Neil Postman – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 15 Jun 2025 20:00:52 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Estetiche del potere. La (tele)dittatura del divertimento https://www.carmillaonline.com/2023/10/12/estetiche-del-potere-la-teledittatura-del-divertimento/ Thu, 12 Oct 2023 20:00:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79306 di Gioacchino Toni

A metà degli anni Ottanta del secolo scorso negli Stati Uniti e in maniera analoga, seppure in leggera differita, in buona parte dell’Occidente, mentre sugli schermi televisivi imperversavano Dynasty, Dallas, The A-Team, Cheers e Hill Street Blues, i telepredicatori facevano il pieno di ascolti e alla sobrietà della tv dei decenni precedenti si sostituivano sguaiate risate registrate e fragorosi applausi a comando, quanti avevano letto Nineteen Eighty-Four (1949) di George Orwell potevano rallegrarsi del fatto che, giunti al fatidico 1984, la società in cui vivevano non aveva assunto le sembianze della distopia prospettata dal romanzo.

A trarre un [...]]]> di Gioacchino Toni

A metà degli anni Ottanta del secolo scorso negli Stati Uniti e in maniera analoga, seppure in leggera differita, in buona parte dell’Occidente, mentre sugli schermi televisivi imperversavano Dynasty, Dallas, The A-Team, Cheers e Hill Street Blues, i telepredicatori facevano il pieno di ascolti e alla sobrietà della tv dei decenni precedenti si sostituivano sguaiate risate registrate e fragorosi applausi a comando, quanti avevano letto Nineteen Eighty-Four (1949) di George Orwell potevano rallegrarsi del fatto che, giunti al fatidico 1984, la società in cui vivevano non aveva assunto le sembianze della distopia prospettata dal romanzo.

A trarre un sospiro di sollievo potrebbero però essere stati soltanto coloro che non avevano letto, o avevano nel frattempo rimosso, il meno celebre Brave New World (1932) di Aldous Huxley in cui la tirannia anziché essere esercitata per via coercitiva aveva saputo rendersi desiderabile.

Insomma, negli anni Ottanta, in Occidente, anziché avverarsi la distopia orwelliana, a compiersi, in sordina, era quella huxleyana, rivelatasi più in linea con le esigenze di una società votata alla mercificazione e al consumismo più sfrenati.

Sebbene nella stretta contemporaneità, segnata da un insistito ricorso a stati emergenziali, i due scenari distopici sembrino non di rado intrecciarsi, si tende a individuare il modello orwelliano, contraddistinto da un tipo di oppressione imposta dall’alto deprivante il popolo della propria memoria e autonomia, nei sistemi esplicitamente dittatoriali, mentre invece quello huxleyano, in cui il potere riesce a far amare al popolo il proprio oppressore e a sostenere le tecnologie tese ad annullare la capacità di pensiero, nei sistemi più democratici.

Convinto dell’importanza delle tecnologie e dei media nella costruzione della realtà, nella definizione delle percezioni, nell’organizzazione delle esperienze e delle relazioni emotive e nell’azione sociale degli individui, in Amusing Ourselves to Death (1985), analizzando gli effetti socioculturali del medium televisivo, il sociologo statunitense Neil Postman ha colto proprio in esso lo strumento principale di attuazione della pratica di dominio prospettata da Huxley nei primi anni Trenta, agli albori di quella che si sarebbe rivelata l’era televisiva.

In occasione dell’uscita di una nuova edizione italiana del volume di Neil Postman, Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo, prefazione di Matteo Bittanti e traduzione di Leone Diena (Luiss University Press, 2023), vale la pena evidenziare come diverse riflessioni espresse dal sociologo statunitense, che sarebbero poi in parte da lui stesso riprese e sviluppate nel successivo Technopoly. La resa della cultura alla tecnologia (Bollati Bornighieri, 1993), nonostante facciano riferimento a un panorama mediatico ormai decisamente cambiato, restino assolutamente valide ai giorni nostri segnati dall’affiancamento di internet al mezzo televisivo.

Gli anni Ottanta sono passati alla storia come il decennio della superficialità, della frivolezza, del trash e dell’usa e getta, un periodo, come ha sostenuto Tommaso Ariemma (Dark Media. Cultura visuale e nuovi media, Meltemi 2022)1, caratterizzato non tanto dalla sensazione di “mancanza di futuro”, quanto piuttosto dal “futuro già presente” derivata in buona parte dall’estetica della simulazione diffusasi con le nuove tecnologie informatiche, grazie soprattutto al Mac, votata alla celebrazione della sola “superficie visuale”.

