narrazioni – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Aug 2025 20:00:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Una questione estetica https://www.carmillaonline.com/2025/03/07/una-questione-estetica/ Thu, 06 Mar 2025 23:39:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87193 di Stefania Consigliere

Matthieu Amiech, L’industria del complottismo. Social network, menzogne di Stato e distruzione del vivente. Prefazione di Elisa Lello. Malamente, Urbino 2024.

Come si comincia la recensione di un testo importante, in un tempo in cui l’umana attenzione è imprigionata nelle macine del plusvalore? Come si fa, fra vacche magroline, a invitare chi legge a sganciare 16 euro per un oggetto tanto fuori corso quanto un libro? E perché ostinarsi ad argomentare, a fronte di un discorso pubblico che non si cura più neppure del principio aristotelico di non contraddizione? Ci proverò in cinque passaggi “clinici”.

Malessere senza [...]]]> di Stefania Consigliere

Matthieu Amiech, L’industria del complottismo. Social network, menzogne di Stato e distruzione del vivente. Prefazione di Elisa Lello. Malamente, Urbino 2024.

Come si comincia la recensione di un testo importante, in un tempo in cui l’umana attenzione è imprigionata nelle macine del plusvalore? Come si fa, fra vacche magroline, a invitare chi legge a sganciare 16 euro per un oggetto tanto fuori corso quanto un libro? E perché ostinarsi ad argomentare, a fronte di un discorso pubblico che non si cura più neppure del principio aristotelico di non contraddizione? Ci proverò in cinque passaggi “clinici”.

Malessere senza nome
È una questione estetica, ha a che fare con la percezione. Molti di noi avvertono in sé una dissonanza, la non-coincidenza fra quel che sentiamo e quel che siamo tenuti a pensare; fra quel che sappiamo e il modo in cui viviamo; fra i timbri della comunicazione e i sussulti del diaframma. A volte la distanza si fa insostenibile e ci si trova allora a fuggire dagli odori dei grandi magazzini; angosciati per le file di TIR in autostrada, di dentifrici al supermercato, di uomini armati in centro città; atterriti dalle rassicurazioni dei politici; perplessi per un biglietto aereo che costa meno di quello del treno per l’aeroporto; attraversati da improvvisi impulsi luddisti – e via dicendo, ciascuno secondo un proprio spettrogramma di sensibilità lese. È raro che la dissonanza arrivi a piena coscienza: più spesso se ne resta nelle retrovie del sentimento come scarto o angoscia senza nome, una fibrillazione da silenziare subito perché, se ascoltata, subito ci renderebbe incoerenti rispetto al mondo in cui viviamo. Folli, dunque, o più probabilmente depressi, intristiti a morte per qualcosa che sentiamo ma non sappiamo nominare.

Primo e secondo consulto
In linea con la strategia globale della modernità, ogni dissonanza è letta come disfunzione individuale. Depressione, ADHD, crisi di panico, ecoansia, anoressia, paranoie complottiste, dropout scolastico, dolore cronico: tutte queste fratture sono interpretate, diagnosticate e infine curate come malfunzionamenti dell’individuo, pensato – in linea con tutta la filosofia moderna – come entità ontologica a sé stante, autosufficiente, che intrattiene con il mondo e con gli altri soggetti relazioni di tipo estrinseco e utilitaristico, che non ne mutano l’essenza.

