Nemico (e) immaginario – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 14 Jun 2025 20:00:29 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Nemico (e) immaginario. L’orrore che avanza. Corpi mutanti e identità inquiete all’alba dello yuppismo anni Ottanta https://www.carmillaonline.com/2021/07/19/nemico-e-immaginario-lorrore-che-avanza-corpi-mutanti-e-identita-inquiete-allalba-dello-yuppismo-anni-ottanta/ Mon, 19 Jul 2021 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66954 di Gioacchino Toni

«Il mostruoso, il deforme, che suggerisce contaminazioni impossibili, deviazioni dalla norma, sono l’orrore massimo di una società che vede solo la strada dell’omologazione» (Edoardo Trevisani)

«Potrebbe essere l’Aids, il cancro, l’epatite, qualsiasi cosa. Potrebbe persino essere solo l’invecchiamento, il disfacimento del corpo. Solo all’inizio l’orrore arriva da fuori, come un virus, poi viene da dentro, è in noi» (Fabio Migneco)

Il fascino del genere horror deriva probabilmente dal suo mettere in scena una contrapposizione tra conosciuto e sconosciuto, tra il “normale” ed il diverso, offrendo allo spettatore la possibilità di [...]]]> di Gioacchino Toni

«Il mostruoso, il deforme, che suggerisce contaminazioni impossibili, deviazioni dalla norma, sono l’orrore massimo di una società che vede solo la strada dell’omologazione» (Edoardo Trevisani)

«Potrebbe essere l’Aids, il cancro, l’epatite, qualsiasi cosa. Potrebbe persino essere solo l’invecchiamento, il disfacimento del corpo. Solo all’inizio l’orrore arriva da fuori, come un virus, poi viene da dentro, è in noi» (Fabio Migneco)

Il fascino del genere horror deriva probabilmente dal suo mettere in scena una contrapposizione tra conosciuto e sconosciuto, tra il “normale” ed il diverso, offrendo allo spettatore la possibilità di identificasi in quell’alterità che la società ha represso e bandito in quanto “mostruoso”. Affascinato dal bizzarro, dal macabro, dal terrorizzante, l’essere umano individua nell’horror la possibilità di esperire paura e disgusto in un contesto non reale, dunque non fisicamente minaccioso. Probabilmente il vero oggetto dei film horror, come sostiene la studiosa Antonietta Buonauro, è «costituito dalla rappresentazione degli incubi culturali che la società occulta/censura, come fa il Super-io con certi contenuti onirici individuali: laddove il sogno e la fantasia sono espressione del represso, di tensioni tra norme sociali e desideri inconsci, l’horror, attraverso l’imago del mostro, mette in scena il socialmente inaccettabile, consentendo di accedervi senza pagarne le conseguenze1.

E negli Stati Uniti degli anni Cinquanta e Sessanta è proprio divorando film horror e di fantascienza, racconti di Poe e Lovecraft, oltre che fumetti in quantità industriale,  che alcuni ragazzini maturano l’idea di impugnare, non appena cresciuti, una macchina da presa per esplorare e dare immagine a nuovi incubi anche costo di entrare in rotta di collisione con l’immaginario manistream. Tra questi ragazzini c’è sicuramente John Howard Carpenter, nato nel 1948 a Carthage, New York, e cresciuto nel Kentucky in un ambiente famigliare artisticamente vivace da cui deriva l’amore per la musica e la passione per il cinema. È impugnando una Brownie 8 mm che il giovane Carpenter inizia a girare i suoi primi cortometraggi disseminandoli di riferimenti ai moster movie giapponesi ed ai western.

A passare in rassegna l’intera produzione cinematografica dello statuitene sono due recenti volumi: Edoardo Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo (Edizioni NPE, 2021) che, come suggerisce lo stesso titolo, ne mette in evidenza l’originalità e Fabio Migneco, Il corpo nel cinema di Carpenter (La case books, 2021), che invece si focalizza sul ruolo del corpo nelle opere del regista.

L’intera filmografia carpenteriana mette in scena l’inquietudine, la sensazione di pericolo imminente, la paura che si manifesta nelle modalità più diverse e che travolge i protagonisti delle sue opere e con esse il pubblico. Da questo punto di vista uno dei film più inquietanti realizzati dal regista, su cui entrambi i volumi inevitabilmente si soffermano, è La Cosa (The Thing, 1982) che può essere considerata tra le pellicole che, sull’onda delle montanti paure identitarie del periodo, hanno saputo portare sugli schermi un nuovo immaginario [su Carmilla].

I due autori ricostruiscono la genesi del film a partire dall’idea della Universal di riprendere La cosa da un altro mondo (The Thing from Another World, 1951) di Christian Nyby (e forse lo stesso Howard Hawks), per trarne un film più fedele al racconto Who goes There? di John W. Campbell pubblicato nel 1938. Se nel racconto sono facilmente individuabili riferimenti al pericolo nazista, il film del 1951, allinenadosi all’immaginario statunitense dell’epoca, sposta la minaccia riferendosi al comunismo. Nell’opera di Nyby, sottolinea Trevisani, oltre al pericolo rosso, è al contempo ravvisabile,

come spiega Stephen King in Danse Macabre, l’espressione di una forte sfiducia nei confronti degli scienziati e dei politici progressisti insieme a loro, pieni di grandi idee, ma incapaci di vere e proprie azioni risolutive in tempo di crisi. Nel film di Hawks e Nyby di fronte al pericolo alieno tutti gli abitanti della base sono pronti a fare fronte comune e a collaborare, a eccezione professor Carrington, malato di superomismo, che è pronto a tutto pur di salvare la creatura per scoprire i suoi segreti2.

La stesura della sceneggiatura per il nuovo film risulta travagliata; le difficoltà ruotano attorno alla natura dell’entità aliena che Campbell descrive come essere che muta la sua forma appropriandosi dei corpi degli esseri con cui viene a contatto seminando così il terrore tra gli umani. Nel film del 1982 che vede John Carpenter alla regia e Kurt Russell nei panni del protagonista McReady, dopo che Clint Eastwood, Jeff Bridges e Nick Nolte hanno rifiutano la parte, l’essere alieno si presenta come un microrganismo colonizzatore che, giunto al Polo a bordo di un’astronave in tempi remoti, assume le forme di vita con cui viene a contatto: è chiaro pertanto come il problema maggiore per la realizzazione della pellicola riguardi gli effetti speciali necessari a rendere l’atto della mutazione.

Sebbene alcune riprese siano realizzate tra i ghiacci dell’Alaska, buona parte della pellicola viene girata negli Studios della Universal in piena estate all’interno di un set refrigerato al fine di rendere visibile il fiato dei personaggi. Rob Bottin, addetto agli effetti speciali, racconta:

volevo che La Cosa fosse come un incubo. Quando ti svegli da un incubo e non ti ricordi bene cosa hai visto. Non ti è chiaro. È una cosa che cambia nell’ombra. Ecco come avevo pensato alla “cosa”. Volevo qualcosa di diverso dal solito uomo dentro un costume di gomma, qualcosa di completamente alieno, più alieno di Alien. Ho iniziato a pensare e ho concluso che forse il segreto era proprio nel titolo del film. […] perché non trovare un qualcosa che può cambiare quando lo desidera e davanti ai tuoi occhi, e di cui non sai quale sia la forma originale?3.

Dopo aver mostrato, durante i titoli di testa, un disco volante che si schianta su un pianeta, che si scoprirà presto essere la Terra, il film si apre con un cane che nel fuggire dagli spari provenienti da un elicottero torva rifugio presso una base di ricerca scientifica statunitense tra i ghiacci. Scesi a terra armi in pugno con l’ossessione di dover assolutamente eliminare il cane, gli inseguitori restano uccisi nel corso di un conflitto a fuco ingaggiato con gli uomini della base. Questi ultimi, intenzionati a capire quanto accaduto, scoprono, oltre ai corpi dei compagni degli assalitori congelati in circostanze misteriose, un nastro che documenta il ritrovamento di un’astronave sepolta tra i ghiacci da parte di scienziati scandinavi. L’animale giunto alla base statunitense si comprenderà poi essere la forma assunta dalla “cosa dall’altro mondo” per propagarsi velocemente come un’infezione all’interno di una comunità umana in cui ormai nessuno si fida più di nessuno. Scrive a tal proposito Migneco che, a ben guardare, tra i messaggi che «la condizione umana è già contaminata, ancora prima che sia la Cosa a farlo. I personaggi sono diffidenti tra do loro e nel gruppo non c’è una grande coesione, anzi, e l’avvento della Cosa rende solo più esplicito il tutto»4.

Primo capitolo di quella che sarebbe poi stata definita la Trilogia dell’Apocalisse, – composta da La cosa (The Thing, 1982), Il signore del male (Prince of Darkness, 1987) e Il seme della follia (In the Mouth of Madness, 1994) –, quello di Carpenter è un film pessimista, claustrofobico, che non concede speranze al pubblico che, terminata la visione, non può che uscire dalla sala in preda ad un senso di disagio. Probabilmente il motivo principale dell’insuccesso di pubblico alla sua uscita, secondo Trevisani è da ricercarsi nella

estrema impietosa lucidità con cui [Carpenter] descrisse l’alba degli anni Ottanta. Mentre la gente preferiva farsi cullare dalla favola fantascientifica di E. T. di Spielberg, che era in sala in contemporanea con La Cosa, e dal suo ottimismo nei riguardi del prossimo, Carpenter aveva già compreso quali paure stavano dilaniando la coscienza dell’America. Se La Cosa da un altro mondo di Hawks è il racconto di un’umanità unita contro la minaccia esterna, quella di Carpenter è un’umanità divisa dall’individualismo, dalla paura e dalla diffidenza, in sostanza per Carpenter la “cosa” è quel germe che sta sgretolando la società. Era qualcosa che già il regista avvertiva sin dai tempi di Distretto 13, solo che ora quelle premesse raggiungono il pieno compimento5.

È come se il Male, dismessa la maschera di Halloween, avesse indossato quella di qualsiasi essere umano, continua Trevisani; quasi ad esplicitare che chiunque può essere il mostro.

Il film insiste sul rapporto tra spazio interno e quello esterno: al primo appartiene l’ambientazione claustrofobica della piccola base isolata dal resto del mondo e abitata da una dozzina di uomini costretti ad ingannare alla meglio il tempo che sembra non passare mai; al secondo, minaccioso e sconfinato, appartengono tanto le infinite distese di ghiaccio del paesaggio polare quanto lo spazio attraversato dall’astronave aliena prima di precipitare sulla terra.

Si torna alle premesse di Dark Star, volendo, solo che il rapporto dentro fuori riguarda i corpi e le identità e il senso di questo assedio inevitabilmente assume un peso politico non indifferente. La Cosa esce nei cinema agli inizi degli anni Ottanta, l’epoca dell’edonismo, del rampantismo, della reaganomics. A un irrigidimento politico reazionario e a una sempre maggiore precarizzazione delle classi lavoratrici corrisponde l’esaltazione del corpo e il culto dell’apparenza6.

Da lì a poco, ricorda l’autore, gli schermi televisivi – e non solo statunitensi – sarebbero stati occupati dai corsi di aerobica di Jane Fonda che invitano a sentirsi responsabili nel caso il corpo che ci si ritrova non sia quello desiderato. All’immaginario yuppie improntato sul culto del corpo e dell’apparire, un piccolo filone del cinema horror degli anni Ottanta risponde pensando e mostrando il corpo in altro modo.

In una società in cui la decadenza del corpo è trattata alla stregua di un peccato capitale, di un sacrilegio, Carpenter si permette di dare in pasto i corpi a un alieno la cui strategia di sopravvivenza è l’imitazione, la riproduzione perfetta delle sembianze umane, ma che trova la forma più estrema di offesa nella deformazione, nel deturpare il fisico, nel trasformalo in incubo. Il mostruoso, il deforme, che suggerisce contaminazioni impossibili, deviazioni dalla norma, sono l’orrore massimo di una società che vede solo la strada dell’omologazione7.

Dell’unità tra umani che permetterà la vittoria nei confronti dell’essere alieno del film del 1951, nella versione del 1982 non c’è traccia; a dominare sono piuttosto la diffidenza e la rivalità. «È la paranoia del contatto, che viene fuori alla vigilia del contagio dell’AIDS, ma è anche qualcosa di più, è la costatazione che nessun corpo è autonomo e che nessuno può decidere solo ed esclusivamente per se stesso»8. Alla faccia della sociofobica Iron Lady insediatasi a Downing Street: “you know, there’s no such thing as society. There are individual men and women and there are families”. Mark Fisher9, ricorda Trevisani, ricorre proprio al film di Carpenter per spigare la natura di quel capitalismo che ama presentarsi come entità astorica dunque priva di alternative (lo slogan “There Is No Alternative” è stato ripetuto talmente tante volte da Margaret Thatcher da finire per essere soprannominata con l’acronimo “TINA” da un suo collega di partito):

entità che appartiene a una dimensione senza tempo e senza spazio, preesistente ai sistemi politici come, una sorta di abominio che le società primitive e feudali tentavano di tenere a distanza e dotata della capacità di integrare continuamente il differente, la protesta, il trauma, rielaborandole ininterrottamente, rubandone l’aspetto e sostituendone la natura: “un’entità mostruosa, plastica e infinita capace di metabolizzare e assorbire qualsiasi oggetto con cui entra in contatto”10.

Nella versione degli anni Cinquanta, ambientata in una base aerea statunitense in Alaska, soggiace il timore di un possibile attacco sovietico dal polo ed è sospettando un coinvolgimento dei russi che, saputo di un disastro aereo vicino al polo, il capitano Pat Hendry decide di indagare sull’accaduto, salvo poi trovarsi poi di fronte ad un essere alieno simile ad una pianta che si nutre di sangue. Nonostante la ritrosia dello scienziato Carrington che, al pari di tanti altri suoi colleghi che si incontrano nella fantascienza, non esita a sacrificare vite umane per poter condurre le sue ricerche, l’equipaggio statunitense decide di eliminare l’entità aliena. Di fronte all’invulnerabilità di quest’ultima alle pallottole spetta a Nikki Nicholson, l’unica donna del gruppo, proporre una soluzione alternativa: se l’alieno è una pianta, allora non resta che provare a “cuocerlo”.

Questa opposizione tra logica pura (maschile) e intuizione (femminile) è un elemento fondamentale nel dibattito della fantascienza sull’essenza dell’umanità. Anche se la science fiction si risolve quasi sempre con la forza, sono spesso gli attributi femminili di emozione e intuizione che segnano la differenza tra uomini e alieni, e permettono la vittoria umana11.

Se i protagonisti dei film degli anni Cinquanta si mostrano certi della netta distinzione tra se stessi e gli alieni, nella versione di Carpenter gli umani sono alla ricerca di conferme circa il loro essere restati tali. Mentre la minaccia nella prima pellicola è identificabile con un nemico esterno (i sovietici), agli albori di un mondo che, perdendo le sue certezze, sembra avviarsi verso trasformazioni che condurranno alla globalizzazione e alla digitalizzazione, i timori derivano piuttosto dalla difficoltà di definire “cosa” stia divenendo l’umano. È forse questa l’angoscia a cui allude la difficoltà e l’urgenza dei protagonisti di distinguersi dagli alieni.

La base statunitense nel film di Carpenter è abitata da uno spaccato di umanità – di soli uomini – a cui è precluso – o che si preclude – il contatto, in balia dalle proprie nevrosi. Una dozzina di uomini costretti a vivere in spazi angusti non sembrano riuscire a fronteggiare chi ha capacità di riprodursi e diffondere la propria specie..

Per molti versi La cosa è uno slasher movie, segue molti dei meccanismi del genere, solo che alcuni circuiti sono interrotti, i rapporti a un certo punto risultano sfalsati e forse fu anche questo a disorientare il pubblico. L’alieno è sostanzialmente l’assassino che in uno spazio chiuso, in un’arena, fa fuori i personaggi uno dopo l’altro, il problema è che viene a mancare il consueto motivo sessuale implicito, o meglio viene sovvertito. In più manca l’atto per eccellenza dello slasher, l’omicidio, anzi, è come se la morte perdesse di significato nel film di Carpenter, non esiste più, dato che l’annientamento del personaggio coincide con la colonizzazione e la distruzione effettiva è affidata ai componenti ancora umani del gruppo12.

La Cosa non si mostra mai direttamente, la si “percepisce” soltanto attraverso le forme che assume di volta in volta e quando coincide con l’essere umano è ormai troppo tardi e l’ossessione del controllo – “Voglio tenervi tutti sotto controllo” afferma McReady rivolgendosi ai colleghi –, non può fermare il contagio che, invisibile, fuori campo, conduce insormontabilmente alla temuta mutazione. Il mondo della razionalità scientifica che ha, sin dalle sue origini, a che fare con il controllo visivo, si mostra incapace di individuare l’alterità aliena che invece riesce a controllare e ad appropriarsi degli esseri umani.

Secondo Migneco il film può anche essere interpretato come la rappresentazione del timore della malattia e della morte.

Potrebbe essere l’Aids, il cancro, l’epatite, qualsiasi cosa. Potrebbe persino essere solo l’invecchiamento, il disfacimento del corpo. Solo all’inizio l’orrore arriva da fuori, come un virus, poi viene da dentro, è in noi e infatti l’unico modo per sapere se i personaggi sono ancora umani o cose, è un’analisi del sangue […], perché “l’analisi del sangue che determina cosa stia davvero succedendo dentro il corpo umano”. […] Corpo e sangue. Identità, La Cosa priva i protagonisti dell’ultima certezza, quella della propria identità, del proprio essere. Chi è umano e ch no? Di chi ci si può fidare?13

Nel film si potrebbe scorgere, continua Migneco, anche un approfondimento relativo alla paranoia, agli effetti della paura, una vicenda in cui il male distrugge l’interiorità per poi ri/crearne una a sua immagine. Più ai personaggi, il film sembra sembra riferirsi a di chi, seduto su una poltronicina, lo sta guardando al cinema. Dai primi anni Ottanta messi, a suo modo, in scena da Carpenter è passato parecchio tempo; “la cosa” nel frattempo non ha smesso di diffondersi… mentre ci si continua a ripetere con McReady, ma forse con sempre meno convinzione: “I know I’m human”…


Nemico (e) immaginario serie completa


  1. A.  Buonauro, Horror film e estetica masochistica: piacere visivo e dinamiche dell’identificazione, in DWF. Donna Woman Femme: Rivista internazionale di studi antropologici storici e sociali sulla donna, 2008, n. 1, vol. 77, pp. 40-57. 

  2. E. Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo, Edizioni NPE, Battipaglia (SA), 2021, p.93. 

  3. G. D’Agnolo Vallan, R. Turigliatto, John Carpenter, Lindau, Torino 1999, pag. 147. Brano riportato in E. Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo, op. cit., pp. 95-96.  

  4. Fabio Migneco, Il corpo nel cinema di Carpenter, La case books, 2021, p. 64. 

  5. E. Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo, op. cit., p. 99. 

  6. Ivi. 100. 

  7. Ivi, p. 101. 

  8. Ibid. 

  9. M. Fisher, Capitalist Realism: Is There No Alternative?,  Zero Books, UK, 2009, tr. it.: M. Fisher, Realismo capitalista, Produzioni Nero, Roma, 2018. 

