Mutazione – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 08 May 2025 14:47:14 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Processi di ibridazione. David Cronenberg: Interviews https://www.carmillaonline.com/2024/12/19/processi-di-ibridazione-david-cronenberg-interviews/ Thu, 19 Dec 2024 21:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85700 di Gioacchino Toni

David Cronenberg, Una storia di violenza, a cura di David Schwartz, traduzione di Pietro Del Vecchio, Wudz Edizioni, Arezzo-Milano, 2024, pp. 428, € 21,00

Sul finire del 2024, la giovane casa editrice Wudz, nel cui ancora ridotto catalogo non mancano proposte interessanti, ha dato alle stampe, con la traduzione di Pietro Del Vecchio, l’edizione italiana del volume David Cronenberg: Interviews (The University Press of Mississippi, 2021): una corposa raccolta, curata da David Schwartz, di interviste e conversazioni con giornalisti e studiosi rilasciate tra il 1983 e il 2015 in cui il regista canadese passa in rassegna la sua [...]]]> di Gioacchino Toni

David Cronenberg, Una storia di violenza, a cura di David Schwartz, traduzione di Pietro Del Vecchio, Wudz Edizioni, Arezzo-Milano, 2024, pp. 428, € 21,00

Sul finire del 2024, la giovane casa editrice Wudz, nel cui ancora ridotto catalogo non mancano proposte interessanti, ha dato alle stampe, con la traduzione di Pietro Del Vecchio, l’edizione italiana del volume David Cronenberg: Interviews (The University Press of Mississippi, 2021): una corposa raccolta, curata da David Schwartz, di interviste e conversazioni con giornalisti e studiosi rilasciate tra il 1983 e il 2015 in cui il regista canadese passa in rassegna la sua produzione ed i pensieri, le inquietudini ed i desideri che l’attraversano.

Fortunatamente all’aneddotica circa l’infanzia e l’adolescenza di Cronenberg viene riservato uno spazio limitato nelle quindici conversazioni contenute nel volume; nelle quattrocento pagine di colloqui il regista si concentra sui film realizzati fino al 2015, sul suo rapporto con la macchina da presa, sul confronto con la letteratura da cui, in diversi casi, ha derivato le sue opere cinematografiche e, soprattutto, sui processi di ibridazione biologici, meccanici e mediatici che investono l’identità ed i confini del corpo e della mente degli individui.

Vittime ed a volte cause al tempo stesso dei processi di ibridazione e degli effetti devastanti che ne derivano, i personaggi sottoposti alla mutazione nei film del regista vengono catapultati in universi oscuri estranei alle leggi che governano la realtà conosciuta. La disintegrazione dell’identità, vero e proprio filo conduttore della poetica cronenberghiana, in un mondo in continua trasformazione, viene spesso fatta derivare dalla mutazione del corpo.

Cronenberg pare cercare nella malattia, negli incidenti spesso derivati dal rapporto con la scienza e le tecnologie, nella corporeizzazione degli incubi e delle tecnologie stesse, i segni di una mutazione che si presenta anche come via di fuga da una realtà vissuta come insufficiente più ancora che opprimente.

Le ibridazioni e le mutazioni a cui si sottopongono, o sono sottoposti, di volta in volta i personaggi cronenberghiani, oscillano continuamente tra coraggiosa e necessaria, quanto pretenziosa, maldestra e inefficace, ricerca di estensione della propria identità psico-fisica ed assoggettamento a nuove forme di oppressione e dipendenza. Subite o cercate come vie di fuga, le mutazioni  si rivelano insostenibili e non è infrequente che sul finale dei film i personaggi cronenberghiani palesino una vera e propria aspirazione alla morte come estrema forma di risoluzione dell’incapacità di governare le nuove identità in cui si vengono a trovare.

Nella lunga conversazione tenutasi con William Beard e Piers Handling a Toronto nel 1983, Cronenberg si sofferma sulla contrapposizione che istituisce nei suoi primi film – soprattutto in Stereo (1969), Crimes of the Future (1970), Shivers. Il demone sotto la pelle (Shivers, 1975), Rabid. Sete di sangue (Rabid, 1977), Brood. La covata malefica (The Brood, 1979) e Scanners (1981) – tra la sensazione di ordine suggerito dalle asettiche geometrie dei complessi architettonici abitati dai personaggi e le angosce e le inquietudini che essi covano nel profondo.

Nel corso dell’incontro, tenutosi presso The Academy of Canadian Cinema di Toronto, il regista si sofferma, inoltre, su come in Crimes of the Future di inizio anni Settanta, ricorrendo ad una situazione distopica che vede la scomparsa delle donne, abbia voluto indagare come gli uomini «vengano a patti con la parte femminile della loro sensibilità», su come in Shivers, al pari di Rabid e Brood, abbia tentato di «mostrare ciò che non poteva essere mostrato, di dire ciò che non poteva essere detto» mettendo in scena come il caos interiore dei personaggi nasca in ambito privato, individuale, salvo poi espandersi all’esterno dei singoli individui generando, inevitabilmente, una conflittualità più estesa.

Nella conversazione con Beard e Handling, Cronenberg affronta anche Videodrome (1983) evidenziando come il reale sempre più tenda a coincidere con la percezione che si ha di esso, palesando così il suo debito nei confronti di Ballard, e come l’individuo sembri ormai aver perso il controllo della tecnologia e dei media.