Per ragioni del tutto imponderabili, alcuni individui portano in sé difetti di programmazione, bachi fisici o psicologici che non permettono loro di funzionare come si deve. Per fortuna però – così prosegue il ragionamento – grazie al progresso tecnico e alle sue creature, oggi è possibile sopperire a questi malfunzionamenti dei singoli con un mix ben dosato di innesti tecnici, (psico)farmaci e distrazioni.
Su questo piano inclinato si ritrova rapidamente chiunque decida di restarsene al calduccio nella doxa del progresso. Sono pochi, e assai malvisti, i protervi che non si accontentano della via larga e vanno in cerca di altre diagnosi e letture diverse della realtà.
Alcuni di loro atterrano nei cosiddetti movimenti olistici (ex new age), una galassia pirotecnica di filosofie, pratiche di vita e sistemi terapeutici – talvolta seri e affidabili, talaltra ambigui e cialtroneschi – accomunati dal proporre eziologie indubbiamente altre. Dai movimenti delle orbite al flusso del qi nei meridiani, dalla divinazione all’incontro con le piante, queste piste sono rifiutate in blocco dai custodi della verità in quanto non scientifiche. Qui si aprirebbe in discorso lunghissimo, che provo a riassumere nel modo più antipatico possibile: antropologicamente parlando, la scienza è solo uno dei molti modi conoscitivi sviluppati dagli umani e la sua presunzione di superiorità deriva in primo luogo dall’essere il sistema di conoscenza dei colonizzatori (chi avesse voglia di approfondire troverà grandi soddisfazioni nei testi di Philippe Descola, Piero Coppo, Eduardo Viveiros de Castro, Boaventura de Sousa Santos, Mike Singleton, Ramon Grosfoguel).

Qui mi interessa invece sottolineare che, spesso, neanche i movimenti olistici superano il presupposto dell’individualità del dolore: come nella biomedicina, anche qui l’attenzione è quasi sempre messa sul singolo, sulle cause soggettive del malessere e sulla guarigione intesa come processo personale.
Altri, presi da sconcerto davanti a un mondo così incredibilmente malmesso, giungono invece a pensare che la stragrande maggioranza dei malesseri, delle dissonanze e delle insopportazioni che avvertiamo in noi è perfettamente giustificata dallo stato del mondo intorno a noi. Questa consapevolezza è ciò che, nella sfera comunicativa para-totalitaria di questi anni, bisogna rintuzzare a ogni costo: i pochi che provano a dire altro sono subito violentemente irrisi e tacitati, nel silenzio – spesso intimidito, a volte compiaciuto – di una maggioranza che al momento, come cantava De André, sta: come una malattia, una sfortuna, un’anestesia…
In alcuni casi, le operazioni di censura sono fin troppo facili. Forse per via del poco allenamento all’analisi critica, alcuni fra i refuseniks del mondo-così-com’è vengono agganciati da spiegazioni risibili (i rettiliani, QAnon, la grande sostituzione), che i guardiani della ragione non faticano a squalificare. Pur nella loro puerilità, tuttavia, queste narrazioni hanno due pregi notevoli: spostano la causa del malessere dall’interiorità del soggetto allo stato di cose in cui è immerso, e forniscono una ragione per i mali del mondo senza nascondere il disastro il corso (sono quelli che Wu Ming 1 in La Q di Qomplotto chiama “nuclei di verità”; un eccellente approfondimento della questione “complottismo” si legge nella prefazione di Elisa Lello, scaricabile qui).
In altri casi, invece, l’insopportazione allunga le sue radici nell’analisi storica, nel confronto con forme altre di umanità, nell’archeologia filosofica, nell’esperienza di piccole comunità che “fanno altro”: in breve, nel terriccio del grande pensiero critico a cui il libro di Amiech, di fatto, appartiene.

Esame obiettivo
L’industria del complottismo funziona come bussola, come lenitivo e come parte di una diagnosi complessa, in cui sofferenza individuale e stato del mondo, intimo e politica, non sono separabili. Per certi aspetti, l’incedere di Amiech ricorda quello dell’Encyclopédie des Nuisances, una delle più straordinarie imprese contro-culturali transalpine, la cui intelligenza critica non ha perso un grammo di mordente (ne approfitto per menzionare almeno i nomi di Jaime Semprun, René Riesel e Jacques Philipponnau; in Italia, il principale alleato dell’Encyclopédie è stato a lungo Piero Coppo, non a caso pioniere dell’etnopsichiatria: v. sotto).