  10. E. Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo, op. cit., pp. 101-102. 

  11. Nicholas Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale, Meltemi, Milano, 2021, p. 303. 

  12. E. Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo, op. cit., p. 202 

  13. F. Migneco, Il corpo nel cinema di Carpenter, op. cit., pp. 65-66. 

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Nemico (e) immaginario. Sguardi sull’alterità. Colonialismo e fantascienza https://www.carmillaonline.com/2021/06/29/nemico-e-immaginario-sguardi-sullalterita-colonialismo-e-fantascienza/ Tue, 29 Jun 2021 21:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66734 di Gioacchino Toni

Se nel momento in cui sono venuti a contatto per la prima volta con le popolazioni indigene i colonialisti occidentali hanno visto in esse una “specie” diversa dalla propria, gli antropologi ed i viaggiatori occidentali ottocenteschi le hanno invece guardate dall’alto del loro ritenersi detentori esclusivi di “civiltà”. A ben guardare lo sguardo occidentale euroamericano contemporaneo, anche quando proiettato nel futuro, non sembra essersi pienamente liberato dai vecchi preconcetti.

Legando il ritorno del mostruoso alla cattiva coscienza coloniale e al neocolonialismo, la studiosa Gaia Giuliani ha constatato come in molta fiction frequentemente il nemico si manifesti «come l’Altro [...]]]> di Gioacchino Toni

Se nel momento in cui sono venuti a contatto per la prima volta con le popolazioni indigene i colonialisti occidentali hanno visto in esse una “specie” diversa dalla propria, gli antropologi ed i viaggiatori occidentali ottocenteschi le hanno invece guardate dall’alto del loro ritenersi detentori esclusivi di “civiltà”. A ben guardare lo sguardo occidentale euroamericano contemporaneo, anche quando proiettato nel futuro, non sembra essersi pienamente liberato dai vecchi preconcetti.

Legando il ritorno del mostruoso alla cattiva coscienza coloniale e al neocolonialismo, la studiosa Gaia Giuliani ha constatato come in molta fiction frequentemente il nemico si manifesti «come l’Altro e l’Altra esterni, mostrificati, deumanizzati, che si moltiplicano all’infinito, che non cessano mai di attrarre/sbarcare e opprimere l’“umanità” con la propria invadenza o con la propria incontrollabile “pazzia” e/o sete di vendetta»1.

L’incontro con l’alterità sugli schermi televisivi e cinematografici è ravvisabile soprattutto ricorrendo a contesti particolari come quello fantascientifico. Ed è proprio a quest’ultimo ambito popolato da alieni ed extraterrestri che è dedicato un intero capitolo di Nicholas Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale (Meltemi 2021)2, importante volume nell’ambito della Visual culture steso allo scadere del vecchio millennio e recentemente riproposto in italiano dopo alcune precedenti edizioni.

Nel cinema di fantascienza la questione della differenza si palesa facilmente nel confronto tra l’umano ed il non-umano ed il più delle volte lo scompiglio determinato dall’incontro con l’alterità sembra risolversi con il ripristino della “normalità umana” precedente. Nelle produzioni hollywoodiane quando il finale sembra lasciare aperta qualche porta suggerendo che la normalità faticosamente riconquistata potrebbe non rivelarsi definitiva è più probabile che ciò sia dovuto ad esigenze di produzione (possibili sequel) che non ad una vera e propria messa in discussione delle certezze umane.

Spetta piuttosto alle comunità di fan di serie come X-Files (The X-Files, dal 1993) ideata da Chris Carter e Star Trek (id., dal 1966) ideata da Gene Roddenberry aver saputo creare un ambiente mediatico flessibile ove la questione della differenza è stata articolata e reimmaginata. Tali comunità di fan hanno sfruttato abilmente le lacune e le incoerenze presenti in tali produzioni seriali per elaborare versioni alternative del futuro non di rado tentando di superare i pregiudizi contemporanei.

La descrizione degli esseri alieni è presente in numerose produzioni hollywoodiane che è indubbiamente la rappresentazione dominante pur non essendo l’unica3. Ovviamente il significato attribuibile alla figura aliena che si incontra in un’opera è mutevole; se una delle peculiarità della fantascienza è quella di affrontare le paure e i desideri del presente proiettandoli in un futuro più o meno lontano, è inevitabile che la medesima figura aliena acquisisca nuove significazioni in base al momento storico in cui la si considera oltre che a seconda degli occhi che la guardano e la interpretano. In quest’ultimo caso le variabili si ampliano ad una pluralità di pubblici che si differenziano per genere, formazione culturale, visioni politiche ecc.

È altrettanto indubbio che l’opera possieda pur sempre una sua forza che si esercita soprattutto sulle visioni meno attente in cerca di mero intrattenimento, una forza che tende ad orientare la lettura suggerendo un punto di vista coincidente, sostanzialmente, con quella che si vuole “la visione nordamericana del mondo”. Una visione che il più delle volte è maschile, bianca, eterosessuale e cristiana.

Riferendosi agli Stati Uniti alle prese con la guerra fredda, Mirzoeff nota come tutto sommato siano segnate da un immaginario analogo la fantascienza negli anni Cinquanta e la coeva celebre mostra fotografica di Edward Steichen – The Family of Man (1955) – tenuta presso il Museum of Modern Art di New York in cui la fotografia viene proposta come “specchio dell’essenziale unicità della specie umana nel mondo”.

Se nell’Invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, 1956) di Don Siegel traspare il timore per l’infiltrazione comunista sul territorio statunitense e gli alieni vengono mostrati come esseri in grado di assumere sembianze umane salvo però essere del tutto privi di emozioni – rappresentati come “burocrati senza vita” ha suggerito efficacemente Vivian Sobchak4 –, in maniera del tutto analoga, sostiene Mirzoeff, anche nella mostra di Steichen traspare l’idea l’unicità umana sia in realtà soltanto esteriore. All’immagine di una contadina sovietica intenta a raccogliere il grano con le mani la mostra contrappone una foto aerea ritraente un’ordinata batteria di moderne mietitrebbia statunitensi al lavoro nei campi. In entrambe le contrapposizioni l’alterità sembrerebbe essere messa in scena al fine di confermare la superiorità nordamericana, tanto che, a testimonianza di tale convincimento/finalità, sono numerose le fotografie della mostra rimarcanti agli occhi occidentali degli anni Cinquanta quanto l’Africa sia restata primitiva se confrontata all’Occidente che ha saputo civilizzarsi.

La fantascienza nordamericana, sostiene Mirzoeff, proiettandosi in un futuro immaginario, ha saputo creare un ambiente in cui le contraddizioni possono essere espresse ed affrontate pur mantenendo le certezze granitiche della superiorità statunitense nell’epoca della divisione in blocchi. Restando agli anni Cinquanta, la superiorità tecnologica degli esseri alieni palesata in film come La guerra dei mondi (The War of the Worlds, 1953) di Byron Haskin o Gli invasori spaziali (Invaders from Mars, 1953) di William Cameron Menzies ha contribuito a rafforzare la convinzione dell’impellente necessità di sviluppare armi sempre più sofisticate per fronteggiare le minacce al territorio statunitense che possono giungere dall’esterno.

Allo stesso modo gli scenari del futuro mostrati dai film si rivelano utili all’avanzata della società dei consumi in quanto contribuiscono a rendere desiderabili anche beni non ancora disponibili sul mercato. A tale proiettarsi dei desideri nel futuro il mercato ha risposto incrementando la frequenza degli aggiornamenti delle merci disponibili e pianificandone di nuove.

Di conseguenza, il pubblico si è abituato a immaginare il futuro in termini molto precisi e a confrontare le diverse versioni di quel futuro. È stata questa strana fusione di desiderio consumistico e retorica politica che ha dato al genere fantascientifico la sua particolare risonanza, in una prima versione di quella che Allucquère Roseanne Stone ha chiamato “guerra di tecnologia e desiderio”5.

Col finire della guerra fredda la fantascienza sembra interessarsi più agli effetti spettacolari che non a suggerire minacce agli esseri umani (coincidenti con gli statunitensi), si pensi ad esempio a Guerre stellari (Star Wars, 1977) di George Lucas, mentre gli stessi extraterrestri si fanno decisamente più amichevoli, come avviene nelle produzioni di Steven Spielberg Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind, 1977) ed E.T. l’extra-terrestre (E.T. the Extra-Terrestrial, 1982).

Parallelamente a questo filone di fantascienza spettacolare o in cui l’essere alieno non si rivela più una minaccia per l’umanità, compaiono opere per certi versi in controtendenza, come Alien (id, 1979) e Blade Runner (id, 1982) entrambi di Ridley Scott, contraddistinte anche da un’esplicita critica alle corporation che per certi versi si sostituiscono agli apparati statuali nel loro determinare la vita degli esseri umani; si tratta di film destinati ad aprire una corrente distopica prospettante un’umanità in crisi identitaria costretta a fare i conti con scenari futuri inquietanti ed inediti.

Se nella narrativa degli Anni Cinquanta gli alieni sono una minaccia, negli Anni Settanta, il decennio in cui la generazione dei baby boomer credette di poter cambiare il mondo, gli alieni diventano pacifici perché gli esseri umani sono finalmente disponibili a un contatto, più o meno la stessa metamorfosi subita dai pellerossa […]. Il desiderio che l’altro si avvicini, però, comporta anche l’avvicinamento del desiderio provato dall’altro. Questo desiderio che per noi resta, per ovvie ragioni culturali, significativamente indecifrabile, sul lungo termine innesca il conflitto, come i meccanismi mimetici ci insegnano. Così, mentre il percorso narrativo principale degli Anni Settanta, costruito sugli archetipi dell’inconscio collettivo portati in superficie da quell’ipotesi psicosociale, si stava dirigendo verso il suo coronamento con la cristologia aliena di E.T. Del 1982 […], su questo percorso si innesta [Alien] di Ridley Scott con il suo xenomorfo, quasi ad aprire una nuova porta […] dalla quale scaturirà un nuovo potente immaginario, con caratteristiche del tutto inedite6.

Nell’analizzare le opere di fantascienza in cui l’essere umano viene a contatto con l’alterità aliena, Mirzoeff nota come le due principali tipologie di alieno extraterrestre – il mostro terrificante e l’inquietante copia umana – derivino dalle classificazioni colonialiste europee. Tra i film che palesano punti di contatto tra l’epopea colonialista e la fantascienza, lo studioso cita Robinson Crusoe su Marte (Robinson Crusoe on Mars, 1964) di Byron Haskin, in cui un essere umano restato bloccato su Marte si trova ad avere come compagno di avventure un alieno in fuga da suoi simili chiamato emblematicamente Venerdì dal novello civilizzatore.

Rimandi tra colonialismo e fantascienza sono individuabili secondo Mirzoeff anche all’interno della produzione di Ridley Scott: elementi di contiguità nell’incontro dell’umano con l’alterità sono segnalati dallo studioso nei già citati Blade Runner, Alien e nell’opera proiettata nel lontano passato 1492: la conquista del paradiso (1492: Conquest of Paradise, 1992)7.

Sebbene quest’ultima pellicola sia stata fatta uscire nelle sale in concomitanza con la ricorrenza della scoperta di Colombo l’atteso successo al botteghino non è arrivato; il cinquecentenario non ha portato bene alla figura dell’esploratore europeo alle prese con le critiche delle popolazione native e, più in generale, con una rilettura critica della sua epopea. «Mentre il pubblico si sarebbe dovuto identificare con gli “umani” contro gli “alieni”, nel contesto coloniale la rettitudine morale ora sembrava appartenere a “loro” – e cioè, agli indigeni che avevano sofferto la violenza della conquista coloniale»8.

In quel lontano 1492, nel momento stesso in cui vengono a contatto con gli abitanti del “nuovo mondo”, gli europei non tardarono a categorizzare le popolazioni indigene come esseri fondamentalmente diversi in linea con un immaginario già predisposto a possibili presenze mostruose. La visione di uno senario naturalistico sino ad allora sconosciuto ha spinto con maggior forza gli esploratori europei a prestar fede ai racconti sui mostri e a raccontare, a loro volta, di aver incontrato individui di specie diverse durante i viaggi. Analogamente, sostiene Mirzoeff, «il film di fantascienza stabilisce e normalizza accuratamente la propria ambientazione prima di presentare il suo alieno o il suo mostro, cosicché esso sembri appropriato al contesto. Inoltre, persuade il pubblico ad arrendersi all’illusione, non perché i mostri siano reali, ma perché essi sono uguali sia ad altri mostri che ad altre immagini filmate»9.

I resoconti fantasiosi dei viaggiatori e dei missionari europei hanno certamente contribuito rafforzare la convinzione di una incolmabile discrepanza tra “civiltà” e “primitivismo” e tra “cristianità” e “paganesimo”. «Dal punto di vista occidentale, per essere completamente evoluti, gli umani dovevano essere civilizzati, il che vuol dire che dovevano essere cristiani. Nel contesto fantascientifico, la questione dell’evoluzione avanzata è altrettanto dominante. L’alien, per esempio, è fisicamente quasi indistruttibile, mentre i replicanti di Blade Runner possono sembrare più “umani” degli umani biologici.»10.

Lo studio di Mirzoeff si sofferma anche sul film Congo (id. 1995) di Frank Marshall, derivato dall’omonimo romanzo del 1980 di Michael Crichton, notando come questo, sin dalle prime sequenze, metta in scena stereotipi occidentali sul continente africano ormai sedimentati nel tempo.

Il contrasto tra la spedizione occidentale hi-tech, con i suoi occhi protesici, e il primitivo, ma pericoloso Congo, così minaccioso per gli occhi biologici, ma fonte vitale di materie prime, difficilmente poteva essere rappresentato in modo più sinistro. Inoltre, Congo lega direttamente il progetto coloniale del diciannovesimo secolo alla fantascienza contemporanea, con la sua accurata evocazione di Houston come sede della compagnia, ricordando agli spettatori la stazione di controllo delle missioni della NASA, nella stessa città. Film come Congo minano alla radice il presupposto rassicurante secondo cui non ci sarebbe più la convinzione che l’Occidente è più evoluto dei suoi Altri11.


  1. Gaia Giuliani, Zombie, alieni e mutanti. Le paure dall’11 settembre a oggi, Le Monnier, Firenze, 2016, p. 10. Su tale volume: Luca Cangianti, I mostri dell’accumulazione originaria, Carmilla, 14 Marzo 2016; Gioacchino Toni, Nemico (e) immaginario. Il ritorno del mostruoso tra cattiva coscienza coloniale e neocolonialismo, Carmilla, 20 settembre 2016. 

  2. Nicholas Mirzoeff, “Capitolo sesto. Il primo contatto: da Independence Day a 1492 e Millennium” in Nicholas Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale (a cura di Anna Camaiti Hostert, prefazione di Giancarlo Grossi), Meltemi, Milano, 2021. 

  3. Roberto Giacomelli, Nemici dell’America, nemici dell’umanità. Il “nemico” nel cinema fantascientifico americano, Sovera Edizioni, Roma, 2014. Sul volume: Gioacchino Toni, Nemico (e) immaginario. Il nemico allo schermo: nemici dell’America, nemici dell’umanità, in Carmilla 9 agosto 2016; Gioacchino Toni, Nemico (e) immaginario. L’alieno e l’umano, in Carmilla 16 agosto 2016. 

  4. Vivian Sobchak, Screening Space: The American Science Fiction Film, Rutgers University Press, New York, Brunswick. 

  5. Nicholas Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale, op cit., p. 301. Allucquère Roseanne Stone, Desiderio e tecnologia: il problema dell’identità nell’era di Internet, Feltrinelli, Milano, 1997. 

  6. Boris Battaglia, Alien. Nascita di un nuovo immaginario, Armillaria, 2019, pp. 83-84. 

  7. Curiosamente, in quest’ultima pellicola, oltre a Sigourney Weaver nei panni di Isabella di Castiglia, recita anche quel Gerard Depardieu che il pubblico statunitense ricorda per l’interpretazione, poco tempo prima, di un immigrato squattrinato in cerca del permesso di soggiorno negli Stati Uniti – insomma un vero e proprio “Resident Alien” – nel film di successo Green Card – Matrimonio di convenienza (Green Card, 1990) di Peter Weir. 

  8. Nicholas Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale, op. cit., pp. 310-311. 

  9. Ivi, p. 312. 

  10. Ivi, p. 313. 

  11. Ivi, p. 314. 

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Nemico (e) immaginario. Paure identitarie fuori e dentro gli schermi dei primi anni Ottanta https://www.carmillaonline.com/2021/06/22/nemico-e-immaginario-paure-identitarie-fuori-e-dentro-gli-schermi-dei-primi-anni-ottanta/ Tue, 22 Jun 2021 20:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66829 di Gioacchino Toni

Consapevoli che lo sguardo sull’alterità è inevitabilmente anche uno sguardo su se stessi, sulla propria identità, alcune opere cinematografiche, uscite all’aprirsi degli anni Ottanta – Alien (id, 1979) e Blade Runner (id, 1982), entrambe di Ridley Scott, La cosa (The Thing, 1982) di John Carpenter e per certi versi Videodrome (id. 1983) di David Cronenberg, insieme a qualche suo altro film gravitante attorno alla “nuova carne” –, hanno affrontato in maniera del tutto nuova le montanti paure identitarie del periodo costringendole al confronto con alterità sempre più spaventose.

In un [...]]]> di Gioacchino Toni

Consapevoli che lo sguardo sull’alterità è inevitabilmente anche uno sguardo su se stessi, sulla propria identità, alcune opere cinematografiche, uscite all’aprirsi degli anni Ottanta – Alien (id, 1979) e Blade Runner (id, 1982), entrambe di Ridley Scott, La cosa (The Thing, 1982) di John Carpenter e per certi versi Videodrome (id. 1983) di David Cronenberg, insieme a qualche suo altro film gravitante attorno alla “nuova carne” –, hanno affrontato in maniera del tutto nuova le montanti paure identitarie del periodo costringendole al confronto con alterità sempre più spaventose.

In un suo recente libro Boris Battaglia, Alien. Nascita di un nuovo immaginario (Armillaria, 2019), sottolinea sin dal sottotitolo come a suo parere sia proprio la pellicola del 1979 di Ridley Scott a dare/portare alla luce un nuovo immaginario: ed in effetti quest’opera sembra davvero inaugurare una nuova stagione e non solo dal punto di vista cinematografico.

Battaglia ricostruisce dettagliatamente la genesi di Alien a partire dalle vicende dello sceneggiatore Dan O’Bannon che, dopo aver inutilmente lavorato con Alejandro Jodorowsky alla sceneggiatura per un film tratto dal romanzo Dune (1965) di Frank Herbert, si cimenta insieme a Ronald Shusett nella scrittura di una storia incentrata su di un demone dello spazio poi presentata, tramite Walter Hill, ad Alan Ladd della 20th Century Fox. Quella sceneggiatura viene poi ripresa e modificata da Hill assecondando l’idea di Ladd di sostituire il protagonista maschile previsto da O’Bannon con una donna sull’onda del recente successo della principessa Leila Organa di Guerre stellari (Star Wars, 1977) di George Lucas e, forse, con l’intento di richiamare l’immaginario ruotante attorno alla protagonista del film Barbarella (1968) di Roger Vadim. Pur andando in porto l’idea di affidare il ruolo di protagonista a un’attrice, circa le caratteristiche del personaggio da lei interpretato le cose vanno diversamente rispetto a quanto auspicato dalla 20th Century Fox.