Trattando di Videodrome, non poteva che emergere la questione della “nuova carne” a cui, secondo il regista, non si dovrebbe guardare riducendola a perversa macchinazione del potere, bensì come invito a prendere atto di quanto il corpo umano sia nei fatti mutato rispetto a come lo si continua ad immaginare. «Siamo fisicamente diversi dai nostri antenati, in parte a causa di ciò che introduciamo nel nostro corpo e in parte per cose come gli occhiali, la chirurgia e via dicendo». Ecco perché, secondo il regista, per ragionare sull’identità occorre innanzitutto fare i conti con il corpo.

Nel corso dell’intervista rilasciata nel 1989 a George Hickenlooper per la rivista “Cinéaste”, dopo aver spiegato come l’interesse per le energie e le angosce primordiali lo abbia inevitabilmente condotto a scegliere l’horror per la capacità del genere di «rimuovere tutto il materiale estraneo e andare dritto al nocciolo», Cronenberg torna sulla questione dell’identità che attraversa tutti i suoi film. «In cosa consiste un’identità? La personalità è in qualche modo immutabile? Esiste una forma assoluta del sé dall’inizio alla fine della vita di una persona? È un dato mentale o fisico? Se il nostro fisico cambia radicalmente e di conseguenza ci trasformiamo anche da un punto di vista mentale, siamo comunque la stessa persona? Abbiamo la sensazione di esserlo, ma è solo un’illusione?». È da tali interrogativi che deriva un film come Inseparabili (Dead Ringers, 1988).

Se nella conversazione del 1991 con Gary Indiana per la rivista “The Village Voice” il regista si sofferma su Il pasto nudo (Naked Lunch, 1991), argomentando il complesso rapporto con l’opera di Burroughs, nell’incontro tenuto l’anno successivo con David Breskin, poi entrato a far parte del volume curato da quest’ultimo Inner Views: Filmmakers in Conversation (Faber & Faber, 1992), dopo essere stato pubblicato in versione ridotta su “Rolling Stone”, Cronenberg sottolinea come la sua intenzione fosse quella di «mettere in discussione il libro, piuttosto che tentare di rappresentarlo».

Conversando con Breskin il regista si sofferma anche sulle critiche ricevute da critici di sinistra che lo hanno  accusato di conservatorismo in quanto le trasformazioni dell’esistente nei suoi film conducono ad esiti negativi, argomentando che a suo avviso ciò che rende sovversive le sue opere è il loro suggerire altre realtà rispetto a quelle normalmente accettate, il presentare questi altri stati della mente come altrettanto reali.

Nel corso della conversazione il regista spiega anche come abbia voluto andare oltre i canoni degli “horror situazionali” tradizionali, incentrati magari su «l’uomo nel seminterrato con il coltello», preferendovi qualcosa di più complesso e torna sul fatto che molte sue opere terminano sostanzialmente con i protagonisti che desiderano porre fine alla loro esistenza in quanto «unico modo per dare un significato alla nostra morte. Perché altrimenti è completamente arbitraria. È dovuta a un piccolo malfunzionamento del corpo o a un incidente», insomma nell’aspirazione al suicidio dei protagonisti è ravvisabile un ultimo, per quanto disperato, tentativo di riconquistare il controllo su sé stessi. «In tutti i miei film c’è una qualche discussione, subliminale o diretta, sul libero arbitrio e sulla predestinazione. Che si tratti di predestinazione religiosa o genetica non ha molta importanza. È che la sensazione del libero arbitrio è così palpabile e tangibile, eppure le prove contro la sua reale esistenza sono piuttosto convincenti».

Carrie Rickey, che nell’incontro del 1993 con il regista per la rivista “Philadelphia Inquirer” definisce efficacemente le sue opere come «film di guerra in cui il territorio conteso è costituito dal corpo umano», ricostruisce insieme al regista la logica con cui è stato realizzato il film M. Butterfly (1993) riprendendo la pièce di David Henry Hwang ispirata a quello che è passato alla storia come affaire Boursicot, un caso in cui una relazione sentimentale si è trasformato in una questione di politica internazionale che ha fatto clamore a metà degli anni Ottanta. Per quanto M. Butterfly tenda ad essere considerato un film anomalo rispetto agli altri realizzati da Cronenberg, il regista dichiara che in realtà, almeno dal punto di vista tematico, è coerente con le altre sue opere in quanto anche in questo sono presenti quelli che indica come i suoi “tre grandi” interessi. «Ci sono dentro, uno, la mia teoria sul fatto che la sessualità è un’invenzione umana; due, delle persone che inventano la propria realtà, un chiaro atto di volontà immaginativa; e tre, delle persone che scrivono l’opera della loro vita».

A come il regista abbia derivato la sua personale trasposizione cinematografica del romanzo di Ballard nel film Crash (1996) è invece dedicata buona parte della conversazione tenuta nel 1997 con Gavin Smith, per la rivista “Film Comment”. «Quando ho iniziato a leggere Crash», dichiara il regista nel corso dell’incontro, «pensavo a Ballard come a uno scrittore di fantascienza e il libro possiede una sorta di tono fantascientifico. Queste persone sono diverse da noi. Forse noi siamo i loro antenati. L’elemento fantascientifico del libro, che è così difficile da definire, è proprio questo: la psicologia e forse anche la fisiologia, in qualche modo sottile, non sono ciò che consideriamo normale, e possono essere viste come il punto verso cui ci stiamo dirigendo».

