Narrativa – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 17 Sep 2025 20:24:03 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Oltre il Noir, il Black https://www.carmillaonline.com/2025/08/15/oltre-il-noir-il-black-2/ Fri, 15 Aug 2025 20:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89515 di Valerio Evangelisti

[Pubblicato dall’autore il 10 agosto 2004 su “Carmilla online” e, precedentemente, su “L’Unità il 7 agosto 2004]

In Italia ormai il termine noir è inflazionato. In pratica, ha preso il posto del “giallo” di mondadoriana memoria, e viene usato in riferimento a qualsiasi tipo di narrativa poliziesca o che abbia al centro un crimine. Così, per dirne una, si persiste nel definire noir i romanzi di Andrea Camilleri che, se avessero bisogno di un’etichettatura, dovrebbero essere considerati polizieschi, sia pure anomali; divengono retroattivamente noir persino i mistery molto tradizionali di Renato Olivieri e i romanzi esotici o a sfondo [...]]]> di Valerio Evangelisti

[Pubblicato dall’autore il 10 agosto 2004 su “Carmilla online” e, precedentemente, su “L’Unità il 7 agosto 2004]

In Italia ormai il termine noir è inflazionato. In pratica, ha preso il posto del “giallo” di mondadoriana memoria, e viene usato in riferimento a qualsiasi tipo di narrativa poliziesca o che abbia al centro un crimine. Così, per dirne una, si persiste nel definire noir i romanzi di Andrea Camilleri che, se avessero bisogno di un’etichettatura, dovrebbero essere considerati polizieschi, sia pure anomali; divengono retroattivamente noir persino i mistery molto tradizionali di Renato Olivieri e i romanzi esotici o a sfondo storico-politico di Pino Cacucci.

Certo, la definizione di noir non è facile. La più frequente che capita di udire è questa: la soluzione di un caso criminale, che nel contesto di un giallo risolve il caso, in un romanzo nero non scioglie la problematica che aveva condotto al delitto, destinata a prolungarsi — e a inquietare — anche oltre la chiusura della specifica vicenda narrata. Ciò è grosso modo esatto, però anche un po’ vago. Potrebbe per esempio applicarsi alla serie gialla Calamity Town di Ellery Queen, o a tantissimi romanzi di Simenon.

Sta di fatto che il noir non offre soluzioni consolanti, e questo è un punto fermo. A cui va però aggiunta una caratteristica altrettanto saliente: l’assenza di gabbie narrative e la riluttanza all’etichettatura. E abbastanza eloquente che S.S. Van Dine, feroce conservatore, per non dire protofascista, fissasse alle soglie degli anni Trenta un proprio decalogo del giallo, nello stesso momento in cui il marxista Dashiell Hammett le violava quasi tutte. L’uno stabilizzava il poliziesco, l’altro fondava il noir (nella sua versione detta hard boiled); e la differenza del secondo, rispetto al primo, era che i detective hammettiani si trovavano immersi nello stesso mondo criminale che combattevano, e talora ne facevano parte (come l’indimenticabile giocatore alcolizzato Ned Beaumont, protagonista de La chiave di vetro). Inoltre, spesso nelle loro avventura entrava in gioco la società tutta intera, vista con gli occhi pessimisti di un radicale. Cosa che non è dato trovare né in Van Dine, né in Agatha Christie, né in varie migliaia di imitatori più meno abili di Conan Doyle.

Libertà narrativa che troviamo in seguaci ideali di Hammett, che però si differenziano dal modello, estendendone i confini: sia che rinuncino del tutto alla figura dell’investigatore, cedendo il ruolo di protagonista a emarginati o criminali (Jim Thompson, David Goodis, Donald E. Westlake con lo pseudonimo di Richard Stark, James Hadley Chase, Jean Patrick Manchette, ecc.), sia che si soffermino su patologie individuali o di matrice sociale (Cornell Woolrich, James Ellroy, Derek Raymond), sia che chiamino direttamente in causa il sistema politico e le molte ineguaglianze che ricopre (ancora Manchette, Didier Daeninckx e buona parte del néo-polar francese).

Sta di fatto che, prendendo in mano un noir, siamo sicuri di incontrarvi delitti e attività criminali; non siamo invece certi che lo svolgimento sarà quello di un romanzo poliziesco più duro del consueto Può invece trattarsi di qualsiasi cosa: dal racconto di una rapina e di una fuga, alle conseguenze drammatiche di una vita disperata, a una storia di spionaggio fuori dei canoni. La regola è quella di non avere regole, tranne forse una: l’adozione di un linguaggio essenziale di forte intonazione realistica, tanto da sfociare talora nell’iperrealismo. Ma nemmeno questo va considerato un dogma.

In Italia, quanto detto finora non è stato ancora recepito del tutto. Il fatto è che, sebbene il romanzo nero circolasse da decenni (con le storiche collane di Mondadori, Longanesi o Garzanti, con la collezione Maschera Nera curata da Oreste Del Buono, con le storie durissime di Giorgio Scerbanenco, ecc.), si è cominciato a parlare veramente di noir quando un gruppo di nostri autori, in molti casi bravissimi, ha cominciato a definire così i propri lavori. Eppure, se la qualità dei delitti si è fatta più efferata della norma, la funzione consolatoria del racconto giallo è stata ripresa in pieno. Continua a dominare le storie la figura del poliziotto problematico sì, ma senza macchia, e certo di sapere da che parte stia la giustizia. E se la società viene chiamata alla sbarra, a essere processati non sono i suoi intimi meccanismi, bensì le sue perversioni epidermiche. Malgrado i generosi sforzi di taluni editori (Meridiano Zero con Raymond, Guanda con Hammett, Einaudi con Manchette, Fanucci con Goodis e Thompson) la nozione di noir, in Italia, è lungi dall’essersi impiantata per davvero.

Per fortuna, in tanta confusione anche editoriale, c’è chi ha le idee chiare. Si tratta di Jacopo De Michelis, creatore della collana Marsilio Black, ospitata dall’editore veneziano ma dotata di ampia autonomia. De Michelis ha fatto una scelta coraggiosa: quella di collocare la sua Black agli estremi limiti del noir, dove non esistono vie di ritorno in direzione del giallo convenzionale. A questo fine, si direbbe, ha frugato gli angoli del mondo, radunando una serie di titoli sfuggiti all’attenzione di editors meno scrupolosi.

La grande scoperta è l’australiano Andrew Masterson, personaggio singolare (ha tutta l’aria del teppista reduce da un migliaio di risse) autore di romanzi ancor più singolari. In entrambi i titoli usciti presso Marsilio Black, Gli ultimi giorni e Il secondo avvento, l’investigatore di turno si chiama Joe Panther. Solo che è anche spacciatore di droga e, come se non bastasse, crede di essere, o magari è, Gesù Cristo (figlio del legionario romano Pantera, secondo Celso e alcuni apocrifi). Un Cristo amareggiato e rabbioso, che da secoli si trascina sulla terra lamentando l’ingratitudine degli uomini e della società che hanno creato. Uno schizofrenico, si penserebbe; se non fosse che alcuni ragionamenti teologici inducono a temere che sia proprio chi dice di essere.

Altro autore quanto mai originale il francese François Muretet, autore del brillante Fermate le macchine. Qui è di scena il conflitto sociale che agita una piccola azienda automobilistica, fino a trasformarsi in guerra aperta tra una moltitudine composta da operai indisciplinati, spie padronali, avvocati corrotti, sindacalisti venduti e sindacalisti di base. Dove l’elemento “nero” risiede proprio nella vita di fabbrica, tale da porre più di un dubbio a qualsiasi fautore del neoliberismo.

Altri scrittori proposti da Marsilio Black sono la neozelandese Stella Duffy, i cui romanzi (Calendar Girl, La settima onda) eccedono dall’impianto consueto del giallo per via delle idee radicali dell’autrice, socialista e militante lesbica; l’inglese Denise Danks, autrice di un thriller ambientato nel mondo degli hackers (Phreaks) che è forse il migliore in assoluto in quel filone; e l’americano Tim McLoughlin, che con Via da Brooklyn alterna momenti noir a quadri di vita familiare di notevole intensità.

L’ultima scoperta di Marsilio Black, paragonabile per impatto a quella di Masterson, è però il tedesco Georg Klein, autore di Libidissi: immaginaria città mediorientale in cui, come nella Tangeri dei film di un tempo, prolifera ogni corruzione, non ultima quella delle spie che la hanno eletta a loro nido. Testimone di un allarmante cambiamento di regime che sta per investire la metropoli è per l’appunto una spia: un agente segreto col corpo devastato da intrugli inebrianti e dai medicinali di cui si imbottisce; senza però che possa sottrarre il proscenio a Libidissi stessa e al liquame morale e umano che la inonda.

Fin qui i titoli proposti da Marsilio Black. La caratteristica comune, lo si sarà intuito, è che una volta preso il libro in mano, non si sa in quale girone infernale ci si dovrà aggirare. Un connotato fondamentale del noir correttamente inteso; ma anche un connotato del genere tragedia, di cui il noir, quando è padrone dei suoi mezzi, non è che la variante contemporanea.

Scheda – Il genere noir in otto titoli fondamentali

  • Dashiell Hammett, Piombo e sangue, Guanda 2002 – Un romanzo divenuto un archetipo, ispiratore di Kurosawa e Leone.
  • Jim Thompson, L’assassino che è in me, Fanucci 2003 – La trama è disegnata dal destino e dalla sua crudeltà.
  • David Goodis, Sparate sul pianista, Fanucci 2003 – La parola passa agli sconfitti dalla vita.
  • Jean-Patrick Manchette, Posizione di tiro, Einaudi 2004 – Il noir raggiunge la perfezione stilistica quasi assoluta.
  • James Ellroy, Dalia Nera, Mondadori 2004 – Protagonista è la metropoli con la sua corruzione.
  • Derek Raymond, Il mio nome era Dora Suarez, Meridiano Zero 2000 – L’angoscia spinta ai limiti del tollerabile.
  • Jean-Claude Izzo, Vivere stanca, E/O 2001 – Incrociarsi di vite in una Marsiglia meticcia, riassunto del mondo.

Infine un classico non ristampato da decenni:

  • James Hadley Chase, Niente orchidee per Miss Blandish – Una riscrittura nerissima di “Santuario” di Faulkner. A suo tempo fece scuola.
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L’estinzione del movente https://www.carmillaonline.com/2025/08/01/lestinzione-del-movente-2/ Fri, 01 Aug 2025 20:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89509 di Valerio Evangelisti

[Pubblicato dall’autore il 6 novembre 2004 su “Carmilla online” e, precedentemente, su “L’Europeo” n. 4 2004]

Ormai il genere detto noir ha rimpiazzato larga parte della narrativa poliziesca tradizionale, di cui, pure, rappresenta un’evoluzione. Credo non sia un caso: è che anche nella vita reale, o perlomeno in quella sua componente non secondaria che è il crimine, il colore nero si è sovrapposto ampiamente al giallo.

Il dato è spaventoso, ma ne va preso atto. Se nel campo terroristico diventa sempre più difficile individuare ideologia e moventi dei suoi protagonisti, in quello puramente e semplicemente criminale si moltiplicano gli [...]]]> di Valerio Evangelisti

[Pubblicato dall’autore il 6 novembre 2004 su “Carmilla online” e, precedentemente, su “L’Europeo” n. 4 2004]

Ormai il genere detto noir ha rimpiazzato larga parte della narrativa poliziesca tradizionale, di cui, pure, rappresenta un’evoluzione. Credo non sia un caso: è che anche nella vita reale, o perlomeno in quella sua componente non secondaria che è il crimine, il colore nero si è sovrapposto ampiamente al giallo.

Il dato è spaventoso, ma ne va preso atto. Se nel campo terroristico diventa sempre più difficile individuare ideologia e moventi dei suoi protagonisti, in quello puramente e semplicemente criminale si moltiplicano gli atti di un’efferatezza inspiegabile, gli omicidi insensati, le esplosioni gratuite di sadismo. Giovanissimi innamorati alla Peynet accoltellano genitori e fratellini; ragazzine si inventano dal nulla una setta satanica e compiono un sacrificio umano; adolescenti di quartiere appiccano fuoco a un barbone oppure violentano e uccidono una compagna di classe. Anche una “tradizionale” rapina in una villa può mutarsi nell’occasione per l’esercizio di una ferocia non necessaria, mentre, sul versante opposto, la difesa legittima dei propri beni rischia di degenerare nell’omicidio di un aggressore disarmato.

Intendiamoci, simili orrori sono sempre esistiti. E’ innegabile, però, che fino a un paio di decenni fa costituissero trasgressione rispetto a codici di comportamento che, occulti o meno che fossero, riuscivano in qualche modo a regolare persino il mondo sotterraneo del delitto. Oggi quei codici paiono tutti saltati. Il crimine patologico, abnorme, sfrenato, eccessivo — un tempo ricorrente solo nella società statunitense, e anche in quella con molti distinguo — si ripropone con frequenza quasi quotidiana. C’è poco da dire. Qualcosa si è spezzato.

E’ piuttosto logico che, in simile contesto, la narrativa “gialla” perda colpi. Se hanno ancora relativo successo narrazioni in cui il detective (pubblico o privato), guidato da rigore logico e capacità induttive, ricostruisce anello dopo anello le ragioni di un delitto, è essenzialmente per via della funzione consolatoria di storie di quel tipo. Non a caso, la loro fruizione maggiore è oggi quella televisiva, con il moltiplicarsi di marescialli e carabinieri, squadre e squadrette. Risolto il caso, estinto il problema.