L’accusa di complottismo, nota l’autore, equivale a una psichiatrizzazione della critica. Se sentiamo di non poterci fidare della narrazione pubblica, non è perché siamo paranoici o psichicamente farlocchi, ma perché leggiamo correttamente i segni: della narrazione pubblica non c’è proprio da fidarsi. La carrellata degli orrori comincia, a ragion veduta, con la storia del nucleare. Attingendo a un altro ottimo libro di recente pubblicazione (J.M. Royer, Il mondo come progetto Manhattan. Dai laboratori nucleari alla guerra generalizzata alla vita. Mimesis, Milano-Udine 2023), Amiech mostra, dati alla mano, come il nucleare sia probabilmente il segreto meglio custodito e la menzogna più colossale di tutti i tempi. Lascio volentieri a chi leggerà il piacere di scoprire i dettagli, un crescendo di atrocità che, diverse volte, mi ha costretta a interrompere la lettura per riprendere fiato. Qui basti dire che, dall’inizio dell’era nucleare, i morti causati dalla sua filiera si contano a decine di milioni e che la crisi climatica stessa potrebbe avere origine dalle sperimentazioni nucleari.
La commistione di interessi industriali, statali, militari e medici rende pubblicamente invisibile e imparlabile ciò che lavoratori e vittime vedono benissimo. Il caso del nucleare è il più colossale, ma non certo l’unico: Amiech prosegue con la storia del piombo e dell’amianto, con la menzogna della transizione green, con il saccheggio delle risorse fossili, con l’estrattivismo “di superficie” spacciato per meno dannoso di quello fossile, con la sciagura dell’informatizzazione coatta descritta come accesso a una vita smart e sicura.
C’è di che mettersi a battere i coperchi.

Diagnosi (dove sta la follia?)

Secondo una celebre ipotesi eziologica, la schizofrenia insorge a seguito dell’esposizione a messaggi contraddittori da parte di qualcuno la cui “versione dei fatti” non può essere contestata. Così, un genitore che malmeni un figlio dicendogli che lo fa perché gli vuole bene, rischia di produrre dissociazione: al figlio, infatti, non è possibile né ipotizzare che il genitore sia disfunzionale, né tenere insieme due messaggi così contraddittori.
L’insieme della comunicazione a cui siamo esposti presenta più di qualche analogia con questa situazione. Qualche esempio: il tecno-entusiasmo, con la promessa che il progresso tecnico risolverà tutti i problemi (e chi non ci crede è un oscurantista), unito alla consapevolezza che lo sviluppo tecno-industriale è la causa prima della catastrofe ambientale; la diffusione dell’agribusiness per “nutrire il pianeta” (e chi non ci crede è un cinico) e le ondate di suicidi fra i contadini; una green transition che punta dritta all’ossimoro del “nucleare pulito” e l’impossibilità di bonificare i siti dei disastri nucleari; il green pass descritto come strumento di prevenzione del contagio e vaccini nel cui bugiardino stava scritto che non proteggevano dal contagio. Per non dire dei molti conti che non tornano: non torna che nel migliore e più progredito dei mondi la maggioranza delle persone sia afflitta da durevole tristezza; che la sola impresa conoscitiva valida non riesca neanche più a prevedere che tempo farà domani; che la lotta di tutti contro tutti possa portare alla maggiore felicità possibile. E via dicendo.

Mala tempora currunt quando la lingua del potere può ignorare la logica e imporre la sua versione unica dei fatti; peggiori ancora, e già prossimi al totalitarismo, quando le menti dei sudditi si acconciano al bipensiero, a tener per vere nello stesso momento due cose contradditorie, a scivolare nella dissociazione pur di non ammettere che la follia è quella del mondo che ci circonda, degli infami che lo governano, della struttura stessa del dominio e del plusvalore.