Una volta scelto per la regia l’inglese Ridley Scott, fresco del debutto dietro alla macchina da presa con I duellanti (The Duellists, 1977), si è trattato di pensare alle sembianze da dare all’entità aliena affinandosi alla fantasia di Hans Ruedi Giger, autore dell’inquietante raccolta Necronomicon (1977) pubblicata in quel periodo. Abbandonate le forme tutto sommato umanoidi degli alieni della fantascienza tradizionale, il mostro proposto dallo svizzero – poi realizzato da Carlo Rambaldi – si presenta come un enorme insetto con la coda e l’esoscheletro dall’evidente simbologia sessuale in tutte le forme che assume (facehugger, chestbuster e adulto) che, sostiene Battaglia, parrebbe rimandare ai peggiori aspetti dell’uomo.

lo xenomorfo di Giger è un costrutto immaginativo primordiale, che irrompe con inaudita e reale violenza nel nostro immaginario, e attraverso il quale ci è possibile indagare ciò che più ci rende umani: la paura di noi stessi. Non si scappa: lo xenomorfo […] siamo noi con forma diversa. Ma al contempo lo xenomorfo è altro da noi1.

Secondo Battaglia tra le caratteristiche che rendono lo xenomorfo proposto da Giger davvero altro rispetto all’umano vi è l’assenza di occhi che lo priva della possibilità di contatto. A rendere attuale Alien non sono gli effetti speciali, che a distanza di tempo mostrano impietosamente tutta la loro obsolescenza, quanto piuttosto le modalità con cui «viene mostrato quello che c’è da mostrare, ovvero la nostra paura del contatto»2. Ed in effetti, come negli altri film citati precedentemente, l’opera di Scott è imperniata sulla paura del contatto.

Se la genesi di Alien può aver tratto suggestioni dai racconti di Robert Anson Heinlein e da film come Il mostro dell’astronave (It! The Terror from Beyond Space, 1958) di Edward L. Cahn, non di meno, secondo Battaglia, deve essere messa in relazione con l’emergere di diversi indicatori di cambiamento che caratterizzano il momento storico-culturale nordamericano. Ed indicatori in tal senso, sostiene l’autore, possono persino essere le mutate modalità con cui sul finire degli anni Settanta si guarda al surf ed all’autostop, pratiche fino ad allora associate ad immaginari libertari.

Proprio in chiusura di decennio, nota Battaglia, il surf smette di rimandare all’immaginario hippie per trasformarsi in metafora bellica. Non a caso il Vietnam aleggia in Un mercoledì da Leoni (Big Wednesday, 1978) di John Milius e, a maggior ragione, è al centro di Apocalypse Now (id., 1979) di Francis Ford Coppola, ove l’immaginario statunitense ricorre proprio alla metafora del surf per autoconvincersi della propria superiorità nei confronti del nemico: Charlie don’t surf.

Lo spettatore, come il surfista e come l’attore, trova la propria soddisfazione nell’inquietante presenza del peggio che potrà capitare. […] Come il surfista, anche lo spettatore, scivolando su un elemento tutto sommato indifferente alla sua vita (per il surfista è l’onda, per lo spettatore è la pellicola), desidera che quel momento non termini mai, ma a differenza del surfista lo spettatore può fare pulizia di ogni speranza […] godendosi lo spettacolo dell’imprevedibile, dell’incognito e della tragedia3.

È lo stesso equipaggio dell’astronave Nostromo ad assomigliare, continua Battaglia, ad una banda di surfisti che, come si conviene, «ha un unico interesse: la soddisfazione del proprio desiderio. Non sono animati, come invece accadeva per i protagonisti della fantascienza classica, dalla volontà di conoscenza, e nemmeno dal desiderio di avventura. L’unico motivo che spinge l’equipaggio della Nostromo, Ripley compresa, è il compenso per il lavoro svolto»4. Evidentemente questi novelli surfisti della Nostromo hanno sostituito il soddisfacimento di un desiderio ludico-gratuito con uno di ordine prescrittivo-lavorativo. Come a dire “È uno sporco lavoro quello che dobbiamo portare a termine… ma è quello per cui siamo pagati e di metterlo in discussione non se ne parla”. Insomma, benvenuti negli anni Ottanta.

Lo stesso autostop si è rapidamente trasformato nel corso degli anni Ottanta da esperienza conoscitiva e di condivisione esaltata dalla beat generation a potenziale, se non scontato, momento di pericolo di cui occorre aver paura.

Il momento in cui è cominciato questo radicale cambiamento di paradigma culturale ce lo ha mostrato Ridley Scott quando, contravvenendo al protocollo e alla decisione del tenente Ripley, […] Ash fa salire a bordo della Nostromo un passeggero alieno. […] è in questo preciso momento, attraverso quello che possiamo definire il contatto con l’autostoppista xenomorfo, che la nostra paura comincia a diffondersi e il paradigma a cambiare5.

Tornando alla protagonista femminile di Alien, Battaglia sottolinea come la speranza della produzione di avere come protagonista una sorta di novella Barbarella venga sostanzialmente rifiutata da Scott a cui non interessa affatto riproporre un’eroina che, per quanto autodeterminata, resti sostanzialmente prigioniera dello sguardo maschile. Al regista di Alien interessa piuttosto creare un personaggio in linea con una certa fluidità del gender – cosa che «non comporta l’indistinzione o la neutralità, in quanto ogni esperienza, avvenendo attraverso il corpo, è sessuata»6 – utile a generare un’immedesimazione nel tenente Ripley che vada al di là della mera biologia. Ed infatti, sottolinea Battaglia, Sigourney Weaver usa – «surfandoci sopra» – la fluidità del genere, sia sessuale che narrativa, per costruire sul personaggio di Ripley un’identità del tutto originale.

Non è infrequente imbattersi in film horror in cui la protagonista femminile, restata l’ultima sopravvissuta all’interno di un gruppo annientato dalla ferocia di qualche essere mostruoso, venga salvata da un intervento esterno o che, in alternativa, riesca ad annientare il mostro in maniera del tutto fortuita. Anche nell’opera di Scott si ha in Ripley l’unica a sopravvivere allo xenomorfo, ma in questo caso nessuno deve venire a salvarla, la protagonista è consapevole di doversi arrangiare e si mostra pronta a prendere il controllo della situazione ogni qual volta è necessario giungendo ad eliminare lo xenomorfo non certo per fortuna ma grazie a una tattica ben precisa.

A differenza di chi ha visto in Ripley un surrogato maschile, una trovata della produzione affinché vi si potesse identificare tanto il pubblico femminile quanto quello maschile, Battaglia sottolinea invece come l’intero equipaggio della Nostromo manchi sostanzialmente di caratterizzazione sessuale, l’unica forma di sessualità espressa è quella dell’essere xenomorfo. Certo, Ripley, per quasi tutto il film, al pari del resto dell’equipaggio, si presenta come personaggio intersessuale ma

se Scott cancella dalla narrazione il tipo di esperienza sessuata che deriva dalle basi culturali di una società, non può cancellare certo quella fisica. Infatti mantiene per tutti i membri dell’equipaggio la differenza di genere (che è sessuata anche solo per le differenze fisiche). Tutti e sette hanno un’identità di genere genetica, ma su di essa non pesano ancora – quasi fossero tutti novelle creature nell’Eden (che poi si rivela un inferno) – le sovrastrutture culturali che dettano le regole dei comportamenti sessuali standardizzati dalla cultura che li genera. Infatti, sarà solo attraverso la sessualità dell’alieno che, da una situazione asessuata, si avvia una presa di posizione sessuale piena. Nella sequenza finale, quella in cui uccide lo xenomorfo, il corpo di Ripley, spogliato, compie una scelta. Una scelta divenuta obbligata nel momento in cui l’alieno, attraverso il parto biologico, ha introdotto la sessualità in questa enclave, rompendone ogni equilibrio. Una scelta di campo e di sessualità. Ripley si salverà perché sarà l’unica a farla.7.

Una delle scene centrali del film è sicuramente il momento in cui il mostro esce dalla pancia di Kane; ad inquietare il pubblico, più che la violenza della sequenza, secondo Battaglia è la presa d’atto della necessità di mettersi in gioco per godersi il film ed accettare che a partire dallo stupro facciale messo in atto dal facehugger nei confronti di Kane il corpo maschile di quest’ultimo assuma un inaspettato ruolo riproduttivo.

Cadono così, anche nella fiction, certezze identitarie: tutto diviene fluido e ci si trova a dover scegliere se «surfare» su tale fluidità o chiudersi a riccio in un monolite identitario tramandato. Film come Alien, Blade Runner, La cosa e Videodrome non hanno evidentemente alcuna intenzione rassicurante, nascono sulle inquietudini per dispensare dubbi ma è però proprio in questi ultimi che si annida qualche pallida speranza mentre, al contrario, nel regno delle certezze più facilmente dimora la disperazione.

Lee E. Heller8 ha notato come negli anni Ottanta e Novanta le relazioni eterosessuali siano state insistentemente descritte dai media come caratterizzate da conflitti e differenze insormontabili tra i generi, quasi che uomini e donne non possano che considerarsi reciprocamente specie aliene. Scrive a tal proposito Nicholas Mirzoeff:

Una delle proteste principali in questa guerra dei generi è, per usare il popolare titolo di un’opera, Gli uomini che non sanno essere intimi. Sotto questo aspetto, tutti gli uomini sono replicanti. Il personaggio di Harrison Ford, Rick Deckard, l’eroe, è un “Blade Runner”, il cui compito è “mettere a riposo” i replicanti, uccidendoli. Ma quando Deckard alla fine fugge con la replicante Rachel, un avanzato modello femminile, ciò sembra perfettamente appropriato. Deckard può ora avere la donna perfetta delle fantasie maschili, che non farà alcuna irritante richiesta di intimità emotiva. D’altro canto, la versione del 1992 del montaggio del regista accenna al fatto che Deckard stesso potrebbe essere un replicante, rendendo Rachel e Deckard la perfetta coppia androide. Blade Runner ha fuso le tematiche di razza e genere, messe in scena da La cosa, nella singola persona del replicante. La paura inespressa è che tutti i corpi umani siano già cambiati così tanto, che sia comunque difficile capire la differenza tra esseri umani e macchine. Tant’è vero che ci vogliono cento domande, prima che persino un veterano come Deckard possa capire che Rachel è un replicante9.

Mirzoeff sottolinea che film come Alien e Blade Runner – ma qualcosa di analogo accade anche in Videodrome – presentano un futuro in cui le conquiste tecnologiche

hanno permesso di emergere a una cultura aziendale globale, motivata esclusivamente dal profitto. In Alien, la Compagnia preferirebbe la sopravvivenza delle specie aliene maligne, piuttosto che del suo equipaggio, mentre Blade Runner presenta un mondo in cui tutte le parti dei corpi umani sono in vendita senza difficoltà. Entrambi invitano il pubblico a considerare le corporation responsabili – l’una di aver creato i replicanti, l’altra di aver salvato l’alieno più inumano di qualunque altra specie aliena o androide10.

Nella denuncia alle corporation è possibile leggere un’accusa a quel capitalismo che, come scrive Rosi Braidotti, ormai da tempo ha palesato il suo essere «un sistema tendente all’auto-implosione che non si ferma davanti a nulla pur di realizzare il suo obiettivo: il profitto. Questo sistema intrinsecamente auto-distruttivo nutre, per poi distruggere, le condizioni stesse della sua sopravvivenza: è onnivoro e in ultima analisi ciò che mangia è il futuro in sé»11

Se in termini di rappresentazione dell’essere alieno questa generazione di opere dei primi anni Ottanta, sostiene Mirzoeff, oscilla tra rinnovamento e recupero di alcuni tratti dell’immaginario degli anni Cinquanta, resta il fatto che prospetta una nuova e drammatica visualizzazione distopica del futuro. Blade Runner, ad esempio, offre quella che Vivian Sobchak12 ha efficacemente definito un’immagine “trash” di quei radiosi scenari futuristici tipici del genere, prospettando una Los Angeles per certi versi obsolescente e non troppo lontana nel tempo, una metropoli caotica, cosmopolita, immersa nel buio e battuta da una pioggia incessante e marcata da una rigida suddivisione di classe verticale in cui i poveri vivono nelle strade ed i ricchi nell’aria.

Analogamente, continua Mirzoeff, Alien rende “trash” l’astronave, vero e proprio emblema del progresso tecnologico, presentandola umida, cupa e «costruita in modo tale che il suo spazio sia allo stesso tempo femminile, nella sua scura umidità, e orientale, attraverso un labirinto infinito di depositi, condotti di aerazione, e passaggi»13. Anziché l’ansiogena geopolitica della guerra fredda il film sembra mettere in scena quelle inquietudini di genere, classe e identità che attraversano gli Stati Uniti a cavallo tra anni Settanta e Ottanta.

Tanto Blade Runner quanto Alien, come già aveva fatto l’Invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, 1956) di Don Siegel, individuano il mostruoso nella replica degli esseri umani, quasi a suggerire che la mostruosità aleggia anche in questi ultimi. In Alien, ad esempio, si scopre che l’ufficiale scientifico Ash è in realtà un androide programmato per far sopravvivere l’essere alieno, una creatura che, abbandonate le movenze rallentate dei mostri degli anni Cinquanta, si muove velocemente ed è abile nel nascondersi.

La seconda ondata di femminismo in Occidente aveva ottenuto diritti relativi alla riproduzione, il diritto di scelta della donna, e spingeva per una legge sulle pari opportunità negli Stati Uniti. Questo contesto rende l’ossessione della riproduzione parassita dell’alien più di un semplice artificio testuale. L’alieno impianta un feto in un maschio umano da un bozzolo simile a una pianta, ricordando l’Invasione degli ultracorpi. Il neonato alieno in seguito esplode fuori dallo stomaco della sua vittima, portandola alla morte – come a mettere in guardia dalle conseguenze della distruzione dei “naturali” processi riproduttivi14.

Blade Runner mette in scena l’ossessione per l’individuazione e l’eliminazione di replicanti ribelli indistinguibili dagli esseri umani se non per la mancanza di emozioni; si tratta di una distinzione ricorrente nell’ambito della fantascienza tanto che la si trova nel film Invasione degli ultracorpi del 1956. Nel film di Scott si fatica però a non provare un minimo di simpatia per i replicanti, quando non veri e propri momenti di identificazione, condannati come sono a una vita breve e programmata da una cinica corporation.

Mirzoeff coglie anche l’importanza rivestita dalla fotografia nella trama di Blade Runner: essa si rivela utile nel rintracciare i replicanti ed è proprio a fotografie contraffatte che ricorre la corporation nel momento in cui impianta in essi una memoria. Riflettendo sullo status della fotografia come indice di realtà il film sottolinea la manipolabilità dell’immagine fotografica nell’era elettronica e l’incapacità dei sensi umani di discernere tra reale e rappresentazione, dunque la fine della credenza acritica in ciò che si vede.

Su riflessioni di tal tipo insiste Videodrome di Cronenberg nel suo porre inquietanti interrogativi circa la natura riproduttiva delle immagini e circa il rapporto di fascinazione/repulsione che l’occhio umano prova al cospetto dei propri sogni/incubi reificati e riprodotti in un loop senza fine dagli schermi. È un mondo condannato a vivere in uno stato di perenne allucinazione quello messo in scena dal canadese, abitato da esseri umani programmabili. Davvero in anticipo di alcuni decenni rispetto alla serie televisiva Black Mirror (Id., dal 2011 – in produzione, Channel 4; Netflix), riflettendo sul consumo di immagini, Videodrome fa provare direttamente allo spettatore gli splendori e le miserie insite nel desiderio di consumo tecnologico delle immagini. [Al cinema di Cronenberg è dedicata la serie di scritti Processi di ibridazione su Carmilla].

Un interessante confronto tre La cosa da un altro mondo (The Thing from Another World, 1951) di Christian Nyby ed Howard Hawks e La cosa (The Thing, 1982) di John Carpenter è proposto da Mirzoeff che segnala come nelle due versioni liberamente derivate dal racconto La cosa da un altro mondo (Who Goes There?, 1938) di John W. Campbell sia ravvisabile il passaggio dal contesto della guerra fredda all’età “postmoderna” e con esso un vero e proprio mutamento di immaginario.

Nella versione degli anni Cinquanta, ambientata in una base aerea statunitense in Alaska, aleggia il timore di un possibile attacco sovietico dal Polo ed è sospettando un coinvolgimento dei russi che, saputo di un disastro aereo vicino al polo, il capitano Pat Hendry decide di indagare sull’accaduto, salvo poi trovarsi poi di fronte ad un essere alieno simile ad una pianta che si nutre di sangue. Nonostante la ritrosia dello scienziato Carrington che, al pari di tanti altri suoi colleghi che si incontrano nella fantascienza, non esita a sacrificare vite umane per poter condurre le sue ricerche, l’equipaggio statunitense decide di eliminare l’entità aliena. Di fronte all’invulnerabilità di quest’ultima alle pallottole spetta a Nikki Nicholson, l’unica donna del gruppo, proporre una soluzione alternativa: se l’alieno è una pianta, allora non resta che provare a “cuocerlo”.

Questa opposizione tra logica pura (maschile) e intuizione (femminile) è un elemento fondamentale nel dibattito della fantascienza sull’essenza dell’umanità. Anche se la science fiction si risolve quasi sempre con la forza, sono spesso gli attributi femminili di emozione e intuizione che segnano la differenza tra uomini e alieni, e permettono la vittoria umana15.

Se i protagonisti dei film degli anni Cinquanta si mostrano certi della netta distinzione tra se stessi e gli alieni, nel remake di Carpenter gli umani sono alla ricerca di conferme circa il loro essere restati tali. Se la minaccia nella prima pellicola è identificabile con un nemico esterno (i sovietici), agli albori di un mondo che, perdendo le sue certezze, sembra avviarsi verso trasformazioni che condurranno alla globalizzazione e alla digitalizzazione, i timori derivano piuttosto dalla difficoltà di definire “cosa” stia divenendo l’umano. È forse questa l’angoscia a cui allude la difficoltà e l’urgenza dei protagonisti di distinguersi dagli alieni.

Nel ripetere a se stesso “I know I’m human” McReady, il protagonista del remake di Carpenter, pur alludendo al timore di non essere effettivamente biologicamente diverso dagli alieni, tradisce anche un più o meno consapevole timore della “mescolanza razziale” e soprattutto, secondo Mirzoeff, uno strenuo tentativo di difesa del proprio orientamento (etero)sessuale. A differenza del film degli anni Cinquanta, nel remake di Carpenter tutti i personaggi umani sono maschi.

