boia. Con questa politica, il terrorismo sfida costantemente l’Occidente nella sua evidente difficoltà di gestire il corpo dell’Altro, di percepirlo, comprenderlo e accettarlo; la riemersione di una cultura pseudoscientifica del controllo dei corpi, che affonda le proprie radici nella criminologia tardo-ottocentesca, è forse la più interessante spia di questa impasse, nonché del grande bisogno, soprattutto statunitense, di circoscrivere la differenza culturale all’interno del proprio sistema di pensiero» (p. 344).

Grespi pone l’accento su come la minaccia di subire un attacco da parte dei kamikaze determini in Occidente l’ossessione del riconoscimento preventivo mentre, inversamente, per gli attentatori suicidi il problema diviene quello di non farsi individuare. Di fronte al rischio di attentati l’obiettivo dei servizi di sicurezza occidentali è pertanto quello di riconoscere preventivamente e a tal proposito nel 2007 il Dipartimento di Sicurezza Interna degli Stati Uniti ha dato il via al “Project Hostile Intent” al fine di formare agenti per migliorare le loro «capacità di interpretare i corpi, rilevando tutti quegli elementi comportamentali, gestuali e vocali che rendono un viaggiatore sospetto e meritevole di ulteriori, più aggressive indagini antiterroristiche» (p. 345). Alle tecniche di osservazione sul campo si sono aggiunti sofisticati sussidi tecnologici denominati “Future Attribute Screening Technology” con lo scopo di monitorare la temperatura basale, il movimento oculare e il battito cardiaco. I dati raccolti da tali tecnologie vengono poi trasmessi agli agenti della “Transportation Security Administration”, sottosezione dei “Behaviour Detection Officers”: «a loro spetta l’incarico di osservare i passeggeri, inquadrandone il comportamento e producendo un calcolo del “coefficiente di pericolosità” di ogni individuo, ovvero della probabilità che egli nutra intenzioni criminose» (p. 346). Tale coefficiente si basa sostanzialmente sul riconoscimento delle emozioni secondo un modello proposto dallo psicologo statunitense Paul Ekman, l’ideatore del “Facial Action Coding System”, consistente in una misurazione obiettiva dei micromovimenti facciali che dovrebbe poi essere convertita in un codice informatico destinato alla produzione di “tecnologie sensibili alle emozioni”. Al momento il supporto informatico si limita alla rilevazione delle espressioni involontarie del volto, mentre è all’abilità umana degli agenti che spetta il compito di interpretare tali espressioni riconoscendo i segni di stress corrispondenti alla paura di essere scoperti, i sintomi della menzogna ecc.

Nei tentativi di prevenire i crimini e di riconoscere i segni del volto che rivelano affermazioni menzognere è facile intravedere rispettivamente le ossessioni che abitano Minority Report – il film di Steven Spielberg, liberamente tratto dall’omonimo racconto di Philip K. Dick, è uscito nel 2002 in pieno “clima 11 settembre” –, e quelle caratterizzanti la popolare serie televisiva Lie to Me (Fox 2009-2011), che non a caso vanta la supervisione scientifica dello stesso Ekman. Per certi versi la serie tv sembra rispondere alle critiche mosse all’applicazione del metodo dello psicologo statunitense negli aeroporti, con un opera di divulgazione del suo metodo di lettura del volto – in cui si mescolano semiotica, fisiognomica, neurologia e scienza naturale delle passioni –, ricorrendo ad un’operazione di mitizzazione e certificazione attuata attraverso la fiction e un testimonial-divo (Tim Roth).

In realtà gli agenti addetti al riconoscimento dei potenziali terroristi più che all’analisi accurata del volto fanno riferimento agli aspetti gestuali degli individui: sintomi fisici, formule emotive, sottocodici simbolici, marcature somatiche (!) ecc. Risulta comunque difficile pensare che a una frontiera tutti questi aspetti del fenomeno gestuale possano essere valutati congiuntamente e in tempi stretti ai fini dell’individuazione di un possibile terrorista; «è evidente che fra la rilevazione di un eccessivo stress sospetto e l’interpretazione univoca di formule emotive, soprattutto fra una cultura e l’altra, il passo è lungo» (p. 350).