A proposito delle reazioni scomposte che hanno accompagnato l’uscita del film, commenta Cronenberg: «Credo che in Crash tutti siano dei fuorilegge. Credo che quello che disturba molte persone sia ciò che succede quando un’intera società diventa fuorilegge». Tranne Veloci di mestiere (Fast Company, 1979), fino a La mosca (The Fly, 1986) tutti i film di Cronenberg, scrive Smith, «si basano essenzialmente su un vaso di Pandora alla cui rottura la ricerca scientifica e le nuove tecnologie minacciano allo stesso tempo l’ordine sociale e l’integrità fisica e psicologica dei suoi personaggi. Da Inseparabili in poi, però, si trasformano in narrazioni ermetiche e spaesate in cui i personaggi scendono all’interno della propria psiche, innescando fratture e deviazioni che rappresentano pure proiezioni della mente».

L’intervista del 1999 di Richard Porton per la rivista “Cinéaste” in occasione dell’uscita di eXistenZ (1999), permette al regista di chiarire la sua posizione nei confronti della scienza e della tecnologia. «Non sono mai stato pessimista nei confronti della tecnologia, è una percezione sbagliata. Probabilmente intercetto le paure del pubblico, ma credo di guardare la situazione in modo abbastanza distaccato, cioè neutrale. Voglio dire: facciamo cose estreme, ma siamo costretti a farle. Creare tecnologia fa parte dell’essenza dell’umanità, è uno dei principali atti creativi. Non ci siamo mai accontentati del mondo così com’è, lo abbiamo manipolato fin dall’inizio. La maggior parte della tecnologia può essere vista come un’estensione del corpo umano, in un modo o nell’altro: nel film lo mostro nel vero senso della parola attraverso i riferimenti alle bioporte. Penso che in questa tecnologia ci siano aspetti positivi ed eccitanti quanto pericolosi e negativi. È un punto di vista molto imparziale su tutta la nostra tecnologia: è qualcosa con cui abbiamo a che fare ogni giorno».

Con eXistenZ, il cui tema principale, come sostiene il regista, riguarda la creazione della realtà, Cronenberg sostiene di aver voluto mostrare come l’essere umano abbia preso il controllo della sua evoluzione naturale. «Non ci evolviamo più secondo le vecchie modalità darwiniane. Altre specie possono farlo, ma noi no. Ci siamo impadroniti del controllo della nostra evoluzione. Nessuno dei vecchi meccanismi che portavano alla sopravvivenza del più adatto è ancora in grado di funzionare. Ne abbiamo solo una vaga consapevolezza, anche se al riguardo si è scritto abbastanza. In termini di evoluzione fisica della specie, tutto è cambiato negli ultimi duecento anni, dopo la Rivoluzione industriale».

Nell’intervista rilasciata a Porton, il regista torna sui motivi per cui i suoi film sono essenzialmente incentrati sul corpo. «Per me, il dato più importante dell’esistenza umana è il corpo e più ci allontaniamo dal corpo umano, meno le cose diventano reali e dobbiamo inventarle. Forse il corpo è l’unico dato dell’esistenza umana a cui possiamo aggrapparci. Eppure il cinema sembra ignorarlo, anche se forse non è così nell’arte in generale. Pensi ad artisti performativi e a pittori insoliti e interessanti come Francis Bacon. Ma nel cinema, in un certo senso, sembra esserci ancora una sorta di fuga dal corpo».

Nel 2003, nell’ambito dei Museum of the Moving Image Pinewood Dialogues, David Schwartz invita Cronenberg a parlare del film Spider (2002), trasposizione cinematografica del romanzo di Patrick McGrath incentrato su un individuo schizofrenico la cui tenue presa sulla realtà è minacciata dai ricordi frammentati di un trauma infantile, mentre A History of Violence (2005) è al centro tanto dell’intervista rilasciata dal regista a Dennis Lim per la rivista “The Village Voice”, che della conversazione tenuta nel 2006 con Nicolas Rapold per “Stop Smiling”, in cui il giornalista sostiene che a risultare inquietanti nei film del canadese «non sono le teste che esplodono o il sesso dopo un incidente stradale oppure ancora il videoregistratore infilato nello stomaco di James Woods. No, il terrore ci coglie quando ci rendiamo conto che queste cose riguardano tutti noi… il modo in cui i nostri corpi determinano le nostre identità e viceversa».

La promessa dell’assassino (Eastern Promises, 2007) è al centro dell’incontro con l’autore nell’ambito dei Museum of the Moving Image Pinewood Dialogues del 2007 organizzato da David Schwartz alla presenza di Steven Knight, l’autore del romanzo da cui il film è stato tratto. In tale occasione Cronenberg approfondisce alcuni dei temi chiave dell’opera, tra cui la rinascita e la reinvenzione.

Nel 2011 la critica cinematografica Amy Taubin, per “Film Comment”, conversa invece con il regista soprattutto a proposito di A Dangerous Method (2001), film in cui Cronenberg, concentrandosi sulla figura di Sabina Spielrein, racconta del serrato confronto tra Jung e Freud agli albori della psicoanalisi. Parlando di quest’ultimo, Cronenberg sostiene che parte del suo genio «risiedeva nel fatto di insistere sull’idea che il corpo umano non fosse separato dalla psiche, che le cose che accadono al corpo si manifestano nella mente e viceversa. Quindi la sua “terapia basata sul dialogo” non consiste soltanto nel parlare. Si rivolge anche al corpo, perché la parola è corpo. È una cosa che Freud aveva capito e che noi usiamo nel film».