Nel suo mondo omosociale, l’alieno porta alla luce l’omofobia delle istituzioni esclusivamente maschili. Allo stesso tempo, il test del sangue per l’umanità di McReady evoca chiaramente le paure della mescolanza razziale. Anche se il mostro è sconfitto, McReady è lasciato ad attendere la morte per ipotermia alla fine del film, dopo la distruzione della base con il fuoco. Il futuro non è più un posto migliore, ma semplicemente un altro luogo in cui mettere in scena le nostre ansie culturali16.

Nel bene e nel male, i primi anni Ottanta hanno davvero rappresentato un importante spartiacque politico, culturale ed estetico. È in quel pugno di anni che molto – tutto sarebbe forse troppo – cambia. Film come Alien, Blade Runner, La cosa e Videodrome hanno sapientemente fornito immagine ad un nuovo immaginario contribuendo allo stesso tempo a crearlo. Non è stato che l’inizio… la storia continua (dentro e fuori gli schermi).


Nemico (e) immaginario serie completa


  1. Boris Battaglia, Alien. Nascita di un nuovo immaginario, Armillaria, 2019, p. 86. 

  2. Ivi, 88. 

  3. Ivi, p. 39. 

  4. Ivi, p. 120. 

  5. Ivi, pp. 60-61. 

  6. Ivi, p. 97. 

  7. Ivi, pp. 103-104. 

  8. Lee E. Heller, The Persistence of Difference. Postfeminism, Popular Discourse, and Heterosexuality in “Star Trek: The Next Generation”, in Science Fiction Studies, n. 24, 1997. 

  9. Nicholas Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale (a cura di Anna Camaiti Hostert, prefazione di Giancarlo Grossi), Meltemi, Milano, 2021, pp. 307-308. 

  10. Ivi, p. 306. 

  11. Rosi Braidotti, Materialismo radicale. Itinerari etici per cyborg e cattive ragazze, Meltemi, Milano, 2019, p. 147. Su tale libro si veda: Gioacchino Toni, Nemico (e) immaginario. Linee di fuga femministe dalla panumanità della vulnerabilità, Carmilla, 15 Novembre 2019. 

  12. Vivian Sobchak, Screening Space: The American Science Fiction Film, Rutgers University Press, New York, Brunswick, 1978. 

  13. Nicholas Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale, op cit., p. 307. 

  14. Ivi, pp. 307-308. 

  15. Ivi, p. 303. 

  16. Ivi, pp. 304-305. 

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Nemico (e) immaginario. Gli algoritmi della politica https://www.carmillaonline.com/2021/01/10/nemico-e-immaginario-gli-algoritmi-della-politica/ Sun, 10 Jan 2021 22:00:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64057 di Gioacchino Toni

Il recente volume di Salvo Vaccaro, Gli algoritmi della politica (elèuthera 2020), si apre con le parole con cui Gilles Deleuze, un decennio prima del cambio di millennio, sembrava cogliere la portata di quella trasformazione digitale, all’epoca agli albori, che il sistema economico saprà mirabilmente piegare ai propri interessi indirizzandola verso un surplus di asservimento volontario, impedendole così di contribuire a processi di soggettivazione creativi capaci di sottrarsi al controllo.

«Le società disciplinari hanno due poli: la firma che indica l’individuo, e il numero di matricola che indica la sua posizione in una massa […] il potere [...]]]> di Gioacchino Toni

Il recente volume di Salvo Vaccaro, Gli algoritmi della politica (elèuthera 2020), si apre con le parole con cui Gilles Deleuze, un decennio prima del cambio di millennio, sembrava cogliere la portata di quella trasformazione digitale, all’epoca agli albori, che il sistema economico saprà mirabilmente piegare ai propri interessi indirizzandola verso un surplus di asservimento volontario, impedendole così di contribuire a processi di soggettivazione creativi capaci di sottrarsi al controllo.

«Le società disciplinari hanno due poli: la firma che indica l’individuo, e il numero di matricola che indica la sua posizione in una massa […] il potere è allo stesso tempo massificante e individualizzante, cioè costituisce come corpo coloro sui quali si esercita, e modella l’individualità di ciascun membro del corpo […]. Nelle società di controllo, viceversa, la cosa essenziale non è più né una firma né un numero, ma una cifra […] Il linguaggio numerico del controllo è fatto di cifre che contrassegnano l’accesso all’informazione o il diniego. Non si ha più a che fare con la coppia massa-individuo. Gli individui sono diventati dei “dividuali” e le masse dei campioni, dati, mercati o “banche”. Forse è il denaro che esprime al meglio la distinzione tra le due società, poiché la disciplina si è sempre rapportata a monete stampate che racchiudevano l’oro come valore di riferimento, mentre il controllo rinvia a scambi fluttuanti, a modulazioni che come cifra fanno intervenire una percentuale delle differenti monete» Gilles Deleuze, Poscritto sulle società di controllo)

Apertosi attorno ad alcune riflessioni di Gilles Deleuze, Gli algoritmi della politica si chiude invece sulla spiegazione proposta, sin dalla metà degli anni Settanta, da Michel Foucault a proposito di come la vita e il corpo siano divenuti un oggetto del potere e come quest’ultimo sia alla costante ricerca di un meccanismo in grado di controllare l’individuo e al contempo favorire il processo economico. «Come sorvegliare qualcuno, come intensificare la sua prestazione, moltiplicare le sue capacità, come collocarlo nel posto in cui sarà più utile».

È proprio a partire da tali ragionamenti di Foucault che Vaccaro, nell’epilogo finale, sottolinea come il «doppio corpo», un tempo prerogativa dei monarchi assoluti (quello del sovrano-emblema regale dell’autorità politica e quello della persona), si sia esteso «a chiunque si connetta con la sfera del virtuale, acquisendo posture, stili di condotta, gestione dei tempi e degli spazi di esistenza, modi di percezione, addirittura identità digitali, diverse e ben distinte da quella corporea vera e propria».

Tra l’incipit e l’epilogo del volume, tra i ragionamenti deleuziani che spiegano l’avvento delle società di controllo e quelli foucaultiani relativi ai meccanismi con cui il potere sorveglia e rende profittevoli i soggetti, Vaccaro delinea il ruolo assunto dalle attuali tecnologie mediatiche nell’ambito dell’esercizio del potere. Un potere però che «non è solo repressivo e ostativo, anzi tutt’altro, non fa che ampliare le capacità di conoscenza e di sapere, le forme e i modi del nostro comportamento online e offline, sino a divenire quasi tutt’uno: onlife». In una sorta di cortocircuito in cui la «vita permanentemente connessa, appunto onlife, alimenta e moltiplica a sua volta le opportunità di potere e controllo, grazie al servizio fornito da ciascuno di noi nell’uso del digitale in ogni suo apparato – nuova forma di servitù volontaria che ci fa capire meglio l’enigma di de La Boétie – e alla governamentalità algoritmica che ne incanala gli usi opportuni, anche al fine di espandere mercati, creare nuovi business e nuove imprese, accrescere profitti e più in generale beneficiare l’economia».

Una volta raccolti i dati disseminati dagli utenti durante la loro presenza online, le imprese che controllano il web procedono alla profilazione dei soggetti ricorrendo ad algoritmi. Non si tratta però soltanto di marketing commerciale, sottolinea lo studioso; in base al comportamento online del soggetto, gli algoritmi consentono di elaborare una previsione circa le sue future condotte e di predisporre piani di intervento mirato volti a rafforzare e modificare convinzioni e comportamenti. Si tratta di forme di condizionamento inedite «che incidono sulla libertà stessa, sia come immaginario singolare e sociale, sia come pratica individuale e collettiva», nei cui confronti, secondo Vaccaro, il soggetto fatica a rapportarsi in tenimi critici.

Vaccaro si chiede se sia possibile scindere accumulazione e uso dei dati, se ci si possa accontentare della distinzione ipotetica tra un loro uso corretto ed uno deviato (speculativo e manipolatorio). La politica, che attiene al controllo della vita associata, può assumere in base alle esigenze tanto forme di rigida verticalità che di orizzontalità. Il ricorso ai dati «è strettamente connesso all’uso del potere come istanza di sorveglianza e controllo, di disciplinamento sociale, e come predeterminazione delle condizioni ideali con cui segnare lo spazio-tempo secondo un indirizzo ben preciso, orientato dall’élite governante».

Oltre ad attuare pratiche di surveillance, al potere interessa «la surwilling, ossia la sovradeterminazione della volontà umana che muta l’autonomia della coscienza in “eteronomia tecno-politica e sociale”. In altri termini, è più funzionale, oltre che economico, precostituire le condizioni obbliganti attraverso le quali l’output viene “naturalmente” come esito “necessario”, anziché forzare conflittualmente una soluzione che potrebbe però essere sconfitta da alternative risultate vincenti».

Appoggiandosi all’esattezza della misura matematica, la politica si dota di un’aura di indiscutibilità. «La misura infatti si presenta non come un sapere contestuato come ogni altro, bensì come “nudo fatto”, spoglio da pre-giudizi e pre-visioni costitutive, e in virtù di tale forza in grado di orientare un’intera società secondo una data matrice algoritmica che la riveste a mo’ di postura estetica. Viene pertanto a smarrirsi il sostrato “ideologico” tramite cui inevitabilmente si costruisce tale algoritmo, sottraendosi così alla percezione acritica, ossia neutralizzata a fronte di ogni discorso eccentrico, dissonante e tangenziale».

La sovranità digitale contemporanea costruita sulla datificazione (datification), sostiene Vaccaro, «non designa solamente una nuova e specifica biotecnologia politica che spalanca orizzonti inediti di data mining, di data targeting e via dicendo nell’anglicismo hightech; essa forclude altresì un immaginario che si espone a un’adorazione verso un “determinismo algoritmico”, un immaginario facilmente preda di pseudo-verità fasulle, solcato da suggestive mitologie contemporanee di brand luccicanti o di eroi del digitale dietro ai quali si cela un duro lavoro concreto e cognitivo sottratto dalla scena del successo e dalle gratificazioni economiche».

La raccolta di dati viene effettuata con la complicità degli utenti del web; «e a ogni like scambiato non corrisponde una cifra di remunerazione, bensì un dono camuffato, fittiziamente reciproco, poiché quel like contiene una miniera di dati, catturati attraverso una resa volontaria, che saranno utilizzati per fini esorbitanti la sua emissione specifica. E il cui plusvalore biopolitico da essi estratto arricchirà innanzitutto i big five delle imprese digitali dell’hightech […] e poi a cascata ogni imprenditore privato che ne acquisterà una fetta per utilizzarli a propri fini, commerciali o politici. Questo significa, diremmo appunto in soldoni, “affidare la nostra vita sociale a un algoritmo”!».

Di fronte a questa nuova biopolitica digitale che configura inediti assetti di potere, secondo Vaccaro occorre saper intercettare le faglie di resistenza agli effetti di potere propri della tecnologia politica e sperimentare nuove forme di conflitto che sappiano rapportarsi con «il divenire-digitale delle nostre società e delle nostre vite».


Nemico (e) immaginario serie completa

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Nemico (e) immaginario. Il nontempo. Quando il presente diventa egemonico https://www.carmillaonline.com/2020/12/14/nemico-e-immaginario-il-nontempo-quando-il-presente-diventa-egemonico/ Mon, 14 Dec 2020 22:00:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63749 di Gioacchino Toni

«Il problema è che oggi sul pianeta regna un’ideologia del presente e dell’evidenza che paralizza lo sforzo di pensare il presente come storia, un’ideologia impegnata a rendere obsoleti gli insegnamenti del passato, ma anche il desiderio di immaginare il futuro. […] il presente è diventato egemonico». «Si delineano forme di resistenza allo stato di cose esistente, ma in nome di ideali particolari, incompleti e talora contrastanti [che] stentano a costruire progetti leggibili per il futuro, a proporre obiettivi che non siano in sostanza difensivi» Marc Augé

Poco dopo aver messo [...]]]> di Gioacchino Toni

«Il problema è che oggi sul pianeta regna un’ideologia del presente e dell’evidenza che paralizza lo sforzo di pensare il presente come storia, un’ideologia impegnata a rendere obsoleti gli insegnamenti del passato, ma anche il desiderio di immaginare il futuro. […] il presente è diventato egemonico». «Si delineano forme di resistenza allo stato di cose esistente, ma in nome di ideali particolari, incompleti e talora contrastanti [che] stentano a costruire progetti leggibili per il futuro, a proporre obiettivi che non siano in sostanza difensivi» Marc Augé

Poco dopo aver messo in guardia, sul finire degli anni Novanta, circa la sparizione della realtà – a causa di una sua “messa in finzione”, soprattutto da parte del mezzo televisivo –, Marc Augé ha iniziato a denunciare un’altra sparizione: quella del futuro. Il mondo sembra in effetti in balia di un eterno presente capace di annullare l’orizzonte storico. Futuro e passato si sono eclissati sotto l’ombra della globalizzazione con i suoi aspetti politici, scientifici e simbolici.

Dopo una decina di anni dalla sua prima pubblicazione, torna in libreria, in una nuova edizione, il volume in cui l’antropologo francese riflette sulla sparizione dell’avvenire: Marc Augé, Che fine ha fatto il futuro? (eleuthéra, 2020). In questo libro, che resta di estrema attualità, lo studioso, dopo essersi a lungo occupato della dimensione dello spazio, prende in considerazione quella del tempo, mostrando come il nostro mondo, oltre che essere disseminato di “nonluoghi”, possa davvero dirsi caratterizzato dal “nontempo”.

Augé elenca tre paradossi del tempo. Il primo ha a che fare con la consapevolezza dell’individuo di vivere nel corso di un tempo che precedeva la sua nascita e che proseguirà dopo la sua morte. Il secondo è inerente alla difficoltà per l’individuo mortale, dunque tributario del tempo e delle idee di inizio e fine, di «pensare il mondo senza immaginarsene una nascita e senza assegnargli un termine» (p. 8). Cosmogonie e apocalissi rappresentato soluzioni immaginarie a tale difficoltà umana. Il terzo è il paradosso dell’evento, del fatto al contempo atteso e temuto.

Se il controllo intellettuale e simbolico dell’evento è ricorrente nelle attenzioni dei gruppi umani, oggi tale paradosso dell’evento pare giunto al suo culmine: mentre la storia accelera, spinta da eventi di ogni tipo, gli individui contemporanei, sostiene Augé, pretendono di negarne l’esistenza, esattamente come accadeva nelle epoche arcaiche, ad esempio celebrandone la fine. Con questi tre paradossi hanno dovuto fare i conti, nei contesti storici più diversi, tutti i tentativi di simbolizzazione del mondo e delle società.

Dalla caduta muro di Berlino può dirsi iniziata una nuova storia che, a causa della velocità con cui procede e per il suo aspetto globale, risulta pressoché incomprensibile.

Dal punto di vista intellettuale, questo cambiamento di scala ci prende alla sprovvista. Siamo ancora nella fase di critica dei vecchi concetti e delle visioni del mondo che li sottendevano. A questi si sostituiscono da un lato una visione pessimista, nichilista e apocalittica, secondo la quale non c’è più niente da capire, e dall’altro una visione trionfalista ed evangelica per la quale tutto è compiuto o sta per esserlo (p. 13).

Tra queste due visioni estreme, accomunate dal non derivare alcune lezione dal passato e dal non attendersi nulla dall’avvenire, secondo Augé, trova posto un’ideologia del presente caratteristica di quella che è stata definita la società dei consumi. Sembra quasi che all’essere umano non resti che scegliere tra un consumismo conformista e passivo, anche quando può darsi in forma assai ridotta, e un rifiuto radicale al quale, al momento, sembrano in grado di provvedere soltanto le espressioni religiose più esasperate.

Sullo stesso piano ideologico, vediamo inoltre formarsi connubi sostanziali tra ideologia religiosa e ideologia consumista, più in particolare nel caso dell’evangelismo di origine nordamericana. Per il resto, le nuove forme di esclusione, delle quali la globalizzazione è nello stesso tempo il contesto generale e uno dei principali fattori, generano, attraverso diverse mediazioni come quella del fondamentalismo religioso, atteggiamenti di rigetto o di fuga che hanno senso solo in rapporto all’ordine dominante. Quest’ultimo provoca insieme odio e seduzione. La contestazione, la rivolta o la protesta sembrano così prigioniere di quegli stessi schemi di pensiero ai quali si oppongono, sia a livello della vita politica sia sul piano intellettuale e artistico (p. 14).

Di fronte ad uno scenario di tale tipo, secondo lo studioso, può essere utile far riferimento alla categoria di tempo per indagare le false evidenze dell’attuale ideologia del presente. Tali evidenze, continua Augé, assumono la forma di un triplice paradosso.

Primo paradosso: la storia, intesa come fonte di nuove idee per la gestione delle società umane, sembra terminare proprio nel momento in cui riguarda esplicitamente l’umanità nel suo insieme. Secondo paradosso: noi dubitiamo della nostra capacità di influire sul nostro comune destino proprio nel momento in cui la scienza progredisce a una velocità sempre più accelerata. Terzo paradosso: la sovrabbondanza senza precedenti dei nostri mezzi sembra vietarci di riflettere sui fini, come se la timidezza politica dovesse essere lo scotto da pagare per l’ambizione scientifica e l’arroganza tecnologica (p. 15).

A ben guardare tali paradossi non sono altro che l’odierna forma storica dei tre citati precedentemente. «In questo senso attengono tutti all’ideologia. Ogni sistema di organizzazione e di dominio del mondo […] ha prodotto teorie dell’individuo, del mondo e dell’evento. Il sistema della globalizzazione non si sottrae a questa regola» (p. 16).

Non possiamo interessarci al futuro senza incontrare la presenza massiccia e anomala dell’immaginazione. Se è infatti vero che non vivono ogni giorno con il pensiero dei propri fini ultimi, gli umani non possono tuttavia accontentarsi indefinitamente di un’eternità fiacca, di un tempo chiuso. Questo vale per i più deprivati, ma anche per gli altri. La corsa al senso si svolge dunque anche nelle peggiori condizioni. Il senso non è necessariamente il destino post mortem, l’immortalità o il paradiso. È l’esistenza del domani, un insieme di relazioni con gli altri sufficientemente consistente per scongiurare l’assurdità di una solitudine senza oggetto e senza fine, nel doppio senso del termine (p. 122).

L’illusione offerta dalle sette «parla il linguaggio dei fini, che è anche quello del desiderio, ma si limita a servirsene, lo sbriciola, lo distilla in dosi omeopatiche; i suoi espedienti sono il rovescio negativo del discorso sociale sempre incompiuto dei politici e degli economisti: essa non pretende di orientare la società, la rimpiazza» (p. 123).

Diversi movimenti evangelici, così come il fondamentalismo islamico, si fondano su parole d’ordine semplici e capaci di attrarre quanti, vivendo in solitudine, privi di riferimenti simbolici, in miseria materiale e morale, sono in cerca di certezze. «Tutti questi fondamentalismi hanno in comune un riferimento, un’ambizione e una modalità di azione. Il riferimento è l’origine: la disputa tra i tre monoteismi si basa essenzialmente sul punto di partenza, sull’origine della sola storia che conti ai loro occhi, quella del vero messaggio» (p. 124).