Ma che dire quando il problema vero inizia subito dopo che il colpevole è stato assicurato alla giustizia? Cosa potrebbero dirci Nero Wolfe o Sherlock Holmes, Maigret o Poirot del caso di Erika e Omar o di altri simili? Persino Marlowe, nato per contestare gli investigatori di quel genere, si troverebbe in serio imbarazzo. Persino Sam Spade, che pure sa di vivere in una società marcia ed è capace di frugarne il marciume. Qui non si tratta di recuperare una statuetta che contiene un gioiello, sfidando un boss della malavita. Qui si tratta di capire perché il venire meno di norme intangibili abbia spalancato le porte alla schizofrenia, promossa, da malattia mentale dei singoli, a patologia sociale.

Origini del noir

Ecco spiegata la fortuna del noir. In Italia il termine viene impiegato alla leggera, e spesso applicato a comuni romanzi polizieschi, peraltro talora ben confezionati e non privi di qualità letterarie. Ma se guardiamo alle origini vere di questo tipo di narrativa, la differenza rispetto al giallo si avverte. Nei migliori romanzi di Dashiell Hammett — quelli che hanno a protagonista un anonimo agente dell’agenzia Continental — il male non è ancora patologia sociale. Però bande di gangster dominano città intere, la politica è sporca da cima a fondo, le leggi sono dettate da chi non ne vorrebbe.

Jim Thompson e David Goodies si spingono più in là. Scrivono storie tragiche di disperati e di emarginati, immersi in giungle metropolitane in cui non esiste uno straccio di giustizia che li difenda.

Più prossimo a noi, James Ellroy, pur non condividendo una virgola dell’ispirazione marxista dei suoi predecessori, finisce col riscrivere una storia degli Stati Uniti in cui società civile e mondo criminale si sovrappongono. Mentre altri autori, come il Thomas Harris dei primi romanzi, si concentrano sui serial killer quali figure emblematiche e vincenti, al punto che i detective che li combattono devono stare bene attenti a non lasciarsi imprigionare dalla loro psicologia contorta e affascinante, che un angolino della loro mente condivide.

In seguito, ahimè, è tutto un proliferare di assassini di massa, e ciò coincide con una crisi seria del noir. Lo stesso Hannibal Lecter (o Lector) di Harris, serial killer cosciente e compiaciuto, diventa protagonista a sé. Così finisce per apparentarsi a Fantômas, campione, ai primi del ‘900, del delitto gratuito, esercitato come un’arte e senza freni morali di sorta.

Proprio il Fantômas di Marcel Allain e Pierre Souvestre fonda del resto il noir francese, fecondato da una certa passione nazionale per il fuorilegge amorale e ribelle (cantato all’eccesso da Auguste Le Breton e Albert Simonin). Il senso profondo del noir sarà recuperato appieno, negli anni ’80, solo da Jean-Patrick Manchette. In lui la figura dell’investigatore si oscura per davvero, e la scoperta del “colpevole” esce quasi del tutto dalla trama. Abbiamo invece a che fare con assassini prezzolati, poliziotti corrotti e quasi più temibili dei nemici che combattono, vendicatori — anzi, vendicatrici — dai moventi incerti e incapaci di battere ciglio anche davanti a una strage. Qui sì che, volutamente, la chiusura del caso non chiude il problema.

Tutta una leva di scrittori segue in Francia le tracce di Manchette (come, in Inghilterra, quelle di Derek Raymond, autore sopraffino di romanzi angosciosi allo spasimo). I risultati variano, ma è in territorio francese che il noir soppianta per davvero il giallo, e non solo per via della copertina della più nota collana di genere, edita da Gallimard. Addirittura, il romanzo nero lancia la sfida alla letteratura “alta”, nei confronti della quale rivendica un maggiore realismo.

L’Italia si scurisce

In Italia, dove un giallo autoctono esiste fin dagli anni ’30 del Novecento, e vanta antesignani risalenti alla fine del secolo precedente, la trasformazione è meno facile. Serie di romanzi “neri” vengono lanciate dagli editori Mondadori, Garzanti e Longanesi già negli anni ’60. Propongono le storie di gangster brutali e di poliziotti ancor più brutali, scritte alla meno peggio dall’inglese James Hadley Chase, dall’americano Mickey Spillane e dai loro epigoni. I tentativi di imitazione da parte di italiani sono però rare. Forse solo Giorgio Scerbanenco riesce ad addentrarsi in maniera persuasiva sulla stessa strada, mettendo in scena le periferie urbane create dal tramonto dell’economia rurale e traendo diretta ispirazione dalla cronaca nera. In quest’ultima, d’altra parte, i serial killer non abbondano. Ci si ricorda di Girolimoni, della Cianciulli. Sarà unicamente col “mostro di Firenze” che l’assassinio in serie per puro sadismo cesserà di essere visto quale fenomeno esotico, dalle scarse repliche locali.

E’ piuttosto il cinema che, nei Sessanta e agli inizi dei Settanta, prende atto delle modifiche che stanno avendo luogo nell’universo del crimine. Registi popolari come Mario Bava, Fernando Di Leo, Umberto Lenzi, Mario Caiano e tanti altri, provenienti dall’horror oppure dallo “spaghetti western”, reagiscono all’inaridirsi di quei filoni con un tuffo nella nuova fenomenologia del delitto. I loro gangster non somigliano per niente al Padrino, i loro assassini non usano né veleni né pugnali, i loro poliziotti condividono la crescente violenza della società che li circonda. Bava, più tardi imitato dal primo Dario Argento e da Lucio Fulci, compone ritratti di serial killer quali non si vedevano dai tempi di M. Gli altri, guidati dal loro istinto commerciale, intuiscono la voglia di una parte del pubblico di esorcizzare chi lo minaccia nella vita quotidiana. Non c’è dubbio che quest’ultimo abbia più le fattezze del teppista che di Diabolik.

La narrativa, seppure in ritardo, finisce per adeguarsi. Il capostipite è probabilmente Loriano Macchiavelli. Lo scrittore bolognese opera ancora nel campo del giallo, però ne trasforma dall’interno i contenuti. Il suo antieroe, il poliziotto Sarti Antonio, niente affatto brillante o perspicace, vive storie amare, “cattive”, in cui la soluzione dell’enigma raramente è consolatoria. Non a caso, una serie di telefilm tratti dai racconti di Macchiavelli viene sospesa dalla Rai perché ritenuta deprimente nei confronti degli spettatori. Ma Macchiavelli ha il merito ulteriore di radunare attorno a sé un manipolo di giovani scrittori — chiamati il “Gruppo dei 13”, anche se il loro numero varierà nel tempo — dai quali uscirà finalmente il vero noir italiano. Si chiamano Carlo Lucarelli, Marcello Fois, Eraldo Baldini, Giampiero Rigosi, ecc. Con stili profondamente diversi, sondano paesaggi dell’anima scuri come il carbone. Ma è inutile soffermarsi sui loro romanzi, oggi nelle mani di tutti.

Storie analoghe, tutte calate nel presente più fosco, scrivono in altre parti d’Italia Andrea Pinketts, Michele Serio, Sandrone Dazieri, un poliziotto come Piergiorgio Di Cara, tantissimi altri. Andrea Cammilleri, che peraltro resta apparentemente legato al giallo, diventa un caso letterario nazionale. Tuttavia il fenomeno forse più significativo è che anche autori non confinabili entro etichette di genere, quali Niccolò Ammaniti, Simona Vinci e il collettivo Wu Ming, prendano a prestito dal noir alcuni dei suoi strumenti. E’ la conferma che, anche in Italia, il noir ha vinto.

Nel nome di niente

Preso atto di ciò, conviene ripigliare in mano le fila iniziali del discorso. Norme comunemente accettate sono venute meno, e a esse se ne sono sostituite altre confuse o di difficile decifrazione. Era relativamente semplice capire perché l’IRA piazzava una bomba in un pub di Belfast, o perché le BR (quelle “storiche”) assassinavano un poliziotto o un uomo politico. A ogni atto seguivano comunicati, giustificazioni sociali o geopolitiche tendenti ad attenuare l’aberrazione del delitto, confutazioni di interpretazioni sbagliate, richiami alla fase storica. Tale materiale era spesso definito “delirante”, ma il delirio vero doveva in realtà ancora cominciare.

E’ iniziato quando si sono colpiti innocenti a centinaia, addirittura a migliaia, adducendo ragioni tanto concise quanto forsennate: la lettura arcaica di una religione, la vendetta per un sopruso storico dai contorni imprecisi, la resurrezione di fratture etniche o tribali dimenticate per secoli. Tornano alla mente I demoni di Dostoevskij, animati da intenzioni diverse però accomunati da un’identica volontà di distruzione, sottilmente coincidente con l’autodistruzione.

E a proposito di demoni, mentre scrivo queste righe le cronache parlano di un gruppo di giovani “satanisti” colpevoli di una serie di delitti, alcuni accertati e altri da accertare. Le pagine di diario di una delle appartenenti alla setta non si limitano a evocare la propria devozione a Satana e a Lucifero; richiamano invece, con pari reverenza, Azathoth, Cthulhu, Yog-Sothoth, i “Grandi Antichi”: gli dei immaginari che lo scrittore H.P. Lovecraft mise al centro dei propri racconti horror, traendone spesso il nome, a scopo di burla, dalla deformazione di quello di qualche amico. Dubito dunque che ci sia davvero Satana dietro il sangue versato. Temo il peggio: che non ci sia nulla.

Allora alcuni degli episodi delittuosi raccontati in questo fascicolo, i più gratuiti, i meno chiariti, andrebbero interpretati quali primi sintomi di un male a venire. In questo senso sono preziosi, e la loro rilettura non è solo utile: è urgente. Bisogna interrogarsi sul perché la schizofrenia, nel senso di perdita dell’Io nei rapporti col prossimo, stia diventando male sociale; perché in giro per il mondo esplodano conflitti sanguinosissimi di cui è quasi impossibile ricostruire razionalmente le cause; perché la malavita del “Cerutti Gino”, e persino quella ben più temibile di mafia, camorra e ndrangheta, siano messe a riposo da loro varianti che praticano il culto della ferocia e rinnegano quello del malinteso “onore”.

L’istinto egoistico prevale su quello solidale, la competizione si trasforma in sopraffazione, la convivenza pacifica si fa guerra di tutti contro tutti. E’ in questo senso che il noir ha vinto: nelle sue espressioni migliori aveva anticipato e interpretato tutto ciò. Ma non è bello quando la letteratura si fa realtà, e là realtà letteratura. Non possono essere gli scrittori, per quanto bravi siano, a indicare soluzioni. Deve essere la società civile, avvisata di ciò che accade di chi sa colpire il suo immaginario (narrativa, giornalismo, il multiforme universo dei media), a cercare di colorare se stessa in tinte diverse dal nero. Salvo trasformarsi in ricettacolo di demoni che, prima o poi, reclameranno il loro sfogo.

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Strappare la gioia al futuro https://www.carmillaonline.com/2025/01/23/strappare-la-gioia-al-futuro/ Thu, 23 Jan 2025 21:00:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86527 di Francesco Festa

Giancarlo Piacci, Nostra signora dei fulmini, Salani, Milano 2024, pp. 319, € 16,90

“Come un grimaldello”: ecco cos’è il romanzo. È una leva che solleva la cappa di ingenuità, perbenismo e omertà che copre la coscienza del lettore borghese. Icastica riflessione dello scrittore marsigliese Jean-Claude Izzo. Ancor prima di affascinare e catturare con la sua trama, il romanzo deve lasciar deflagrare parola dopo parola le certezze consolidate in colui che legge, decostruendone gli stereotipi su cui si adagia, sollevando in lui questioni e domande che lo introducono in arcipelaghi ignoti, in situazioni sconosciute o assai spesso in contesti [...]]]> di Francesco Festa

Giancarlo Piacci, Nostra signora dei fulmini, Salani, Milano 2024, pp. 319, € 16,90

“Come un grimaldello”: ecco cos’è il romanzo. È una leva che solleva la cappa di ingenuità, perbenismo e omertà che copre la coscienza del lettore borghese. Icastica riflessione dello scrittore marsigliese Jean-Claude Izzo. Ancor prima di affascinare e catturare con la sua trama, il romanzo deve lasciar deflagrare parola dopo parola le certezze consolidate in colui che legge, decostruendone gli stereotipi su cui si adagia, sollevando in lui questioni e domande che lo introducono in arcipelaghi ignoti, in situazioni sconosciute o assai spesso in contesti mediati dalla cronaca di qualche telegiornale se non ricostruiti verosimilmente in fiction per il pubblico pagante, ma sempre tenuti a debita distanza dall’esercizio della critica o dalla presa di coscienza. Insomma il romanzo o smuove le acque della cultura borghese oppure è letteratura inoffensiva, innocua, che non lascia il segno.

Quindi, il romanzo noir come un “grimaldello” ma anche come un dispositivo. Con Gilles Deleuze e Félix Guattari che rileggono Franz Kafka, l’opera letteraria apre molteplici accessi che offrono l’ingresso nella Storia dei subalterni, degli indesiderati, dei “dannati della terra”. Per ciò un romanzo noir insegna giocoforza a “odiare ogni letteratura dei padroni” e prova attrazione per gli ultimi, “i servi e gli impiegati” di Kafka, o altrimenti i reietti, gli “anormali” della società secondo Foucault, gli individui da correggere e destinati alla esclusione, all’esilio, al carcere, alle periferie. Che in realtà sono le zone d’ombra del potere e del capitale, come Izzo ha mostrato, ossia i luoghi del “realismo capitalista.”