L’anno successivo Taubin dialoga nuovamente con il canadese, in questo caso a proposito di Cosmopolis (2012), derivato dall’omonimo romanzo del 2003 di Don DeLillo, sottolineando come questo film, al pari di Videodrome, sia «un film sullo spirito del tempo in cui una nuova tecnologia fa nascere una “nuova carne”»; nel caso di Cosmopolis, scrive Taubin, si tratta di un mondo di cybercapitali che ci conduce nella cyberpsiche di un giovane miliardario trafficante di valute che, in preda alla noia e ad una marcata pulsione di morte, all’interno della sua limousine attraversa una Manhattan paralizzata, come lui, «mentre il suo impero finanziario crolla, forse trascinando con sé l’economia mondiale».

A concludere il volume sono il confronto per il blog inglese “4th Estate” tra la scrittrice Candice McCarty-Williams e Cronenberg circa la sua prova narrativa Divorati (Consumed, 2014) a ridosso dell’uscita in libreria – romanzo edito in Italia da Bompiani con la traduzione Carlo Prosperi –, in cui il canadese pone l’accento su come la scrittura per un romanzo risulti per lui estremamente più intima rispetto alla stesura di una sceneggiatura per un film, e l’intervista rilasciata nel 2015 a Graham Fuller per “Film Comment” incentrata sul film Maps to the Stars (2014) in cui, dietro ad una evidente critica nei confronti di Hollywood, il regista non manca di inserire un’inquietante storia di fantasmi.

Concludendo, il merito di David Schwartz è sicuramente quello di aver saputo raccogliere in questo corposo volume interviste e conversazioni contenendo l’aneddotica sull’autore e le semplici curiosità relative ai film ed alle mostruosità messe in scena in favore di considerazioni e riflessioni del regista canadese sulla sua opera e sul suo immaginario. Una storia di violenza può dirsi un libro rivolto tanto al fandom quanto agli  studiosi dell’opera cronenberghiana.

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Tecnomagia, l’estatica danza digitale sulle rovine https://www.carmillaonline.com/2022/11/30/tecnomagia-lestatica-danza-digitale-sulle-rovine/ Wed, 30 Nov 2022 21:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74785 di Gioacchino Toni

«Le luci del nostro tempo brillano di oscurità. Durante tutta la modernità, abbiamo accarezzato il mito secondo il quale il progresso ci avrebbe donato, nel solco di un piano razionale, l’emancipazione da ogni schiavitù, il benessere e la felicità. Secoli di forsennata produzione, accumulazione e consumi ci hanno invece gettati in un presente tenebroso ove, impigliati nelle maglie delle reti digitali, sopraffatti dal sistema degli oggetti e travolti dalle crisi sanitarie, dalle catastrofi ambientali e da inedite ed efferate guerre, regnano sovrane l’alienazione e la depressione, donde il corollario sono i fuochi fatui del successo e i simulacri [...]]]> di Gioacchino Toni

«Le luci del nostro tempo brillano di oscurità. Durante tutta la modernità, abbiamo accarezzato il mito secondo il quale il progresso ci avrebbe donato, nel solco di un piano razionale, l’emancipazione da ogni schiavitù, il benessere e la felicità. Secoli di forsennata produzione, accumulazione e consumi ci hanno invece gettati in un presente tenebroso ove, impigliati nelle maglie delle reti digitali, sopraffatti dal sistema degli oggetti e travolti dalle crisi sanitarie, dalle catastrofi ambientali e da inedite ed efferate guerre, regnano sovrane l’alienazione e la depressione, donde il corollario sono i fuochi fatui del successo e i simulacri del divertimento. Eccoci volontariamente costretti in catene senza fili che non possiamo e non vogliamo più distruggere». (Vincenzo Susca)

Oltre a rivelarsi contraddistinta da inedite forme di seduzione e sfruttamento, la contemporaneità, secondo Vincenzo Susca, Tecnomagia. Estasi, totem e incantesimi nella cultura digitale (Mimesis 2022), sembra palesare il ritorno di «una logica della dipendenza» che mina alle fondamenta l’epopea moderna, nata in Occidente attorno al XV secolo, fondata sull’autodeterminazione dell’individuo autonomo e razionale.

Più che strumento utile alla soluzione razionale dei problemi che affliggono l’umanità e l’ecosistema in cui vive, la tecnica sembra essere diventata «il mondo che abitiamo, fine a se stesso, dove le cose, gli algoritmi, le macchine e i sistemi informatici permeano e dominano i nostri corpi fino a renderli una parte integrante del regno delle merci, degli spettacoli e delle informazioni» (p. 14).

In questi tempi segnati da inedite forme di sorveglianza e da paure ataviche, tra gli interstizi del quotidiano nella sua forma digitale, l’umanità sembra «danzare in estasi tra le catene» cercando il piacere e la libertà sui social e sulle piattaforme dell’intrattenimento. Un’umanità divenuta l’oggetto, più che il soggetto, di una metamorfosi ove «la tecnologia smette bruscamente di essere il dispositivo del lògos nel senso filosofico della ragione o del pensiero, divenendo tecnomagia, ovvero sistema di nuovi e vecchi totem, riti e miti attorno ai quali il soggetto si perde e si confonde» (p. 16).