All’individualismo degli anni Ottanta si è affiancata, in parte anche in reazione ad esso, una spinta all’isolamento in un universo fittizio in cui si è cercato rifugio in seguito alla delusione indotta dal mondo reale rivelatosi incapace di soddisfare le aspirazioni dei più giovani. Un ripiegamento votato al primato della sensazione, dell’immediato, del mero “significato di superficie”, anticipando di fatto quella web culture che avrebbe finito per sostituire alle relazioni amicali il desiderio del sentire e, come efficacemente sostenuto da Mario Perniola (Del sentire, Einaudi 1991), all’ideologia, socializzazione dei pensieri, la “sensologia”, socializzazione dei sensi.

L’analisi del medium televisivo proposta da Postman in Divertirsi da morire, nel suo porsi, scrive Matteo Bittanti nella prefazione al volume, come sintesi nella dialettica che vede Gli strumenti del comunicare (1964) di Marshall McLuhan e La società dello spettacolo (1967) di Guy Debord occupare rispettivamente il ruolo di tesi e di antitesi, ha il grande merito di mostraci oggi come le premesse della web culture siano ravvisabili nel medium televisivo degli anni Ottanta, nella sua «forma di comunicazione basata unicamente sull’intrattenimento e sullo svago – entertainment, infotaiment, amusement – introducendo un’estetica squisitamente spettacolare».

Un mezzo di comunicazione votato dunque a promuovere contenuti visuali leggeri, trasmessi in rapida e frammentata successione, mercificati, dunque progettati per attrarre e intrattenere il pubblico divertendolo ben oltre i generi storicamente votati a tale compito. Come ha avuto modo di segnalare Carmine Castoro (Clinica della TV, 2015)2, l’inarrestabile flusso casuale di comunicati decontestualizzati supporta pratiche di seduzione consumistica e di istupidimento deprivanti l’essere umano di capacità critica, intrattenendolo attraverso un flusso soporifero di immagini.

Il divertimento/intrattenimento che plasma la televisione degli anni Ottanta, in tutti i suoi programmi, notiziari compresi, si pone per certi versi alla base di quei processi di ludicizzazione3 che si dispiegheranno nel web nei decenni successivi e, più in generale, di quella logica che ha saputo rendere costantemente produttivi gli utenti di internet facendo loro percepire il lavoro non pagato a cui si sottopongono come mera attività ludica.

Se è usuale individuare nella storia statunitense una città che, più di altre, può essere vista come incarnazione dello spirito americano del tempo, per gli anni Ottanta, sostiene Postman, questa è sicuramente Las Vegas e lo è perché in essa vive esclusivamente il divertimento, esattamente come nella televisione. Il problema, sottolinea il sociologo, non è certo dato dall’offerta di divertimento da parte della televisione, quanto piuttosto dal fatto che tutto in essa sia dia all’insegna del divertimento, che l’intrattenimento sia l’inderogabile “superideologia” di ogni discorso televisivo.

“Ed ecco a voi…” è probabilmente una delle frasi più ricorrenti in televisione, tanto da fungere quasi da punteggiatura volta a mettere un punto fermo dopo quanto visto fino a quel momento per aprire un discorso totalmente nuovo. «La frase è fatta apposta per mettere in luce il fatto che il mondo così com’è descritto dai frettolosi mezzi elettronici non ha nessun ordine e nessun senso e non deve essere preso troppo sul serio. Non c’è assassino così efferato, terremoto cosi disastroso, guaio politico così grave […] che non possa essere cancellato dalla nostra memoria con un: “Ed ecco a voi…”».

Con tali parole viene suggerito ai telespettatori che quanto visto fino a quel momento non merita ulteriore spazio, approfondimento o riflessione e che è giunto il momento di proiettarsi su un nuovo frammento di notizia o di pubblicità, che poi così diverse non sono. Certo, il modello “Ed ecco a voi…” non è stato inventato dalla televisione, che lo ha derivato dal connubio tra telegrafo e fotografia, ma sicuramente, sostiene Postman, è stata la tv a condurlo alla sua «attuale perversa maturità» ed è proprio nel telegiornale che tale modello «si mostra nella sua forma più sfrontata e imbarazzante» finalizzata unicamente all’intrattenimento.