È nel solco di tale traccia indicata dai grandi romanzieri noir che si muove la seconda opera di Giancarlo Piacci, Nostra signora dei fulmini. Un noir a tratti thriller – ambientato a Napoli, ma con incursioni su Milano – in cui molti sono i rimandi al suo primo romanzo (I santi d’argento, 2022). Un consiglio: i due libri vanno letti insieme. E non se ne può equivocare la corrispondenza, per lo meno grafica, poiché entrambe le copertine sono disegnate da Zerocalcare.

I due libri sono l’affermazione di un talento: un inconfutabile e originale talento. Il cui genere ha un nitore nello stile e nell’espressione che lo rendono inconfondibile. Che in realtà è uno stile che lo colloca a pieno titolo fra gli autori del “noir mediterraneo”, sulla scia di Massimo Carlotto, Andrea Camilleri, Maurizio De Giovanni, il cui ispiratore è certamente Izzo. Sembra azzardata un’associazione così impegnativa, eppure Nostra signora dei fulmini non lascia dubbi sulla stoffa del suo autore.

Il noir di Piacci ricostruisce un insieme di storie ai margini: di proletari metropolitani che ostinatamente provano a curvare un destino che per loro è già stato scritto nella culla. L’incastro narrativo è costituito da rompicapi casistici fra il poliziesco e il criminale, mentre l’infrastruttura che unisce i personaggi è il crogiuolo di sentimenti e di passioni. Nel suo stile narrativo l’ambivalenza dei rapporti sociali si esplicita in una dialettica fra la vita e la morte, ove la differenza è intangibile, e la morte si presenta in tutta la sua crudezza di violenza, ferocia e disumanità.

Il punto d’aggancio è un groviglio di fatti e storie, presenti e passati – sullo sfondo della periferia occidentale di Napoli – che ruotano attorno alla vita di Vincenzo, il quale prova a districarsi fra le sue dipendenze, sostanze e amore, e a respingere un passato che non passa. Alcuni morti ammazzati infatti provano a strappargli il futuro e a trascinarlo nei bassifondi della criminalità con cui credeva di aver chiuso i conti.

Lo sguardo adoperato per narrare le vite di questi proletari senza gloria è tanto realistico quanto intimistico. L’autore ricostruisce il contesto in cui si muovono i personaggi, ma al contempo entra nella soggettività radiografandone i sentimenti: cioè, indaga l’estensione dello spazio del reale e delle storie così come l’intensità delle passioni, delle emozioni di quelle vite che provano a strappare la gioia ai giorni futuri.

Lo spazio che allontana questi ragazzi è meno spesso di quello che possa sembrare. La mia adolescenza è coincisa con il fervore degli anni Ottanta. Ovunque imperversava l’idea della scelta come diritto universale inalienabile. Nella maggior parte dei casi, però, la scelta riguardava solo cosa acquistare, e di conseguenza interessava solo chi avrebbe potuto permetterselo.
Per ragazzi come Salvatore la scelta non esisteva. A lui, come a tanti altri, non era dato nessun orizzonte da percorrere, se non la strada. Mi chiedo se ci fossi nato io senza alternative, quale dei due sarei adesso, quello obbligato a implorare di essere mutilato, oppure il suo torturatore. Uccidere o morire, carnefice o vittima, mutilato o mutilatore, forse la sola scelta che quell’epoca ha consegnato ai ragazzi del mio quartiere è stata questa. (p. 193)

Muoversi nelle zone d’ombra fra proletariato e borghesia, nelle terre di mezzo fra polizia, politica e criminalità, in un gioco di rimandi, osservando l’antropologia urbana, significa anche narrare in altro modo la lotta di classe che innerva la città. Infatti, nel flusso di fatti che sostanziano la lettura senza lasciare respiro, con una prosa penetrante, fra storie personali, dipendenze e ammazzamenti, vi è anche la lotta di una cooperativa di pescatori contro una multinazionale che contende la felicità a quella piccola comunità di lavoratori del porto di Bacoli. E se il romanzo è un’invettiva contro il lato oscuro del nostro vivere, i personaggi di Piacci sono dei falliti, ma non vinti, anzi, perennemente alla ricerca di un’altra occasione, anche se succubi di una realtà che non possono cambiare.

Nostra signora dei fulmini cede a quel senso di “appocundria”, quel sentimento di rassegnazione misto a malinconia, messo in versi da Pino Daniele in Terra mia. Eppure, al contempo, il libro restituisce un senso di ribellione e di rivalsa che risveglia il lettore provando a combatterne l’apatia e a farlo schierare. A dirla tutta è un altro modo di militare, quello di Piacci, ossia trasmettere dubbi, angosce, felicità, piaceri. E’ una maniera di condividere.

Pronuncia queste parole con tono neutro, asettico. Con la certezza di una verità scientifica. Se mio padre fosse qui, illuminato dalla luce fioca del sole di ciò che non è mai avvenuto, direbbe senz’altro che Lo Cascio è la prosecuzione dello Stato con altri mezzi. E in effetti lui si sente lo Stato. Giovanni lo guarda sprezzante: “E ti fa sentire forte tutto questo? A me dei tuoi intrallazzi, della politica, degli appalti, non me ne è mai fottuto niente. Parli come se hai capito tutto del mondo e sai campare solo tu, e invece dovresti ringraziare chi ti è sempre stato amico, non sapendo che in realtà eri un infame. (p. 256)

Nei tempi di quelle vite che ritmano lo stile, nell’alternanza umorale delle parole, Piacci racconta in fin dei conti le contraddizioni di Napoli, ché in realtà sono le contraddizioni delle società capitalistiche. Fra tutte, la turistificazione e la gentrificazione della città, ossia, come mercificare e ridicolizzare le pietre, la lingua se non la cultura, a uso e consumo della distrazione di massa e dell’ignoranza funzionale.

Laddove il desiderio di lottare e la voglia di amare convivono secondo «un detto dei banditi [che] suonava così: cospirare vuol dire respirare insieme» (p. 319), si può resistere, trasformare, migliorare. Anche se in ogni caso si è in trappola. Non si può cambiare niente, fondamentalmente. Ma nello spazio a disposizione si può essere felici costruendo comunità che cospirano.

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Cronache dal dopo vita https://www.carmillaonline.com/2024/06/03/cronache-dal-dopo-vita/ Mon, 03 Jun 2024 20:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82790 di Giovanni Iozzoli

[In occasione dell’uscita del nuovo romanzo di Giovanni Iozzoli, Cronache dal dopo vita (Jack Edizioni, 2024), si riporta un breve stralcio, ringraziando l’editore per la gentile concessione. g.i.]

“Beniamino l’aveva spiegata bene. La gente era cambiata e l’essenza di quel luogo era indecifrabile, per uno come me, diventato sostanzialmente forestiero. Nonostante però una inevitabile atmosfera di decadenza – dovuta anche alla grande crisi dell’agricoltura dell’agro e a un certo sfaldamento della comunità che si respirava nell’aria – Frusciano non era in preda al degrado, come altri paesoni vicini.  Non era seppellita dai rifiuti, i cornicioni svirgolati non crollavano [...]]]> di Giovanni Iozzoli

[In occasione dell’uscita del nuovo romanzo di Giovanni Iozzoli, Cronache dal dopo vita (Jack Edizioni, 2024), si riporta un breve stralcio, ringraziando l’editore per la gentile concessione. g.i.]

“Beniamino l’aveva spiegata bene. La gente era cambiata e l’essenza di quel luogo era indecifrabile, per uno come me, diventato sostanzialmente forestiero. Nonostante però una inevitabile atmosfera di decadenza – dovuta anche alla grande crisi dell’agricoltura dell’agro e a un certo sfaldamento della comunità che si respirava nell’aria – Frusciano non era in preda al degrado, come altri paesoni vicini.  Non era seppellita dai rifiuti, i cornicioni svirgolati non crollavano sulla testa dei passanti, non si registravano percentuali vertiginose di abbandono scolastico. Forse per le sue dimensioni – troppo piccola e tutto sommato poco appetibile -, Frusciano aveva resistito alla malefica forza di attrazione della megalopoli, non era ancora stata assorbita nella vasta fascia gravitazionale dell’hinterland napoletano.

– Ste’, te lo ricordi Michele?

– Chi?

– Michele o’ Poeta.

– Perché me lo chiedi?

– Così, mi è tornato in mente. Che nostalgia. Qualche volta arrivava fino a qua, si infilava pure in chiesa. Ogni tanto recitava per un pubblico immaginario, sulle scale della Madonna Ausiliatrice. Povero Michele.

Certo che me lo ricordo. La persona più savia del paese. Si aggirava per la campagne, povero poeta ignorato e vilipeso, nel ’74 o nel ’75, con i capelli sporchi e i vestiti laceri, e le braccia aperte, come a catturare l’aria, e si crogiolava in mezzo all’odore di verderame: questo, questo è il ventre del mediterraneo, questo è il ventre caldo d’Europa, questo è l’ultimo pezzo di cervice della Magna Grecia, questa è la terra del fecondo segreto, urlava ridendo; e roteava su se stesso come un derviscio, mentre gli zappatori lo irridevano bonari – Michè, va ‘a faticà – e lui si beava nel vedere le loro pose languide e naturali, appoggiati a una zappa o a un bastone, come tanti modelli naturali di arte figurativa sfuggiti a un museo. E loro non capivano l’importanza di Michele, il pazzo poeta che ogni paese deve avere, e la loro stessa importanza, la loro postura gloriosa in quella specie di presepe di Capodimonte che stava sgretolandosi sotto il sole dei giorni impietosi. La Campania infelix stava divorando i residui brandelli di Magna Grecia, e Michele piangeva e rideva, per essere l’ultimo, anzi l’unico testimone consapevole di quel ritiro, di quella mollezza.

Beniamino mi racconta gli ultimi frammenti della sua storia, che io non potevo conoscere.

Michele fu oltraggiato da un TSO verso la metà degli anni 80. Aveva rubato un coniglio da una gabbia e pretendeva di liberare anche un grosso maiale di un agricoltore suo vicino, che lo conosceva da quando era piccolo. Tutti erano disposti a sorvolare sulle sue mattane, sui suoi schiamazzi, ma la roba no: non la doveva toccare.

Rimase recluso per un periodo di alcuni mesi e quando uscì non era più lucido, nè autosufficiente – ma qualcuno sostiene, ancora più ferocemente poeta. Non sembrava più in grado di raccogliere i suoi versi, almeno un minimo, in modo precario e provvisorio, com’era abituato a fare prima della sua “malattia”. Non scriveva. Anzi non declamava neanche. Adesso la poesia era diventata la sua natura, il suo gesto, i suoi vestiti lisi, i suoi capelli sporchi. Non si poteva separare la poesia da o’ Poeta. Non la si poteva distillare.  Forse un grande pittore – anch’esso rigorosamente pazzo – avrebbe potuto catturare qualche lampo di luce, negli occhi verdi di Michele – e quello era il massimo che avrebbe potuto concedere. Ma dove lo si poteva trovare un pittore pazzo che ritrae un poeta pazzo, nei tempi amari di fine anni 80, in mezzo alle campagne fruscianesi in dismissione?

– Michele, una volta al mese, andava a trovare tua zia. Una volta al mese.

– Che ne sai tu?

– Io so tutto. Anche troppo, so. Per quello ogni tanto sto male. Sapessi meno, vivrei meglio.

– Che andava a fare da mia zia? Lui era un beat di campagna. Che c’entrava cu zi’ Pasqualina?

– Lui era un illuminato. Vedeva le cose che noi non vediamo. Perciò scriveva poesie. Forse andava da tua zia perché sentiva che era come lui.

Me lo immagino, Michele. Tutto stracciato e puzzolente, con una scarpa sola, che va a bussare al basso di Pasqualina Iovene. E lei gli apre, sorride e non dice niente. Michele si siede sul gradino basso della soglia, a grattarsi e guardare il cielo ancora azzurro; lei esce cu na’ tazzulella e ‘cafè in mano e si siede anche lei, sulla vecchia sedia impagliata; e non si parlano, non si guardano neanche – Michele scrive le sue poesie nell’aria, con il dito. Poi fa un segno a Pasqualina, che sorride e capisce al volo: e stavolta esce con un bel bicchiere di vino.

– Chi li ha visti ha detto che non parlavano mai. Tua madre non lo voleva, là intorno. Una volta l’ha anche cacciato con la scopa, perchè puzzava troppo. Ma lui, prima o dopo tornava. Anche diversi cani randagi facevano così. Lei dava sempre qualcosa a tutti.


In pieno XXI secolo, dal cimitero di un paesino rurale della Campania, all’improvviso scompare il cadavere di una vecchia signora morta in odore di santità negli anni ’80 del secolo precedente.

Inspiegabilmente, intorno a quella fossa vuota cominciano ad aggirarsi personaggi improbabili e inquietanti: vecchi capicamorra, ulema iraniani, malati disperati e devoti squinternati. E anche un lontano nipote, affascinato dalla scomparsa e dalla vita imperscrutabile di quella stramba parente.
Sembrano tutti a convegno intorno alla fossa vuota; tutti alla ricerca di qualcosa che ha a che fare, in un modo o nell’altro, con il corpo occultato di Pasqualina Iovene, mistica e veggente di un mondo che forse non c’è più, ma che fatica a scomparire del tutto.

Tra campagne esauste e periferie tristi, questo è il racconto del viaggio di un uomo solo in un’Italia insondabile, che custodisce tante disillusioni e qualche vecchio mistero.  