Cura, cure
I Rage Against the Machine hanno scritto uno dei versi più angoscianti nella storia del rock: There is no other pill to take, so swallow the one that makes you ill. Non c’è cura, finché si resta nell’orizzonte del sistema. Bisogna guardare altrove.
Antropologia medica ed etnopsichiatria hanno descritto un buon numero di sistemi terapeutici non occidentali in cui si fa di tutto per sganciare la malattia dal soggetto che la manifesta, costruendo complesse eziologie sociali. Sono luoghi dove guarire una malattia non significa guarire l’organo malato, e neanche la persona che sta male, ma sciogliere i nodi, gli incastri e i nessi sociali che sono la causa prima del malessere. Coltivata, in tempi migliori, anche dall’antipsichiatria e dalla medicina sociale, questa intuizione è stata poi spazzata via dal riduzionismo e dai protocolli dell’attuale medicina biotech.
Il pensiero critico le è in qualche modo imparentato. Spostando lo sguardo dall’interno all’esterno, dal malessere del singolo allo stato del mondo in cui vive, mette a fuoco il nesso che lega i soggetti all’ecologia complessa in cui sono immersi; accantona le epistemologie della cecità e le ontologie della dissociazione imposte dal pensiero macchinico; non nasconde la portata del disastro in corso; e, nei casi migliori, non rinuncia a cercare strumenti per sciogliere il dolore e rimettere il mondo sulle sue gambe.
Che il nostro mondo è orribile lo sentiamo anche senza saperlo coscientemente. Ma non è l’unico: un po’ perché ancora ne esistono altri (quelli che il colonialismo ci ha insegnato a disprezzare), un altro po’ perché ecologie vivibili di umani e non umani non sono impossibili da immaginare e mettere in pratica. Amiech dà qualche indicazione di massima: disintossicarsi dal digitale; ripensare le forme di autonomia e sussistenza; coltivare la vita comune e le decisioni collettive. E cioè tornare in sé e al proprio mondo.

(Infine, e fra parentesi, un breve nota che riporta all’estetica, alle qualità del sentire. I luddisti non lottavano tanto contro le macchine in sé, quanto contro l’inabissamento dell’autonomia delle collettività e la perdita di qualità – dei prodotti, del tempo, della vita – che ciò comporta. Ebbene, a differenza di quanto accade comunemente presso editori ben più blasonati, il libro di Amiech è ben tradotto, privo di errori di stampa, curato nell’impaginazione e quindi piacevole da leggere. Se lo scopo della rivoluzione è la qualità del nostro quotidiano collettivo, allora bisogna farla finita anche coi libri impaginati a caso, tradotti con DeepL, mai riletti e stampati su carta dozzinale.)

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Economie e narrazioni globali e transmediali. Il brand Gomorra https://www.carmillaonline.com/2018/04/10/economie-e-narrazioni-globali-e-transmediali-il-brand-gomorra/ Mon, 09 Apr 2018 22:01:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44762 di Gioacchino Toni

Stanno per iniziare le riprese della quarta stagione della serie televisiva Gomorra che, oltre alla classica ambientazione napoletana, in linea con quanto accaduto nelle serie precedenti, conterrà anche parti girate in contesti esteri, in questo caso, pare, quello londinese. L’intenzione di denunciare il carattere internazionale della criminalità organizzata si sposa con una strategia di marketing volta a raggiungere un pubblico altrettanto internazionale.

Nell’opera di Roberto Saviano, tra le altre cose, si denuncia di come globali siano le strategie tanto della criminalità organizzata quanto delle politiche neoliberiste di cui la [...]]]> di Gioacchino Toni

Stanno per iniziare le riprese della quarta stagione della serie televisiva Gomorra che, oltre alla classica ambientazione napoletana, in linea con quanto accaduto nelle serie precedenti, conterrà anche parti girate in contesti esteri, in questo caso, pare, quello londinese. L’intenzione di denunciare il carattere internazionale della criminalità organizzata si sposa con una strategia di marketing volta a raggiungere un pubblico altrettanto internazionale.