Nel suo susseguirsi di frammenti non solo slegati uno dall’altro ma anche neganti importanza al precedente di turno, di cui si palesa la necessità di abbandono frettoloso, la televisione minimizza ogni notizia; per quanto grave possa sembrare, questa sarà presto seguita da una di minor gravità, o da una pubblicità, che provvederà a banalizzarla.

Si è «ormai talmente assuefatti all’universo di “Ed ecco a voi…” – un universo a frammenti, in cui i vari fatti se ne stanno da soli strappati da ogni connessione col passato, o col futuro, o con altri fatti – che sono vanificate tutte le presunzioni di coerenza. E quindi anche ogni contraddizione. Nel contesto di nessun contesto, per così dire, la contraddizione semplicemente svanisce».

Sebbene non sia possibile incolpare esclusivamente la televisione di tutto ciò, afferma Postman a metà degli anni Ottanta, di certo tale medium rappresenta «il paradigma della nostra concezione di informazione» e visto che la pubblicità televisiva si presenta come «la forma più vistosa di comunicazione pubblica nella nostra società», continua il sociologo, «era inevitabile che gli americani dovessero […] accettarla come forma normale e plausibile di discorso».

Occorre aggiungere che se, come sostiene Postman, negli anni Ottanta l’intrattenimento televisivo era indubbiamente fondato sul divertimento, nei decenni successivi l’intrattenimento si sarebbe avvalso anche della “tv del dolore” contraddistinta, come argomenta Carmine Castoro (Il sangue e lo schermo, Mimesis 2017)4, da un’iconografia della paura costruita su pandemie, calamità naturali e attentati spalmati sul nulla di ore e ore di dirette attraversate da narrazioni ripetitive, opinionisti improvvisati, inviati e video amatoriali trasmessi in un estenuante e ansiogeno ripetesi di immagini di soccorritori e di disperazione in un loop di etichette ripetute come un mantra: “crimine efferato”, “tragedia immane”, “apocalisse”, “disastro epocale” e via dicendo.

In chiusura di libro, riprendendo la distopia prospettata da Brave New World5,  Postman sottolinea come ciò che Huxley aveva cercato di dirci è che ciò che affliggeva gli abitanti del mondo nuovo tratteggiato dal suo romanzo «non era ridere anziché pensare, ma non sapere per che cosa ridessero e perché avessero cessato di pensare». Verrebbe da dire che se si pensava di seppellire lor signori con una risata, è finita che oggi si ride davanti agli schermi – televisivi o degli smartphone – senza sapere di cosa e perché e, soprattutto, avendo mandato (da tempo) in vacanza il cervello.

In una contemporaneità tecnocratico-liberista in cui, come denuncia Bittanti nella prefazione al volume, in ambito accademico l’analisi dei media si riduce al funzionalismo applicato, all’ottimizzazione dei motori di ricerca e alle strategie di gamification volte a generare profitto, «Divertirsi da morire rappresenta un’anomalia tanto anacronistica quanto preziosa». Quello di Postman è un libro che non ha bisogno di like, ma di essere letto e preso sul serio.


Estetiche del potere – serie completa


  1. Cfr. Gioacchino Toni, Dark Media, in “Carmilla online”, 26 giugno 2023. 

  2. Cfr. Gioacchino Toni, Estetiche del potere. Virtualizzazione, estetizzazione, neutralizzazione ed altre patologie virali del Tele-Capitalismo, in “Carmilla online”, 4 maggio 2016. 

  3. Cfr. Gioacchino Toni, Gamification e controllo comportamentale, in “Pulp Magazine”, 22 febbraio, 2023; Matteo Bittanti, A lezione di Pokémon Go. Da A(lfie Bown) a (Shoshana) Z(uboff), Università Iulm, 18 novembre 2022. 

  4. Cfr. Gioacchino Toni, Estetiche del potere. Il sangue e lo schermo. La mercificazione della paura nell’era dei media spacciatori di assenze, in “Carmilla online”, 29 dicembre 2017. 