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Lotte e infiltrati in salsa bolognese https://www.carmillaonline.com/2024/03/15/lotte-e-infiltrati-in-salsa-bolognese/ Fri, 15 Mar 2024 21:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81517 di Giovanni Iozzoli

Valerio Monteventi, Lo sgherru dell’autunno caldo, DeriveApprodi, Bologna 2023, pp. 388, € 22,00

Che succede se uno scrittore-militante mette le mani su una vecchia raccolta di rapporti polizieschi riservati, che raccontano le lotte operaie e studentesche di un territorio? E che succede se questi rapporti rappresentano un fedelissimo resoconto giornaliero di quelle lotte – di parte sbirresca, ovviamente –, attraverso cui è possibile ricostruire l’ethos e il pathos di una stagione irripetibile? Succede che lo scrittore medesimo – Valerio Monteventi – ricama un romanzo interessantissimo, in cui il confine sottile tra documentazione storica e fiction risulta praticamente indistinguibile.

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di Giovanni Iozzoli

Valerio Monteventi, Lo sgherru dell’autunno caldo, DeriveApprodi, Bologna 2023, pp. 388, € 22,00

Che succede se uno scrittore-militante mette le mani su una vecchia raccolta di rapporti polizieschi riservati, che raccontano le lotte operaie e studentesche di un territorio? E che succede se questi rapporti rappresentano un fedelissimo resoconto giornaliero di quelle lotte – di parte sbirresca, ovviamente –, attraverso cui è possibile ricostruire l’ethos e il pathos di una stagione irripetibile? Succede che lo scrittore medesimo – Valerio Monteventi – ricama un romanzo interessantissimo, in cui il confine sottile tra documentazione storica e fiction risulta praticamente indistinguibile.

In quei resoconti, stilati con caparbia precisione e con un non comune zelo poliziesco, la dovizia di particolari si mescolava alla declinazione latina dei verbi e all’uso abbondante della congiunzione et. Si puntava l’obiettivo su scioperi e picchetti, scontri coi crumiri e incontri tra operai e studenti fuori dalle officine. Le indagini o anche solo le semplici curiosità riguardavano cortei interni e cortei in strada, risse tra fascisti e antifascisti, contestazioni a capi e dirigenti. Lo scenario era quello delle fabbriche in lotta, delle università e degli istituti medi superiori. (…) Il grosso del lavoro di inchiesta aveva portato nel paniere poliziesco denunce, soffiate e delazioni. Il maggior numero delle spiate riguardava la Ducati Elettrotecnica, il più grande stabilimento operaio bolognese dove, in mezzo a una composizione di forza lavoro soprattutto femminile, nacque il primo comitato di base della città e dove scoppiarono due vertenze aziendali durissime. La periodicità quasi giornaliera di quelle schede mi convinse della presenza di un infiltrato dentro alla fabbrica di Borgo Panigale. (p.7)

Questa intuizione muove l’istinto del romanziere: uno storico avrebbe “semplicemente” classificato e analizzato il materiale; uno scrittore intravede dietro alla massa di documenti le traiettorie esistenziali di personaggi tanto immaginari quanto plausibili. C’era davvero un infiltrato alla Ducati negli anni dell’autunno caldo? Era lui a redigere quei rapporti quasi quotidiani che finivano sulla scrivania del Prefetto e adesso stavano ammuffendo dentro vecchi imballi presso l’Archivio di Stato? E chi era questo infiltrato, che aveva lasciato tracce di sé così copiose e documentate?

La Ducati Elettrotecnica – oggi Ducati Energia – fu il contesto operaio in cui l’autunno caldo bolognese espresse i suoi punti più alti di conflittualità: lì nacque il primo Comitato di base in un territorio super presidiato dal sindacato confederale; lì si registrarono le più solide relazioni tra il movimento studentesco e il mondo operaio; quella fu l’azienda pilota della contrattazione aziendale, le cui acquisizioni faranno da guida nelle relazioni industriali per anni. È per queste ragioni che l’anonimo estensore di quei rapporti insiste tanto nel raccontare il contesto produttivo, oltre che quello vertenziale. Alcuni passaggi più che verbali evocano frammenti di sociologia del lavoro. E per le medesime ragioni, l’autore del romanzo colloca il suo infiltrato proprio “dentro” al cuore della fabbrica: se sei uno spione devi infilare le mani nella produzione materiale, prima che in quella di soggettività e conflitto.

Il mestiere dell’infiltrato è “anticipare” le mosse dell’intelligenza collettiva, prevenirne le intuizioni, capire quali punti della catena produttiva subiranno l’attacco operaio; e leggere le intersezioni, sempre più dense, tra il “dentro” e il “fuori”, tra la fabbrica e la città, tra la composizione operaia e un nuovo segmento di gioventù proletaria, scolarizzata, ribelle, irriducibile alla disciplina del lavoro. Monteventi racconta bene dell’incontro tra queste due anime conflittuali: i picchetti in comune, la critica al sindacato confederale, la nascita di Lotta continua e di Potere operaio – tutti passaggi rievocati anche grazie alla voce quotidiana di quei resoconti polizieschi.

Nasce così la figura di Oronzo “lo sgherru”, che si fa assumere in Ducati, con la complicità della Direzione compiacente, pur essendo in realtà un poliziotto in servizio presso la squadra dell’Ufficio politico della Questura di Bologna. Un “finto” operaio che però deve lavorare per davvero ogni santo giorno in linea, per sostenere il suo ruolo di infiltrato solerte. Dopo il primo faticoso approccio con la professione – è un proletario salentino che aveva scelto la divisa proprio per non finire in fabbrica o con la zappa in mano –, lo “sgherru” comincia a macinare rapporti su rapporti. Il suo capo, l’ipocondriaco Lotorto, esige sempre più dettagli, sempre più incisività, sempre più intuizioni: la sua squadra di infiltrati (ce ne sono altri che girano tra l’università e le piazze di movimento) costa cara al Ministero degli Interni, e deve produrre documentazione a ciclo continuo, per giustificare la sua esistenza.

Monteventi inserisce spesso frammenti delle schede originali all’interno della trama. Servono a dare “verità” ad un’opera che di fantasioso ha ben poco, intrecciando il vero e il verosimile in ogni pagina. Ad esempio, nelle preoccupazioni poliziesche è spesso evocata la figura di uno “studente rompicoglioni”, sempre presente in tutti gli scenari di lotta bolognesi – tal Bifo –, evidentemente già all’epoca molto apprezzato dalla Questura. Così come sono storicamente autentiche, con nomi e cognomi, le tristi figure del neofascismo felsineo, che nella “rossa Bologna” mettevano in campo squadre di mazzieri armati, alcuni dei quali poi finiranno dentro le inchieste sullo stragismo. Dallo sfondamento dei picchetti operai alla strage dell’Italicus il passo sarà breve e le carriere dei “neri” bolognesi vengono ben tratteggiate nel libro.

Il racconto procede spedito in una specie di gioco di specchi: l’infiltrato fa il suo lavoro e scrive rapporti, raccontando dal suo punto di vista l’iniziativa operaia. Lo scrittore, mezzo secolo dopo, riprende e utilizza quel materiale, mettendolo al servizio della memoria di classe. L’infiltrato racconta se stesso, nella finzione narrativa, attraverso i suoi rapporti, le sue spiate, il suo incunearsi nei contesti di movimento. Ma se nulla sappiamo di quella figura – invenzione letteraria o realtà –, le tracce del “suo” lavoro sono vive, scrupolose, autentiche e rese oggi disponibili alla fruizione collettiva. Insomma, una lettura avvincente sia per gli amanti della narrazione, sia per gli appassionati della ricerca storica.

È curioso e sorprendente che sempre tra gli atti della Prefettura custoditi presso l’Archivio di Stato siano state rinvenute qualche anno fa schede in cui si documenta la sorveglianza esercitata dalla Questura sugli internazionalisti negli anni Settanta dell’Ottocento, circa cento anni prima delle vicende raccontate in questo libro. E in particolare su un giovane romagnolo trapiantatosi allora in città: Giovanni Pascoli. (p. 8)

Si può provare a ricomporre pezzi di memoria collettiva – usando tutte le risorse, anche i vecchi archivi di Polizia – contro ogni apologia della smemoratezza. Non c’è futuro senza radici, non può darsi inchiesta operaia oggi, senza le acquisizioni preziose dei cicli di lotta passati. E gli archivi istituzionali, a volte, parlano quanto quelli di movimento: e possono raccontarci della Ducati Elettrotecnica – o del sovversivo Pascoli – se solo le mani sapienti di scrittori coraggiosi e ricercatori onesti riescono a trarne analisi e storie.

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Dune nell’immaginario di ieri e di oggi https://www.carmillaonline.com/2024/02/20/dune-nellimmaginario-di-ieri-e-di-oggi/ Tue, 20 Feb 2024 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80944 di Gioacchino Toni

Paolo Riberi, Giancarlo Genta, I segreti di Dune. Storia, mistica e tecnologia nelle avventure di Paul Atreides, Mimesis, Milano-Udine 2024,

Dune può dirsi un vero e proprio mito contemporaneo capace di segnare profondamente l’immaginario collettivo nato a metà anni Sessanta del secolo scorso dalla creatività narrativa dello statunitense Frank Herbert, per poi svilupparsi nel corso del tempo attraverso diversi romanzi dello stresso scrittore che ne espandono le vicende narrate, numerosi prequel scritti da altri autori, più o meno fedeli allo spirito e alle vicende introdotte da Herbert, adattamenti cinematografici solo progettati o rivelatisi disastrosi insuccessi al botteghino e, [...]]]> di Gioacchino Toni

Paolo Riberi, Giancarlo Genta, I segreti di Dune. Storia, mistica e tecnologia nelle avventure di Paul Atreides, Mimesis, Milano-Udine 2024,

Dune può dirsi un vero e proprio mito contemporaneo capace di segnare profondamente l’immaginario collettivo nato a metà anni Sessanta del secolo scorso dalla creatività narrativa dello statunitense Frank Herbert, per poi svilupparsi nel corso del tempo attraverso diversi romanzi dello stresso scrittore che ne espandono le vicende narrate, numerosi prequel scritti da altri autori, più o meno fedeli allo spirito e alle vicende introdotte da Herbert, adattamenti cinematografici solo progettati o rivelatisi disastrosi insuccessi al botteghino e, in epoca recente, serie televisive e nuove proposte cinematografiche finalmente capaci di tradurre in ambito audiovisivo con una certa fedeltà la fervida creatività dello scrittore statunitense e di soddisfare pubblico e critica.

Questa colossale saga letteriario-audiovisiva nasce dunque con il romanzo di fantascienza Dune di Frank Herbert pubblicato nel 1965 in cui vengono fatti confluire i suoi racconti Dune World e The Prophet of Dune precedentemente pubblicati sulla rivista “Analog SF” tra il 1963 ed il 1965. Vincitrice dei premi i Hugo e Nebula, l’opera di Herbert si è rivelata capace di segnare in maniera indelebile l’immaginario degli appassionati di fantascienza dell’epoca riverberandosi fino ai nostri giorni.

Forte del successo ottenuto con il romanzo del 1965, è lo stesso Herbert ad espande la saga con altri titoli: Messia di Dune (Dune Messiah, 1969), I figli di Dune (Children of Dune, 1977), L’Imperatore-Dio di Dune (God Emperor of Dune, 1981), Gli eretici di Dune (Heretics of Dune, 1984) e La rifondazione di Dune (Chapterhouse: Dune, 1985).

Dagli appunti stesi dallo scrittore scomparso nel 1986, il figlio Brian insieme a Kevin J. Anderson, pur con minori consensi di critica e di pubblico, oltre a portare a compimento la parabola narrativa dello scrittore realizzando I cacciatori di Dune (Hunters of Dune, 2006) e I vermi della sabbia di Dune (Sandworms of Dune, 2007), danno poi vita a una lunga serie di prequel ancora in corso di pubblicazione composta dalle trilogie Legends of Dune (2002-2004), Le Grandi Scuole di Dune (Great Schools of Dune, 2012-2016) inedita in Italia, Preludio a Dune (Prelude to Dune, 1999-2001), La Trilogia di Caladan (The Caladan Trilogy, 2020-2022), Gli Eroi di Dune (Heroes of Dune, 2008-2023)1.

I prequel realizzati da Brian Herbert e Kevin J. Anderson contrastano con gli accadimenti narrati nel volume Enciclopedia di Dune (The Dune Encyclopedia, 1984) scritto da Willis Everett McNelly con l’autorizzazione di Frank Herbert, evidentemente non intenzionato ad occuparsi direttamente della narrazione di eventi precedenti i fatti raccontati nel suo ciclo di opere.

La storia cinematografica di Dune prende invece il via con l’acquisizione dei diritti da parte del produttore Arthur P. Jacobs che però muore improvvisamente prima che il regista David Lean inizi le riprese del film sulla base di una riduzione del romanzo a cui hanno lavorato Joe Ford e Bob Greenut con la sceneggiata di John Boorman.

È dunque la volta di un nuovo progetto cinematografico affidato nel 1974 da un consorzio francese con a capo Jean-Paul Gibon al regista visionario Alejandro Jodorowsky che, avvalendosi di collaboratori come Hans Ruedi Giger, Chris Foss, Jean Giraud e Dan O’Bannon, progetta un kolossal snaturante il racconto dello scrittore con l’intenzionato di avvalersi per la colonna sonora dei Pink Floyd e Tangerine Dream, mentre il cast prevede Salvador Dalí, Orson Welles, Mick Jagger, Amanda Lear, Alain Delon, Gloria Swanson, David Carradine, Geraldine Chaplin, Udo Kier ed il figlio, Brontis Jodorowsky, nei panni del protagonista Paul Atreides. Dopo avervi lavorato per un paio di anni, Jodorowsky si vede costretto ad abbandonare il suo immaginifico progetto in quanto la produzione si rifiuta di imbarcarsi in quello che ritiene possa trasformarsi in un pericoloso azzardo economico con scarse possibilità di successo al botteghino. Su tale progetto è stato realizzato il  lungometraggio documentario Jodorowsky’s Dune (2013) di Frank Pavich (visibile su diverse piattaforme).