Pare di trovarsi di fronte a una sorta di danza macabra contemporanea in cui, sostiene l’autore, l’essere umano pare sempre più posseduto e agito dagli oggetti, divenendo l’oggetto, e non il soggetto, di una trasformazione che opera ben al di là delle sue qualità razionali, biologiche e sociali. «Preda di una spirale contagiosa, l’umano si fa, al contempo, cosa, informazione, spettacolo, merce, opera d’arte e artista, spogliandosi della propria identità per dissolversi nell’alterità e ritrovarsi, come sotto l’effetto di sostanze psicotrope, altro da sé. Eccoci pertanto come altrettanti tecno-maghi e cavie volontarie di una sperimentazione totalizzante, in tempo reale e oltre lo spazio fisico, sulla vita a venire» (p. 16).

Nell’analizzare le trasformazioni culturali, sociali e antropologiche che segano la contemporaneità, Susca si concentra sull’immaginario, sulle forme di comunione, comunità e comunicrazia che strutturano nuove forme di esistenza e di relazione verificando quanto il paradigma della connessione che contrassegna la realtà odierna rinvii «a una rinnovata forma di partecipazione magica» attraverso cui gli esseri umani si confrontano con la loro interdipendenza e con ciò che sta loro attorno.

In un contesto contemporaneo tetro, violento e alienato, «insorgono pratiche e immaginari tecnomagici che, nel mentre decentrano l’essere umano rispetto al sistema degli oggetti, alle macchine, alle reti e alla biosfera, stanno prefigurando la nuova carne a venire. Carne elettronica. Forme elementari del post-umanesimo» (p. 18).

Da parte sua il potere politico, sostiene Susca, ha saputo elaborare strategie «per accordare e rendere funzionale la razionalità del proprio dominio a equilibrate e adeguate dosi di non-razionalità, di passione e di piaceri, al fine di canalizzare in modo innocuo la catena dei bisogni sociali improntati sul disimpegno, facendoli scorrere attraverso le porte istituzionali senza che essi, in effetti, potessero rivelare l’istinto distruttivo insito nel proprio Eros» (p. 18). Le logiche del consumo e dello spettacolo, continua Susca,

tendono ad assicurare e a coordinare gli impulsi festivi e distruttivi della massa – l’eterno intreccio tra distrazione e distruzione – nell’ambito dell’ordine produttivo, non più attraverso la retorica del progresso, la qualità delle strutture razionali-legali e le ragioni delle ideologie storiche, ma a cominciare dalla seduzione della merce e degli show, dal godimento procurato tramite la loro contemplazione dapprima e dissipazione in seguito. Se è vero che il piacere reca in sé, nelle pulsioni che scatena, una fuga dall’ordine sociale e un’affermazione del corpo con la sua parte maledetta, la razionalità del dominio tende direttamente a regolarne l’uso in modo da domare la sua natura fondamentalmente sovversiva (p. 29).

Il disallineamento sempre più evidente tra élite e corpo sociale, secondo lo studioso, è probabilmente

da ricercare nell’obsolescenza del mito del lavoro e del progresso, appannaggio di nuove adesioni magiche con tanto di riti iniziatici, totem ed estasi, nei confronti della Terra Madre, della rete in tutte le sue declinazioni, del sistema degli oggetti e di tutto ciò che rinvia al corpo e al quotidiano. Sorgono così, a latere delle utopie sociali, delle grandi verità universali e della morale istituita, altrettante etiche ed estetiche che, oscillanti tra il mainstream e l’underground, forgiano strati di socialità improntati su affinità connettive al di là del tempo, dello spazio e delle appartenenze culturali classiche: fan, gamer, youtuber, influencer, raver, hacker, perdigiorno, flâneur, tiktoker, memer, role player… (p. 31).

Pur nelle loro differenze, sostiene lo studioso, «tali figure sostanziano nuove mitologie solo in parte riconducibili ai criteri e alle logiche delle narrazioni su cui si reggono le società contemporanee. Per questo, d’altra parte, queste ultime appaiono svuotate di legittimità, incapaci di saldarsi al corpo sociale e di nutrire ancora in modo fecondo l’immaginario collettivo» (pp. 31-32).

Il successo planetario dei tele-populisti è una spia evidente del terremoto culturale che scuote i sistemi sociali contemporanei. Tali figure, sostiene Susca, «attingono risorse simboliche non dal bacino semantico della politica, ma da quello degli stregoni, dei pirati, degli anomici, dei pistoleri o dei cow boy, tra riferimenti arcaici e fantasmi del futuro. L’attrazione che suscitano è direttamente proporzionale alla portata distruttiva e spettacolare del loro messaggio, al modo in cui promettono di abbattere lo status quo accogliendo le pulsioni anti-politiche che serpeggiano nell’immaginario collettivo» (pp. 32-33).

Nel momento in cui i tele-populisti si trovano a governare palesano miseramente il loro essere simulacri del cambiamento sociale, «propaggini dell’industria culturale ad uso e consumo di un pubblico animato dalla vocazione inconscia alla distrazione e alla distruzione, accarezzate più nella loro portata onirica che in quella pragmatica» (p. 33). A contare, ben più dei programmi politici, è la demagogia comunicativa su cui sono costruite queste figure che, oscillando tra il carnevalesco e il trash, contribuiscono «a dissacrare le strutture simboliche del potere moderno, incalzando l’avvento di altri regimi semantici in sintonia col sentire addestrato nei laboratori dell’immaginario e dei media elettronici» (p. 33).

La storia ha mostrato come quando una cultura si sfalda e dalle sue ceneri un’altra sorge, si generi spesso una sorta di ebbrezza di massa da cui derivano comportamenti sguaiati .