Se da un certo punto di vista, sostiene Augé, i monoteismi, con le loro aspirazioni all’universalizzazione del messaggio, nel basarsi sia sul passato che sul futuro, rimandano alle “grandi narrazioni” lyotardiane, allo stesso tempo se ne differenziano per la pretesa, in quanto cosmogonie, di parlare all’umanità intera e perché la loro visione dell’avvenire dell’umanità si risolve nel prospettare la fine del mondo come compimento. Per quanto riguarda la loro modalità di azione, questa si risolve in un proselitismo, tratto specifico dei monoteismi, che gli integralismi portano all’estremo e a maggior ragione in uno scenario globalizzato.

L’integralismo è una globalizzazione dell’immaginario che può avere conseguenze terribilmente reali. È anche la globalizzazione dei poveri (anche se, ovviamente, può essere usata, manipolata e sostenuta dai soldi dei ricchi); in questo senso è una globalizzazione mimetica. La globalizzazione e i suoi agenti sono mimetizzati, come lo erano la colonizzazione e i colonizzatori. Il mimetismo e la rappresentazione sono le armi simboliche cui si ricorre quando la relazione diventa impensabile, impossibile da negoziare (p. 125).

Se i movimenti locali di protesta per reggere lo scontro necessitano di collegamenti su scala più ampia, ancora più che nel passato sono oggi proprio le religioni a vocazione universale a procurare i mezzi intellettuali e materiali per tale estensione. «Il marxismo e le ideologie progressiste in generale, che avevano influenzato i movimenti politici di indipendenza e di liberazione, sono in declino […] L’immaginazione, in questo caso, va al traino della storia» (p. 127).

Nella società contemporanea non deve essere sottovalutato il ruolo giocato delle immagini, soprattutto televisive, che finiscono per certi versi per svolgere il ruolo delle cosmologie tradizionali che ponevano coordinate spazio/temporali dando un ordine simbolico al mondo. L’Occidente è modellato dalla mentalità consumista in cui ognuno si costruisce la propria cosmologia ricorrendo non di rado alle nuove tecnologie.

Il mondo della televisione è esemplare per questo postmodernismo dei poveri: se ci sono tante persone che desiderano esprimere in quell’ambito le proprie convinzioni, le proprie preferenze, la propria vita, quando è evidente che non hanno niente di originale, è perché così possono crederci anche loro, grazie al prestigio dell’immagine che consolida all’occorrenza l’assicurazione fornita dal prendere la parola. Nonostante l’egocentrismo forsennato, questi comportamenti indotti dalla società dell’immagine non sono poi tanto diversi da quelli che governano la fede dell’uomo semplice (che peraltro non gli competono in modo esclusivo): in entrambi i casi si tratta di una questione di sopravvivenza. Ci troviamo così, d’ora in avanti, in una situazione in cui siamo in grado di percepire, davanti a un campo di rovine metafisiche nel quale i fondamentalisti illuminati e gli individualisti alienati continuano a rovistare per assemblare un senso a partire da qualche rottame, che colonizzati e colonizzatori hanno vissuto la stessa storia e che la colonizzazione altro non è stata che la prima tappa della globalizzazione. Siamo tutti quanti ai piedi dello stesso muro. Dopo le tristi esperienze del secolo scorso, è questa la sfida che ci aspetta: come possiamo reintrodurre nella nostra storia finalità che ci affranchino dalla tirannia del presente ma che non siano all’origine di un nuovo dispotismo intellettuale e politico? Come possiamo, più che prefigurare il futuro (essendo il cambiamento tanto inimmaginabile quanto ineluttabile), attrezzarci nella misura del possibile perché sia l’avvenire di tutti? (pp. 127-128).

Pur non mancando forme di resistenza allo stato di cose esistente, queste sembrano muoversi in nome di ideali particolari e incompleti che, nonostante i tentativi di esprimersi su scala globale, non riescono a costruire progetti di futuro, limitandosi a proporre obiettivi meramente difensivi.

Secondo Augé è necessario evitare di confondere il tema della “fine delle grandi narrazioni” con quello della “fine della storia”: se Lyotard rifletteva sulle nuove modalità di relazione con lo spazio e con il tempo che definiscono la condizione postmoderna, Fukuyama finiva invece per proporre una nuova “grande narrazione”. «La fine della storia non è, evidentemente, il blocco degli eventi, ma la fine di un dibattito intellettuale: tutti quanti, ci dice in sostanza Fukuyama, sarebbero oggi d’accordo nel ritenere che la formula che coniuga il mercato liberista e la democrazia rappresentativa sia insuperabile» (p. 133).

Il concetto di “fine della storia” in Fukuyama, si chiedeva Jacques Derrida (Spectres de Marx, 1993), è da interpretare come un dato di fatto o come un’ipotesi speculativa? L’avvenimento sembrerebbe essere tanto la realizzazione quanto l’annuncio della realizzazione. Tale incertezza, sostiene Augé, è tipica di un’atmosfera intellettuale in cui non si è più in grado di “immaginare del futuro”.

Nelle società dell’immanenza si tende a negare l’evento, «lo si rimanda alla serie di determinazioni concepite al contempo come sociali e antropologiche che lo riversano sulla struttura. Quando questo riversamento, questa “eziologia sociale”, non è più possibile, perché l’evento è enorme e sproporzionato rispetto agli abituali strumenti di misura e di interpretazione […] allora lo si mima, lo si recita, lo si mette in scena […], nella speranza che quella sorta di sfida simbolica basti a scongiurarlo» (p. 134).

Soprattutto nelle società occidentali si assiste a una crescita della paura dell’evento ma se ciò classicamente comportava una ricerca delle cause e dei responsabili, quando l’evento ha una portata inaspettata (come nel caso dell’attentato dell’11 settembre 2001), esso si trasforma da «punto di arrivo che bisogna spiegare» in «punto di partenza che tutto spiegherà». È questo, secondo lo studioso, il senso della guerra dichiarata al terrorismo.

La parola chiave, qui, è “dichiarazione”. Forse la formula “dichiarazione di guerra” non era più stata utilizzata dal 1939. La dichiarazione di guerra ha precisamente l’effetto di un annuncio che cancella con un tratto il passato per convertire gli animi all’attesa e al seguito. È il passaggio alla violenza legittima, o comunque legale; è un ribaltamento delle coordinate temporali, una rifondazione, il canto di chi parte. Il problema è che nella complessità delle società moderne non è così facile riuscire in questa operazione simbolica, passare dall’ordine delle cause a quello degli effetti, dalla diagnosi al progetto. Così il discorso ufficiale sul terrorismo si sdoppia: gli si dichiara guerra, certo, ma questo non cambia niente, si vive come prima (sia pure con un po’ più di vigilanza poliziesca). Cambia tutto, non cambia niente (pp. 135-136).

La contemporaneità globalizzata manifesta, dunque, la prevalenza del linguaggio spaziale su quello temporale. La coppia globale/locale ha sostituito l’opposizione particolare/universale che, invece, associata a una concezione dialettica della storia, si inscriveva nel tempo. «L’assimilazione dell’opposizione globale/ locale a quella interno/esterno assume tutto il suo significato in relazione al tema della fine della storia inteso come avvento della democrazia liberale, cioè, in definitiva, in rapporto all’opposizione sistema/storia» (p. 137).

L’epoca della globalizzazione, oltre ad aver incrementato enormemente la disparità delle ricchezze, ha ampliato lo scarto tra chi dispone di conoscenze e chi non ne dispone generando una massa di esclusi dalla conoscenza , una massa di individui a cui è permesso di essere semplici consumatori, quando non sono esclusi sia dal sapere che dai consumi. A ciò, sostiene il francese, occorre contrapporre un’utopia del “sapere per tutti”, «una visione del futuro finalmente sgombra dalle illusioni del presente veicolate dall’ideologia della globalizzazione consumista» (p. 140).

«Di fronte all’ideologia del presente e dell’evidenza diffusa dal sistema globale, di fronte alle illusioni micidiali e liberticide dei totalitarismi integralisti, abbiamo più che mai bisogno di un ritorno allo sguardo critico capace di rivelare i giochi del potere dietro alle formule che si appellano a una quiete illusoria o una mobilitazione fanatica» (p. 131). È all’antropologia che Augé attribuisce quello sguardo critico che, sebbene insufficiente di per sé per cambiare il mondo, può almeno contribuire a dare la misura delle vere poste in gioco.


Nemico (e) immaginario serie completa

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Nemico (e) immaginario. Alterità marziane e rifondazione dell’umanità https://www.carmillaonline.com/2020/09/29/nemico-e-immaginario-alterita-marziane-e-rifondazione-dellumanita/ Tue, 29 Sep 2020 21:00:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62858 di Gioacchino Toni

Il recente volume di Daniele Porretta, L’altra Terra. L’utopia di Marte dall’età vittoriana alla New Space Economy (Luiss University Press, 2020), propone una ricostruzione critica della storia del mito del pianeta Marte soffermandosi sul suo evocare scenari alternativi alla società terreste e alle sue problematiche politiche, sociali, etiche, tecnologiche, ecc.

Tanto nella fiction quanto nell’osservazione reale, si è spesso guardato a Marte come a una “seconda Terra”, uno specchio della società terrestre. Nella costruzione del mito di Marte a cavallo tra Otto e Novecento, spiega Porretta, hanno un ruolo importante gli studi di Giovanni Virginio Schiaparelli, di Percival [...]]]> di Gioacchino Toni

Il recente volume di Daniele Porretta, L’altra Terra. L’utopia di Marte dall’età vittoriana alla New Space Economy (Luiss University Press, 2020), propone una ricostruzione critica della storia del mito del pianeta Marte soffermandosi sul suo evocare scenari alternativi alla società terreste e alle sue problematiche politiche, sociali, etiche, tecnologiche, ecc.

Tanto nella fiction quanto nell’osservazione reale, si è spesso guardato a Marte come a una “seconda Terra”, uno specchio della società terrestre. Nella costruzione del mito di Marte a cavallo tra Otto e Novecento, spiega Porretta, hanno un ruolo importante gli studi di Giovanni Virginio Schiaparelli, di Percival Lowell e di Camille Flammarion, convinto dell’esistenza di una vita extraterrestre sul pianeta rosso.

C’è […] una corrispondenza fra lo spirito morale dei costruttori della mitologia marziana, Schiaparelli, Lowell e Flammarion, e quello che sarà lo sviluppo letterario del genere ambientato in questo pianeta. Uno specchio in cui guardare la Terra, in cui proiettare i propri desideri e le proprie paure, in cui costruire un mondo alternativo per mostrare ciò che non siamo ma che potremmo essere. Rimane in questi uomini ancora o spirito positivo dell’epoca, quello che vedeva nelle grandi opere dell’ingegneria ottocentesca un primo passo verso una società migliore in cui la tecnologia sarebbe stata parte integrante della società e i sui frutti democraticamente distribuiti fra tutta la popolazione, un sogno utopico che on durerà a lungo, messo in crisi dai due conflitti mondiali, dai nuovi mezzi di distruzione offerti dall’industria bellica alle potenze nazionali e sostituito, nel suo modo di immaginarie il futuro, dalla distopia. (pp. 48-49)

Marte inizia così a essere percepito come luogo abitato da una specie tecnologicamente superiore che ha saputo utilizzare la scienza per salvarsi dall’estinzione e che dunque merita di essere esplorato, a maggior ragione nel momento in cui la Terra sembra ormai conosciuta in ogni sua parte. La volontà di entrare in contatto con gli abitanti del pianeta rosso conduce, nel passaggio tra Otto e Novecento, a svariati tentativi di inviare messaggi verso questa lontana civiltà, compreso il ricorso a pratiche paranormali all’epoca in voga; celebre è il caso della medium Hélène Smith che, con le sue visioni, contribuisce a creare un immaginario dettagliato su questo nuovo mondo.

È proprio a partire da tale periodo che Marte inizia a diviene protagonista di numerose opere narrative tra cui La guerra dei mondi (The War of the Worlds, 1898) di Herbert George Welles, storia capace di mostrare ai lettori inglesi dell’epoca gli effetti di una guerra tra civiltà a potenziale tecnologico decisamente asimmetrico; non è difficile leggervi una denuncia della violenza dell’imperialismo occidentale ai danni dei popoli colonizzati. Si può constatare come a partire dall’uscita di tale libro la figura dell’alieno si carichi di molteplici significati tanto da essere utilizzata per alludere allo “scontro tra razze” ottocentesco, al “pericolo comunista” durante la “guerra fredda”, ecc.

Se per qualche tempo nell’immaginario collettivo gli abitanti di Marte sono visti come creature benevole ed esotiche con cui vale la pena entrare in contatto e fraternizzare, le cose cambiano con la pubblicazione dell’opera di Wells: da quel momento prende piede l’idea che l’incontro con gli alieni avrebbe potuto essere tutt’altro che pacifico. Numerose sono le opere di fiction che, riprendendo il racconto di Wells, contaminano il genere della Future War innestandovi la questione aliena. Si diffondono anche versioni della stessa opera wellsiana che spostano l’ambientazione dall’Inghilterra agli Stati Uniti e prolungamenti delle vicende raccontate, come nel caso di Edison’s Conquest of Mars (1898) di Garrett P. Serviss che mette in scena la ripresa della vita in una Terra devastata dagli alieni e la decisione di prevenire futuri ritorni del nemico attaccandolo in anticipo direttamente “a casa sua”.

Nel romanzo di Serviss non è difficile individuare echi coloniali, celebrazione della superiorità anglosassone e orgoglio a stelle e strisce. Si tratta di elementi ricorrenti all’interno di opere – dette non a caso detto “edisonate” – che a partire dalla fine dell’Ottocento hanno come protagonista un giovane eroe-inventore, maschio, americano, che oltre a preservare se stesso dalla corruzione dei tempi, riesce a salvare la famiglia, la comunità e la nazione intera dall’invasione straniera. Su questa linea l’alieno marziano finisce facilmente per alludere al nemico di turno dell’America.1.

Le vicende che vedono il confronto militare tra alieni ed esseri umani narrate, pur con spirito diverso, da Wells e Serviss non esauriscono di certo le modalità del contatto tra le due parti; vi sono anche storie in cui il pianeta è abitato da società complesse e sfaccettate, come nel caso della saga dedicata a Marte e alla pluralità di razze che lo abitano da Edgar Rice Burroughs, iniziata nel 1912 e proseguita fino agli anni Quaranta, serie venata di nostalgia per i “vecchi tempi” popolati, oltre che da uomini coraggiosi, da donne schiave o principesse; non a caso si è parlato a tal proposito di “retroutopia antifemminista”. Più in generale lo spazio extraterrestre è tratteggiato come qualcosa di complesso e mutevole, non per forza di cosa ostile ai terrestri, anche da diverse opere di Clive Staples Lewis, legato a Tolkien e al gruppo degli Inklings.

Questa idea dello spazio come qualcosa di vivo è parte della costruzione di un mondo cristiano contrapposto alle due forze che Lewis considerava come le componenti distruttrici della società dell’epoca, rappresentate dai due personaggi [che] riassumono, esasperandole, le due facce del capitalismo multiplanetario: il capitalismo estrattivista, che vede nello spazio una fonte di nuovi guadagni, e quello scientifico, infarcito di retorica antropocentrica che vede nella conquista degli altri pianeti una maniera di garantire l’immortalità della specie umana. (p. 72).

I viaggi spaziali intrattengono una stretta relazione con l’utopia a partire dal Settecento, quando il viaggio in direzione delle luna diviene un sottogenere dell’utopia; nel momento in cui si diffonde la convinzione dell’esistenza di vita intelligente su Marte, questo pianeta assume un ruolo di primo piano nella letteratura di fantascienza.

Secondo una concezione ampiamente diffusa nell’epoca vittoriana, Marte era sia un luogo del presente che una proiezione della storia dell’umanità, un’idea determinata da una concezione evoluzionista dei processi sociali. Marte divenne quindi, a partire dalla fine del Diciannovesimo secolo, un topos per la costruzione di una società immaginaria da contrapporre a quella umana, e generò quell’estraniamento che è la condizione sine qua non dell’utopia. (p. 75)

Se, come detto, il mito di Marte diviene popolare soltanto a partire dall’ultimo decennio dell’Ottocento, occorre ricordare che già negli anni precedenti il pianeta faccia da sfondo alle vicende narrate in alcuni romanzi. Nella fiction narrativa e cinematografica Marte viene scelto in diversi casi come luogo di ambientazione tanto dal sottogenere delle “edisonate”, quanto da quello delle “robinsonate”, incentrate sulla sopravvivenza di un essere umano sul pianeta, come nel caso del film Robinson Crusoe on Mars (1964) di Byron Haskin o del recente romanzo The Martian (2011) di Andy Weir, trasformato in film da Ridley Scott nel 2015.

Tra e prime opere narrative di ambientazione marziana Porretta cita Across the Zodiac: The Story of a Wreckes Record (1880) di Percy Greg e A Plunge into Space (1890) di Robert Cromie. Diffusa in molti racconti è l’idea che le società tecnologicamente avanzate comportino un inaridimento delle passioni; esemplare in tal senso Noi di Evgenij Zamjatin, uscito nel 1924 anche se scritto alcuni anni prima.

In generale la letteratura utopica a cavallo tra Otto e Novecento riflette le preoccupazioni e le aspettative di progresso sociale del tempo. Il pianeta rosso come luogo di realizzazione di società migliori è presente anche in To Mars via the Moon: An Astronomical Story (1911) di Mark Wicks e in Unveiling Parallel: a Romance (1893) di Alice Ilgenfritz Jones ed Ella Merchant, in cui si prospetta una società paritaria per uomini e donne. In ambito cinematografico Porretta cita la pellicola danese Himmelskibet (1917) di Holger-Madsen, girata nel corso della Grande guerra con evidenti intenti pacifisti.

Illustrazione di un Tripodi da La guerra dei mondi edizione francese del 1906

Persa la fiducia nella scienza come motore di miglioramento in voga agli albori della Rivoluzione industriale, l’immaginario legato allo società del futuro è ben descritto dallo scrittore e illustratore francese Albert Robida: «da una parte c’è un’immaginaria borghesia del futuro, che avrebbe affollato i cieli con le sue macchine volanti per andare all’opera, e dall’altra i moderni mezzi di distruzione che avrebbero progettato chimici, medici e farmacisti» (p. 58). Tale immaginario di distruzione futura riflette le ansie della società vittoriana timorosa di trovarsi presto coinvolta in qualche conflitto, tanto da determinare il successo del genere Future War che prende il via con La battaglia di Dorking (1871) di Geroge Tomkyn Chesney narrante di un’invasione tedesca dell’Inghilterra. Ai timori per guerre internazionali si aggiungono presto i timori per un invasione di popoli orientali capace di annientare la civiltà europea. È attorno a tali ansie generate dai fenomeni migratori di massa che si strutturano stereotipi razziali destinati a durare nel tempo. Non è difficile che le tensioni razziali entrino in gioco nella fiction catastrofista.