Nel 1976 i diritti cinematografici vengono dunque acquisiti da Dino De Laurentiis che dopo aver affidato in un primo tempo la stesura della sceneggiatura allo stesso Frank Herbert decide di farla riscrivere – riducendo drasticamente la durata del film prevista dallo scrittore – a Rudy Wurlitzer che però prospetta cambiamenti considerati inaccettabili da Herbert. I dissidi sorti tra lo scrittore e De Laurentiis fanno cadere il progetto.

Successivamente il produttore italiano decide di ritentare avvalendosi della fervida mente creativa di Hans Ruedi Giger e del regista Ridley Scott che però prospetta la necessità di spezzare la vicenda in due parti – come del resto era accaduto nell’uscita originaria di Dune sulla rivista “Analog SF” – proponendo la realizzazione di due distinti film. Anche in questo caso, dopo parecchi mesi di preparazione, il progetto viene abbandonato ma, prima della scadenza dei diritti, De Laurentiis decide di ricucire i rapporti con Herbert e di affidare la regia a David Lynch che, dopo aver lavorato a lungo alla sceneggiatura, nel 1983 inizia le riprese in Messico avvalendosi di 80 set, 16 teatri di posa e una troupe di 1.700 persone con un budget faraonico di 40 milioni di dollari. Gli effetti speciali risultano però incapaci di rende sullo schermo quanto prospettato dal regista, inoltre la produzione impone di ridurre le tre ore montate in un primo tempo da Lynch in sole due ore costringendolo a tagliare drasticamente diversi passaggi chiave realizzati dal visionario regista. Oltre ad essere stroncato dalla critica, il film si rivela un disastro al botteghino e soltanto in anni recenti la sua realizzazione ha iniziato ad essere considerata, da alcuni, in maniera più benevola.

In apertura del nuovo millennio l’opera di Herbert viene ripresa fedelmente da una miniserie televisiva in tre puntate intitolata Dune: il destino dell’universo (Frank Herbert’s Dune, 2000) – composta da Dune, Muad’dib e The Prophet – per la regia di John Harrison trasmessa da Syfy Channel ottenendo un buon successo di critica e di pubblico a cui si è poi aggiunto il sequel Children of Dune (2003) diretto da Greg Yaitanes, meno aderente all’opera di Herbert.

Con l’avvento della la computer grafica il cinema si sente di poter nuovamente affrontare il progetto Dune. Dopo un primo annuncio nel 2008 da parte della Paramount, poi lasciato cadere nel vuoto, nel 2016 la Legendary Entertainment acquista i diritti ed affida a Denis Villeneuve il compito di affrontare fedelmente l’opera di Herbert confrontandosi però anche con le trasposizioni audiovisive già realizzate: il film di Lynch e le serie televisive di Syfy Channel.

Come già aveva pensato di fare Ridley Scott, anche Villeneuve opta per un doppio film: Dune (Dune: Part One, 2021) e Dune. Parte due (Dune: Part Two, 2023). Il cast del primo film è composto da attori del calibro di Timothée Chalamet, Rebecca Ferguson, Oscar Isaac, Josh Brolin, Stellan Skarsgård, Dave Bautista, Stephen McKinley Henderson, Zendaya, Chang Chen, Sharon Duncan-Brewster, Charlotte Rampling, Jason Momoa e Javier Bardem, a cui nel secondo film si aggiungono Christopher Walken, Florence Pugh, Austin Butler, Léa Seydoux e Souheila Yacoub.

Il successo di critica e di pubblico è stato tale da non escludere la possibilità di un terzo capitolo affidato a Villeneuve incentrato stavolta sul romanzo Messia di Dune. Nel frattempo HBO Max ha dato il via ai lavori per un adattamento seriale di Sisterhood of Dune, in uscita con il titolo Dune: The Prophecy, una sorta di prequel ambientato diecimila anni prima rispetto a quanto raccontato nei film di Villeneuve. Come sottolineano Riberi e Genta, è stato necessario mezzo secolo affinché dall’opera narrativa si riuscissero a ricavare trasposizioni audiovisive in grado di ottenere riconoscimenti di critica e pubblico.

Quel che è certo è che la saga letteraria e cinematografica di Dune ha influenzato enormemente l’immaginario collettivo contemporaneo, ed a ciò, sottolineano Riberi e Genta, contribuisce lo stesso film mai realizzato di Alejandro Jodorowsky, di cui non si è mai smesso di parlare, grazie anche alle trovate prospettate dai suoi collaboratori Hans Ruedi Giger, Chris Foss, Jean Giraud e Dan O’Bannon che avrebbero ispirato opere come Alien (1979) e Balde Runner (1982) di Ridley Scott, The Matrix (1999) delle sorelle Wachowski – tutti film che apriranno la strada a diverse altre produzioni ad opera degli stessi o altri registi – e serie televisive come Copenhagen Cowboy (2023) realizzata da Nicolas Winding Refn. Tra i tanti debitori Riberi e Genta citano i registi Steven Spielberg, James Cameron e George Lucas, ma anche, per opere più recenti, James Cameron, le sorelle Wachowski e Nicolas Winding Refn, così come, per quanto riguarda la narrativa fantasy, gli scrittori Patrick Rothfuss e Steven Erikson, mentre in ambito musicale dell’universo Dune si trova traccia negli Iron Maiden e nei Blind Guardian. Insomma, secondo gli autori del volume è possibile affermare che «l’intero immaginario pop degli ultimi cinquant’anni sia stato influenzato a vario titolo dalle avventure cartacee e cinematografiche di Paul Atreides, che possono essere considerate a tutti gli effetti un autentico mito contemporaneo».

A delineare lo sviluppo dello studio proposto dal volume di Paolo Riberi e Giancarlo Genta è lo stesso sottotitolo scelto: Storia, mistica e tecnologia nelle avventure di Paul Atreides. Infatti, dopo aver ricostruito la storia della saga, ricordando le tappe principali del fenomeno letterario-cinematografico Dune, gli autori individuando i motivi che ne hanno determinato il duraturo successo, dunque ricostruiscono puntualmente la complessa mistica che innerva la saga, in un intrecciarsi di culti messianici mediorientali, cosmismo, transumanesimo, mistica medievale sufi, droga sacra, ecc. Infine, nell’ultima parte del volume, Riberi e Genta passano in rassegna la tecnologia che attraversa l’universo di Dune; dall’informatica all’intelligenza artificiale, dai viaggi spaziali agli armamenti avveniristici, sino agli ambiti scientifici medici ed eugenetici.


  1. Le trilogie sino ad ora realizzate da Brian Herbert e Kevin J. Anderson sono così composte: Legends of Dune: Il Jihad Butleriano (The Butlerian Jihad, 2002), La Crociata delle Macchine (The Machine Crusade, 2003) e La Battaglia di Corrin (The Battle of Corrin, 2004). Le Grandi Scuole di Dune (Great Schools of Dune) inedita in Italia: Sisterhood of Dune (2012), Mentats of Dune (2014) e Navigators of Dune (2016). Preludio a Dune (Prelude to Dune): Casa Atreides (House Atreides, 1999), Casa Harkonnen (House Harkonnen, 2000) e Casa Corrino (House Corrino, 2001). La Trilogia di Caladan (The Caladan Trilogy) inedita in Italia: The Duke of Caladan (2020), The Lady of Caladan (2021) e The Heir of Caladan (2022). Gli Eroi di Dune (Heroes of Dune): Paul of Dune (2008) inedito in Italia, The Winds of Dune (2009) inedito in Italia, La principessa di Dune (The Princess of Dune, 2023). 

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Distopia femminista https://www.carmillaonline.com/2023/12/12/distopia-femminista/ Tue, 12 Dec 2023 21:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80194 di Gioacchino Toni

Martina Marras, Distopia femminista. Analisi di un genere, Meltemi, Milano 2023, pp. 180, € 16,00

Dopo aver proposto una definizione di “distopia femminista”, prospettando la possibilità di individuarvi un genere autonomo, Martina Marras procede esaminando diversi esempi di letteratura distopica a carattere femminista concentrandosi sulla sua presa in carico di questioni inerenti l’autodeterminazione femminile, soprattutto a proposito della riproduzione e del controllo del corpo, affrontando poi il problema del linguaggio inteso tanto come strumento di dominio quanto come mezzo di liberazione.

In generale tra le questioni maggiormente affrontate dalla narrativa distopica, sostiene Marras, figurano quelle relative a contesti [...]]]> di Gioacchino Toni

Martina Marras, Distopia femminista. Analisi di un genere, Meltemi, Milano 2023, pp. 180, € 16,00

Dopo aver proposto una definizione di “distopia femminista”, prospettando la possibilità di individuarvi un genere autonomo, Martina Marras procede esaminando diversi esempi di letteratura distopica a carattere femminista concentrandosi sulla sua presa in carico di questioni inerenti l’autodeterminazione femminile, soprattutto a proposito della riproduzione e del controllo del corpo, affrontando poi il problema del linguaggio inteso tanto come strumento di dominio quanto come mezzo di liberazione.

In generale tra le questioni maggiormente affrontate dalla narrativa distopica, sostiene Marras, figurano quelle relative a contesti dittatoriali e a problematiche ecologiste, ricorrendo frequentemente a scenari post-apocalittici.

Volendo arrivare a una prima generica conclusione, si può affermare che la distopia, compresa quella femminista, offre una descrizione esasperata dei pericoli, reali o potenziali, e delle paure che abitano il nostro mondo, al fine di stimolare lo spirito critico del lettore e, in qualche raro caso, con l’intento di fornire delle rassicurazioni rispetto alle preoccupazioni più comuni. Il male a cui si fa riferimento nei romanzi non è altro che la trasposizione, esagerata ed esasperata, di problemi presenti e spesso assai concreti. È necessario dunque riconoscere la valenza critica che ogni opera distopica porta con sé.

Tra le pieghe delle rappresentazioni dell’orrore e degli incubi umani più angoscianti proposte da numerose narrazioni distopiche non manca qualche barlume di speranza e ciò, sostiene Marras, è maggiormente presente nelle distopie di genere che, rispetto a quelle classiche, manifestano un impulso utopistico forse derivato da un maggiore ottimismo di fondo, quasi che ai timori per un futuro prospettato a tinte fosche si accompagni un desiderio di emancipazione possibile, oltre che necessaria.

Frequente nelle narrazioni distopiche femminili è il tema della riproduzione e ciò, secondo la studiosa, non è funzionale soltanto a denunciare le storture e le iniquità derivate dalla società patriarcale, ma si rivela utile anche a esplorare «il rapporto, spesso conflittuale, delle donne con la maternità» desiderose, nel caso, di conquistare la possibilità di viverla secondo le proprie condizioni e in ciò risiederebbe qualche barlume di speranza nei confronti del futuro.

Oltre che narrazioni volte a svolgere una funzione critica, le distopie femministe andrebbero, secondo Marras, ancora di più viste «come la manifestazione del dialogo intimo femminile, in materia di desideri personali e aspettative sociali, dialogo che si è cercato più volte di portare nella sfera pubblica senza raggiungere, tuttavia, i risultati sperati in termini di attenzione e comprensione».

Nell’ambito del genere distopico che si focalizza sulla condizione femminile Marras inserisce, tra gli altri, romanzi come La notte della svastica (Swastika Night, 1937) di Katharine Burdekin e i più recenti Le figlie di Egalia (Egalias Dotre, 1977) di Gerd Brantenberg, Lingua nativa (Native Tongue, 1984) di Suzette Haden Elgin, Il racconto dell’ancella (The Handmaid’s Tale, 1985) di Margaret Atwood e Ragazze elettriche (The Power, 2016) di Naomi Alderman.

La fortunata serie televisiva del 2017 ideata da Bruce Miller ispirata al romanzo della Atwood ha contribuito non solo alla riscoperta dell’opera della scrittrice canadese – tanto da indurla a scriverne un sequel intitolato I Testamenti (The Testaments, 2019) –, ma anche a far emergere le potenzialità critiche del genere distopico femminista in un contesto involuto in senso marcatamente reazionario.

In buona parte dei romanzi distopici femministi le donne sono relegate a una condizione di infelice subalternità, percepite come «corpi segnati da un inesorabile destino biologico, costrette a vere e proprie forme di schiavitù riproduttiva alle quali non possono sottrarsi». Visto che spesso nelle distopie si proiettano angosce e timori reali e attuali, occorre domandarsi come in un’opera di grande successo come Il racconto dell’ancella venga messa in scena dalla scrittrice una società in cui le donne sono tenute a svolgere «il proprio ruolo di fattrici».

Nel più ampio panorama della letteratura distopica un tema che si rintraccia con una certa frequenza è quello della fine dell’umanità, dobbiamo dunque pensare che le scelte autonome delle donne in materia di maternità debbano essere ostacolate in quanto espongono al rischio di estinzione? In senso assoluto, come umanità, sembrerebbe proprio di no. Il mondo occidentale, e la sua cultura, rischiano, a causa del basso tasso di natalità, di perdere la preminenza fino a questo momento avuta, il che spinge verso posizioni conservatrici che tracciano percorsi maggiormente definiti con rinnovato paternalismo? È un’ipotesi più probabile, che si accompagna alla preoccupazione di non lasciare, a livello individuale, un segno nel mondo. La progenie, del resto, è sempre stata una “promessa” di eternità. Questa paura, tuttavia, appare diffusa soprattutto fra gli uomini, i quali mal sopportano, ad esempio, l’idea di perdere il proprio nome.