Nell’opera di Roberto Saviano, tra le altre cose, si denuncia di come globali siano le strategie tanto della criminalità organizzata quanto delle politiche neoliberiste di cui la prima è parte. Altrettanto globale appare quello che può essere definito il brand Gomorra che alla volontà di rendere internazionale la denuncia affianca una pianificata strategia dell’industria culturale indirizzata alla ricerca di un pubblico planetario. La necessità di denunciare ciò che è globale in maniera globale si intreccia con un’esigenza economica votata alla distribuzione internazionale. Se dal punto di vista economico, sappiamo, si possono tranquillamente veicolare contenuti anche scomodi se questi producono profitto, resta da verificare se il nobile intento della denuncia possa reggere ai meccanismi di mercato di uno spettacolo alla spasmodica ricerca del successo di audience.

Nel saggio di Giuliana Benevenuti, Il brand Gomorra. Dal romanzo alla serie TV (Il Mulino, 2017), si indaga uno dei casi più importanti di narrazione transmediale italiana capace di espandersi su diversi media: al libro di Roberto Saviano, uscito nel 2006, sono poi seguite una trasposizione teatrale, andata in scena per la regia di Marco Gelardi la prima volta nel 2007, una cinematografica, uscita nelle sale nel 2008 e realizzata da Matteo Garrone, dunque la fortunata serie televisiva affidata a Stefano Sollima e mandata in onda a partire dal 2014.

Il caso Gomorra offre interessanti spunti di analisi sia a proposito di produzione di titoli globali che di formazione progressiva di un franchise a partire dalla pubblicazione di un libro. L’altro celebre esempio di successo transmediale italiano è Romanzo criminale che al libro del 2002 di Giancarlo De Cataldo ha visto succedersi il film del 2005 diretto da Michele Placido e la serie televisiva di Stefano Sollima trasmessa a partire dal 2008.

Nel saggio di Giovanna Benvenuti Gomorra, in tutte le sue varianti mediatiche, viene visto come un prodotto in linea con il generale rinnovamento del contesto culturale nazionale che prende il via con la trasformazione dell’industria culturale italiana a partire dalla metà degli anni Ottanta del Novecento quando, sull’onda di fenomeni analoghi già in atto in altri paesi, anche l’editoria nostrana intraprende un processo di concentrazione e di propensione all’internazionalizzazione. La ricerca di visibilità globale sembra divenire, dagli anni Novanta, un elemento centrale in un panorama italiano contraddistinto dalla sostanziale coincidenza tra produzione e commercializzazione.

Qualcosa di analogo accade anche nel settore audiovisuale che, all’inizio degli anni Duemila, adotta una strategia «orientata a produrre blockbuster in grado di alimentare un franchise, ovvero in grado di sostenere una product line di film simili e una gamma di prodotti di intrattenimento a esso collegati» (pp. 16-17). Tali strategie intraprese dall’industria culturale italiana, che così si allinea a quanto già da diversi decenni accade negli Stati Uniti, non mancano di determinare reazioni risentite nella critica e negli ambienti accademici sostanzialmente ostili al dominio della “cultura visuale” accusata di mettere in crisi lo “specifico letterario”. Tale timore ha finito spesso per prendere la forma della strenua difesa della distinzione tra letteratura alta e di massa.

Nel nuovo contesto narrativo italiano, figlio anche delle disillusioni, del ripiegamento sul privato e della grande trasformazione neocapitalista, diversi autori sembrano confidare più sulle caratteristiche empatiche e affettive proprie di una narrazione performativa, piuttosto che sulle capacità riflessive e costruttive. Tra questi autori la studiosa colloca Saviano che, individuando i limiti di un’operazione di mera esibizione di documentazione nella sua volontà di denuncia, preferisce sperimentare nuove forme di comunicazione in cui si intrecciano «prova documentaria, finzione e autofinzione romanzesche» (p. 25).