  5. Cfr. Gian Paolo Serino, Aldous Huxley e la distopia, in “Carmilla online”, 8 settembre 2003. 

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Politica e videogiochi https://www.carmillaonline.com/2023/01/12/politica-e-videogiochi/ Thu, 12 Jan 2023 21:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75375 di Gioacchino Toni

Il nuovo volume curato da Matteo Bittanti, Reset. Politica e videogiochi (Mimesis, 2023), in continuità con il precedente Game over. Critica della ragione videoludica (Mimesis, 2020) [su Carmilla],  si occupa del rapporto che intercorre tra immaginario videoludico e immaginario politico dei giocatori, delle ideologie del divertimento elettronico e dei loro effetti socio-culturali constatando come, soprattutto tra i più giovani, non solo l’ambito dei videogame e quello reale tendano a sovrapporisi, ma anche come l’impegno politico e il disimpegno videoludico siano sempre più convergenti.

Guardandosi dal suggerire «l’esistenza [...]]]> di Gioacchino Toni

Il nuovo volume curato da Matteo Bittanti, Reset. Politica e videogiochi (Mimesis, 2023), in continuità con il precedente Game over. Critica della ragione videoludica (Mimesis, 2020) [su Carmilla],  si occupa del rapporto che intercorre tra immaginario videoludico e immaginario politico dei giocatori, delle ideologie del divertimento elettronico e dei loro effetti socio-culturali constatando come, soprattutto tra i più giovani, non solo l’ambito dei videogame e quello reale tendano a sovrapporisi, ma anche come l’impegno politico e il disimpegno videoludico siano sempre più convergenti.

Guardandosi dal suggerire «l’esistenza di una relazione causale tra la fruizione di videogiochi e i comportamenti sociopatici nel mondo reale», scrive Bittanti, è «importante ricordare che il videogioco non è che un elemento di un complesso ecosistema formato da spazi di consumo, discussione e condivisione che spesso presentano un’elevata tossicità: misoginia, razzismo, omofobia e violenza verbale» (pp. 30-31). Dunque, qualsiasi discussione sui videogiochi non può prescindere dal contesto in cui si vanno ad inserire e da cui sono pensati, prodotti e fruiti.

Se Alex Hochuli, George Hoare e Philip Cunliffe (La fine della fine della storia, Tlon, 2022) sostengono che all’apatia che aveva contraddistinto i decenni precedenti si è ultimamente sostituito un sentimento di rabbia strutturatosi di pari passo alla crescente delegittimazione delle istituzioni tradizionali su cui hanno prosperato diverse forme di populismo, Martin Gurri (The Revolt of The Public and the Crisis of Authority in the New Millennium, Stripe Press, 2014) sostiene invece che, con riferimento a un’attualità che ritiene palesarsi come capolinea della democrazia liberale, complice anche la trasformazione mediale digitale, si debba piuttosto parlare di nichilismo.

Lungi dall’essere per forza un emarginato, il soggetto nichilista tratteggiato da Gurri è piuttosto un individuo disilluso e cinico, non di rado inserito socialmente, che non trova felicità nella sua quotidianità, nella way of life imperante, pur non mettendola realmente in discussione, e nel sistema politico che la governa. Un individuo che tende a trovare la propria dimensione all’interno di una comunità strutturatasi, spesso nell’universo online,  su una specifica questione che diventa frequentemente l’unica questione esistenziale. Insomma, nota Bittanti, il nichilista descritto da Gurri ricorda molto da vicino la figura del gamer tanto che diversi giovani gamer statunitensi potrebbero aver guardato all’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 come a un’occasione spettacolare per estendere il gioco fuori dagli schermi.

«Detto altrimenti, una generazione cresciuta di fronte allo schermo combattendo contro terroristi arabi e draghi sputafuoco, zombie e vampiri nonché social justice warrior sui social media ha temporaneamente lasciato la cameretta illuminata al LED per assediare il Congresso, vandalizzando i simboli della democrazia» (p. 18). Per quanto sbiaditi, si tratta pur sempre di simboli da colpire con lil medesimo odio promosso da tanti videogiochi mainstream che celebrano principi, valori e immaginari indubbiamente di destra.

Attraverso il videogioco, per quanto in forma illusoria, il giocatore – nella stragrande maggioranza dei casi orgogliosamente maschio e bianco – acquisisce “poteri straordinari” «con i quali ritiene legittimo imporre la propria visione di mondo alla realtà in quanto tale, anche (soprattutto) quando tale weltanschauung è barbarica. Il concetto mcluhaniano del medium come estensione delle facoltà umane trova in quella macchina dei desideri e delle gratificazioni dopaminiche altrimenti nota come videogioco la massima espressione. Ergo, per migliaia di gamer, l’arrembaggio al Campidoglio il 6 gennaio 2021 è paragonabile a una partita di Call of Duty IRL» (p. 21).

