navi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Nomadi letterari nello spazio liscio https://www.carmillaonline.com/2023/06/11/nomadi-letterari-nello-spazio-liscio/ Sun, 11 Jun 2023 20:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77627 di Paolo Lago

Luigi Weber, Navi nel deserto, Il ramo e la foglia, Roma, 2023, pp. 370, euro 19,00.

Navi nel deserto di Luigi Weber mette in scena una peculiare e interessante rappresentazione letteraria dello spazio liscio (il deserto solcato dai nomadi) e dello spazio striato (quello sedentario della città) di cui parlano Deleuze e Guattari in Mille Piani: secondo i due studiosi, infatti, il nomade forma il deserto non meno di quanto il deserto formi lui, dal momento che lo stesso nomade appare come un “vettore di deterritorializzazione”. Egli aggiunge il deserto [...]]]> di Paolo Lago

Luigi Weber, Navi nel deserto, Il ramo e la foglia, Roma, 2023, pp. 370, euro 19,00.

Navi nel deserto di Luigi Weber mette in scena una peculiare e interessante rappresentazione letteraria dello spazio liscio (il deserto solcato dai nomadi) e dello spazio striato (quello sedentario della città) di cui parlano Deleuze e Guattari in Mille Piani: secondo i due studiosi, infatti, il nomade forma il deserto non meno di quanto il deserto formi lui, dal momento che lo stesso nomade appare come un “vettore di deterritorializzazione”. Egli aggiunge il deserto al deserto, la steppa alla steppa, in un movimento continuo di deterritorializzazione. L’azione narrativa si svolge in uno scenario fantastico e distopico, una Terra del futuro simile al pianeta Arrakis di “Dune”, ricoperta da un unico immenso deserto. Qui, su delle piste appositamente costruite, si muovono le “Navi”, dalla forma tradizionale ma dotate di ruote, descritte come giganteschi mostri metallici che ci fanno pensare a enormi mercantili o portacontainer e che possono rimandare all’immaginario steampunk degli ‘anime’ di Hayao Miyazaki (ricordiamo Il castello errante di Howl ma anche Conan, il ragazzo del futuro, in cui vediamo la grigia metropoli Indastria e cupe navi di ferro). Le navi seguono un vero e proprio “tragitto nomade” il quale, come scrivono Deleuze e Guattari, agisce in modo contrario al percorso sedentario perché “distribuisce gli uomini (o gli animali) in uno spazio aperto, indefinito, non comunicante”.

A bordo delle navi ci sono i “Mobili”, cioè coloro che hanno abbandonato la vita sicura e stanziale delle rocche, città cinte da alte mura che sorgono nell’immensa spazialità del deserto. Se quest’ultimo è lo spazio liscio abitato dai nomadi, le rocche sono lo spazio striato irrigidito nel rispetto del nomos, della legge geometrica creatrice di griglie e divieti. Le rocche sono dominate da un greve pensiero oscurantista che considera turpe e squallida la vita dei naviganti, i “Mobili” che come nomadi si spostano continuamente nello spazio liscio del deserto. Le città, arroccate nel loro sistema chiuso, sono l’emblema dell’economia e del commercio, dalla quantificazione monetaria dell’esistenza: “Da buoni commercianti quali sono, i Cittadini parlano, e pensano, il linguaggio dell’equivalenza, della chiara quantificazione monetaria”. Irrigiditi nelle aride leggi dell’economia e del mercato, essi non possono fare altro che odiare chi conduce una vita libera e fuori dalle regole come i Naviganti ma soprattutto chi – pure se stanziale – vive al di fuori dello spazio striato delle rocche: gli abitanti delle Oasi. Sarebbe meglio dire le abitanti perché le Oasi sono popolate soprattutto dalle “Isolane”, donne e ragazze che scelgono una vita fuori dalla convivenza e dal matrimonio: proprio per questo sono viste come pericolose sovvertitrici dell’ordine morale “giacché si sa che le donne sono naturalmente madri e mogli, e che senza una prole da allevare e un marito a cui obbedire la vita femminile è del tutto priva di senso”. E quando le “isolane” vengono accolte all’interno della rocca di Banka, per salvarle dal pericolo delle razzie piratesche, la stanza che le accoglie, nell’ottica dei funzionari cittadini, si trasforma in un “antro” saturo di un’atmosfera “molle e corrotta, tentatrice”, che si oppone alle linee rette dell’ordine cittadino; un antro che accoglie ingannevoli e “orride” “sirene”. Perché, se il deserto e i suoi abitatori sono esteticamente connotati dalla sinuosità delle forme circolari e dalla difformità delle dune, le rocche sono intrappolate in rigide forme geometriche.