Da tali riflessioni nasce il libro Gomorra. Qui l’autore ricorre a «una strategia retorica intesa a eliminare, apparentemente, la stessa differenza tra lettore reale e lettere implicito, creando l’impressione che non esista mediazione nel dialogo tra autore e lettore» (p. 27). Lo scrittore adotta una strategia dell’enunciazione che fa coincidere il soggetto dell’enunciato con il soggetto dell’enunciazione tentando di rimuovere «ogni effetto di distanziamento o di controcanto: tra i due soggetti (quello dell’enunciato e quello dell’enunciazione), la coincidenza o la congiuntura sembrano funzionare senza che si formino residui di senso, senza che si aprano crepe o fessure. Si ha in questo modo una “presa di parola” che […] sembra, cioè, solamente implicata da una tensione etica che si riversa in dovere della “rivelazione”: lo scrittore (ossia il personaggio del racconto retroattivamente prodotto dal dispositivo di scrittura appena menzionato) ha così un unico scopo e un unico compito, quello di portare a evidenza gli addentellati del Sistema camorristico» (pp. 28-29).

Le gravi minacce ricevute da Saviano, che lo obbligano a vivere sotto scorta, tendono ad imporre al lettore una sorta di “fiducia acritica” nei suoi confronti e a tal proposito non sono mancate prese di posizione ostili nei confronti dell’autore accusato di utilizzare la fiducia che gli viene concessa per intervenire anche su questioni mal conosciute.

Benvenuti sottolinea come il patto su cui si fonda il rapporto con il lettore in Gomorra sia istituito dalle dichiarazioni del personaggio-scrittore che, tra le altre cose, insiste su come la situazione locale di cui narra non sia che un microcosmo di un meccanismo criminale di portata internazionale aprendo così il libro ad un interesse globale. Nel saggio viene ricostruita la genesi del libro Gomorra a partire dall’attività di Saviano come giornalista ripercorrendo le pubblicazioni degli articoli sul blog «Nazione Indiana» (2003-2005) e sulla rivista «Nuovi Argomenti» che fanno da traccia alla pubblicazione editoriale.

A proposito dell’accostamento della scrittura di denuncia di Saviano a quella di Pier Paolo Pasolini, Benvenuti sostiene che il primo «contamina la letteratura con qualcosa che probabilmente Pasolini avrebbe disdegnato, cioè appunto l’immaginario mediatico» (p. 64). Lo scrittore napoletano, però, continua la studiosa, si propone di introdurre uno scarto importante rispetto a tale immaginario «decostruendo il fascino che promana dagli eroi del male, ponendo al centro della narrazione la propria diretta testimonianza». Differente è anche lo “sguardo parziale” pur ricercato da entrambi gli scrittori e se Pasolini, rivendicando esplicitamente l’autonomia della cultura dalla politica, attribuisce al romanzo un valore differente rispetto a quello dell’articolo che riprende la cronaca, Saviano non intende fare distinzioni.

Se dal punto di vista letterario lo scrittore napoletano trae ispirazione da Pasolini, da quello cinematografico Scarface, nella versione di Brian De Palma del 1983, rappresenta un punto di riferimento importante come modello da rovesciare: si tratta pertanto di riscrivere il mito veicolato dal film al fine di depotenziarlo attribuendo valore a chi si oppone al nichilismo dell’eroe del male. «Nel libro la deepicizzazione delle storie di camorra è resa possibile dai continui inserti saggistici, riflessivi, che spezzano il filo della narrazione, già comunque organizzata a episodi. […] Se l’immaginario contribuisce a creare la realtà, occorre creare un mito positivo, quello di uno scrittore ribelle che sfida il Sistema» (pp. 75-76). Siamo di fronte a una costruzione che avviene sia dentro che fuori il libro e, sostiene la studiosa, Saviano ha dato luogo a un’automitobiografia volta a combattere una violenza intessuta di mitologia.

Il primo adattamento di Gomorra è per il teatro e lo spettacolo viene messo in scena la prima volta nel 2007 da Marco Gelardi che, in collaborazione con lo stesso Saviano, decide di ridurre la mole delle vicende narrate dal libro concentrandosi su di un numero limitato di storie. Il linguaggio, come nel libro, risulta aggressivo e iperbolico con personaggi fortemente tipizzati. «A differenza di quanto accade nel libro, la pièce introduce il legame costituito dalla presenza del protagonista Roberto, interpretato da Castiglione […] In tal modo, come nel libro, il personaggio Roberto si confonde con la persona di Roberto Saviano e tale sovrapposizione è resa ancora più stringente dalla decisione di inserire quale prologo dello spettacolo l’intero discorso tenuto da Saviano a Casal di Principe, del tutto assente, ovviamente, nel libro» (p. 111). La certificazione di veridicità della narrazione che nel libro viene data dall’ubiquità del narratore-testimone, nello spettacolo teatrale verrebbe garantita dal prologo.