Risultano evidenti i punti di contatto tra la figura del nichilista tratteggiata da Gurri e quella del gamer di giochi mainstream delineata da Bittanti, tra immaginario videoludico – infarcito di supremazia bianca, patriarcato e violenza – e l’esperienza concreta fuori schermo. Le fondamenta razziste e schiaviste del capitalismo e del consumismo che strutturano tanto le opzioni fasciste quanto quelle neoliberiste, sostiene lo studioso, sono le stesse che informano e alimentano l’immaginario videoludico mainstream.

Bittanti si sofferma anche sulla ludicizzazione delle cosiddette “sparatorie di massa”, fenomeno cresciuto in maniera esponenziale negli ultimi tempi. Tra gli elementi che accomunano molti degli artefici di questi massacri vi è la giovane età, l’essere maschi e bianchi, l’aver acquistato legalmente fucili semiautomatici non appena l’età lo ha consentito, la propensione a ostentare l’arsenale posseduto sui social media per fini identitari, «l’appropriazione di estetiche e logiche tipiche degli sparatutto in soggettiva durante l’attacco, spesso ripreso in streaming [e] la diffusione di manifesti programmatici sulle medesime piattaforme condivise dai gamer» (p. 28).

Analizzando il massacro del 2019 di Christchurch in Nuova Zelanda, che ha causato cinquantuno vittime, Suraj Lakhani e Susann Wiedlitzka1 hanno notato come l’attentatore, appassionato di giochi di ruolo multiplayer online di tipo “sparatutto in soggettiva” e frequentatore di imageboard infestati dall’estrema destra, abbia architettato l’attentato su una logica e un’estetica di tipo videoludico ricorrendo alla trasmissione in live-streaming dell’attacco nel formato di uno “sparatutto in prima persona” concretizzando uno stile di videogioco proprio, ad esempio, di Call of Duty e Doom, nonché abbia trovato gratificazione nell’esbire una macabra classifica che lo metteva a confronto, in termini di vittime, con precedenti attacchi di estrema destra. Gamification e linguaggio ludicizzato non solo sono stati alla base del piano dell’attentatore ma, segnalano Lakhani e Wiedlitzka, ricorrono anche nei commenti pubblicati da altri utenti degli imageboard su cui l’attentatore aveva annunciato l’intenzione di compiere un massacro.

Se, con riferimento agli Stati Uniti plasmati dalla logica televisiva, Neil Postman (Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo, Luiss University Press, 2021) ritiene che il divertimento imposto dal medium è divenuto il parametro fondamentale di ogni esperienza sociale, dunque anche della politica, Bittanti invita a chiedersi come cambi quest’ultima nell’era videoludica.

Il rapporto tra la politica e l’universo videoludico non si risolve di certo nell’acquisizione di spazi pubblicitari all’interno dei videogiochi, come aveva fatto pionieristicamente Barack Obama nella campagna presidenziale del 2008; la stretta attualità, scrive Bittanti, palesa piuttosto un fenomeno di ludicizzazione del dibattito sulle piatteforme digitali in cui la discussione politica tende a ridursi a una “partita” «in cui “ottenere punti” e “vincere” la conversazione, sulla base di performance retoriche fondate sull’attrito e sull’effetto, sull’argumentum ad captandum e sull’attacco ad hominem. Questa dinamica puramente antagonistica nella quale un “pubblico” di seguaci “fa il tifo” sta diventando standard: la logica vigente è quella del “noi contro di loro”, del “ti ho fregato” e del “ti ho distrutto”» (p. 55). Si pensi al ricorso insistito dei media italiani più reazionari al termine “asfaltare” per certificare “l’annientamento della controparte” ottenuto dai loro politici di riferimento attraverso qualche espediente retorico, non di rado compiaciutamente politically incorrect.