L’impianto avventuroso su cui è costruito questo interessante romanzo di Weber non poteva d’altronde escludere la presenza dei pirati, appartenenti a una lunga tradizione letteraria e cinematografica. Lungi dall’essere solamente personaggi leggendari appartenenti alle Terre del Nord (secondo voci diffuse nelle rocche), i pirati, efferatissimi e sanguinari, irrompono, sotto la guida del terribile capitano Schomberg, nel lembo di deserto in cui si svolge l’azione narrativa. Guardando alla tradizione letteraria piratesca, è possibile rilevare alcune somiglianze fra i pirati di Navi nel deserto e quelli della Trilogia dei pirati di Valerio Evangelisti e, nella fattispecie, di Tortuga (2008), primo romanzo della trilogia. In quest’ultimo, i pirati, al comando del diabolico capitano De Grammont, rappresentato come un oscuro demone infernale capace di inenarrabili efferatezze, compiono crudeli torture sui nemici vinti. Schomberg e De Grammont hanno in comune non soltanto una crudeltà che si spinge al di là di qualsiasi immaginazione (le torture descritte in Navi nel deserto lasciano iperbolicamente senza fiato) ma anche una raffinatezza e un’eleganza nel portamento e nell’aspetto che sembra stridere con l’immagine dei pirati come rozze belve assassine assetate di sangue. I comandanti pirata possiedono una “nobiltà di spirito” che sembra ignota ai cinici e meschini funzionari delle rocche.

Il romanzo possiede inoltre un suggestivo e affascinante impianto ipertestuale in quanto rimanda all’universo letterario di Joseph Conrad. Se nel corso delle vicende incontriamo spesso personaggi che portano il nome di quelli conradiani (da Jim a Mahon e Kurtz), una figura chiave del racconto si chiama proprio Joseph Conrad, il capitano, fresco di nomina e con poca esperienza, della nave Kairos. Conrad assume delle connotazioni particolari perché non appartiene all’universo dei naviganti ma è l’abitante di una Rocca che ha scelto di abbandonare la sedentarietà degli spazi striati per darsi interamente allo spazio liscio del deserto. Conrad appare come una figura di transizione, non appartiene interamente a nessun contesto sociale, né a quello dei Naviganti né a quello dei sedentari e neppure a quello delle Oasi. Egli è l’espressione del “pensiero del fuori” come è teorizzato da Foucault e da Deleuze e Guattari: secondo questi ultimi, mettere il pensiero in rapporto immediato con il “fuori” e con “le forze del fuori” può contribuire a fare del pensiero stesso una “macchina da guerra” che agisce contro l’irreggimentazione sedentaria delle leggi e dei divieti. D’altra parte, il piccolo Conrad, durante la sua vita nella città, ascoltava la madre che gli insegnava a non aver paura dei Naviganti, generalmente considerati come mostri o demoni infernali: “Guardali bene la prossima volta, sono gente come noi… hanno solo scelto una vita diversa, e non è né migliore né peggiore. Anche nelle Città ci sono persone che si comportano molto bene o molto male, cosa ti credi?”.

In relazione alla presenza dell’ipotesto conradiano, Navi nel deserto – che passa spesso dalla modalità narrativa in prima persona alla terza persona del racconto più freddo e distaccato – presenta una suggestiva citazione di una sequenza narrativa di Il compagno segreto (The Secret Sharer, 1909) nel momento in cui Conrad, di notte, sul ponte, incontra un misterioso personaggio in fuga che gli chiede di essere nascosto sulla propria nave. Senza svelare ulteriormente la trama, si può affermare che questo incontro è modellato su quello presente nel racconto conradiano: un incontro notturno fra il giovane capitano al suo primo comando e il misterioso Leggat, un ufficiale di una nave inglese in fuga che sale di notte sull’imbarcazione del protagonista io narrante. Sia in Il compagno segreto che in Navi nel deserto, il capitano della nave si trova alla sua prima esperienza di comando, in un ambiente in cui gli altri membri dell’equipaggio sono invece più esperti e stanno insieme da lungo tempo. Inoltre, in entrambi, una inquietante somiglianza fisica (che finisce per sfiorare le ossessioni del doppio) accomuna il giovane capitano e il misterioso fuggitivo.