Il romanzo scientifico e la letteratura fantascientifica ottengono un certo successo anche in Russia ove, sull’onda della Rivoluzione il progresso tecnologico diviene uno degli elementi simbolici della nuova era socialista. Se tradizionalmente l’utopismo russo tende a focalizzarsi sulla fondazione di comunità religioso-spirituali, sostiene Porretta, con il passaggio tra Otto e Novecento l’immaginario dell’industrializzazione e del progresso tecnologico prendono piede anche nell’immaginario russo.

Tra gli esempi in cui si ricorre al pianeta rosso come luogo immaginario per produrre discorsi utopici o per rappresentare società distopiche, lo studioso fa riferimento alle due opere di Aleksandr Bogdanov La stella rossa e L’ingegner Menni, pubblicati rispettivamente nel 1908 e nel 1912, esempi di romanzo utopico in cui si ripone estrema fiducia nel progresso tecnologico e in cui viene tratteggiata una società comunista realizzata. Se il ricorso a Marte può darsi per mostrare un esempio di società di stampo comunista realizzata, il film Аėlita (1924) di Aleksandrovič Protazanov, tratto dal romanzo omonimo di Aleksej Nikolaevič Tolstoj, utilizza invece il pianeta rosso per mostrare una rivoluzione in corso contro la tirannia e la schiavitù.

A cavallo tra le due guerre mondiali cambia la rappresentazione di Marte; la tecnologia inizia ad essere osservata con minor entusiasmo avendo nel frattempo evidenziato il portato distruttivo. «È terminato il tempo dell’utopia ed è il suo contrario, la distopia, a diventare lo strumento più utilizzato per la descrizione del futuro» (p. 90).

Nei primi anni Cinquanta, pochi anni prima dell’avvio dell’era spaziale, se il romanzo Le sabbie di Marte (1951) di Arthur C. Clarke tenta di immaginare in maniera realistica il processo di colonizzazione del pianeta, lo scienziato tedesco Wernher von Braun, l’ideatore dei razzi V-2 per il regime nazista, dopo essersi messo al servizio dei vincitori statunitensi, lavora a un progetto finalizzato alla colonizzazione di Marte. Pur rivelatosi di impossibile realizzazione, il progetto evidenzia come, giunti a metà Novecento, l’idea di un viaggio verso Marte non riguardi più esclusivamente le fantasie narrative si scrittori e registi.

Durante la guerra fredda la fantascienza tende a focalizzarsi sulla paura dell’attacco straniero/comunista e sul pericolo di una graduale sostituzione dell’umanità con “altri esseri”, come ne Gli invasori spaziali (Invaders form Mars, 1953) di William Cameron Menzies e L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, 1956) d Don Siegel.

A resistere nel tempo, anche quando il mito marziano inizia ad affievolirsi, è la raccolta di racconti Cronache marziane di Ray Bradbury, pubblicata la prima volta nel 1950, il cui successo è però forse dovuto soprattutto «alla sua capacità di incarnare lo spirito americano, esattamente come La guerra dei mondi di Wells aveva rappresentato mezzo secolo prima l’imperialismo inglese tardo-vittoriano» (p. 103).

Sin dai primi anni Sessanta lo scrittore inglese James Graham Ballard ritiene terminata l’epoca della narrativa spaziale, tanto che preferisce indagare l’inner space dell’essere umano. Il calo di interesse per il pianeta rosso coincide con l’arrivo delle prime immagini ravvicinate di Marte a metà degli anni Sessanta, quando per qualche tempo il centro della scena viene lasciato alla Luna. Nonostante la Space Age possa dirsi davvero conclusa attorno alla metà del decenni successivo, ultimamente il pianeta rosso sembra di nuovo interessare la letteratura, il cinema e l’economia. Marte ricompare non solo nella fiction o nella docu-fiction – oltre al film The Martian (2015) di Ridley Scott, si pensi alle serie televisive Mars (2016) della National Geographic, The Mars Generation (2017) di Michael Barnett, The First (dal 2018) di Beau Willimon – ma anche in ambito economico e con esso si ripresenta anche l’idea, evidentemente legata a una “utopia della ricostruzione”, di una sua futura terrificazione.

Non si può evitare di osservare che la costruzione di questa nuova utopia marziana appare in un momento in cui la distopia esercita un dominio pressoché assoluto sull’immaginario collettivo riguardo il futuro dell’umanità. […] Tralasciando l’attrazione morbosa che la prospettiva di una società futura in rovina esercita sul pubblico, oggi la distopia incarna la sensazione di assistere a una fine del mondo al rallentatore. […] La distopia contemporanea ci connette con le nostre più recondite paure: la perdita dei capisaldi della sicurezza esistenziale, lo sfascio dello stato sociale, l’inevitabilità del disastro climatico, la fine della stabilità lavorativa, l’imporsi si un modello di società competitivo e atomizzante. Visto in questa prospettiva, abbandonare il pianeta Terra per andare su Marte non sembra poi un piano così assurdo. (p. 106)

I motivi per cui, da qualche tempo a questa parte, a più di un secolo dalla nascita del mito, il pianeta Marte è “tornato di moda” secondo Porretta sono probabilmente da ricercarsi in una sorta di desiderio di fuga dalla Terra, da una realtà percepita come inesorabilmente incamminata verso l’apocalisse. Se nell’immaginario contemporaneo il pianeta rosso può rappresentare una “utopia della ricostruzione”, un luogo da cui ripartire dopo la catastrofe terrestre, in esso è però possibile vedere anche una sorta di arca di Noè, un rifugio destinato soltanto a una piccola parte dell’umanità alle prese con l’esaurimento delle risorse vitali terrestri.

Illustrazione di un Tripodi da La guerra dei mondi edizione francese del 1906

Il successo di pubblico per il filone catastrofico ha sicuramente a che fare con i timori e con le emergenze del momento, riflettendo il clima di pessimismo di un’epoca in cui non si intravede alternativa a un sistema che mostra tutti i suoi limiti. È in questo clima di sfiducia che permea le opere di fiction che il pianeta rosso torna a conquistarsi spazio portandosi dietro quell’immaginario utopico marziano sedimentatosi nel tempo a partire dall’epoca vittoriana.

A una prima Space Age (1957-1975) inaugurata dallo Sputnik-1, e una seconda età spaziale (1981-1997) identificabile con i voli dello Shuttle, si aggiunge ora l’epoca della cosiddetta New Space Economy caratterizzata dall’apertura ai privati dei servizi di trasporto di merci e persone. La corsa allo spazio non vede più fronteggiarsi Stati Uniti e Unione Sovietica; nella nuova era spaziale a confrontarsi sono alcuni colossi privati spinti da business legati alla ricerca scientifica, al turismo spaziale, allo sviluppo di tecnologie da vendere ai governi e alla possibilità di sfruttare risorse minerarie di altri pianeti. Se ad oggi, sottolinea Porretta, la “terrificazione” di Marte appare estremamente improbabile, il pianeta rosso può però essere visto come obiettivo simbolico di una narrazione volta all’espansione capitalista verso lo spazio, un’ennesima riproposizione della lotta per l’indipendenza degli stati Uniti dall’Inghilterra e della conquista del West.

La colonizzazione dello spazio, a partire da Marte, sembrerebbe avere a che fare con i timori contemporanei per un prossimo collasso mondiale: il pianeta rosso viene identificato come luogo-rifugio per una parte dell’umanità in fuga dalla catastrofe terrestre. Il confine tra utopia e distopia può essere sottile, soprattutto se si cambia il punto di vista. Si potrebbe pensare al pianeta rosso come a un luogo inospitale in cui costringere un proletariato spaziale a lavorare in condizioni di vita terrificanti o, viceversa, come rifugio per una ristretta élite multiplanetaria che da lì sovraintende il lavoro di un proletariato invece costretto a restare su una terra sempre più invivibile.

Vista dall’ottica del capitalismo espansionista, Marte appare sempre di più la possibile utopia del futuro, o meglio, la distopia di una comunità perfettamente vigilata e autosufficiente […] la realizzazione finale del sogno utopico rincorso dalla modernità: la nascita di una comunità perfettamente controllata, pianificata e lamentatone dipendente dalla tecnologia. (p. 115)

In questo recente guardare allo spazio esterno, conclude Porretta, non è difficile vedere un modo per eludere le responsabilità nei confronti della Terra o lo sviluppo inevitabile di un sistema che non può fare a meno di espandersi e occupare nuovi territori.


Nemico (e) immaginario serie completa


  1. Cfr. R. Giacomelli, Nemici dell’America, nemici dell’umanità. Il “nemico” nel cinema fantascientifico americano, Sovera Edizioni, Roma 2014. Di tale saggio si parla negli scritti: G. Toni, Nemico (e) immaginario. Il nemico allo schermo: nemici dell’America, nemici dell’umanità, “Carmilla” e G. Toni, Nemico (e) immaginario. L’Umano e l’Alieno, “Carmilla”. 

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Nemico (e) immaginario. Surveillance capitalism https://www.carmillaonline.com/2020/09/10/nemico-e-immaginario-surveillance-capitalism/ Thu, 10 Sep 2020 21:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62552 di Gioacchino Toni

Nel 2016 viene commercializzato Pokemon Go, un videogioco di tipo free-to-play funzionante con i principali sistemi operativi mobili, basato su realtà aumentata geolocalizzata tramite GPS, che prevede la cattura di personaggi virtuali all’interno dell’ambiente reale. La piattaforma dissemina nell’ambiente quotidiano le prede a cui i giocatori devono dare la caccia recandosi sul posto armati del proprio smartphone. Attraverso il ricorso a meccanismi di gratificazione Pokemon Go non manca di indirizzare i cacciatori verso quelle attività commerciali che pagano i produttori del gioco affinché vengano inserite all’interno dell’itinerario imposto ai giocatori [...]]]> di Gioacchino Toni

Nel 2016 viene commercializzato Pokemon Go, un videogioco di tipo free-to-play funzionante con i principali sistemi operativi mobili, basato su realtà aumentata geolocalizzata tramite GPS, che prevede la cattura di personaggi virtuali all’interno dell’ambiente reale. La piattaforma dissemina nell’ambiente quotidiano le prede a cui i giocatori devono dare la caccia recandosi sul posto armati del proprio smartphone. Attraverso il ricorso a meccanismi di gratificazione Pokemon Go non manca di indirizzare i cacciatori verso quelle attività commerciali che pagano i produttori del gioco affinché vengano inserite all’interno dell’itinerario imposto ai giocatori ottenendo in cambio un afflusso di potenziali clienti.

Ricorrendo a meccanismi propri del mondo digitale, a dinamiche di confronto sociale e a sistemi di gratificazione, esattamente come in Pokemon Go, da tempo equipe di esperti del trattamento dati sono al lavoro per orientare il comportamento degli esseri umani in direzione dell’ottenimento di maggiori livelli di profitto aziendale. Attraverso l’esempio di Pokemon Go è possibile percepire con immediatezza una delle caratteristiche di quello che Shoshana Zuboff – Il capitalismo della sorveglianza. Il Futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri (Luiss University Press, 2019) – definisce “surveillance capitalism”: la capacità dei detentori dei dati di prevedere e indirizzare i comportamenti umani.

Secondo la studiosa, nel contesto contemporaneo, le esperienze umane sono divenute “materia prima gratuita” trasformabile in “dati comportamentali” vendibili come “prodotti di previsione” all’interno dei “mercati comportamentali a termine” in cui operano imprese commerciali desiderose di conoscere il comportamento futuro degli individui.

Il capitalismo della sorveglianza, sostiene Zuboff, nasce in concomitanza con l’avvio del nuovo millennio, quando alcuni settori del sistema economico operano scelte che si rivelano una accelerazione sulla via della trasformazione degli individui in merce: l’esperienza umana privata viene tradotta in dati comportamentali che, una volta elaborati, permettono una sempre più sofisticata previsione comportamentale. I dati elaborati possono essere venduti alle aziende che così posso dispiegare le loro strategie di produzione e vendita in base a ciò che l’individuo intende fare nel breve e lungo termine, agendo attivamente sulle sue intenzioni e sui suoi comportamenti.

Secondo la studiosa, Google rappresenta per il capitalismo della sorveglianza ciò che imprese come Ford e General Motors hanno rappresentato per il capitalismo industriale e mentre il lascito di quest’ultimo è stato il disastro ambientale, il modello introdotto dal colosso del web, sostiene drasticamente Zuboff, potrebbe compromettere le tradizionali modalità di pensiero e di comportamento degli esseri umani minando la loro autonomia e dignità.

Con l’avvio del nuovo millennio gli strateghi di Google non si accontentano più di utilizzare i dati ricavati dall’uso del motore di ricerca per migliorare il prodotto in termini di efficienza ma, associando un’incredibile capacità di immagazzinamento ad altissimi livelli di elaborazione dei dati, decidono di utilizzare questi ultimi per offrire agli inserzionisti il pubblico a cui mirano. Successivamente, lavorando sull’offerta di spazi di pubblicità mirata, gli analisti del colosso del web si rendono conto che, grazie all’enorme quantità di dati raccolti, diviene possibile stilare previsioni precise sull’utente.

L’analisi dell’uso del motore di ricerca e le modalità con cui vengono dispensati like sui social, sono soltanto alcuni degli ambiti di applicazione di un metodo che ha consentito di avviare quella che l’autrice descrive come “l’estrazione del surplus comportamentale”. I colossi del web, grazie anche al crescente ricorso ai dispositivi portatili smart, si sono trovati nella possibilità di: localizzare l’utente in qualsiasi momento; monitorare le sue abitudini di spostamento; verificare l’orario e la durata della permanenza in un luogo; desumere gli stati d’animo attivati durante le digitazioni; monitorare le sue preferenze e necessità più impellenti ecc.

È così che i dati personali diventano quel valore aggiunto che Zuboff definisce “surplus comportamentale”, uno degli assi portanti del modello economico di Facebook. Insomma, quello che la studiosa definisce capitalismo della sorveglianza trova il suo motore di crescita nei mezzi di analisi e modificazione dei comportamenti e nella trasformazione dei consumatori in lavoratori senza che questi ne siano (o ne vogliano essere) consapevoli e, soprattutto, senza che possano davvero sottrarsi a ciò, dipendenti come sono divenuti dal mondo digitale così come esso è strutturato.

Alla base di questo “surveillance capitalism” – che, al momento, si è affiancato al capitalismo tradizionale senza sostituirvisi – c’è la trasformazione dell’esperienza umana in una materia prima gratuita per le imprese commerciali. Ciò, sostiene Zuboff, comporta un sistema economico parassita che subordina la produzione di merci e servizi alla trasformazione comportamentale degli esseri umani e un livello di concentrazione di ricchezza, sapere e potere mai visto prima nella storia dell’umanità.

Questo specifico tipo di capitalismo, agente direttamente sui desideri e sui comportamenti, continua la studiosa, rende obsoleta qualsiasi distinzione tra mercato e società, tra mercato e persona. Non si tratta più di affermare che “se è gratuito, tu sei il prodotto” ma, secondo Zuboff, occorre piuttosto prendere atto che è il nostro “comportamento futuro” a essere divenuto il “prodotto” acquisito dalle aziende e immesso sui nuovi mercati.

Non si tratta di un totalitarismo orwelliano, quanto piuttosto di un tipo di dominio che Zuboff indica come “potere strumentale”; è l’ambiente tecnologico nel suo insieme a essere preso in ostaggio dall’economia per influenzare il comportamento umano in un’epoca digitale in cui l’ansia di partecipazione sociale ha generato una propensione alla concessione dei dati personali senza intravedere gli aspetti negtivi che ciò comporta. La rete relazionale digitale si presta alla modificazione comportamentale; dai dati che si ricavano dall’elaborazione di quanto viene immaginato e desiderato, risulta possibile per le aziende agire su beni predittivi.

Il capitalismo della sorveglianza entra nel reale attraverso le applicazioni e le piattaforme che si utilizzano quotidianamente e lo fa sfruttando: i tempi ristretti imposti agli individui dalla “società della prestazione”; la propensione a ricorrere a comodi sistemi intuitivi e pronti all’uso percepiti come neutri; la parcellizzazione dell’apprendimento; l’accesso selettivo alle informazioni utili a immediate esigenze di relazione; il desiderio di aderire a una visione certa di futuro pianificata a tavolino dagli elaboratori aziendali a partire dalle informazioni sul surplus comportamentale degli individui.

Le analisi della personalità con fini commerciali si basano sul surplus comportamentale – i cosiddetti metadata, o mid-level metrics – perfezionati e testati da ricercatori, e pensati per contrastare chiunque ritenga di poter controllare la “quantità” di informazioni personali che rivela nei social media. […] Non è la sostanza che viene esaminata, ma la forma. […] Non conta cosa c’è nelle nostre frasi, ma la loro lunghezza e complessità; non che cosa elenchiamo, ma il fatto che facciamo un elenco; non la foto che postiamo, ma il filtro o la saturazione che abbiamo scelto; non cosa riveliamo, ma il modo i cui lo condividiamo o meno; non dove abbiamo deciso di incontrarci con gli amici, ma come lo faremo […] I punti esclamativi e gli avverbi che usiamo rivelano molto di noi, in modo potenzialmente dannoso. […] L’imperativo della previsione scatena i propri segugi per dare la caccia al comportamento nei recessi più profondi.1

La mole di dati raccolti e il livello di elaborazione a cui sono sottoposti appaiono del tutto spropositati rispetto alla mera vendita di spazi pubblicitari tradizionali per quanto mirati; si è di fronte al più sofisticato strumento di monitoraggio e predizione comportamentale mai visto all’opera nella storia e tali pratiche di controllo e manipolazione sociale non sono in possesso di un un “tradizionale” stato di polizia, ma di aziende private, le vere nuove superpotenze2. Mentre ci si preoccupava delle derive totalitarie intraprese dagli stati, il golpe sembrerebbe averlo compiuto l’economia, agendo non solo indisturbata ma anche col supporto di un certo entusiasmo popolare; dopotutto queste accattivanti piattaforme pianificate da giovani creativi sembrano offrire gratuitamente ciò che tutti vogliono, compresa una sensazione di partecipazione, di relazione sociale, di identità, di protagonismo.

Quello analizzato da Zuboff è un universo in cui la digitalizzazione dell’esperienza umana a scopo di profitto prospera grazie a una tendenziale propensione alla “servitù volontaria” scambiata volentieri con un buon motore di ricerca e qualche piattaforma social attraverso cui supplire a una sempre più marcata carenza di rapporti sociali fuori dagli schermi.

Nel volume sono riportate e analizzate numerose dichiarazioni (auto)celebrative espresse tanto dai vertici delle aziende che detengono il monopolio di questo mercato di dati, quanto da chi si occupa della trasformazione di questi ultimi in “marcatori predittivi” del comportamento degli individui. Tali dichiarazioni danno il senso di come i padroni del web abbiano potuto agire indisturbati senza dover rendere minimamente conto alle leggi della democrazia, del tutto disinteressati anche solo a a garantire un minimo di trasparenza o di preoccuparsi della partecipazione e della reciprocità informativa. Da parte sua la politica ha dimostro di non aver saputo/voluto agire prontamente per riconfigurate in un tale contesto questioni come il diritto alla privacy e la segretezza delle comunicazioni.