La congruenza tra la politica e l’intrattenimento su piattaforme informate da una logica iper-capitalistica come Twitch e YouTube, dominate da streamer di destra e di estrema destra, ci spinge ancora una volta a interrogarci sullo specifico del medium. Come hanno spiegato in modo convincente Mark R. Johnson, Mark Carrigan e Tom Brock, l’ecosistema del live streaming è “l’espressione di un’economia morale emergente del capitalismo digitale” che privilegia l’incessante presentazione del sé, l’auto-promozione compulsiva e l’attività auto-imprenditoriale, fondati sulla narrazione del mito Americano e della meritocrazia, dove il trolling è una delle strategie dominanti di comunicazione […] e dove il disturbo di deficit di attenzione è una feature anziché un bug di sistema (pp. 57-58)

Pur evitando di scivolare nel determinismo tecnologico, occorre però, sostiene Bittanti, prendere atto di come e quanto i media abbiano inciso e incidano nel definire il ruolo, la funzione e l’identità del politico.

A partire dalla convinzione che, lungi dall’essere neutrale, “il ludico è politico”, in linea con quanto espresso dal precedente volume, i diversi contributi che strutturano questo nuovo, corposo e prezioso lavoro curato da Bittanti evidenziano come i videogiochi mainstream e l’immaginario gamer che ruota attorno a essi siano intrisi di neoliberismo, criptofascismo e di quella dottrina libertarista anarcocapitalista egemone nell’universo della Silicon Valley statunitense. Di seguito ci si limiterà a tratteggiare sommariamente le questioni dibattute dai diversi interventi con l’intenzione di tornare su alcuni di questi in scritti successivi.

È proprio sulla “non neutralità” dei videogiochi che, in apertura di volume, intervengono tanto Alexander LambrowPrendere i giochi sul serio: Johan Huizinga, Carl Schmitt e la relazione tra il gioco e la politica – che Lars Kristensen e Ulf WilhelmssonRoger Caillois e il marxismo: la prospettiva dei game studies – riperdendo rispettivamente le teorie espresse da pionieri dei game studies come Johan Huizinga (Homo ludens, orig. 1939), la cui incondivisibile enfasi sull’autonomia del gioco viene comunque riletta e motivata alla luce del contesto storico-politico in cui viene espressa, e Roger Caillois (Les Jeux et les hommes: le masque et le vertige, orig. 1958), la cui ferrea convinzione di come il gioco e i giochi debbano essere improduttivi per potersi distinguere dal lavoro viene messa in relazione con le tesi di Marx circa la funzione e le conseguenze del lavoro nellambito di una società capitalistica.

Della “non neutralità” della tecnologia si occupa invece Luke MunnIl processo di radicalizzazione dell’alt-right – chiarendo come la logica algoritmica di una piattaforma come YouTube, con la sua rete di collegamenti (Cfr. Rebecca Lewis, Alternative Influence: Broadcasting the Reactionary Right on YouTube, in “Data & Society”, settembre 2018), favorisca la radicalizzazione ideologica. L’autore si sofferma in particolare sullascesa della alt-right (alternative-right) evidenziando come la sua diffusione online si fondi su un processo di ricalibrazione del sistema di credenze attuato attraverso una «lenta, ma sistematica colonizzazione del sé, una progressiva infiltrazione che agisce sulla razionalità e sull’emotività» (p. 137). Nella retorica dellalt-right, sostiene Munn, “scegliere la pillola rossa” – riprendendo Matrix – indica la volontà di guardare la realtà con “occhi nuovi” prendendo coscienza dell’ingannevolezza della narrazione dominante, sostituendo a essa contronarrazioni complottiste imperniate sul disprezzo nei confronti di tutti coloro che promuovono «opinioni socialmente progressiste e liberali, tra cui il femminismo, i diritti civili, i diritti dei gay e dei soggetti transgender e il multiculturalismo» (p. 138, nota 15).

L’ingresso nellalt-right, sostiene Munn, è graduale, è il punto di arrivo di un processo di radicalizzazione solitamente costruito attraverso una fase di normalizzazione (in cui l’umorismo e l’ironia giocano un ruolo fondamentale nel normalizzare anche le affermazioni più riprovevoli), dunque una di acclimatazione (che sfrutta la ripetizione incessante per produrre familiarità, assuefazione e desensibilizzazione), infine una fase di disumanizzazione dellalterità nemica, da intendersi come «un processo che pian piano logora, annienta e cancella l’altro, fino a trasformarlo in una non-persona, un personaggio di un videogioco, come uno zombie o un demone, da abbattere senza rimorsi» (p. 154). Non a caso vengono impiegati i videogiochi nelladdestramento dell’esercito statunitense (Cfr.: Matthew Thomas Payne, Playing War: Military Video Games After 9/11,‎ NYU Press, New York, 2016; Gioacchino Toni, Guerrevisioni. Il sangue oltre gli schermi. Uccidere così, come in un videogioco, in “Carmilla”, 22 aprile 2022).