La letterarietà del romanzo emerge in modo interessante anche nella sua capacità di passare disinvoltamente da uno stile all’altro: nell’istanza narrativa tradizionale sono inseriti spesso lacerti di intonazione più poetica, dalle tonalità elegiache ma anche e soprattutto brani in cui emerge uno stile a pastiche che libera un linguaggio dalle tinte arcaiche e parodistiche. Ad esempio, in un momento di forte tensione, in cui Conrad e i suoi ufficiali sono impegnati a cercare una via di fuga per allontanarsi da un imminente attacco dei pirati, il misterioso ospite, nascosto nella cabina del capitano, inizia a leggere un vecchio libro nel quale si trova una storiella salace e piccante (che può ricordare la novella del fanciullo di Pergamo del Satyricon di Petronio) che, con uno stile dall’impianto parodico, racconta i sotterfugi erotici fra un falegname e una ragazzina, coperti dalla complicità del fratello. Si potrebbe anche pensare all’impianto di carattere milesio e boccaccesco che pervade la narrazione di L’imitazion del vero di Ezio Sinigaglia, in cui Mastro Landone, per mezzo dell’inganno, riesce a godere delle grazie del giovane Nerino.

Anche la novella inserita appare come un’espansione del “pensiero del fuori” di cui si è parlato, macchina da guerra nomade che sfugge ad ogni tentativo di inquadramento poiché perennemente in transizione. In un momento di estrema tensione ed angoscia (la paura per un imminente attacco dei pirati), il libretto trovato dal misterioso ospite squaderna una narrazione en abîme che si pone in netta antitesi con il racconto primario: la novella salace sembra provenire dal “fuori” e rappresenta una magica via di fuga dall’angoscia, dal pericolo e dalla paura. È il “fuori”, è l’“Esterno” che nell’ottica dei cittadini rappresenta solo distruzione e morte ma che in realtà è l’espressione più diretta dello spazio liscio perché, persino di fronte a Schomberg, quando scende dalla nave e si avventura nell’Oasi, “l’Esterno era terribile: non si lasciava ghermire, non si inginocchiava, non lacrimava né supplicava, non soffriva. L’Esterno si faceva beffe della sua volontà, occhieggiava dappertutto eppure sfuggiva tra le dita”. E dall’Esterno sembra provenire anche la narrazione di Navi nel deserto, intrisa di una dimensione letteraria che spalanca porte a svariati generi, dal fantasy all’avventura e alla fantascienza, che rifugge gli incasellamenti e gli stili definiti. Una narrazione che apre al fascino dell’avventura e allo spazio liscio solcato da indomiti e liberi Naviganti letterari.

]]>
Pucette e la luna di Timbuctù https://www.carmillaonline.com/2019/07/21/pucette-e-la-luna-di-timbuctu/ Sat, 20 Jul 2019 22:01:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53561 di Paolo Lago

Alla fine dell’Ottocento, la vita africana era tormentata da una terribile piaga: la tratta degli schiavi. Le lotte tribali, le razzie organizzate da popolazioni guerriere, le guerre degli stati che si erano costituiti in diverse regioni alimentavano largamente il traffico di uomini. Timbuctù, lungo il corso del Niger, era uno dei centri di smistamento degli schiavi: stipati su piccole imbarcazioni, essi venivano portati fino alla costa per essere imbarcati sulle grandi navi negriere europee, dirette verso le Americhe. Una di queste terribili notti di deportazione, c’era la luna quasi piena: Ousmane si trovava su una di queste barche, [...]]]> di Paolo Lago

Alla fine dell’Ottocento, la vita africana era tormentata da una terribile piaga: la tratta degli schiavi. Le lotte tribali, le razzie organizzate da popolazioni guerriere, le guerre degli stati che si erano costituiti in diverse regioni alimentavano largamente il traffico di uomini. Timbuctù, lungo il corso del Niger, era uno dei centri di smistamento degli schiavi: stipati su piccole imbarcazioni, essi venivano portati fino alla costa per essere imbarcati sulle grandi navi negriere europee, dirette verso le Americhe. Una di queste terribili notti di deportazione, c’era la luna quasi piena: Ousmane si trovava su una di queste barche, incatenato e ammassato insieme ad altre centinaia di ragazzi e ragazze come lui. Aveva deciso che non voleva pensare alla sofferenza di quel momento né a quella che gli avrebbe riservato il destino, voleva soltanto guardare la luna: sembrava che quella grande luna bianca, quasi piena, potesse alleviargli il dolore e portargli un po’ di consolazione. Non spirava un alito di vento e c’era un caldo insopportabile. L’unico ristoro veniva da quella luce bianca, così lontana, così irraggiungibile. Eppure, gli sembrava che quella luce, chissà come, riuscisse ad accarezzare lui e tutti i suoi compagni di sventura.