La condizione psicofisica che accompagna passaggi e paesaggi del genere, dagli sprawl al cyberspazio passando per i dance floor del mondo intero, è ben altra rispetto alla buona salute promossa dalle istituzioni sociali. Il corpo mutante, che genera nel suo deliquio, infatti, come insegnano la poesia di Antonin Artaud, la letteratura di William Burroughs, la fotografia di Cindy Sherman, l’arte di Orlan e di Matthew Barney, il cinema di David Cronenberg e George A. Romero, è contagiato, contaminato, alterato, in corso di confusione e di ibridazione con l’altro da sé. Lo stare bene nell’ambito di una festa nel senso più solenne e iniziatico del termine, senza edulcorazioni di sorta, prevede quindi cicatrici, aperture, fessure e pori adatti a favorire la circolazione e lo scambio delle sostanze tra soggetti, oggetti e ambienti, predisponendo l’individuo al piacere e non al lavoro, a uno stato di eccitazione invece che di veglia, alla ricreazione piuttosto che all’azione, ad essere agito più di quanto non agisca. I gemiti delle inquietanti e meravigliose creature nascenti sul nostro pianeta infetto scaturiscono da altrettante malattie oltre che da tripudi festivi, da orgasmi multipli e da depressioni, da intensi godimenti e da traumi irreversibili, giacché qui l’esistenza non vale più per ciò che il soggetto accumula e per come si conserva in vista del domani, ma per il modo in cui si dissipa nell’estasi, in una sorta di disagio agiato (pp. 223-224).

Come nelle cerimonie magiche tradizionali, eccedendo i limiti si ridefiniscono spazio, tempo e corpo in linea con «l’immaginario in fermento nel ventre del vissuto collettivo». «Tale performance sfocia in una condizione irresolubile, donde la sua natura tragica, in cui i piani del benessere e quelli del dolore coincidono, laddove la vita a venire è incubata esattamente in abissi oscuri e magmatici. Lungi dalla spensieratezza della dolce vita o dal clima ovattato degli anni Ottanta, il regime del piacere contemporaneo, anche nelle sue effervescenze frivole e nei suoi sussulti edonistici, è il corrispettivo di dolori, perdite, alienazioni, fatiche, sofferenze, graffi, derive ed altri cedimenti del soggetto appannaggio di tutto ciò che lo sovrasta» (p. 224).

Oltre che per le pratiche effettivamente più estreme, ciò vale anche per le situazioni divenute oggi ordinarie, come quelle esperite nelle reti sociali, in cui l’individuo è costretto e si costringe a inedite forme comunitarie.

La danza elettronica – corpo a corpo, al suono delle macchine, con il sudore che gronda da te a me e da noi a terra – è al contempo una performance e la prova antropologica, sociologica ed estetica più lampante di un’inversione densa di risvolti per il nostro presente: il ritorno, sotto nuove vesti, in una condizione nella quale la vita risiede in ciò che si perde e non in ciò che si guadagna, nello spreco e non nell’accumulo, nelle lacerazioni, nelle contaminazioni, nelle macchie, nelle ferite, nelle cicatrici e nella precarietà anziché nell’ordine, nella stabilità, nell’armonia e nella pulizia.
C’è crisi nell’aria? Ecco emergere dalle viscere del quotidiano il gesto apotropaico per eccellenza del puer aeternus: danzare sulle rovine. Non a caso, i grandi locali da ballo patinati che si sono moltiplicati negli anni Ottanta e Novanta sono oggi in crisi, incalzati da club, capannoni, masserie e spazi all’aperto più underground, cupi ed ostici, luoghi non fatti per la comodità, ma per essere fatti e disfatti, in una condizione di radicamento e incatenamento. In essi, resta ben poco del divertimento e dell’intrattenimento ben dosati dall’industria moderna degli spettacoli, giacché sono permeati da una cultura della distrazione inestricabilmente associata con la distruzione del sé. Astuzia ultima di comunità e generazioni che soppiantano e superano l’opposizione tra resistenza e adesione al sistema con la ricreazione – ricreazione di sé e ricreazione del mondo – la danza del disagio e la danza nel disagio prefigurano ciò che ci attende dopo il crepuscolo dell’Occidente e dell’umanesimo, un passo oltre dopo la decadenza. Benché possa scioccare le classi dirigenti di ieri e di oggi, destra, sinistra, centro, protestanti, cattolici, neo-liberali e post-socialisti compresi, si respira e si fa spazio un certo agio nel disagio contemporaneo. Il disagio agiato avviene nel sincretismo contemporaneo tra il lusso e il degrado, l’opulenza e gli stenti, il chiaro e l’oscuro dell’esistenza. È il “sì” alla vita nella morte stessa. Ecco cos’è la technomagia: una danza sulle rovine, l’estasi nel cuore della distopia (pp. 225-226).

È sempre più urgente domandarsi come rapportarsi nei confronti della mutazione in atto, a meno che non si pensi l’essere umano ormai definitivamente perduto nella sua ibridazione con spettacolari tecnologie votate al suo sfruttamento totale e definitivo, dunque ridotto definitivamente e completamente al servizio di un sistema economico che, egemone sin dalla nascita della modernità, vanta una lunga successione di barbarie arginate soltanto, per quel che hanno potuto, da lotte e ribellioni nelle più diverse forme. Questa lunga storia sembra ormai essere giunta all’epilogo. Anche i tempi supplementari stanno finendo e chissà se arrivando ai calci di rigore in preda all’estatica danza sulle rovine descritta dal volume, si avrà almeno la lucidità di calciarli verso la porta giusta per non perdere tale lunga, ma non infinita, partita.