Riprendendo le teorie di Mikhail Bachtin sul carnevalesco, Hans-Joachim BackeCrapa Redneck su torso nazi. Come Wolfenstein II: The New Colossus sovverte la ludonarrazione – indaga la logica con cui è strutturato l’ultimo capitolo, uscito nel 2017, della saga di successo Wolfenstein imperniata attorno alla guerra contro i soldati nazisti. Secondo lo studioso diverse critiche rivolte al videogioco derivano dall’incomprensione di come l’ostentato ricorso al filtro camp e grottesco sia stato delibertamente scelto dai progettisti per portare «in primo piano la natura idiosincratica e contraddittoria delle norme e dell’implicito sistema valoriale dell’FPS [First Person Shooter] in quanto genere, senza tuttavia scardinarle» (p. 210) per sfidare i gamer destabilizzando le loro aspettative.

Il contributo di Soraya MurrayL’America è morta, viva l’America. L’affettività politica in Days Gone – delinea le tensioni che attraversano l’America contemporanea a un passo dalla guerra civile a partire dall’analisi del videogame Days Gone, mentre, alla luce delle teorie formulate da Henri Lefebvre, Jack Denham e Matthew SpokesIl diritto alla città virtuale: la regressione rurale nei videogiochi open world – approfondiscono la percepita antinomia classista tra gli spazi urbani e rurali nei giocatori di Red Dead Redemption 2, mentre Óliver Pérez-Latorre e Mercè OlivaVideogiochi, distopia e neoliberismo: BioShock Infinite, uno studio di caso – evidenziano il messaggio neoliberista che si cela dietro la facciata progressista del videogioco esaminato.

L’apparente antinomia tra gioco e lavoro è invece al centro dell’intervento di Matthew KellyGiocare alla politica. Lavoro, gioco e soggettivazione in Papers, Pleas – focalizzato su uno specifico caso di studio, mentre Stephanie Betz Le vite degli elfi contano? Le dinamiche razziali della politica partecipativa nel fandom prevalentemente Bianco – si cimenta in un’analisi etnografica dei fan del fantasy game Dragon Age illustrando le modalità con cui questi guardano alle nozioni di razza ed etnia.

Riprendendo Stuart Hall e James Gibson, Kristian A. Bjørkelo“Gli elfi sono ebrei con le orecchie a punta e la magia gay”: Come i Nazionalisti Bianchi interpretano The Elder Scrolls V: Skyrim – ricostruisce l’interpretazione di uno specifico videogioco che aleggia nel sito nazista Stormfront, mentre Benjamin AbrahamCos’è un videogioco ecologico? Le politiche ambientali nel genere survival-crafting – critica l’ideologia sottesa a diversi videogame ecologici evidenziandone una matrice concettuale neoliberista.

La progressiva mercificazione dell’esperienza ludica è invece al centro della riflessione di Daniel James JosephCapitalismo Battle Pass – che si sofferma sui videogiochi che ricorrono al meccanismo delle microtransazioni e alla formula del battle pass/event pass introdotta a inizio degli anni Dieci del nuovo millennio in ambito multiplayer online sotto forma di “progressione a pagamento”. Il cosiddetto “capitalismo battle pass”, una variante della platformizzazione della produzione culturale contemporanea, attesta la trasformazione dei videogiochi in “centri commerciali” e, specularmente, la sempre più evidente ludicizzazione dei negozi e del commercio, tanto che non mancano casi in cui si accede alle promozioni soltanto cimentandosi in esperienze videoludiche competitive. Il sistema battle pass impatta pesantemente anche sulle condizioni di lavoro degli sviluppatori, costretti al forsennato aggiornamento dei contenuti. Il modello dei videogame free-to-play, o free-to-start, che permette ai giocatori di fruire gratuitamente dei prodotti base con la possibilità di accedere successivamente a pagamento a contenuti e funzionalità extra, soprattutto nella versione battle royale, si presenta, secondo Joseph, come «un mediatore che mostra come la cultura, i consumatori e i lavoratori siano bloccati in un ciclo “divertente” definito dal circuito digitale dell’accumulazione e del capitale» (p. 484).