Sull’onda del convincimento che il corpo non mente mai e che sia pertanto possibile individuare un potenziale terrorista dalla sua gestualità, si sono diffuse sul mercato editoriale americano deliranti pubblicazioni di psicologia spicciola come Body Language of Terrorists (2015), testo scritto da «un’esperta di comunicazione e body language – consulente forense, trainer di personaggi pubblici e attori, nonché autrice di bestseller internazionali, quali Te lo leggo nel pensiero o Come eliminare i rompiballe e vivere felici – e un ex agente dell’Fbi» (p. 352). Tale libro presenta una catalogazione empirica della gestualità del terrorista che, seppur priva di qualsiasi base scientifica, merita di essere considerata per la sua sintomaticità socio-culturale. «Infatti, la spiccata finalità pratica del volume – che si offre al comune cittadino come un manuale salvavita che può aiutarlo a presagire la minaccia terroristica, e come un promemoria dei suoi doveri civili – produce un pensiero totalmente governato dall’ansia dell’Alterità e capace di proiettare un’ombra oscura sulle attuali scienze e pratiche di controllo dei corpi» (pp. 351-352). Nel libro viene prospettata una delirante classificazione del terrorista in alcune varianti identitarie derivate dalla diversa combinazione delle sue principali emozioni: ansia, paura, arroganza, rabbia. Si propongono così classificazioni che tendono ad applicare, non di rado invertendone il significato, caratteristiche ritenute proprie alla cultura occidentale a culture diverse. Ad esempio, quando nel corpo dell’Altro vengono individuati gesti che nella cultura occidentale denoterebbero orgoglio ed eroismo, si invita a leggervi un’intenzione aggressiva.

«Nel contemporaneo sistema di controllo dei corpi, [la] dimensione immaginaria del gesto – associata a un’idea di corpo come medium che elabora immagini e le trasmette con un proprio linguaggio e una propria forma di memoria – viene totalmente rimossa. Nei luoghi di transito, infatti, ci si sforza di omologare la rilevazione del gesto alle altre misurazioni corporee effettuate. La stessa osservazione in video degli stili di comportamento, al di là del fatto che risponde alla filosofia bellica occidentale dell’operare a distanza, viene sperimentata come tecnica di oggettivazione attraverso la tecnologia: registrato da una videocamera, il gesto diventa più facilmente prova, assomiglia di più alle rilevazioni dei molti sensori che completano l’attività di sorveglianza degli agenti, e che proprio perché non contengono variabili “umane” sono considerati attendibili, “gender, culture and age-neutral”» (pp. 355-356).

I dati puramente fisiologici rilevati dai sensori (movimenti oculari, battito cardiaco ecc.) attribuiscono una misura matematica ai gesti denotanti ansia rilevati dagli agenti. Ci si basa pertanto, sottolinea Grespi, «su un’idea di corpo antica, che riesuma la fiducia nella sua trasparenza, nella sua capacità di riflettere all’esterno il proprio interno, manifestando in superficie i segni di ciò che nel profondo lo muove. Body Language of Terrorism traduce questo implicito in un assioma ricorrente: “the body doesn’t lie”, presentato come distillato di esperienza, ma in realtà frutto di un ben noto modello di pensiero, quello attraverso cui la fisiognomica si congiunge alla criminologia ottocentesca» (p. 356).

L’immaginario distopico di un film come Gattaca – La porta dell’universo (1997) di Andrew Niccol, ha ipotizzando un futuro votato alla crescente indexicalità, precisione e infedeltà iconica del dato identificativo. Nel film si prospetta una società futura che ricorre all’identificazione attraverso l’impronta delle dita su un sensore in grado di forare la pelle e analizzare il sangue controllando il Dna. Per superare i controlli che danno accesso a un’agenzia riservata a una élite genetica, il protagonista del film ricorre a campioni di sangue altrui facendo attenzione a rimuovere al contempo le proprie tracce biologiche senza preoccuparsi eccessivamente del diverso aspetto del volto, visto che per accertare l’identità in quella società non si presta più tanta attenzione all’immagine. Se lo scenario distopico prospettato dal film è in linea con lo sviluppo del sistema di identificazione indexicale affermatosi a fine Ottocento, la “guerra al terrore”, sostiene Guerri, sembra invece «far ritorno all’iconicità e all’affanno numerico. In particolare la mano che lascia tracce aniconiche ridiventa la mano che gesticola, che produce forme riconoscibili o che contiene indici metrici» (p. 360).