Marras si dice convinta che tale rappresentazione della maternità, oltre a voler portare una critica radicale agli iniqui meccanismi sociali esistenti, intenda anche assolvere «una funzione per certi versi dissacratoria da parte delle donne stesse nei riguardi della procreazione come vincolo (quasi) ineludibile. Il confronto con la dimensione biologica rappresenta un argomento problematico che mette fortemente in discussione le basi della società patriarcale e ciò, forse, spiegherebbe l’assenza di certe tematiche dalle narrazioni che sono rivolte a un pubblico più ampio o che provengono da autori maschili».

Ampliando il discorso ai media audiovisivi, Marras nota come la fortunata serie televisiva distopica Black Mirror (dal 2011) creata da by Charlie Brooker abbia prestato scarso interesse alle tematiche di genere soprattutto a proposito della riproduzione e del controllo dei corpi. Eppure, mettendo in scena una sorta di presente estremizzato, non sarebbe difficile immaginare qualche puntata imperniata sui livelli di assoggettamento della donna a modalità e finalità riproduttive subite o, viceversa, a inedite possibilità di autodeterminazione.

In un momento segnato dalla perdita di punti di riferimento chiari, soprattutto da parte degli uomini costretti a fare i conti non solo con il ridimensionamento del proprio ruolo decisionale e di controllo sulle donne, ma anche con l’affievolirsi della loro funzione biologica in ambito riproduttivo, il «destino della riproduzione sociale sembra dipendere principalmente dalle donne e tale inversione di tendenza deve certamente essere intesa come motivo di turbamento per chi assiste alla perdita del proprio ruolo tradizionale e allo sgretolarsi delle certezze ad esso connesse».

La narrazione distopica, nel suo caratterizzarsi come una delle modalità d’accesso privilegiate alle paure più diffuse – dietro cui si celano frequentamene desideri inespressi, proibiti o irrealizzabili –, tende a sottrarsi al controllo dell’interpretazione razionale preferendo rimandare a un ambito emozionale scosso dai timori contemporanei, dall’analisi delle narrazioni distopiche femministe secondo Marras emerge come in esse trovino spazio anche le preoccupazioni maschili.

Non è un mistero il fatto la cultura prevalga sempre sulla natura, per quanto gli argomenti biologici-naturalisti siano stati – e siano in alcuni casi – utilizzati come pretesti per rendere inattaccabili le imposizioni a cui le donne sono state sempre silenziosamente costrette. La società descritta ne Le figlie di Egalia, ad esempio, fa perno su una possibile lettura naturalistica in opposizione a quella esistente e che riversa, dunque, sugli uomini alcuni oneri tradizionalmente ascritti alle donne, come la cura dei figli e lo svolgimento delle faccende domestiche, in ragione del fatto che gli uomini non hanno il privilegio di partorire e per questo rivestono un ruolo subordinato, sicuramente meno importante, nel processo riproduttivo. Sebbene l’argomento naturalistico venga spesso difeso proprio in forza della sua manifesta “oggettività”, appare chiaro che tutto dipende dalla narrazione che intorno ad esso si sceglie, arbitrariamente, di costruire. La natura impone che siano le donne a portare avanti le gravidanze, e ciò appare incontrovertibile, ma quali obblighi e benefici si legano a questo fatto è una questione prettamente culturale come ben dimostra il romanzo di Brantenberg. Inoltre, contrariamente alla retorica visione della maternità come massima realizzazione femminile, è bene evidenziare che tale esperienza si rivela non sempre appagante e felice per le donne.

La pressione sociale, spacciata per necessità biologica, a cui le donne sono sottoposte non sempre consente loro di autodeterminarsi; non a caso la distopia femminista offre una rappresentazione degli obblighi sociali, e non naturali, a cui sono sottoposte le donne anche in termini di maternità.

Donne senza identità propria e i cui corpi sono intesi come luoghi pubblici, funzionali alle esigenze sociali, senza alcuna possibilità di autodeterminarsi in ragione dei propri desideri. E infine, donne private del diritto di esprimersi con parole adeguate o sufficienti. Non è un caso, infatti, che il tema della procreazione e del controllo dei corpi intersechi quello, apparentemente lontano, del linguaggio. Raccontando di donne private della possibilità di parlare liberamente, la distopia femminista rivendica la necessità di disegnare con parole proprie un mondo che non sembra essere in linea con le narrazioni dominanti. […] Accanto al tema dello sfruttamento riproduttivo, la questione del silenzio femminile sembra infatti caratterizzarsi come una delle più urgenti. Metaforicamente e non a seconda dei casi, nelle narrazioni distopiche alle donne è impedito l’uso della parola come mezzo di costruzione di sé.

Marras segnala anche come nel genere distopico femminista non manchino narrazioni in cui sono le donne a esercitare un ruolo dominante ai danni degli uomini, come nel caso di Ragazze elettriche, anche se il messaggio veicolato dal romanzo a suo avviso si situa comunque nella cornice precedentemente tracciata. «In caso contrario, si arriverebbe al paradosso di catalogare l’opera come utopia, ma una posizione simile sarebbe evidentemente assurda. Lungi dal desiderare un mondo caratterizzato dalla violenza, Alderman sembra voler comunicare quanto difficile sia la vita degli oppressi, molti dei quali nelle nostre società sono donne».

In conclusione del volume Marras si concentra sul romanzo Female Man (1975) di Joanna Russ che, per quanto più prossimo alla fantascienza che non al genere distopico, permette di affrontare diverse questioni emerse nello studio della distopia femminista utili a palesare la complessità delle questioni di genere. Il testo di Russ scritto nel corso degli anni Sessanta del secolo scorso, nel clima del femminismo della Seconda ondata, propone una forma di fantascienza di genere che sin dal titolo palesa sin dal linguaggio la messa in discussione dei pregiudizi e delle certezze del mondo contemporaneo.

Narrando le esperienze di quattro diverse protagoniste femminili che vivono altrettanti universi paralleli, Russ costruisce un racconto collettivo utile a tratteggiare la complessità femminile rapportata alle contraddizioni vissute.

Il romanzo propone una stratificazione dei possibili livelli di emancipazione a cui le culture tendono, al fine di porre in luce limiti e contraddizioni con le quali ancora oggi ci confrontiamo, grazie alla distopia e non solo. Non c’è nessuna soluzione univoca, il finale è aperto, come è corretto che sia, da un punto di vista teorico – sebbene inneggi alla futura libertà delle donne – e nel corso di tutto il romanzo quello che veramente si coglie è un invito alla riflessione cercando di non dimenticare nessuna sfumatura e considerando i problemi nella loro più piena complessità.

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L’amico Pedro https://www.carmillaonline.com/2023/08/11/lamico-pedro/ Fri, 11 Aug 2023 20:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78305 di Giovanni Iozzoli

Tutto è cominciato con la carbonara. Benedetta carbonata. Mia moglie dice: voglio fare una bella carbonara ma non ho la pancetta a cubetti, vai al Conad a comprarla per favore. E io lo so che quando si fissa su una cosa non molla. E’ inutile resistere. Allora mi sono vestito e sono andato al Conad, senza fare troppe discussioni. Sono arrivato al passaggio pedonale sulla via Emilia, cinque minuti a piedi da casa mia. Stavo attraversando, poi non mi ricordo più niente.

Adesso eccomi qua. Il pezzo di sopra me lo sento come vaporoso, inconsistente. Quello di sotto, [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Tutto è cominciato con la carbonara. Benedetta carbonata. Mia moglie dice: voglio fare una bella carbonara ma non ho la pancetta a cubetti, vai al Conad a comprarla per favore. E io lo so che quando si fissa su una cosa non molla. E’ inutile resistere. Allora mi sono vestito e sono andato al Conad, senza fare troppe discussioni. Sono arrivato al passaggio pedonale sulla via Emilia, cinque minuti a piedi da casa mia. Stavo attraversando, poi non mi ricordo più niente.

Adesso eccomi qua. Il pezzo di sopra me lo sento come vaporoso, inconsistente. Quello di sotto, diciamo dalla vita in giù, piuttosto gelatinoso. Sensazione strana. E poi c’è questa nebbiolina, che non ti fa vedere nulla; e non si capisce bene neanche la profondità, la destra, la sinistra, il sotto, il sopra. E non c’è freddo e non c’è caldo. Un po’ angosciante. Anzi: molto angosciante.

Mi guardo intorno e non vedo anima viva. Non so se devo restare qui o muovermi (ma in che direzione?). Non ci sono indicazioni o percorsi. Che faccio? Sono stranito. E atterrito. Ti senti per la prima volta in vita tua davvero solo. Di una solitudine che non hai mai provato prima: solo nell’universo. E provi un bisogno fortissimo di incontrare qualcuno. Vorresti una guida, o comunque un compagno di strada, chiunque andrebbe bene. Ma senti anche che è impossibile incontrare qualcuno che ti conosce in un posto così. Vorresti urlare, ma come in certi sogni, sai che la voce non uscirà. Essere soli in mezzo al nulla, girare su se stessi, stringere gli occhi, cercare di penetrare la nebbia con lo sguardo. Dove sono, chi mi aiuterà? Chi?

E’ mentre sono all’apice del mio sconforto, sento una voce calda, rassicurante:
– buongiorno Antonio!
Mi volto pieno di speranza, qualcuno mi ha individuato, qualcuno è venuto finalmente a prendermi. Ma non vedo nessuno, in mezzo alla caligine. Sto sognando?
– Qui, qui sotto Antonio, abbassa la testa.
E finalmente lo vedo. Il mio Pedro è lì. E’ venuto a farmi compagnia, il mio Pedro. L’aspetto fiero del mezzo pastore tedesco che fu. Lo sguardo leale, sincero, il mio Pedro. E parla. Sta parlando, Pedro. E ha proprio la voce che uno avrebbe potuto immaginare.
– Pedro amico mio… ma sei proprio tu… ma tu parli?
– Si Antonio. Qui anche noi parliamo.
– Gesù, meno male, che gioia averti trovato. Pedro, Pedro mio, mi sentivo tanto solo, ma adesso che ci sei tu sto meglio. Il mio cagnolone. Amico mio. Com’è strano sentirti parlare. Ma anche bello. Hai una voce che dà sicurezza. Pedro, Pedro. Ma sono finito nel paradiso dei cani?
– No Antonio.
– Ma posso stare tranquillo? Con te mi sento tranquillo.
– Si certo, fino a che ci sono io con te, puoi stare tranquillo.
– Meno male. Che angoscia.  Questo posto è così strano. Non ho capito cosa ci faccio qui. Che bell’aspetto che hai. Hai una fierezza, un pelo nero, lucido. Io invece mi sento come una medusa, tutto sciolto, vago.
– Si, è l’effetto iniziale del non avere un corpo.
– Pedro caro… sapessi come abbiamo pianto, quando sei morto.
– Si lo so. Luisa ha molto sofferto. Mi voleva bene.
– Certo, Pedro. Ti volevamo bene. Anche io, no?
– Hmm…
– Anche io, te ne volevo. Ma… hai dei dubbi?
– No, no. Lo so che mi volevi bene. Però…
– Però che?
– Parliamoci chiaro, per te ero un po’ una scocciatura.  Portarmi giù, e poi le spese del veterinario, e i peli da tutte le parti, che ti lamentavi sempre…
– Ma no, no, Pedro, amico mio. Ma che dici? Ma credi che non ti amassi anche io? Mi fai dispiacere, se dici così. Ti ho sempre trattato più che bene… Ti facevo anche le coccole, non ricordi?
– Lo so, lo so tranquillo. Però…
– Però cosa?
– Ecco, parliamo delle coccole.
– Poche?
– No, non è la quantità. Parliamo della modalità. Ti ricordi che mi accarezzavi sempre le orecchie?
– Si, ti accarezzavo la testa, tutto.
– No, segnatamente le orecchie.
– Non mi ricordo… boh… ti toccavo.
– Si ma avevi una preferenza per le orecchie
– Non lo so… avevi delle belle orecchie….
– Allora, chiariamolo: ai cani non piace assolutamente che qualcuno tocchi loro le orecchie.  Non lo hai mai sentito dire? Non fare quella faccia innocente.
– Ma… io non mi ricordo… ma che ne so, che non ti piaceva?
– NO! Non a me. A nessun cane piace che si tocchino le orecchie.
– Si, ma non ti agitare Pedro… amico mio…
– Non piace assolutamente ai cani che qualcuno tocchi loro le orecchie! N-O-N P-I-A-C-E, capito?
– Si, si… ma non ti arrabbiare… Pedro, ti prego… come facevo a sapere che non ti piace farti toccare le orecchie?
–  Non fare lo gnorri. Lo sapevi benissimo. C’era scritto sul libro dei cani che avevi regalato a tuo figlio.
– Ma… ma io.. .non mi ricordo..
– Allora, coglione, due sono le cose: o non lo hai mai letto o lo avevi letto e te ne sei fregato. E non so cosa sia peggio, per Dio!
– Ma, Pedro… mi meravigli… sei veramente… ingeneroso… perchè fai così?
– E sai perchè mi toccavi le orecchie? Te lo dico, coglione? Perchè così non ti dovevi abbassare troppo. Perchè il libro parlava della pancia! Ai cani piace se gli tocchi la pancia. Capito? Conosci la differenza tra la pancia e le orecchie? Per non piegare la tua bella schienina ho dovuto sopportare le tue manacce sulle mie orecchie per 16 anni.
– Pedro, mi dispiace… mi dispiace tanto… ti prego perdonami…
– Sei in panico, vero? Stai pensando: ma come, trovo il mio cane qui, che mi dovrebbe fare da guida e adesso quello si incazza per la storia delle orecchie…  eh eh… ma dai, sto scherzando… su Antonio… sembri un ragazzino… di che hai paura, cosa può succederti di peggio? Ormai sei morto.
– Stavi scherzando?
– Ma certo. Ti voglio bene. Non ti abbandono mica.  Non preoccuparti.
– Meno male.
– Per quanto…
– Oddio, che cosa vuoi tirare fuori ancora?
– Vogliamo parlare della castrazione, stronzo? Pensavi che fosse una cosa carina, tagliarmi i coglioni?
– Madonna, anche quella storia. Ma l’abbiamo fatto per te. Ti evitavi dei problemi di salute. Eri soggetto non mi ricordo a cosa… Ce l’aveva detto il veterinario… E’ stata Luisa a insistere. Io avrei evitato, credimi. E’ stata Luisa.
– Va bè, va bè… lasciamo perdere. Non rivanghiamo.