Il capitalismo della sorveglianza risulta un testo prezioso in quanto offre una meticolosa mappatura di una parte dell’esistente ancora poco conosciuta e studiata. L’autrice non pare però propensa a “far saltare il banco”; non è il sistema economico capitalista a essere da lei messo in discussione. Anzi, l’invito della studiosa alla resistenza nei confronti del “surveillance capitalism” pare votato alla difesa e alla preservazione dell’economia di mercato, considerata essa stessa una vittima di tale deriva.

Come dimostrato dalla recente pandemia, i peggiori scenari distopici possono uscire dalle pagine e degli schermi della fiction invadendo la quotidianità. Quanto tratteggiato dalla studiosa ha tutta l’aria di essere un golpe attuato con le app al posto dei carri armati; quanto ciò comprometta l’economia di mercato, o ne sia semplicemente figlio, interessa relativamente a chi continua a ritenere che sia il sistema intero a essere marcio, sin dalle radici.


Nemico (e) immaginario – serie compelta


  1. S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il Futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma 2019, pp. 290-291. 

  2. Sul concetto di “superpotenza digitale” si veda A. Giannuli, A. Curioni, Cyber war. La guerra prossima ventura (Mimesis 2019) e G. Toni, Guerrevisioni. Cyber war: prossimamente su/da questi schermi, “Carmilla”. 

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Processi di ibridazione. La carne, lo schermo e l’inner space contemporaneo https://www.carmillaonline.com/2020/07/13/processi-di-ibridazione-la-carne-lo-schermo-e-linner-space-contemporaneo/ Mon, 13 Jul 2020 21:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61115 di Gioacchino Toni

In Occidente, ove gli esseri umani passano mediamente più della metà del loro tempo di vita connessi ad apparecchiature digitali, finendo per conoscere la realtà sociale soprattutto tramite le sue rappresentazioni mediatiche, sembrerebbe darsi un processo di fusione progressiva tra spettatore e schermo. Già Marshall McLuhan aveva sostenuto il farsi schermo del corpo dello spettatore televisivo in quanto luogo in cui viene a formarsi l’immagine definitiva derivata dal flusso comunicativo del medium. 

Indagando l’epoca contemporanea, caratterizzata da una spiccata digitalizzazione e dalla tendenza a un comportamento para-tecnologico, in cui gli [...]]]> di Gioacchino Toni

In Occidente, ove gli esseri umani passano mediamente più della metà del loro tempo di vita connessi ad apparecchiature digitali, finendo per conoscere la realtà sociale soprattutto tramite le sue rappresentazioni mediatiche, sembrerebbe darsi un processo di fusione progressiva tra spettatore e schermo. Già Marshall McLuhan aveva sostenuto il farsi schermo del corpo dello spettatore televisivo in quanto luogo in cui viene a formarsi l’immagine definitiva derivata dal flusso comunicativo del medium. 

Indagando l’epoca contemporanea, caratterizzata da una spiccata digitalizzazione e dalla tendenza a un comportamento para-tecnologico, in cui gli individui tendono a rinunciare a qualsiasi relazione sociale significativa non gestita attraverso i media tecnologici, è su come gli attuali schermi, sempre più piccoli e leggeri, si stiano progressivamente fondendo con il corpo dell’utente perdendo la loro natura di medium, di strumento intermedio tra due diverse realtà, che riflette il sociologo Vanni Codeluppi nel suo contributo Vivere negli schermi. La nostra nuova esistenza all’interno dello spazio dei media – al volume curato da Carlo Bordoni, Il primato delle tecnologie (Mimesis 2020)1, in cui sono raccolti scritti di diversi autori sul rapporto tra tecnologia e individuo.

Nell’epoca della convergenza mediatica, tecnolgica e culturale il messaggio veicolato dagli schermi elettronici non è più vincolato alla superficie del supporto e tende a essere instabile, mutando costanemente sottoposto tanto alle strategie dell’industria dell’intrattenimento quanto ai desideri e all’uso autonomo praticato dagli utenti2.

Con lo schermo elettronico, il “vedere sopra” dei supporti fissi, ma anche il “vedere attraverso” tipico della prospettiva rinascimentale e frutto di una strategia visiva tesa a catturare lo sguardo dello spettatore, vengono sostituiti dalla promessa di “vedere dentro”, cioè all’interno del mondo mediatico. Lo spettatore rimane all’esterno dello schermo, ma si può muovere in sintonia con esso e non è più costretto a rimanere immobile dentro lo spazio, come accadeva con le forme precedenti di schermo, quale ad esempio quella che caratterizzava la televisione tradizionale. Ha così la sensazione di essere costantemente in contatto con lo schermo e di poter esercitare un controllo su quella realtà a cui lo schermo stesso gli consente di accedere3.

Da ciò l’individuo deriva la gratificante sensazione di essere, attraverso lo schermo, in contatto con l’intero mondo e di poter influire su di esso. Tutto ciò è ulteriormente rafforzato dai dispositivi tattili che suggeriscono una fusione tra strumenti e corpo dell’utente richiamando quella “nuova carne” indagata dal cinema di David Cronemberg passando dalla mutazione allucinatoria del corpo (Videodrome, 1983) fino a un interfaccia tra essere umano e game in cui universo reale e universo del gioco si con-fondono definitivamente (eXistenZ, 1999) dando luogo a un vero e proprio nuovo corpo-ambiente.

Lo schermo televisivo, ormai, è il vero unico occhio dell’uomo. Ne consegue che lo schermo televisivo fa ormai parte della struttura fisica del cervello umano. Ne consegue che quello che appare sul nostro schermo televisivo emerge come una cruda esperienza per noi che guardiamo. Ne consegue che la televisione è la realtà e che la realtà è meno della televisione. (Brian O’Blivion, Videodrome)

Come in Videodrome, anche in eXistenz Cronenberg insiste sulla centralità del corpo nella relazione tra essere umano e macchina in quanto luogo in cui si iscrive l’esperienza dell’individuo.

È collegato con te, sei tu l’alimentazione: il tuo corpo, il tuo sistema nervoso, il tuo metabolismo, la tua energia. Quando sei stanco si scarica e non funziona più correttamente (Allegra Geller, eXistenz)

La macchina innestata nel corpo umano risponde tanto alla necessità del capitalismo di estendere gli ambiti da cui estrarre profitto, quanto all’insufficienza della realtà quotidiana percepita dagli individui e al desiderio di un suo superamento alla ricerca di un nuovo mondo. Al regista canadese interessa mostrare la sempre più marcata indistinguibilità tra carne biologica e quella tecnologica, l’ibrido della “nuova carne”.

Se alla sua nascita il surrealismo, attraverso il recupero delle pulsioni vitali rimosse e il dar loro libero sfogo all’interno della realtà quotidiana, mirava al raggiungimento di quella completezza, quello stato di realtà superiore (surrealtà), comprendente tanto il livello conscio quanto quello inconscio, la filmografia cronemberghiana sembra voler rileggere tale ricerca di realtà superiore alla luce dei nuovi tempi contemplando l’interfacciarsi dell’essere umano con le macchine, soprattutto mediatiche.

Tali questioni sono al centro anche di Black Mirror (dal 2011 – in produzione, Channel 4 – Netflix), serie televisiva che forse più di ogni altra induce a riflettere sul rapporto tra individuo e tecnologie e sul pericolo del controllo. Scrive a tal proposito Claudia Attimonelli Corpo in M. Trino, A. Tramontana, I riflessi di Black Mirror (Rogas 2018) – che

il senso del titolo Black Mirror è analogico al finale di Videodrome (1983), quando Max Renn fuggendo lontano crede d’essersene liberato, ma è proprio quando gli schermi sono spenti e i dispositivi dormienti che le pratiche agiscono sui corpi online, a loro insaputa. “Lunga vita alla nuova carne”, esultava Renn, e all’alba del nuovo millennio Black Mirror ripropone i dilemmi della nuova condizione postumana.4

Suggestioni surrealiste sono prensenti anche in James Ballard che nelle sue opere ha indagato l’immaginario contemporaneo individuando proprio nell’inner space il luogo di conflitto tra differenti concezioni di libertà individuale e collettiva in cui si danno i maggiori cambiamenti epocali determinati soprattutto dai media. In un’intervista rilasciata al nostro Sandro Moiso nel 1992, recentemente data alle stampe in una curatissima edizione – J. Ballard, All that Mattered was Sensation (Krisis Publishing 2019)5 –, lo scrittore sostiene che se in generale è difficile definire il confine tra sogno e realtà, ciò lo è a maggior ragione ai giorni nostri:

l’ambiente esterno in cui tutti viviamo, ciò che siamo abituati a chiamare realtà, oggi è una fantasia creata dai mass media, dai film, dalla televisione, dalla pubblicità, dalla politica – che ormai non è altro che un ramo della pubblicità. Ho detto più volte che oggi stiamo vivendo all’interno di un enorme romanzo, come personaggi dentro una storia immensa. È molto difficile dire cosa sia la realtà. Un campo d’erba che cresce ai bordi di un’autostrada è più reale della pubblicità dell’ultimo film di Arnold Schwarzenegger? Quale dei due è la realtà? Io direi che la pubblicità di Schwarzenegger è più reale di un campo d’erba che cresce. Schwarzenegger rappresenta le più grandi mitologie commerciali della fine del XX secolo. Tristemente l’erba potrebbe morire domani a causa dello smog o dei gas emessi dalle macchine che passano lungo la strada. Questa differenza tra realtà e sogno è molto difficile da analizzare e, in diversi modi, il sogno è la nostra realtà. È più sensato pensare che i nostri sogni siano reali6.

Antonio Tursi Immagini del conflitto. Corpi e spazi tra fantascienza e politica (Meltemi 2018) – ha approfondito le caratteristiche di tali nuovi scenari concentrandosi in particolare sul loro carattere politico-conflittuale e mettendo in luce come il rapporto tra corpi e immaginario (soprattutto tecnologico) risulti storicamente meno oppositivo di quanto sembri7.

L’intenso ricorso contemporaneo a schermi che tendono ad annullare la distanza che separa lo spettacolo rappresentato al loro interno e il fruitore incide sul modo con cui gli esseri umani conoscono la realtà sociale, dunque su quest’ultima stessa. A proposito dello schermo, nel suo scritto Codeluppi sottolinea come questo sia anche uno strumento di vertinizzazione, di messa in vetrina della realtà, in linea con un modello comunicativo introdotto dalle vetrine dei negozi, imposto socialmente sin dalla prima metà del Settecento8, poi affinato nel corso dei secoli successivi con l’ampliamento degli spazi commerciali e, negli ultimi decenni, con «l’adozione da parte dei principali ambiti sociali di quella particolare logica di rappresentazione visiva che contraddistingue le modalità comunicative appartenenti alla vetrina, non a caso una specie di grande schermo ante litteram»9.

Seguendo tale ragionamento, gli attuali youtuber, influencer, net attivisti ecc. rappresenterebbero allora alcuni degli esiti contemporanei di quel processo che ha preso via nelle metropoli europee attorno alla metà del XVIII secolo e che ha portato alla ribalta figure provenienti dalla folla generando un processo di estetizzazione del pubblico. Scrivono a tal proposito Claudia Attimonelli e Vincenzo SuscaUn oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale (Mimesis 2020)10 – occupandosi della serie telvisiva di Chris Brooker:

I diversi dispositivi caratterizzanti la vita metropolitana e le sue propaggini mediatiche hanno assecondato la progressiva traduzione del quotidiano e persino del triviale dall’altra parte degli schermi, delle cornici e delle vetrine, confondendoli tra loro in un incidente tanto spettacolare quanto gravido di conseguenze. Tra di esse, la prima e la più importante tra tutte – anche della democratizzazione della politica – è l’estetizzazione delle masse, che siamo stati abituati ad interpretare come la loro definitiva emancipazione, considerandola un affrancamento della cultura bassa nei confronti di quella alta. La sua onda lunga, a ben vedere, ci conduce dalle chiacchiere nei café londinesi costituenti i prodromi dell’opinione pubblica borghese alle chat di Telegram e ai dialoghi di Twitter, dalle prime fotografie raffiguranti gente ordinaria nella seconda metà dell’Ottocento alla celebrazione del quotidiano su Instagram, dalla raffigurazione di donne e uomini senza qualità come comparse nella Hollywood degli anni Trenta alle stories di Snapchat e ai video degli youtuber. Piaccia o meno il suo risultato, è qui in atto il divenire opera del pubblico, una dinamica della quale Black Mirror svela il compimento inatteso, i passaggi oscuri e gli effetti perversi.11

È difficile definire quanto si sia spinto in avanti il processo di ibridazione tra corpo e schermo, quanto l’immaginario contemporaneo risulti plasmato da tale con-fusione e quanto sia sottoposto a un processo di colonizzazione volto a estrarne profitto. Attimonelli e Susca, suggeriscono di

spostare la prospettiva ai bordi dello specchio nero, dove non troviamo che paradossi relativi a ciò che crediamo di conoscere in merito al nostro corpo venuto a contatto con le tecnologie immersive, del controllo, delle realtà virtuali e del gaming. Lasciando proliferare i margini del corpo, estendere i suoi orifizi e cedere le sue parti molli, si sovvertono, nostro malgrado, gerarchia e funzioni tradizionali degli organi e ci vengono restituite immagini oscene, destabilizzanti e triviali. Il nostro corpo abita la diaspora delle istantanee esternalizzate e collocate in memorie digitali accessibili a chiunque, il nostro corpo è irrimediabilmente di Altri. Non tutti sono pronti a questa mutazione.12

In Black Mirror la negatività con cui è spesso presentata la pulsione all’ibridazione del corpo con altro da sé, sostiene Claudia Attimonelli, sembrerebbe derivare dal timore della perdita di centralità dell’umano in una postmodernità segnata da una relativizzazione a cui, non di rado, si tende a rispondere con rigurgiti nostalgici per una fantomatica età dell’oro non più ripristinabile. «Rinegoziare costantemente, così com’è richiesto dalla serialità televisiva, il grado di umanità a partire dalla “fine del corpo umano” sembra essere il movente per Chris Brooker a ogni nuova stagione»13.

Guardando a Black Mirror come a un’anticipazione del nostro futuro, sostiene Attimonelli, sembra di scorgere

il cambio di paradigma che vedeva nel tecnocentrismo il contrario dell’antropocentrismo. Nel declino dell’antropocene sono altri i punti di fuga da considerare. A tratti sembra ci si orienti verso scenari diretti da principi tecnocratici e imbevuti di datacrazia […] Intorno a sistemi postmedievali di tortura del corpo si dipana l’immaginario dell’autodeterminazione, confessione, liberazione, valutazione, punizione, sperimentazione e iniziazione. Con l’emergere di queste forme neo-tribali veicolate da totem ad altissima tecnologia e intelligenza artificiale, nel silenzio della cultura scritta, nella sottomissione ai linguaggi elettronici, nell’“emozione pubblica”, sono i corpi a riprendere potere e vantaggio sul linguaggio. Esso, infatti, risulta essere fallimentare nella sua organizzazione tradizionale, non serve più a spiegare e retrocede dinanzi alle reazioni inedite della carne elettronica14.

Con una buona dose di ironia, oltre che di abilità autopromozionale, la notte in cui è stato eletto Donald Trump i produttori di Black Mirror, quasi a far risuonare la voce del professore Brian O’Blivion, predicatore della Chiesa Catodica in Videodrome, hanno lanciato un meme con la scritta “I realizzatori di Black Mirror confermano che l’elezione americana non è un episodio di Black Mirror” facendo seguito al profilo di Twitter della stessa produzione in cui si riportava: “Questo non è un episodio. Questo non è marketing. Questa è la realtà”15.

È andato in loop, non ne uscirà finché non dirai una battuta che appartiene al dialogo del gioco (Allegra Geller, eXistenz)

Di certo l’inner space dell’epoca della vetrinizzazione spinta, derivato (anche) dall’ibridazione corpo-schermo, è un ambito di conflitto. È altrettanto certo che tale conflitto non potrà essere risolto dal messianico arrivo di un eroe coadiuvato dal suo mentore in stile Matrix (1999) di Andy e Larry Wachowski. In qualche modo occorrerà arrangiarsi. In tal caso il vecchio slogan punk Do it yourself andrebbe però declinato al plurale.


  1. C. Bordoni (a cura di), Il primato delle tecnologie, Mimesis, Milano-Udine 2020. Testi di: Cosimo Accoto, Carlo Bordoni, Vanni Codeluppi, Derrick de Kerckhove, Lelio Demichelis, Ernesto Di Mauro, Pierpaolo Donati, Adriano Fabris, Ubaldo Fadini, Marcello Faletra, Umberto Galimberti, Domenico Gallo, Riccardo Gramantieri, Giuseppe O. Longo, Michel Maffesoli, Alberto Oliverio, Matteo Rima, Carlo Sini Bernard Stiegler, Stefano Tani. 

  2. Sulle questioni concernenti la convergenza mediatica, tecnolgica e culturale si vedano i lavori di Henry Jenkins, in particolare il volume H. Jenkis, Cultura convergente, Apogeo, Milano 2007. L’idea che vedeva nella digitalizzazione un viatico per potenziare enormemente le capacità umane dispensando libertà, informazione e una generale propensione al bene comune viene contestata da vari studiosi. Pablo Calzeroni sostiene che i media digitali tendono ad amplificare gli effetti più alienanti del mezzo televisivo; interattività e connettività, anziché migliorare la qualità delle relazioni sociali, sembrano piuttosto averle ulteriormente impoverite incrementando isolamento ed alienazione sociale. P. Calzeroni, Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano Udine 2019. Sul volume si veda: G. Toni, Nemico (e) immaginario. Desoggettivazione ed immaginario antisociale, Carmilla, 20 gennaio 2020. Altrettanto impietoso nei confronti delle possibilità emancipatorie digitali è Jonathan Crary che accusa il sistema tecnologico-mediatico attuale non solo di esercitare una funzione di sorveglianza e di indirizzo di tutte le informazioni prodotte on line, ma anche di intercettare e sfruttare la destabilizzazione umana dilatando i tempi e i modi di comunicazione, lavoro e consumo. J. Crary, 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno, Einaudi, Torino 2015. 

  3. V. Codeluppi, Vivere negli schermi. La nostra nuova esistenza all’interno dello spazio dei media, in C. Bordoni (a cura di) Il primato delle tecnologie, Mimesis, Milano-Udine 2020, pp. 33-34. 

  4. C. Attimonelli, Corpo, in M. Trino, A. Tramontana, I riflessi di Black Mirror. Glossario su immagini, culture e media della società digitale, Rogas, Roma 2018, p. 101. 