L’analisi della gestualità introdotta nella lotta al terrorismo mediorientale sembra prescindere totalmente dalle differenze culturali che in alcuni casi danno significati diversi ai medesimi gesti e, soprattutto, non tiene conto di come, a maggior ragione in una dimensione globalizzata come l’attuale, il significato da attribuire ai gesti muti costantemente attraverso processi di appropriazione e riappropriazione simbolica, così come non si cura del fatto che le violenze del controllo alterano, e non in maniera univoca, le modalità con gli individui reagiscono. Insomma, negli aeroporti americani si è in balia dell’arbitrio di guardie che, dopo un grottesco corso di formazione, si prodigano nell’arte dell’interpretazione del corpo dell’Altro applicando su di esso formule semplicistiche e stereotipate con pretese di scientificità.

Maurizio Guerri, nel saggio “Il drone e il kamikaze. Due immagini della guerra contemporanea”, analizza il drone occidentale e il suicida mediorientale come figure caratterizzanti i conflitti del nuovo millennio. «Il suicida compie la propria missione di morte e distruzione contro civili o militari – senza alcun obiettivo specifico se non quello di suscitare terrore – annientando se stesso mentre compie il proprio attacco con una violenza pari a quella che infligge ai propri nemici. Nella maggior parte dei casi i nemici sono obiettivi fortuiti e astratti, mentre concreto è il loro ferimento o la loro morte […] L’altra immagine è quella del drone, una macchina volante dotata di occhi elettronici per muoversi e per lanciare ordigni il cui volo è gestito da un uomo a distanza di sicurezza dalle operazioni; l’aeromobile opera sul cielo del territorio nemico con l’obiettivo di eliminare i propri targets una volta che essi siano stati localizzati attraverso diversi sistemi che si concretizzano in un’immagine sullo schermo» (p. 365).

Se l’immagine del gesto dell’attentatore suicida genera orrore tra gli occidentali, la conduzione della guerra attraverso i droni è percepita dagli stessi, almeno a livello diffuso, come una pratica decisamente più umana rispetto all’azione del kamikaze e alle pratiche di guerra tradizionali: il ricorso ai droni consente infatti di preservare vite sul fronte amico. Ben diversa è la percezione sul fronte opposto, tra le popolazioni civili mediorientali spesso colpite da quelli che vengono ipocritamente definiti dalla retorica occidentale “effetti collaterali” della guerra a distanza.

Nell’opinione pubblica occidentale si è fatta strada una logica che schematizza così lo scontro in atto: «da un lato la radice [della violenza mediorientale] sarebbe da ricondurre all’adesione dei terroristi a versioni “radicali” dell’Islam, dall’altra parte i paesi occidentali con tutta la loro eredità in termini di libertà, laicità, illuminismo conducono le loro guerre in modo violento, per lo più all’interno delle convenzioni del diritto internazionale e in nome della democrazia» (p. 366). Insomma, si sarebbe di fronte ad uno “scontro di civiltà” tra il sistema democratico capitalista, con il suo modo “civile” di condurre la guerra, e il mondo islamico-terrorista, con le sue modalità barbare e crudeli di partecipazione al conflitto. Secondo Guerri, in realtà, non si è affatto in presenza di uno “scontro di civiltà”, quanto piuttosto a due diversi modi condurre la guerra, probabilmente si tratta di «due pieghe dello stesso tipo di conduzione del conflitto […] all’interno del pianeta globalizzato che è dominato e unificato da un sistema economico capitalistico» (p. 367). Il drone e il kamikaze non rappresenterebbero tanto i simboli di due differenti civiltà che si scontrano, quanto piuttosto «due figure in cui si condensano due modi del conflitto all’interno dello stesso sistema economico che mettono in discussione l’idea stessa di guerra così come è stata condotta dalle origini fino alla fine della Guerra fredda» (p. 367).