Vicino alle coste africane, al largo delle coste della Nigeria, intanto, incrociavano diverse navi inglesi, portoghesi, olandesi, perlopiù bastimenti commerciali ma anche molte navi negriere. In molti casi, queste ultime, dovevano agire di nascosto, mascherandosi da normali navi commerciali ma è anche vero che il traffico degli schiavi spesso era incentivato da molte nazioni europee le quali, se così si può dire, chiudevano un occhio di fronte al traffico di esseri umani. In quel tratto di mare si aggiravano però anche molte navi pirata, come quella del capitan Barbaccia, intrepido corsaro nemico giurato dei bastimenti spagnoli. Col viso rugoso segnato dai libecci e una benda sull’occhio, Barbaccia era un vero e proprio mito dal Mar delle Antille fino all’Oceano Indiano. Ma in quel tratto di mare si trovava anche, in quel periodo di estate tropicale, anche la Vendicatrice dei Mari, la nave del conte di Montecesso, la quale era adesso comandata da Pucette. Il conte era impegnato in certi suoi affari a Marsiglia e Pucette era diventata la capitana della nave. Nella notte, sola sulla plancia di comando del suo veliero, era avvolta da una brezza marina e i suoi capelli, spinti dal vento, sembravano una nera cometa notturna che si apriva e danzava fino oltre il ponte della nave; il suo volto, illuminato dalla luna, era una silenziosa magia che incantava tutti i membri dell’equipaggio. Chissà, forse neanche il conte di Montecesso lo aveva mai saputo, ma forse Pucette era proprio la Luna che era scesa sulla Terra per donare malinconiche carezze di sguardi agli esseri umani.

E in quella notte nera di un tropico triste, Ousmane venne caricato su una nave inglese per essere portato sulle coste della Florida per poi, chissà, finire la sua vita schiavo in una piantagione di cotone degli stati del sud. Il comandante del bastimento inglese, Lord Hamilton, era un nemico giurato del conte di Montecesso: egli depredava ricchezze e diamanti dell’Africa e li nascondeva, insieme agli schiavi, in un doppio fondo della nave. Il lord era in combutta con il re del Dahomey che, nonostante avesse chiuso il suo porto alle navi europee, faceva un’eccezione per il ricco inglese il quale, in cambio degli schiavi, gli assicurava l’impunità del suo regno. Il conte di Montecesso, spesso, aveva depredato la sua nave ridistribuendo le ricchezze agli stessi popoli ai quali erano state depredate. Ma adesso, oltre ai diamanti e all’oro, la nave inglese nascondeva nei suoi più profondi interstizi anche un carico di schiavi.

Però, l’oscurità di quella notte era rischiarata da una grandissima luna piena. Ousmane, prima di essere portato nella stiva, era riuscito a guardarla per l’ultima volta e adesso pensava ancora alla sua luce, bianca e dolce, silenziosa e benigna, mentre si trovava nel ventre infernale della nave, senza aria, senza acqua e cibo, attanagliato da un caldo soffocante. Da lontano, dal suo posto di comando sulla Vendicatrice dei Mari, Pucette vide il mercantile inglese e riconobbe che si trattava della nave di Lord Hamilton. Subito, ordinò di attaccarla: la Vendicatrice puntò dritta verso la nave inglese e la arpionò. Pucette, come volteggiando su un tappeto di luna, saltò a bordo sguainando la spada, seguita dalla sua fedele ciurma. Non fu difficile avere la meglio sulle guardie inglesi e così Lord Hamilton si ritrovò con le spalle al muro. Nulla, però, lasciava presagire che la sua nave avesse, quella volta, un carico particolarmente prezioso: i pirati, guardandosi intorno, trovarono le solite mercanzie e cibarie, in realtà di scarso valore, che un comunissimo mercantile inglese poteva prelevare sulle coste africane. Ma un sottilissimo raggio di luna, penetrando attraverso i vecchi legni dei ponti della nave, giunse fino agli occhi di Ousmane il quale, in una mossa disperata, allo stremo delle forze, riuscì a sollevarsi e a battere con un pugno sul basso soffitto di legno della sua prigione. Forse, quella sua amica luna di Timbuctù poteva aiutarlo.