Nella trasposizione cinematografica operata da Garrone, anziché affidarsi ad una poetica del dire volta a dissezionare la realtà esponendone la brutalità attraverso un registro stilistico dell’eccesso, si assiste invece ad un’operazione di sottrazione rifuggendo dal modello del gangster movie tradizionale. Il film elimina la figura di Saviano narratore e personaggio che nel libro rappresenta l’opposizione al degrado. L’opera cinematografica mostra il modo di vivere e la cultura di chi ha a che fare con la camorra evitando eccessi stilistici e spettacolarizzazioni. Anche Garrone si pone il problema di come rappresentare il Sistema evitando di conferire fascino al potere dei boss e, a tal fine, decide di raccontare cinque storie di personaggi di secondo piano evidenziando il contrasto tra le loro vite e l’immaginario cinematografico di cui si nutrono. «Il regista, dunque, favorisce una lettura del film come reportage di guerra, legando il significato politico alla sua capacità di presentarsi come veicolo di informazione e proponendo il proprio come un cinema di impegno civile» (p. 95).

Sarebbe dunque la modalità con cui il film cerca una risposta emozionale, oltre che cognitiva, ad indurre lo spettatore a prendere posizione contro la cultura malavitosa. Anche Garrone, come Saviano, intende dar conto delle ramificazioni globali del Sistema evidenziando come il suo funzionamento sia del tutto in linea con quello del neoliberismo. «Lo spettatore è così colto dal legittimo dubbio di non essere davvero al di fuori della guerra di camorra, se è vero che essa è metafora di una guerra indotta dal sistema capitalistico, qui guardato nel suo volto più oscuro e cupo, nella sua disumanità» (p. 99).

Secondo Benvenuti il film non dovrebbe essere ricondotto all’interno del genere noir, quanto piuttosto al racconto distopico e, per certi versi, ciò appare ancora più evidente rispetto al libro grazie all’omissione della presenza dell’eroe-testimone che si ribella al Sistema. «La lettura distopica della realtà attuale situa il libro di Saviano in bilico tra un presente nel quale la catastrofe è in atto e un futuro ancora possibile, ma segnato da eventi che non sembrano avere fine, anche perché riproducono, in forme diverse, la catastrofe che è da sempre in atto. Se nel libro Saviano si prospetta come il sopravvissuto, che reca testimonianza della catastrofe, quasi assurgendo al ruolo di eroe tragico – mentre la prospettiva di Garrone rimane sempre quella di un outsider –, possiamo attenerci per lui – ma, in ultima analisi […] per la filiera mediatica che inaugura – alla definizione proposta da Giorgio Agamben di colui che, sempre inattuale e inadeguato rispetto al proprio tempo, può definirsi davvero “contemporaneo”» (p. 104).

Come Romanzo criminale, anche la serie Gomorra assume il punto di vista criminale sul mondo, permettendo così, come solitamente avviene nel genere noir, di mettere in scena lo sguardo sul lato oscuro del Paese, fatto di criminalità, certo, ma anche di relazioni intessute da quest’ultima con quei poteri che si presentano come la quintessenza della legalità. Come era accaduto con Romanzo criminale, dopo il successo del libro e del film arriva la serie televisiva, in questo caso particolarmente votata all’esportazione del brand a livello internazionale.

Secondo la studiosa la serie non può essere considerata come un adattamento del libro o del film: siamo piuttosto di fronte a una loro espansione narrativa forte anche di ricerche sugli sviluppi del Sistema svolte da Saviano successivamente. Lo showrunner della prima serie, andata in onda nel 2014, è Stefano Sollima, con diversi episodi affidati nel varie stagioni (2014, 2016, 2017) alla regia di Francesca Comencini, Caludio Cupellini e Claudio Giovannesi.