A un certo punto, si sente come una brezza; che poi diventa una folata di vento; e una luce via via sempre più intensa fende la nebbiolina collosa. E davanti a me, ad una distanza indefinita, improvvisamente si materializza un incredibile corteo. Non so come definirlo: sembra una scena mitologica. Si vede una torma di cani bianchi, nordici, bellissimi, che sembrano correre ma senza muovere le zampe; e sopra al nobile branco troneggia una figura di donna piena di fulgore, con gli occhi sbarrati, fanatici, e un po’ di veli svolazzanti in dosso; e lei pare guidare il branco, indicando la direzione di marcia, protesa in avanti; e sembra fluttuare in piedi sulle schiene dei cani che la trasportano ululando; è bellissima (anche piuttosto spogliata). Io sono a bocca aperta. Il corteo passa oltre e si perde nella nebbia. Pedro si è tutto irrigidito, come sull’attenti e sembra sorridere compiaciuto. La faccia della donna-dea-cane, mi ricordava qualcuno. Minchia, no, non può essere. Ho un sospetto.
– Scusa Pedro, ma… hai visto… quella tipa, sulla schiena dei cani… ma non assomigliava…
– No, non “assomigliava” a tua moglie Luisa. Lei è Luisa. La nostra cara Luisa.
– Noo… Oddio… mia moglie… ma che ci fa qui?
– Quello che ci fai tu.
– Mia moglie è morta… Dio, no… no… Lo sapevo che non avrebbe retto… quando ha saputo di me è morta anche lei… forse anche il senso di colpa, poverina, mi aveva mandato lei a prendere la pancetta a cubetti…
– E’ morta oggi. Ma non è morta per te. Non ti preoccupare. Tu sei morto già da un anno.
– Come da un anno?
– Si sei rimasto in uno stato sospeso. Capita ai soggetti un po’ ottenebrati. Ti sei svegliato adesso, ma è un anno terrestre che sei morto…
– E lei?
-Lei è morta per un incidente stradale la scorsa notte. Non ha sofferto. E’ stato un attimo. Si era anche trovata un altro, se ti interessa. Appena morta, sta veleggiando verso il Paradiso della Beatitudine Estatica. Il suo amore per i cani la sta conducendo lì. Quello è il suo livello. Il suo era un amore sublime, purissimo. E’ in quel paradiso che vanno quelli come lei.
– Oddio… starà bene?
– Non preoccuparti di lei. Pensa a te.
– Ma la rivedrò mai?
– Non credo, francamente. Conoscendoti. Sei poco estatico, direi, a occhio e croce. Solo con la Champions andavi in estasi. Ma converrai che è un po’ poco per meritare il paradiso, non credi? Quando ti interrogheranno e ti chiederanno: cosa hai fatto della tua vita? Tu risponderai: ho visto molta Champions.  Chissà se esiste un paradiso della Champions. Devi informarti.
– Ma perché, qui interrogano?! Comunque, Pedro, sono basito. Hai un astio… quasi un odio…
– Lascia stare. Tanto me ne sto andando.
– Dove vai? Mi lasci qui? Pedro?  Ma allora questo non è il paradiso?
– No, Antonio. E’ una specie di sala d’attesa. Io non posso restare. Ho la mia strada, la mia collocazione. Volevo solo vederti. Ciao e buona fortuna, ne hai bisogno. Vado a salutare Luisa
– Ma ci rivedremo?
– Non credo. No.

Se n’è andato. Si è infilato nella nebbia e via: scomparso. Forse me lo sono solo sognato. Ma io che faccio qua? Una sala d’attesa? Se fosse una sala d’attesa mi siederei. Ma non c’è neanche una panca. Anzi, a pensarci non ho neanche più un culo. E anche mia moglie me la sono sognata? Ma era davvero lei, mezza spogliata, in mezzo a tutti quei cani? Forse questo è solo un luogo di illusioni, dove i cani parlano e le mogli rompicoglioni diventano dee. Boh. Qualcuno verrà a prendermi. Un bello stronzetto, il nostro Pedro. Cosa significa che non sono estatico? Sono una persona normale. Che dovevo fare, andare in estasi ogni due minuti? Ma io lo so cosa voleva dire. La verità la conosco, purtroppo. Ma non è colpa mia. Mia moglie buonanima me lo diceva sempre, che io non sono capace di pensieri profondi, o di slanci. Sono un mediano. Non sono buono nè per il paradiso nè per l’inferno. Forse per quello mi hanno messo in sala d’attesa. Forse è come diceva mia cognata, la buddista: ci reincarniamo. Mah. Non si capisce niente. Certo, quel Pedro, non me l’aspettavo. Quando gli dai da mangiare scodinzolano tutti contenti. Non sai mai cosa pensano, quelle bestie; ti leccano le mani ma guardano tutto, ti spiano, ti giudicano. Vai a capire. Ma poi chi è che me lo ha messo contro? E’ stata Luisa? Luisa gli parlava di me? Era lei che gli diceva che io non avevo slanci? Mi consideravano un cretino, un superficiale, un mediocre? E perché? Perché avevo una vita ordinaria? Lo so. Non sono mica Sandokan. A 55 anni che dovevo fare? Diceva che non leggevo mai niente; lei, cassiera alla Coop, era tutta orgogliosa perché leggeva Recalcati. Capirai, Recalcati… Ma perché mia moglie mi ha sempre sottovalutato? Perché pensava che fossi un’animuccia? Io non mi sento un mediocre. Forse un tiepido? Ma chi è che può leggere davvero dentro le persone? Chi è che ha il diritto di giudicarle? Cosa sapeva mia moglie di ciò che mi si agitava dentro, della mia vita interiore, di quello che avrei voluto essere o vivere, e adesso è tardi, tardi per tutto tranne che per i rimpianti? E del resto dei mediocri cosa dovremmo farci? Bruciarli? Farli scomparire? Perchè attaccano queste etichette alla nostra vita? Tanto: profondi o superficiali, sensibili o cinici, tutti qua finiamo, in sala d’attesa. Eppure vorrei tornare indietro, ridare un senso diverso ai miei giorni, dare valore a ogni istante… leggere di più…e riflettere, riflettere, scavare nella mia coscienza, e aprirmi nuove prospettive. I rimpianti: si, i maledetti rimpianti. Chi l’ha detto che io non sono capace di pensieri profondi? Chi l’ha detto? Chi? Chi?!
Comunque se torno a nascere, basta cani.

– Chi c’è? Chi è là in fondo? Una figura umana. Non pare minacciosa, sembra piccola, fragile. Una signora, sembra. Un’anziana, con la borsetta. No, non può essere. Sembra… sembra lei… la mia povera mamma. Mamma, mamma sei tu? Sei venuta a salvare il tuo bambino? Che tenerezza, è vestita come quando andava a messa. Mammà! Voglio correre a buttarmi ai suoi piedi, sono quarant’anni che non la vedo. Mamma. Mamma. Però ha una faccia… Ha la faccia che aveva quando era incazzata. Era spesso incazzata. Del resto ce l’aveva sempre con me: mia sorella era perfetta, ero io il caprone della famiglia. E’ stata arrabbiata con me fino in punto di morte. Sembra non mi abbia ancora visto. Che brutta espressione che ha. Pare proprio stia cercando me. Avrà qualche filippica in serbo da quarant’anni. Sai cosa? Io non chiamo nessuno, mi faccio i fatti miei, me ne sto qui in sala d’attesa, mi acquatto nella nebbia e aspetto. Oddio, chi è quello… è spuntato pure mio padre. Giù, giù… stiamo giù.

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L’essere umano che verrà (insieme all’intelligenza artificiale) https://www.carmillaonline.com/2023/06/12/lessere-umano-che-verra-insieme-allintelligenza-artificiale/ Mon, 12 Jun 2023 20:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77094 di Gioacchino Toni

Il diffondersi dell’intelligenza artificiale sta modificando in profondità lo scenario quotidiano e lo stesso essere umano. Alle visioni di quanti si attendono enormi benefici dagli sviluppi dell’IA in ambiti che vanno dalla medicina all’istruzione, dalla gestione della mobilità nelle grandi città all’aprirsi di un nuovo ambito di business o alla possibilità di liberare l’essere umano dalla routine del lavoro, quando non addirittura dall’alienazione del lavoro tout court, fanno da contraltare le visioni di chi, pur cogliendone i potenziali benefici, si preoccupa invece dei “rischi collaterali” che il nuovo rapporto [...]]]> di Gioacchino Toni

Il diffondersi dell’intelligenza artificiale sta modificando in profondità lo scenario quotidiano e lo stesso essere umano. Alle visioni di quanti si attendono enormi benefici dagli sviluppi dellIA in ambiti che vanno dalla medicina allistruzione, dalla gestione della mobilità nelle grandi città allaprirsi di un nuovo ambito di business o alla possibilità di liberare l’essere umano dalla routine del lavoro, quando non addirittura dallalienazione del lavoro tout court, fanno da contraltare le visioni di chi, pur cogliendone i potenziali benefici, si preoccupa invece dei “rischi collaterali” che il nuovo rapporto essere umano-macchina comporta a partire dalla comparsa di sofisticati ed invasivi sistemi di controllo e di indirizzo comportamentale e dalla proliferazione di armamenti sempre più autonomi fino al timore per la perdita del controllo su queste tecnologie rese capaci di emanciparsi dallessere umano.

Un ricercatore e sviluppatore dellIA ed uno scrittore di fantascienza hanno deciso di affrontare gli entusiasmi e le preoccupazioni con cui si guarda allo sviluppo e alla diffusione dell’intelligenza artificiale nella realtà quotidiana attraverso una forma letteraria ibrida ricorrendo a brevi racconti di “fiction scientifica” – sviluppati su presupposti tecnologici plausibili a scadenza di qualche decennio – seguiti da considerazioni circa le implicazioni che gli sviluppi e le applicazioni prospettati in forma creativa potrebbero avere sullumanità in un futuro lontano giusto un paio di decenni da oggi. Così è nato il volume di Kai-Fu Lee, Chen Quifan, AI 2041. Scenari dal futuro dell’intelligenza artificiale, trad. it. di Andrea Signorelli (Luiss University Press, 2023).

Kai-Fu Lee è una figura importante nellambito della ricerca, dello sviluppo e degli investimenti sull’intelligenza artificiale sia negli Stati Uniti che in Cina, ex presidente di Google China e dirigente di Microsoft, SGI, Apple e co-presidente del Consiglio per l’Intelligenza Artificiale del World Economic Forum. Chen Qiufan è invece tra i più noti e premiati scrittori cinesi di science fiction che da qualche tempo sperimenta l’uso dellIA direttamente nella composizione delle sue opere, conosciuto in Italia per l’antologia di racconti L’eterno addio (Future Fiction, 2016) e per il romanzo Marea tossica (Mondadori, 2020).

Scrive Kai-Fu Lee nellintroduzione al volume che la maggior parte delle speculazioni sullIA derivano principalmente da tre fonti: fantascienza, informazione e personalità influenti. La prima fonte tende, da tempo, a prospettare scenari distopici in cui le macchine prendono il sopravvento sugli umani. A livello mediatico a “far notizia” sono soprattutto gli errori, i guasti e gli incidenti causati da dispositivi che fanno ricorso all’intelligenza artificiale (come nel caso di auto senza pilota che travolgono pedoni) e l’uso che ne viene fatto da corporation e politici intenzionati a influenzare i comportamenti degli esseri umani attraverso attività di disinformazione, diffusione di deepfake, ecc. Circa le personalità influenti, nota Lee, spesso le loro osservazioni mancano di rigore scientifico e difficilmente si tratta di esperti di tecnologia dellintelligenza artificiale, dunque si tratta in molti casi di pareri formulati senza unadeguata conoscenza delle questioni trattate.

Da tali fonti deriverebbe dunque una visione dellIA allinsegna della cautela quando non di aperta ostilità che andrebbe, secondo Lee, controbilanciata dalla messa in luce dei lati positivi. Visto il ruolo rivestito allinterno dei colossi che investono in IA e la carica direttiva nel Consiglio per l’Intelligenza Artificiale del World Economic Forum, non sfugge come Lee non si soffermi sulle strategie di fascinazione per l’intelligenza artificiale dispiegate dai colossi tecnologici che ben conosce. Insomma, nel ritenere necessario bilanciare le perplessità e le cautele diffuse allinterno di una generica (forse troppo) opinione pubblica nei confronti dellintelligenza artificiale, appellandosi alla necesità di prendere in considerazione «il quadro generale e tutto il potenziale di questa tecnologia di cruciale importanza», Lee non insiste sul benevolo supporto dato allIA da parte di quelle corporation tecnologiche che sono anche potenti macchine-influencer.