  5. James Ballard, All that Mattered was Sensation, Krisis Publishing, Brescia 2019. Testo bilingue con intervista e prefazione di Sandro Moiso e un saggio critico di Simon Reynolds. Sulle tematiche affrontate nel volume si vedano: G. Toni, J.G. Ballard e l’immaginario come luogo di conflitto, Il lavoro culturale, 18 dicembre 2019; S. Moiso, Un profeta per il XXI secolo, Carmilla, 8 gennaio 2020; S. Moiso, Leggere J.G. Ballard al tempo della pandemia, Scenari, 16 aprile 2020; S. Moiso, Wonderland, puntata del 16 gugno 2020, Rai 4, visibile su Rai Play

  6. James Ballard, All that Mattered was Sensation, op. cit., pp. 37-38. 

  7. A. Tursi, Immagini del conflitto. Corpi e spazi tra fantascienza e politica, Meltemi, Milano 2018. Al volume sono stati dedicati due scritti su Carmilla: [1] e [2]

  8. V. Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino 2007. 

  9. V. Codeluppi, Vivere negli schermi. La nostra nuova esistenza all’interno dello spazio dei media, cit. p. 35. 

  10. C. Attimonelli, V. Susca, Un oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale, Mimesis, Milano-Udine 2020. Al volume sono stati dedicati due scritti su Carmilla: [1] e [2] 

  11. Ivi, pp. 273-274. 

  12. Ivi, p. 175. 

  13. C. Attimonelli, Corpo, in M. Trino, A. Tramontana, I riflessi di Black Mirror, cit. p. 97. 

  14. Ivi, pp. 102-103. 

  15. C. Attimonelli, V. Susca, Un oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale, cit., p. 141. 

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Nemico (e) immaginario. Linee di fuga e conflitto oltre l’oscuro riflettere di Black Mirror https://www.carmillaonline.com/2020/04/28/nemico-e-immaginario-linee-di-fuga-e-conflitto-oltre-loscuro-riflettere-di-black-mirror/ Tue, 28 Apr 2020 21:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59302 di Gioacchino Toni

«Il grande assente dalle scene di Black Mirror è il corpo vivo del quotidiano, la poesia senza scrittura di quanti rosicchiano spazi e tempi di libertà interstiziale giocando tra il lecito e l’illecito, sospesi tra la sottomissione e l’insurrezione, di chi in modo surrettizio distorce il senso delle macchine, delle merci e delle comunicazioni in nome dell’ebbrezza di essere insieme, sfiorando il piacere anche nella dissipazione estrema del soggetto moderno» (Claudia Attimonelli e Vincenzo Susca)

Anche il Web è un campo di battaglia, un ambito di conflitto, per quanto asimmetrico. [...]]]> di Gioacchino Toni

«Il grande assente dalle scene di Black Mirror è il corpo vivo del quotidiano, la poesia senza scrittura di quanti rosicchiano spazi e tempi di libertà interstiziale giocando tra il lecito e l’illecito, sospesi tra la sottomissione e l’insurrezione, di chi in modo surrettizio distorce il senso delle macchine, delle merci e delle comunicazioni in nome dell’ebbrezza di essere insieme, sfiorando il piacere anche nella dissipazione estrema del soggetto moderno» (Claudia Attimonelli e Vincenzo Susca)

Anche il Web è un campo di battaglia, un ambito di conflitto, per quanto asimmetrico. Certo la rete è territorio in cui imperversano dominio, alienazione, profitto e mercificazione, come denuncia la serie ideata da Charlie Brooker, ma non mancano, nemmeno lì, stratagemmi di sottrazione, di resistenza e sovversione.

Claudia Attimonelli e Vincenzo Susca, nel volume Un oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale (Mimesis 2020), sottolineano come la serie, mancando di cogliere la complessità del reale, si riveli «uno spettacolo tanto fine dal punto di vista della concezione estetica, dell’architettonica e degli effetti speciali quanto superficiale sul piano sociologico, con particolare riferimento alla sociologia dell’immaginario e della vita quotidiana. Ad un’analisi puntuale, non è meramente un racconto che smaschera l’ideologia dominante nelle sue pratiche e nei suoi obiettivi, ma si pone anche come un suo specchio e strumento. L’una e l’altro appaiono disinteressati a cogliere il brulichio culturale in fermento al di là degli schermi e oltre i dispositivi di potere in campo.» (p. 69)

La rivoluzione industriale ha comportato un’estensione del dominio dell’alienazione ben oltre lo spazio lo spazio e il tempo del lavoro; se nelle pellicole che hanno messo in scena la tradizionale alienazione operaia questa si dava soprattutto nel momento del confronto lavorativo con la civiltà delle macchine durante la produzione, mantenendo momenti di libertà al di fuori di essa, in Black Mirror – es. 15 Millions Merits (15 milioni di celebrità, ep. 2, serie 1, 2011), Nosedive (Caduta libera, ep. 1, serie 3, 2016) e White Christmas (2014) – , sostengono Attimonelli e Susca, gli individui si presentano come «corpi post-umani integralmente assorbiti dalla tecnostruttura e dalle sue ramificazioni, senza più alcun margine di autonomia, salvo quello concesso da errori di sistema che, sebbene fatali, rappresentano i soli ed ultimi passi possibili per raschiare un residuo di libertà.» (pp. 88-89) Ad essere mostrata è pertanto una civiltà del tutto priva di godimento in cui l’esistenza è completamente in balia dell’alienazione.

A che livello, si chiedono gli studiosi, è allora possibile «intercettare uno iato dalla condizione associata con lo scambio tra la forza-lavoro del proletario versus il salario nell’Ottocento e il dono di sé del soggetto contemporaneo sotto forma di docilità nel rendere trasparenti i dati personali, nell’essere tracciati e nell’accogliere le multiple ingiunzioni provenienti dall’esterno della sfera personale?» (p. 70) Ad un modello che si regge sulla retribuzione sembra affiancarsi, più che sostituirsi, un modello fondato su un principio emotivo, affettivo e simbolico, piuttosto che materiale. Ciò non significa, sostengono Attimonelli e Susca, che non vengano monetizzate le attuali forme di socialità digitale, ma piuttosto che «ciò ha luogo a un piano troppo distante dalla sfera del vissuto perché possa essere considerato centrale su quello sociologico, semiologico e psicologico.» (p. 71)

L’immaginario collettivo pare ancora percepire la cultura digitale «come una dimensione intimamente legata all’abitare, a ciò che è spontaneo e gratuito nel senso etimologico del termine: gratuitus da gratia, la grazia, una forma di favore e di benevolenza senza ragione, pagamento o aspettazione di compenso.» (pp. 71-72) «Per quanto ingenuo possa sembrare […] lo spirito del Web e del suo corrispettivo negli scenari urbani è animato da una logica della comunicazione che privilegia le aree semantiche della comunità, della comunione e del comune. Ne consegue un investimento personale e societale ben più sostanzioso di quello agito tramite il denaro: esso ha a che vedere con la carne e con la fantasia, con i sentimenti e con le emozioni, con qualcosa al contempo più materiale e più immateriale degli scambi commerciali o finanziari. Per questo contempla un darsi completo, indiscriminato e irreversibile. Fatale, quindi, ma non secondo la visione univoca e soverchiante evocata da Black Mirror.» (p. 72).

Da parte sua Black Mirror, secondo i due studiosi, non mostra alcun piacere che non si riveli falso, distorto o perverso. I pochi barlumi di felicità che si riscontrano nelle puntate della serie assumono le sembianze di passioni fredde presto destinate alla disillusione: reificate dallo specchio dei media, nella logica semplificata di Black Mirror esse finiscono per divenire «cose tra le cose nel sistema degli oggetti, merci attorno ad altre merci. Frantumate in schegge disorganiche, finiscono per ferire la carne e demolire la psiche degli esseri umani.» (p. 75)

Per oltrepassare la parzialità della lettura proposta dalla serie, incentrata com’è sulla denuncia della perdita della soggettività, è necessario cogliere vie e pratiche di fuga in quella che troppo frettolosamente viene letta come mera passività dei soggetti. Nonostante la cupezza del discorso portato avanti da Black Mirror, almeno in alcune sue puntate – ad esempio in Hang the Dj (ep. 4, serie 4, 2017), San Junipero (ep. 4, serie 3, 2016) e Black Museum (pe. 6, serie 4, 2017) –, Attimonelli e Susca ritengono sia possibile intravedere qualche breccia nella serie e nel nostro quotidiano.

Su quelli che possono essere considerati i limiti dell’approccio critico veicolato dalla serie, si sofferma anche Federico Tarquini in un suo scritto intitolato Illusione (in Mario Tirino e Antonio Tramontana, I riflessi di Black Mirror. Glossario su immaginari, culture e media della società digitale (Rogas Edizioni, 2018). Il regime visuale proposto da Black Mirror, sostiene lo studioso, da un lato tende a presentare il dispositivo digitale come superamento della visione biologica umana, dall’altro non manca di palesare come esso determini una particolare etica dello stare insieme in cui sono banditi i segreti. Se, come sostiene Georg Simmel, il segreto è un elemento costituente delle relazioni sociali, ne deriva che la sua esclusione imposta dalla tecnologia finisca per dare luogo ad una società in cui risulta estremamente difficile avere legami affettivi.

Nel regime visuale di Black Mirror, sostiene Tarquini, muta anche il rapporto tra visione e memoria. «Nell’era della rappresentazione questo legame si è espresso contemplando sia ciò che i propri occhi han visto, sia ciò che si presume di avere visto e che magari non si ricorda proprio per l’eccessivo tempo trascorso. Vista, visione, racconto, spazio e tempo si sommano in questo rapporto rendendo sofisticatissima l’azione della memoria nella cultura occidentale» (pp. 130-131). Il regime visuale della serie pare presupporre che a causa del dispositivo tecnologico, comportante l’espulsione dalla dimensione della memoria di tutto ciò che non appare certo e verificabile, si attui il superamento di tale complesso procedimento e tutto ciò viene presentato come un’amara illusione di progresso.

In The Entire History of You (Ricordi pericolosi, ep. 3, serie 1, 2011) ciò che sembra garantire un potenziamento della memoria e dell’esperienza quotidiana dell’individuo si rivela un dispositivo che lo condanna all’impossibilità di godere di relazioni affettive, dunque alla solitudine. «Insistendo così vigorosamente sul convincimento che le tecnologie infliggano un generale processo di falsificazione al piano del reale, Black Mirror sembra voler affermare l’illusione come ciò che caratterizza l’esperienza collettiva e personale dei media e delle tecnologie.» (p. 131). Nella serie l’illusione viene presenta come l’effetto principale del regime visuale imposto dalla tecnologia. Tale alterazione del rapporto tra percezione e conoscenza, suggerisce Black Mirror, conduce alla falsificazione del reale in ossequio alla volontà di un potere distopico talmente sofisticato da ottenere, attraverso la falsificazione, appunto, l’assoggettamento volontario degli individui ad una condizione alienata.

«La raffinata e coinvolgente linea narrativa che lega tutti gli episodi della serie sembra […] patire un limite teorico tipico del pensiero critico, ovvero sottostimare l’azione del soggetto quando entra in contatto con un qualsiasi medium» (p. 133). Da questo punto di vista la serie diverge da quelle letture critiche che vedono nel rapporto tra individuo e media un livello di complessità molto maggiore rispetto a quella proposto dalla serie di Charlie Brooker, una complessità colta, ad esempio, già da Walter Benjamin e dallo stesso Herbert Marshall McLuhan. Se il compito di Black Mirror è quello di metterci di fronte all’imbarbarimento in cui siamo precipitati, questo compito è svolto egregiamente. Prendere atto di ciò è certo indispensabile ma è giunto il momento di smettere di piangersi addosso volgendo mestamente lo sguardo al passato e imparare a leggere le linee di fuga e il conflitto nelle forme in cui si dispiegano qua e ora e, soprattutto, che possono darsi, più fragorosamente, in futuro.


Nemico (e) immaginario – serie completa

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Nemico (e) immaginario. Happycrazia e barlumi di rabbiosa umanità https://www.carmillaonline.com/2020/03/19/nemico-e-immaginario-happycrazia-e-barlumi-di-rabbiosa-umanita/ Thu, 19 Mar 2020 22:01:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58608 di Gioacchino Toni

«a fronte di un mondo organizzato sul principio del controllo e della valutazione, che estende a tutti la condizione della libertà vigilata, l’istituto penitenziario, luogo per eccellenza elaborato nella modernità al fine di punire e curare la devianza e ristabilire la “normalizzazione” dell’esistenza, in ossequio al vivere civile della società, si pone ormai per Black Mirror non in quanto gabbia, ma come una sorta di riserva dove gli umani possono esprimere in modo esacerbato ciò che resta del loro istinto – un’animalità smarrita e pervertita in rabbia. È l’ultimo rifugio dell’individuo, l’unica parentesi in cui questi può manifestare [...]]]> di Gioacchino Toni

«a fronte di un mondo organizzato sul principio del controllo e della valutazione, che estende a tutti la condizione della libertà vigilata, l’istituto penitenziario, luogo per eccellenza elaborato nella modernità al fine di punire e curare la devianza e ristabilire la “normalizzazione” dell’esistenza, in ossequio al vivere civile della società, si pone ormai per Black Mirror non in quanto gabbia, ma come una sorta di riserva dove gli umani possono esprimere in modo esacerbato ciò che resta del loro istinto – un’animalità smarrita e pervertita in rabbia. È l’ultimo rifugio dell’individuo, l’unica parentesi in cui questi può manifestare se stesso senza preoccuparsi dell’apprezzamento altrui. Al contrario, la vita collettiva, plasmata com’è da una solida alleanza di leggi neoliberali, reti sociali e tecniche di sorveglianza, appare come un sistema carcerario a cielo aperto da cui urge affrancarsi.» (pp. 54-55)

Così scrivono Claudia Attimonelli e Vincenzo Susca analizzando la celebre serie televisiva ideata da Charlie Brooker nel volume Un oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale (Mimesis, 2020). Circa il come affrancarsi da una deriva paradossale in cui una minima traccia di umanità residua la si riscontra in qualche impeto rabbioso di chi vive la reclusione estrema del penitenziario, residuo moderno resistente ai cambiamenti, Black Mirror (dal 2011), sostengono gli studiosi, sembra invitare ad un rigetto della felicità illusoria ed effimera da cui si è quotidianamente bombardati da quell’happycrazia neoliberista in cui ogni «barbaglio di benessere dissimula in realtà uno specchio nero frantumato, la nostra vita ridotta a pezzi indistinguibili, disorganici e impotenti.» (p. 56)

Episodi come Playtest (Giochi Pericolosi, ep. 2, serie 3, 2016), 15 Millions Merits (15 milioni di celebrità, ep. 2, serie 1, 2011), White Bear (Orso Bianco, ep. 2, serie 2, 2013), insieme ad altri, sostengono Attimonelli e Susca, sottolineano come l’impressione di disporre del mondo intero attraverso un clic, celi di fatto la resa, più o meno cosciente, dell’essere umano alla subordinazione, al controllo e alla manipolazione operata da big data, social profiling, algoritmi ed intelligenza artificiale.

Questa costante sollecitazione all’attenzione a cui è sottoposto l’individuo ridotto a “carne elettronica” dai ritmi digitali, ha finito per negarlo in quanto soggetto dotato di un punto di vista. Dentro e fuori dal web, sostengono i due studiosi, si palesa una situazione di “orgia permanente” in cui l’individuo gode dell’altrui presenza solo nel concedersi, «come in una sorta di prostituzione sacra, sullo sfondo di una petite grande mort. […] Ecco perché possiamo suggerire che la “prostituzione generale” dell’esistenza segnalata e paventata da Marx nella sua analisi del modo di produzione capitalista sia oggi in corso di realizzazione, in modo integrale, ben oltre l’ambito della produzione e della sfera sessuale.» (pp. 51-52)

Episodi come White Christmas (Bianco Natale, 2014), Arkangel (ep. 2, serie 4, 2017) e Black Museum (ep. 6, serie 4, 2017), illustrano perfettamente come «in sintonia con il ritmo e con la morfologia delle nostre esistenze digitali, delle reti sociali e di ogni forma di interconnessione che scandisce il nostro vissuto, la condivisione ininterrotta dell’esperienza, l’essere-insieme incessante e la disponibilità illimitata nei confronti dell’altro afferenti al regno dell’always on, dello sharing, dei follower, dei fan, della geolocalizzazzione, ma anche dei sistemi di videosorveglianza, che ne rappresentano il contraltare oscuro, delineano la totale cessione dell’individuo, nella carne e nello spirito, a corpi che gli sono estranei. Questo cedimento, è il caso di sostenere, appare tanto più considerevole quanto più assecondato senza particolari forzature, per usare un eufemismo, da quanti vi sono coinvolti, i quali non mancano di apostrofarlo con cuoricini, like, smiley, sticker, Gif ed emoji entusiasti nel mentre avvertono di starne soffrendo e subendo le conseguenze tramite da un lato la riduzione della libertà personale, dall’altro l’incremento vertiginoso dello stress, dell’ansia e della sensazione d’impotenza.» (pp. 52-53)

Tutto ciò, continuano Attimonelli e Susca, è ben esemplificato dall’episodio Nosedive (Caduta Libera, ep. 2 serie 3, 2014), in cui gratificazione personale, successo e felicità degli individui dipendono dall’approvazione sociale ottenuta dai “contatti” in base al grado di soddisfacimento delle attese. Svuotata di ogni possibilità decisionale autonoma, la protagonista cade in uno stato di alienazione e angoscia che ne inibisce ogni libertà d’azione finendo paradossalmente per ritrovarne qualche residuo soltanto nello stato di prigionia, quando si lascia andare ad un’incontrollata reazione rabbiosa, nei confronti del vicino di cella, accumulata nel corso di un’esperienza esistenziale frustrante. Il suo è un sussulto disperato e rabbioso che incarna la violenza strutturale di un sistema rivelatosi spietato, un sussulto però capace di palesare un barlume, per quanto brutale, di istinto umano sopravvissuto.

Denunciare l’imbarbarimento in cui ci si accorge, quasi improvvisamente, di essere precipitati potrebbe non bastare. «Stiamo tutti morendo», sembra suggerirci la celebre serie televisiva, «o forse siamo già morti nel mentre la nostra esistenza è gonfiata, augmented ed estesa all’inverosimile tramite protesi, reti digitali, banche dati, algoritmi e tecnologie connettive in grado d’integrare la nostra coscienza, potenziare il nostro sentire e attualizzare le nostre fantasie.» (p. 47)

«Vediamo tutti quegli attori e cantanti che in tv o sui social, belli come il sole, invitano sorridendo la gente a restare a casa. Ma un operaio come fa?» Così si esprimeva un operaio brianzolo pochi giorni dopo l’esplosione delle disperate e rabbiose insurrezioni nelle carceri, in pieno dilagare del contagio e dell’inasprirsi di quello stato d’emergenza che, passo dopo passo, sembra essere divenuto elemento strutturale della contemporaneità.

Ci si spaventa facilmente di fronte a qualche barlume di una rabbia che, per quanto possa tragicamente assumere indirizzi irrazionali, pare comunque derivare da un disperato tentativo, del tutto umano, di riappropriarsi di se stessi in risposta a un sistema alienante strutturato sui principi della mercificazione, dello sfruttamento, del controllo e della valutazione, sistema che di umano pare davvero avere sempre meno.

What if? E se… a spaventare cominciassero ad essere i riflettori dell’happycrazia ed il luccichio dei suoi testimonial sorridenti, cosa potrebbe succedere?

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