A partire dal concetto di countergaming elaborato da Alexander Galloway (Gaming. Essays on Algorithmic Culture, University of Minnesota Press, 2006), Matteo Bittanti e Theo Triantafyllidis – Countergaming tra arte e politica – discutono sulla possibilità dell’arte videoludica di costruire contro-narrazioni efficaci, mentre, in chiusura di volume, Nadine SmithChiamata di servizio –, prendendo spunto da come negli Stati Uniti si possa essere etichettati come “potenziali terroristi” semplicemente per aver dato la caccia in un videogame a un personaggio con il nome di un’importante carica politica2, riflette su come certi tipi di videogiochi tendano a strutturare immaginari violenti sugli utilizzatori. Il fatto che si finisca per essere annoverati tra i “potenziali terroristi” per aver dato la caccia su un videogioco a un personaggio che prende il nome di un politico reale ha pertanto una sua, per quanto perversa, logica.

Diverse ricerche accademiche dimostrano come i videogame “sparatutto in soggettiva” svolgano tanto una funzione propedeutica quanto di supporto alle pratiche militari «legittimandole e inscrivendole in un discorso ideologico multimediale» (p. 519) [su Carmilla]. Call of Duty: Warzone, ad esempio, è strutturato per incoraggiare tanto la cooperazione quanto la competizione tra gruppi e se, al pari di altri multiplayer non per forza di cose di carattere bellico, si è rivelato un ottimo aggregatore sociale, soprattutto durante il distanziamento pandemico, resta il fatto che questo videogioco crea forme di dipendenza gratificando e facendo sentire potente il giocatore. Videogame come questi, sostiene Smith, tendono a manipolare in modo sottile ma efficace persino i giocatori più consapevoli dei meccanismi perversi su cui sono costruiti.

Il genere battle royale ha innestato le marche di riconoscimento dello sparatutto in prima persona sull’open world – un genere che ha trovato in The Legend of Zelda: Breath of the Wild e Grand Theft Auto due esempi paradigmatici – esplicitandone la sottesa ideologia colonialista. […] Si tratta di aggiornare il mito della frontiera per l’era digitale. Gli ambienti di gioco – anche quelli non violenti e apparentemente benigni – impongono una modalità di socializzazione che si fonda sulla sistematica estrazione delle risorse e una competizione brutale per cui “la mia vittoria presuppone la tua sconfitta” (p. 525).

Smith fa poi riferimento a giochi come Animal Crossing strutturati su una logica di competizione e di accumulo tipicamente capitalista da cui il giocatore non può sottrarsi. «Nel caso dei giochi multiplayer free-to-play così come delle piattaforme di social media free-to-post, le regole di ingaggio sono stabilite ex ante da potenti corporation. Non si scappa» (p. 525).

Attraverso Reset. Politica e videogiochi e il precedente Game over. Critica della ragione videoludica, Matteo Bittanti ha indubbiamente fornito al dibattito italiano sull’universo videoludico un contributo di assoluto valore aggiornandolo e indirizzandolo verso alcune tra le questioni più rilevanti affrontate dai game studies magiormente critici nei confornti di ciò che avviene dentro e fuori gli schermi. Inosomma, la produzione di Bittanti merita assolutamente di essere presa in considerazione da parte di chi si occupa di immaginario e cultura d’opposizione.


  1. Suraj Lakhani e Susann Wiedlitzka, “Press F to Pay Respects”: An Empirical Exploration of the Mechanics of Gamification in Relation to the Christchurch Attack, in “Terrorism and Political Violence”, 31 maggio 2022. 

  2. Nadine Smith è finita tra le persone “attenzionate” dalla Polizia del Campidoglio degli Stati Uniti sul finire del 2020 per aver postato su Twitter uno screenshot contenente il messaggio “BOUNTY: NancyPelosi” “La tua missione, se l’accetti, consiste nell’uccidere Nancy Pelosi” derivato dalla partecipazione insieme ad alcuni amici al celebre videogioco Call of Duty: Warzone, uno spin off multiplayer di una saga di “sparatutto in soggettiva”.  “NancyPelosi” era semplicemente un giocatore-personaggio che doveva essere eliminato da altri concorrenti, ma la pubblicazione di uno screenshot del videogioco su Twitter è bastata a far catalogare chi l’ha inviato tra i potenziali terroristi. 

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