Kai-Fu Lee sottolinea come si debba guardare ad AI 2041 non come a unopera di fantascienza, ma piuttosto di “fiction scientifica”. Chen Qiufan spiega infatti come nei suoi racconti, nel prospettare creativamente un futuro distante soltanto un paio di decenni dallattualità, si sia strettamente attenuto a quanto logica e scienza permettono realisticamente di prevedere in termini di sviluppi dellIA.

Al fine di tratteggiare le psicologie e le emotività dei personaggi collocati in tali scenari futuri sono state prese in considerazione le reazioni umane a eventi della storia passata altrettanto capaci di cambiare il mondo. Così sono stati creati dieci racconti ambientati in un futuro distante un paio di decenni dai nostri giorni che, come si trattasse di altrettanti “portali spazio-temporali”, collocano chi legge in situazioni e ambienti caratterizzati dallo sviluppo possibile di applicazioni tecnologiche di intelligenza artificiale nei più diversi settori, o mettono di fronte a questioni sociali e politiche poste dall’IA, come la perdita di lavori tradizionali, l’incremento delle diseguaglianze, i pericoli degli armamenti autonomi, il rapporto privacy/felicità ecc.

Il primo racconto, intitolato L’elefante doro, ambientato a Mumbai, ove una famiglia ha sottoscritto un programma assicurativo basato sul deep learning, palesa i rischi derivati dallaccumulo di dati da parte di unazienda e come dal ricorso allIA insieme a specifici benefici possano derivare anche indesiderati impedimenti. Gli dèi dietro le maschere segue le vicende di un videomaker nigeriano assoldato per creare un deepfake non riconoscibile in quanto tale inducendo a riflettere sugli sviluppi della computer-vision, dunque sullaccumulo ed elaborazione dei dati biometrici. Ne I passeri gemelli viene immaginato il possibile sviluppo delleducazione dellintelligenza artificiale prospettando il rapporto tra due insegnanti IA e due gemelli orfani coreani.

Amor contactless presuppone un prolungarsi della recente pandemia immaginando la presenza pervasiva di tecnologie basate sull’IA e come queste possano incidere nel bene e nel male sulle sorti dellumanità. Allinestricabilità tra reale e virtuale indotta dalluniverso ludico rimanda L’idolo che mi perseguita, mentre Il pilota santo prospetta uno Sri Lanka alla prese col passaggio da una mobilità a conduzione umana ad una a guida autonoma. Genocidio quantistico mette in scena le gesta di un scienziato informatico europeo che, per vendetta, ricorre agli sviluppi tecnologici per fini malvagi.

Il racconto Il salvatore dei posti di lavoro prospetta l’avvento di agenzie per la riqualificazione e ricollocazione di quanti hanno perso il posto di lavoro in quanto sostituiti dallIA, mentre L’isola della felicità invita a domandarsi quale ruolo potrebbe giocare l’intelligenza artificiale nella ricerca della felicità e come questa possa essere definita e quantificata. L’ultimo racconto, Sognare l’abbondanza è ambientato in unAustralia divenuta una “terra dellabbondanza” grazie allIA in cui sono state introdotte due diverse valute: una tessera per aver accesso ai beni essenziali e una valuta virtuale in cui si accumula reputazione in base ai servigi prestati alla comunità.

Con AI 2041 Kai-Fu Lee e Chen Quifan invitano a guardare al futuro non come a qualcosa di già determinato e si dicono ragionevolmente certi che gli esseri umani, indipendentemente dalle tecnologie a venire, continueranno a preservare il controllo sul loro destino. Visto però che storicamente tale opportunità di controllo lungi dallessere la medesima per tutti gli umani, vale la pena domandarsi quanto il diffondersi dellIA in un contesto retto dalle regole del profitto e dalla sostanziale diseguaglianza come l’attuale, diminuisca o incrementi la possibilità di reale autodeterminazione di tutti e tutte auspicata dagli autori.

 

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Storie di resistenza afroamericana https://www.carmillaonline.com/2023/05/29/storie-di-resistenza-afroamericana/ Mon, 29 May 2023 20:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76965 di Gioacchino Toni

Jocelyn Nicole Johnson, La mia Monticello e altre storie, tr. It di Leonardo Taiuti, Bompiani, 2023, pp. 240, € 17.00

«Sono arrivati al tramonto annunciandosi con un operistico O say can you see. Teste bianche spuntavano da Jeep impolverate e capelli scuri svolazzavano come bandiere lacere in un impetuoso vento nuovo. TUTTO NOSTRO! Urlavano. I loro fucili luccicavano come appena comprati: una milizia da megastore. Spiando in fretta dalle persiane di MaViolet ho visto anche un bambino tra loro, biondo e ghignante dietro il finestrino di un furgone. Gli uomini [...]]]> di Gioacchino Toni

Jocelyn Nicole Johnson, La mia Monticello e altre storie, tr. It di Leonardo Taiuti, Bompiani, 2023, pp. 240, € 17.00

«Sono arrivati al tramonto annunciandosi con un operistico O say can you see. Teste bianche spuntavano da Jeep impolverate e capelli scuri svolazzavano come bandiere lacere in un impetuoso vento nuovo. TUTTO NOSTRO! Urlavano. I loro fucili luccicavano come appena comprati: una milizia da megastore. Spiando in fretta dalle persiane di MaViolet ho visto anche un bambino tra loro, biondo e ghignante dietro il finestrino di un furgone. Gli uomini saltavano giù dai sedili di dietro, balzavano dai cassoni dei pick-up e si precipitavano verso le nostre case. Mani bianche stringevano latte metalliche, brandivano torce che rigurgitavano fiamme. Grida forti, la cortina di fumo che si alzava – tutto questo e molto altro ci ha spinto fuori. Dai nostri cortili sbucciati vedevamo i corpi sfuocare quando qualcuno dei vicini si lanciava in avanti per provare a fermarli. Abbiamo visto un ragazzino colpito col calcio di un fucile sprizzare di rosso dalla tempia. Un bimbo col pannolone si agitava aggrappato al fianco della madre crollata in ginocchio sul marciapiede. Ciò che abbiamo visto in quegli attimi prima ci ha paralizzati, e poi ci ha resi liberi.»

Con questo incipit prende il via My Monticello, romanzo d’esordio pubblicato negli Stati Uniti nel 2021 dell’afroamericana Jocelyn Nicole Johnson, insegnante di arte nelle scuole pubbliche di Charlottesville in Virginia, dato alle stampe in italiano da Bompiani nel 2023 tradotto da Leonardo Taiuti. Accolto positivamente dalla critica statunitense, dal romanzo sono stati tratti un audiobook e la sceneggiatura, ad opera di Peter Chernin, per un film prodotto da Chernin Entertainment per Netflix.

La storia narrata da Johnson rappresenta un possibile sviluppo di quanto accaduto nella realtà a Charlottesville nel 2017 quando, sull’onda delle polemiche sorte attorno alla rimozione di monumenti confederati disseminati negli Stati Uniti, si sono radunati in città formazioni di estrema destra – alt-right, neo-Confederati, nazionalisti bianchi del Ku Klux Klan, neonazisti e altre milizie – contrari alla rimozione dall’Emancipation Park della statua di Robert E. Lee a cui si sono contrapposti gruppi di opposta tendenza, come Antifa, Redneck Revolt e altri.

In seguito ai violenti scontri tra gli opposti schieramenti, dopo le dichiarazioni dello stato d’emergenza da parte del governatore della Virginia e di illegalità del raduno razzista da parte delle autorità locali, un’auto guidata da un suprematista bianco si è lanciata contro i contestatori del raduno uccidendo Heather Heyer e ferendo una ventina di persone. A gettare ulteriore benzina sul fuoco sono state le prese di posizione dell’allora presidente Trump che, in un primo tempo, evitando di condannare esplicitamente i gruppi suprematisti, si è limitato a condannare genericamente la violenza espressa da entrambe le parti.

La storia immaginata da Johnson come possibile sviluppo di questi fatti è raccontata in prima persona da una giovane di nome Da’Naisha, discendente dell’unione del terzo presidente degli Stati Uniti Thomas Jefferson e Sally Hemings, sua schiava. Di tale sua discendenza, tramandata in famiglia da generazioni, la giovane evita di parlare pubblicamente sia perché, come già accadeva alla madre, di solito non viene creduta, sia perché le suscita disgusto pensare allo stato di schiavitù della lontana parente, dunque nei fatti impossibilitata a decidere liberamente del rapporto con l’uomo di potere. Insieme alle vicende di famiglia, a riemergere è dunque il confronto con l’idea della schiavitù e il suo rapporto con i fondatori venerati nella storia e nell’immaginario nordamericani.

Negli Stati Uniti alle prese con blackout e tempeste, il quartiere di First Street a Charlottesville in Virignia viene preso d’assedio da orde di suprematisti bianchi che fanno irruzione nei quartieri costringendo molti abitanti ad abbandonare in fretta e furia le loro abitazioni. Un gruppetto di vicini e conoscenti fugge dalla città su un bus abbandonato rifugiandosi a Monticello, nella residenza che fu di Thomas Jefferson, uno dei padri nobili della nazione, autore della Dichiarazione d’indipendenza, che, nonostante le idee illuministe e progressiste, non solo non ha mai preso posizione esplicitamente contro lo schiavismo, ma ha avuto numerosi schiavi nella sua tenuta.

Jocelyn Nicole Johnson

I fuggitivi guidati dalla giovane trovano rifugio nella dimora che fu di Jefferson poi divenuta museo. Qua il gruppo multietnico di profughi, alle prese con l’organizzazione della vita quotidiana e con la necessità di prepararsi al probabile scontro con i suprematisti bianchi, si confronta direttamente con quel luogo e con la sua storia sperimentando una nuova modalità di rapportarsi ad esso; da asettico e distaccato museo di storia della patria a luogo realmente vissuto e fatto proprio.

Si tratta, insomma, di una riappropriazione di uno spazio e di una storia che, fatta scendere dal piedistallo, viene finalmente vissuta in prima persona sottraendola, per certi versi, all’immaginario edulcorato che ha plasmato la narrazione ufficiale. In fin dei conti quella Monticello, nel bene e nel male, è storia di tutti e tutte, compresi/e coloro che la hanno abitata in schiavitù; rapportarsi dunque a quel luogo in modo nuovo rappresenta una possibilità di simbolico riscatto.

Johnson racconta dunque attraverso Da’Naisha la resa dei conti dei discendenti degli schiavi con la storia, con la sua narrazione e l’immaginario che si è sedimentato nel tempo nel paese che si vuole immacolato esportatore di democrazia. Per certi versi la ferocia dei suprematisti bianchi che si è manifestata senza infingimenti nell’era Trump non rappresenta che il concentrato di un immaginario diffuso che attraversa sin dalle sue origini il paese a stelle e strisce e che nemmeno un inquilino di colore alla Casa Bianca ha saputo/potuto dissipare.

«Per favore sappiate che abbiamo combattuto con tutto ciò che avevamo, e abbiamo combattuto per vincere. Abbiamo lottato con i proiettili e a mani nude, con i megafoni e lo spray urticante, con lo scetticismo e con la fede. […] Infilo queste pagine dentro il libro di Thomas Jefferson Note sullo stato della Virginia, annidate tra i suoi carteggi sulla larghezza dei nostri fiumi, l’altezza delle nostre montagne, i suoi limiti e le sue speranze. Infilerò di nuovo quel libro sullo scaffale nella biblioteca riservata alle guide museali, la stanza dove è appesa la fotografia della mia nonna […] Forse un giorno qualcuno ritroverà i nostri nomi, tra i libri o la cenere, e saprà che siamo stati qui, che anche noi contiamo. Non so cosa succederà. Non so cosa sta succedendo altrove, fuori dalla nostra città, del nostro stato. So solo che non permetterò loro di prendersi questo mio corpo. So solo che questa battaglia costerà qualcosa anche a loro. Il signor Byrd mi ha aiutato a preparare le bottiglie, a riempirle fino a metà di benzina e infilarci degli stracci. Possono anche sconfiggerci, ma non conquisteranno mai questa casa – non intatta.»

La casa di cui parla la protagonista non è semplicemente la dimora di un padre della patria in cui un gruppo di fuggiaschi dalla ferocia suprematista bianca ha trovato temporaneo rifugio, ma è una, per quanto piccola, comunità che ha fatto i conti con la storia, che se ne è appropriata evidenziando la parte che ha avuto in essa e che intende avere nella storia ancora da scrivere.

Oltre a La mia Monticello, nel libro sono presenti alcuni racconti brevi imperniati sull’essere neri negli Stati Uniti di oggi. Storie di migranti, intellettuali, donne sole, tutti protesi a cercare quanto è sempre stato loro negato sia in termini materiali che di dignità. Ad emergere da questi racconti è spesso la necessità per le donne e gli uomini  afroamericani di dover dimostrare il proprio valore agli altri e a sé stessi, quasi a dover colmare un gap loro imposto.

In Negro di controllo, ad esempio, il protagonista è un professore universitario afroamericano che si rapporta ai pregiudizi razziali statunitensi osservando e “telecomandando” a distanza la vita del giovane figlio che ignora della sua esistenza. Un padre che, offrendo al figlio possibilità spesso negate ai ragazzi di colore, si prodiga in maniera decisamente maniacale nella “costruzione” di un prototipo di giovane afroamericano “perfetto”, in modo tale che l’America non possa avere da ridire su di lui. Una storia certo paradossale che, come altre narrate dalla scrittrice, evidenzia come chi nasce con la pelle scura negli Stati Uniti si trovi a dover costantemente dimostrare agli altri e a sé stesso il proprio valore e per farlo si trova, come detto, a dover colmare un gap rispetto a chi nasce con i privilegi spettanti a chi ha la pelle chiara.

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