In linea con la pratica transmediale, la serie è pensata per essere fruibile autonomamente dal libro e dal film che l’hanno preceduta; è pertanto possibile approcciare il brand Gomorra a partire da una qualsiasi delle sue produzioni per poi decidere se e come affrontare le altre. La vera novità della serie, secondo Benvenuti, risiederebbe nella volontà di «rappresentare una storia criminale che molto deve alla tradizione del gangster movie, seguendo codici e ricercando effetti che gli spettatori sono abituati a incontrare nella serialità statunitense, ma non i quella nostrana» (p. 131).

Le esigenze della serialità televisiva comportano una modalità narrativa capace di fidelizzare l’audience tendenzialmente attraverso un’economia affettiva incentrata sui personaggi. Uno dei grandi problemi posti dalla serie è pertanto come riuscire a conciliare personaggi che permettano al pubblico di affezionarsi con il brand Gomorra costruito sulla negazione di eroi del male affascinanti. Come può, allora, distinguersi da altre serie, a cui narrativamente strizza l’occhio, magari non interessate all’impegno e alla denuncia? Sarebbe «in primo luogo Roberto Saviano a garantire il patto realistico sul quale è concepita la serie. Insieme a lui, il patto è garantito dagli espliciti pronunciamenti di registi, produttori e attori» (p. 133).

A differenza del film di Garrone basato sulla sottrazione, la serie intraprende la strada del tono epico della saga familiare di mafia. «Rinunciando all’eroe che si ribella al Sistema […] la serie, diversamente da quando aveva fatto il film, costruisce una mostruosa epica del male, che solamente contaminandosi con la distopia, mantiene una distanza critica verso ciò che rappresenta» (p. 135). Ciò dovrebbe essere rafforzato anche dall’assenza del lieto fine sebbene, vale la pena ricordare, l’happy end manchi spesso anche nelle produzioni che tendono a mitizzare agli occhi dell’osservatore le figure dei malvagi. Nel caso di Gomorra, sostiene Benvenuti, la mancanza del lieto fine vorrebbe però ricordare al pubblico che ciò a cui ha assistito si perpetua quotidianamente nei territori controllati dalla criminalità organizzata e su tale pretesa di realismo sembrerebbe fondarsi la strategia di marketing dell’intero brand.

Quanto Gomorra riesca nel suo intento di evitare che lo spettatore provi empatia per i personaggi, capaci di dar luogo a un piccolo star system, è difficile da dire. Inoltre, ricorda la studiosa, la crescente forza iconica di Saviano lo pone al centro di una responsabilità importante visto che è divenuto parte integrante del sistema mediatico che promuove il franchise. «Il caso Gomorra permette di mettere in luce la complessità del rapporto fra scrittore e mediatori culturali (proprietari dei mezzi di diffusione dei prodotti culturali, logiche di mercato, committenza, pubblicità, addetti stampa, editor, conduttori televisivi), mostrando quali negoziazioni e quali contraddizioni siano caratteristiche della contemporaneità» (p. 197).

Con le riprese della quarta stagione alle porte, resta da chiedersi se davvero la serie televisiva sia riuscita nell’intento di ribaltare Scarface e se davvero abbia saputo evitare di mettere in piedi una sorta di racconto epico autoconsolatorio, anch’esso nichilista in fin dei conti, agli occhi di chi si torva a vivere quello squallore e quello sfruttamento che la serie intende denunciare. Roberto Saviano ha più volte sottolineato come l’eventuale immedesimazione del pubblico si dia non con la realtà ma con la sua rappresentazione. Questo, però, poteva valere anche per il film di De Palma. Evitando di scivolare in semplicistiche letture di causa-effetto, viene da chiedersi se, molto più semplicemente, rispetto alle nobili premesse, la montagna (il brand Gomorra) non abbia finito col partorire un topolino (per quanto esteticamente ben riuscito ed economicamente redditizio).

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