Al fine di ricostruire un passaggio della genealogia delle figure del kamikaze e del drone, lo studioso riprende alcune riflessioni degli anni Trenta di Ernst Jünger (Sul dolore, 1934) e di Walter Benjamin (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1936) in cui queste due tipologie sono state prese in considerazione.

Nel suo scritto Jünger prende spunto dalla notizia di un siluro messo a punto dalla marina militare giapponese guidato da un essere umano che alloggia su di esso all’interno di una piccola cabina: un pilota al contempo “arto tecnico” e “vera intelligenza del proiettile”. Una “costruzione organica” in cui l’essere umano rappresenta se stesso e utilizza il suo corpo come parte integrante «del sistema tecnico-lavorativo di cui anche la guerra è divenuta parte» (p. 369). Jünger osserva anche che la civiltà occidentale dall’Ottocento in avanti è dominata «dall’impulso a rimuovere il rapporto diretto del soggetto con la vita, come perdita di esperienza, come volontà di “rimuovere il dolore e di separarlo dalla vita”. I diversi settori della scienza e della tecnica possono essere concepiti nel loro complesso come dominati da una tendenza a stabilire la rimozione del dolore e a impiantare una condizione di “comfort” in ogni ambito della vita» (p. 369).

Con la riduzione della vita a mera funzione del sistema economico-lavorativo, l’esistenza dell’essere umano si inserirebbe «all’interno del sistema del lavoro, fino a diventare – come nell’esempio citato del proiettile umano – un “arto” dello strumento o la sua “intelligenza”» (p. 371). Secondo Jünger l’uomo proiettile rappresenta «una figura in cui si esprime il massimo sacrificio dell’uomo contemporaneo nel porsi al servizio del sistema tecnolavorativo» (p. 371). Guerri sottolinea come in Jünger l’uomo proiettile venga visto come figura pienamente in linea con la logica novecentesca che impone all’individuo di sacrificarsi al sistema tecnolo-lavorativo. «La figura di colui che sacrifica la propria vita in una operazione bellica appartiene alla fenomenologia della conduzione dello scontro violento nell’epoca del dispiegamento del lavoro su scala planetaria e in esso possiamo leggere il tipo di rapporto che il sistema del lavoro istituisce con il singolo» (pp. 372-373).

Se da un lato nel proiettile umano Jünger individua «il massimo assorbimento possibile dell’uomo nel sistema della tecnica», dall’altro, però, nella figura di chi è pronto ad un sacrificio tanto estremo individua anche una possibile nuova forma di libertà e ciò risulta meglio comprensibile prendendo in considerazione le sue riflessioni a proposito di un romanzo di Joseph Conrad – probabilmente Agente segreto (1907) –, ove individua nell’anarchico russo di cui si narra la figura dialettica e complementare a quella dell’uomo proiettile giapponese. Il rivoluzionario del romanzo di Conrad, nel portare al seguito una bomba al fine di tenersi pronto a farsi esplodere nel caso di arresto, porta per certi versi agli estremi l’idea di libertà individuale. «Le immagini dell’uomo-proiettile e dell’anarchico russo sono figure sovrapponibili e allo stesso tempo in tensione dialettica. Da un lato l’uomo-proiettile si caratterizza per un sacrificio definitivo al sistema della tecnica e del lavoro, che si traduce in un totale assorbimento al suo interno, fino all’essere sacrificabile per scopi militari; dall’altro l’anarchico russo sembra invece il rovesciamento dell’uomo-proiettile: nella misura in cui l’oggettivazione conduce a una estraneazione da sé, a una capacità del soggetto di guardare alla propria esistenza corporea come a un “avamposto” in grado di condurre alla conquista di qualcosa di più alto, l’anarchico russo appare come una figura allegorica della rivolta e della libertà nella tecnica» (p. 374).

All’estremo sacrificio al sistema tecnico-lavorativo del pilota giapponese si contrappone il sacrificio per la libertà dell’esistenza dell’individuo dell’anarchico russo. «Il kamikaze con il suo sacrificio costituisce l’inserimento totale del singolo al sistema lavorativo declinato sul piano bellico, l’anarchico russo è colui che si sacrifica in nome della irriducibilità della propria singolarità al piano tecnolavorativo planetario […] Nella forma del kamikaze o dell’anarchico Jünger afferma che la dimensione del sacrificio massimo dell’individuo sia essenziale per comprendere la relazione dell’uomo contemporaneo con il sistema planetario in cui è situato» (p. 375).

Ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica notoriamente Benjamin sostiene che tutte le tecniche umane, compresa l’arte della guerra, «sono dominate da una tensione dialettica i cui poli sono individuabili nel “sacrificio” (“prima tecnica”, aura, cultualità) e nel “gioco” (“seconda tecnica”, riproducibilità, esponibilità). L’attività su cui si fonda la “prima tecnica” è il sacrificio umano sia in senso religioso […], sia in senso tecnico- artistico […], o su un piano bellico come virtù del sacrificio eroico in battaglia. Al polo opposto di questa tensione dialettica, Benjamin pone la “seconda tecnica”, quell’elemento che in ogni attività tecnico-artistica non ha nulla a che fare con il lavoro, anzi la emancipa da esso» (pp. 376-377). Il filosofo tedesco, dopo aver letto negli anni Trenta di esperimenti inglesi volti a realizzare aerei comandati a distanza da utilizzare come obiettivi durante le esercitazioni, pensa all’immagine degli aerei teleguidabili in grado di fare a meno dell’equipaggio come ad un’allegoria di un’esperienza ludica (seconda tecnica) contrapposta al sacrificio produttivo-lavorativo (prima tecnica). Sostenendo che le due tecniche, seppure in misura variabile, sono ravvisabili in ogni attività umana, è nei “nuovi media” dell’epoca che Benjamin individua la possibilità di ampliare la sfera d’azione della seconda: così come «gli aerei teleguidabili alludono alla possibilità di movimento e di osservazione libera dal sacrificio del lavoro alla scoperta di un “inconscio spaziale”, così la fotografia e il cinema alludono a un ambito estetico in cui il sacrificio e il lavoro abbiano ceduto spazio al gioco, intraprendendo un viaggio nell’“inconscio ottico”» (p. 378). Nel filosofo lo sguardo fotocinematografico diventa così «allegoria di un mondo che l’uomo ha la possibilità di costruire in base alla propria capacità estetico-immaginativa, libera per la prima volta dal riferimento passivo a un essere o a un ordine di valori che preesiste rispetto all’attività dell’uomo stesso». (p. 382). Chiaramente, è bene ricordarlo, in Benjamin affinché si possa dispiegare la dimensione emancipativa della seconda tecnica occorre passare attraverso un processo rivoluzionario che metta fine alla schiavitù del lavoro.

L’uomo-proiettile a cui fa riferimento Jünger e l’immagine dell’aereo senza pilota di cui parla Benjamin, secondo Guerri, indicano ancora oggi «i limiti dello spazio al contempo estetico e politico in cui ci muoviamo» (p. 388). Drone e kamikaze sembrano allora davvero immagini speculari del modo di condurre la guerra ai nostri giorni. «Il drone è l’arma massimamente “auratica” in quanto colui che conduce l’attacco è assente dal luogo in cui l’attacco stesso è condotto. […] Viceversa il kamikaze è la concretizzazione dell’identità tra corpo e arma, l’inclusione dell’arma nel corpo che esclude la salvezza di colui che conduce un attacco» (p. 388). Sviluppando i ragionamenti di Jünger e di Benjamin, le figure del drone e del kamikaze che conosciamo ai giorni nostri appaiono come le due facce della medesima logica del sacrificio interna ai conflitti che si danno in un mondo dominato dal capitalismo. «Il kamikaze si sacrifica attingendo a una disciplina che viene posta al servizio della tecnica distruttiva delle armi contemporanee, finendo per dissolversi con l’ordigno che porta con sé. Nel caso del drone, invece, siamo in presenza del sacrificio che è tutto spostato sugli obiettivi nemici attraverso la messa a distanza tecnica dello Uav [Unmanned aerial vehicle]. L’etica dell’autosacrificio e quella dell’autopreservazione appaiono così come le modalità attraverso cui si dispiega una violenza bellica che si svolge da un lato con gli attentati suicidi, dall’altro con gli attentati fantasma» (p. 389).


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