 

 

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Processi di ibridazione. L’orrore (è) nella carne https://www.carmillaonline.com/2022/05/17/processi-di-ibridazione-lorrore-e-nella-carne/ Tue, 17 May 2022 20:01:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71920 di Gioacchino Toni

«Come la fiaba, ma senza la sua volontà educativa e la sua disciplina narratologica, l’horror è la prosecuzione della vita con altri mezzi, all’incrocio tra due tendenze contrapposte, che qui tendono a coincidere, quella che usa la finzione per accrescere l’illusione e quella che la vive per aumentare la percezione del reale. Una contradditorietà che spaventa molto più dei contenuti dell’horror stesso: chi non li guarda non teme infatti di essere spaventato dai mostri, ma di cominciare a vederli nella vita reale. O, che è davvero lo stesso, a riconoscerli. [...]]]> di Gioacchino Toni

«Come la fiaba, ma senza la sua volontà educativa e la sua disciplina narratologica, l’horror è la prosecuzione della vita con altri mezzi, all’incrocio tra due tendenze contrapposte, che qui tendono a coincidere, quella che usa la finzione per accrescere l’illusione e quella che la vive per aumentare la percezione del reale. Una contradditorietà che spaventa molto più dei contenuti dell’horror stesso: chi non li guarda non teme infatti di essere spaventato dai mostri, ma di cominciare a vederli nella vita reale. O, che è davvero lo stesso, a riconoscerli. Anche nella realtà che si è. Perché il vero orrore è sempre la realtà. Soprattutto la realtà che si è e che, non diversamente dal contesto reale che ci circonda, sfugge alla nostra comprensione, al nostro controllo, alla nostra direzione, imponendosi dispoticamente, violentemente, atrocemente».

Così scrivono Selena Pastorino e Davide Navarria, Il male quotidiano. Considerazioni filosofiche sull’horror (Rogas 2022), introducendo il volume in cui, attraverso «incursioni sull’horror, nelle sue molteplici forme, a partire da un reale che gli è affine in un modo che è la stessa narrazione orrorifica a palesare» (p. 18), intendono evidenziare la capacità del genere «di istituire un legame esperienziale con lo spettatore partecipante, traendolo nella notte che già da sempre lo abita» (p. 19).

Il provare orrore ha a che fare non tanto con l’essere spaventati di fronte a una minaccia incombente, quanto piuttosto, sostengono gli autori, soprattutto con l’essere disgustati, nauseati e raccapricciati al manifestarsi del corporeo, non necessariamente umano, di qualcosa che rimandi alla

concretezza materiale di un che di vivente, pulsante, carnale. […] È la comparsa della corporeità nella sua visceralità organica, nella sua tridimensionalità carnale, a fare orrore, come il ritorno di un rimosso. Perché, anche qualora si sia potuto accettare di avere un’esistenza materiale, si tende comunque a ridurre la corporeità a una mera superficie: ciò che fa il nostro corpo è il suo aspetto esteriore, la pelle che lo confina, i tratti che ci identificano. Oltrepassare questo confine per comprendere qualcosa della nostra realtà è un gesto autorizzato in un’unica direzione, quella che pone una frattura tra la fisicità che siamo e ciò che davvero siamo: che la si chiami mente, anima, pensiero, spirito, quella componente meta-fisica della nostra identità è l’unica parte di noi che ci sentiamo legittimati a definire come nostra interiorità. Ci è invece precluso quel movimento che, nell’oltrepassare la pelle che ci contiene, vi apra una breccia, svelando come al nostro interno non si trovi una specie di spirito impalpabile a capo di un automa inorganico, bensì carne sanguinolenta, vasi, nervi, legamenti, tendini, organi, scarti, solo in ultimo ossa, altrettanto vive che tutto il resto. Un resto che trattiamo sempre come tale e che pure ci costituisce al punto da essere l’unico punto in cui siamo, in cui non possiamo fare a meno di essere (pp. 166-167).

“Entrare” in contatto con la cruda realtà del corpo provoca disgusto; “scoprirsi” organici significa in qualche modo fare i conti con la mortalità. L’epidermide si propone come limite inviolabile, come confine che, se oltrepassato, conduce alla perdita dell’integrità palesando la vulnerabilità e la caducità: l’essere mortali.

Da tempo e da più prospettive si riflette sul perché produca attrazione un genere come l’horror incentrato su quanto solitamente si è portati a rimuovere, ci si interroga sul da e verso cosa muova il desiderio che spinge a sottoporsi all’orrore, a un’esperienza emotiva e fisica insieme.

Del ruolo simbolico ed antropologico della pelle si è occupato Francesco Paolo Campione, Discorsi sulla superficie. Estetica, arte, linguaggio della pelle (Mucchi, 2015) [su Il Pickwick] e lo ha fatto passando in rassegna una serie di narrazioni che vanno dal mito di Marsia, al martirio di San Bartolomeo sino alla pratica del tatuaggio. In Marsia scuoiato è possibile vedere tanto un essere anatomico privo di vita e identità quanto una pelle viva che viene ad assumere un carattere perturbante, segno di un’identità mantenuta oltre l’annientamento del corpo. E se Marsia muore per aver sfidato un dio vendicativo, per certi versi, suggerisce Campione, rinasce sotto la pelle del San Bartolomeo cristiano. Resto mortale e firma figurata al contempo, il San Bartolomeo/Michelangelo ripropone il Socrate/Marsia del Simposio; la bellezza risiede entro il deforme dell’epidermide attraverso un gesto di apertura al contempo artistico e di fede.