Pucette, mentre si trovava sul ponte della nave inglese, sentì un rumore provenire da lontano, dal basso, un rumore che sembrava un rimbombo del mare profondo. E così, insospettitasi, ordinò ai suoi pirati di armarsi di asce e di fare un buco sull’impiantito di legno dei normali ponti della nave. Venne allo scoperto non solo il doppio fondo in cui si trovavano le pietre preziose ma anche quello in cui si trovavano gli schiavi: uomini e donne, ragazzi e ragazze in condizioni terrificanti, alcuni dei quali già moribondi, nonostante il viaggio fosse praticamente appena iniziato. E Ousmane, allora, vide Pucette e in lei riconobbe la luna di Timbuctù, quella luna che donava carezze di sguardi: ed ella era proprio bella come la luna, nel suo vestito di notte, la vendicatrice degli ultimi del mondo. Subito, Ousmane e gli altri vennero soccorsi e fatti salire sulla nave pirata: si doveva agire in fretta, stavolta non c’era tempo per pensare alle pietre preziose. Stavano infatti arrivando a gran velocità delle navi da guerra inglesi che si trovavano nei pressi, allertate con delle segnalazioni da Lord Hamilton. La Vendicatrice dei Mari iniziò una folle corsa verso le Canarie: là si trovava uno dei porti franchi in mano al conte di Montecesso dove non esistevano le leggi liberticide degli stati europei e dove era garantita libertà per tutti. Pucette e la sua ciurma, veloci come fulmini, sbarcarono gli schiavi, che ricevettero prontamente delle cure, e trasportarono a terra le pietre preziose.

Però, la Vendicatrice dei Mari non poteva fermarsi nel porto sicuro delle Canarie perché Pucette voleva raggiungere immediatamente Marsiglia, dove si trovava il conte: voleva assolutamente rivederlo, dopo tanto tempo. Nel viaggio verso la Francia, purtroppo, venne accerchiata dagli incrociatori inglesi e Pucette venne arrestata e rinchiusa nella prigione della Torre di Londra. Arrestata ingiustamente per essersi posta contro leggi disumane che legalizzano la tratta degli schiavi, la povera Pucette venne rinchiusa nella stanza più alta della Torre. La stessa luna in cielo non aveva più lo splendore di prima: intorno ad essa si era come formato un alone di tristezza che la velava di un tenue pianto. Pucette, sconfortata, piangeva da sola piena di malinconia e il suo pianto e la sua malinconia salirono fino alla luna. Allora, da Marsiglia, non vedendola arrivare e guardando il cielo notturno, il conte si accorse che doveva esserle successo qualcosa e forse fu proprio la luna (ma questo non lo sapremo mai) a dirgli dove ella si trovava prigioniera. Senza pensarci due volte, il conte organizzò una spedizione per liberarla, insieme ai suoi più fidi pirati. E quale fu la sorpresa di Pucette quando, ormai in preda al dolore e alla solitudine, vide un arpione che si era agganciato alla finestra della sua prigione e poi, subito dopo, vide il Dritto, il più abile pirata del conte, che segava le sbarre. Subito dopo apparve il conte in persona che la abbracciò e, come in un sogno, forse volando nella notte, la portò via dalla sua cella. I capelli di Pucette, sui quali si erano depositate, come tante perle, le sue lacrime, erano allora una nera cometa che nella notte danzava e avvolgeva il conte coi suoi riflessi lunari. E pieni di luce lunare, sognarono e volarono, e furono liberi. E la luna sorrise e di nuovo Pucette sorrise, perché la luna che splendeva là, lontana, su Timbuctu, non poteva permettere che migliaia di esseri umani fossero incatenati e venduti come schiavi. E il sorriso di Pucette, abbracciata al conte, voleva dire che lei, piratessa e capitana, avrebbe vegliato ancora perché ciò non succedesse.

Anche Ousmane, nel porto libero delle Canarie, guardava la luna e pensava a quella meravigliosa piratessa che lo aveva salvato. La luna ancora lo consolava ed ebbe nostalgia della sua Africa, del suo paese e della sua famiglia. Pensò che molti ancora avrebbero dovuto seguire quella terribile sorte, quella migrazione forzata in catene, lontano dal proprio paese e dai propri cari. Ma in quella luna c’era una speranza, c’era una forza di riscatto, c’era un sentimento di ribellione contro tutte le ingiustizie del mondo. Il ragazzo ricevette una carezza dalla sua luce, e sorrise.


Illustrazioni: il ritratto di Pucette è stato realizzato da Silvia Mannocci e il galeone da Fernando Miazon.

 

 

]]>