Artisticamente parlando, la figura di Marsia, si estende ben oltre le estetiche rinascimentali e barocche tanto da ricomparire, per certi versi, nella messa in scena davidiana dell’assassinio a tradimento di Marat intento a lenire in una vasca la malattia della pelle, opera che trasforma il rivoluzionario, oltre che in una sorta di Cristo laico, appunto in un novello Marsia, come del resto aveva già notato Baudelaire1.

Insomma, la pelle rappresenta la veste del vivente e si può dire che su di essa si è sviluppata, nel corso dei secoli, un’estetica che ha saputo dar conto di diversi aspetti relativi al presentarsi al mondo dell’essere umano. Se in numerose narrazioni la privazione dell’epidermide rappresenta la perdita dell’identità, la pelle può anche vivere un’esistenza autonoma rispetto al corpo che ricopriva o, in alcuni casi, può persino tornare a ricoprirlo conferendogli un nuovo aspetto. Spogliarsi della pelle può anche preannunciare simbolicamente una risurrezione che conduce ad una nuova vita.

Tornando al volume di Pastorino e Navarria, in particolare sulla sezione dedicata al rapporto tra orrore e corpi, in esso gli autori, riprendendo alcune riflessioni di Linda Williams2, evidenziano come l’horror abbia per certi versi in comune con il porno e il melodramma la peculiarità di agire in modo diretto sul corpo del fruitore: il melodramma deve commuove, il porno deve eccitare e l’horror deve spaventare. Se ciò non avviene allora si tratta di produzioni che non hanno mantenuto fede alle promesse dei rispettivi generi. Occorre che il fruitore senta, provi sensazioni direttamente sul suo corpo.

In Videodrome (1983) David Cronenberg, pur sperimentando diverse declinazioni dell’inorganico che si anima come carne, si concentra soprattutto sullo schermo televisivo che, più che farsi permeabile alla realtà, diviene realtà o, meglio, come suggerisce il personaggio Brian O’Blivion, qualcosa più di essa, tanto che il protagonista, Max, viene da esso sedotto al punto di indurlo a cercare una fusione con l’immagine di Nicky Brand, ossia con colei che «nella vita fuori dallo schermo lo provoca a considerare lo stretto legame tra dolore ed eccitazione, torture e sesso» (p. 169).

Il collassare della funzione schermante della televisione comporta con sé la distruzione di ogni paradigma di riferimento: la compenetrazione tra TV e corpo funziona come realizzazione di un più ampio progetto di controllo e sottomissione della mente, un vero e proprio piano di purificazione dell’umanità che si serve della fascinazione di una trasmissione snuff per intercettare gli individui da condurre all’autodistruzione. Videodrome è il nome di un disegno malato di selezione della specie, a partire dalla presunta indegnità a vivere di chi manifesta eccitazione nei confronti di ciò che devia dalla sessualità socialmente accettabile. L’implementazione di questo dominio passa per un controllo mentale che è insieme controllo carnale (pp. 169-170).

Il film mostra pertanto come anche l’inorganico tecnologico sia «animato dalle stesse forze pulsanti che ci fanno essere, anche se non lo vogliamo (sapere)» (p. 170).

In altre opere la fragile vulnerabilità carnale degli esseri umani emerge nel confronto con corpi non-umani. In Alien (1978) di Ridley Scott, così come in Aliens (1986) di James Cameron, l’alterità aliena manifesta caratteristiche carnali e viscerali capaci di prendere possesso del corpo umano devastandolo. «L’alieno di queste due pellicole è xenomorfo, come comunemente lo si chiama, solo nella misura in cui abbiamo deciso di chiudere fuori dalle mura della nostra identità civile, sociale, culturale, politica e personale ciò che ha la forma (morphé) del corpo, dichiarandolo così straniero (xéno), negandogli un diritto di cittadinanza che già da sempre ha, anzi che già da sempre ci concede» (p. 171)

In diverse opere horror la corporeità animale viene utilizzata per definire, per differenza, la corporeità umana, tanto che in molte narrazioni, per garantirsi la sopravvivenza, gli esseri umani si trovano costretti a individuare ed allontanare dalla loro comunità l’alterità non-umana.

«Nello specifico di queste narrazioni si potrebbe pensare che il rapporto tra l’umano e l’animale susciti disgusto e terrore rivelando la natura ferina, bestiale, che l’uomo avrebbe rimosso dalla propria definizione e che tuttavia lo caratterizzerebbe al punto da riemergere sempre, in maniera inesorabile» (p. 171). A suscitare orrore in tali opere non è però, secondo Pastorino e Navarria, l’emergere della bestialità umana rimossa, quanto piuttosto la

vulnerabilità intrinseca all’esser vivo dell’uomo, che l’animale, con il suo comportamento, rivela come da sempre definitoria dell’umano e come da sempre misconosciuta. […] La realtà della nostra corporeità è quella di una fragile vitalità, di una mortalità certa, di un dolore possibile e probabile. Ciò che ci tocca in modo orrendo è il timore che al nostro corpo possa accadere qualcosa di tanto disgustoso, come di essere lacerato, dilaniato, divorato, puntellato, sbrandellato. Come se più non fosse corpo umano, come se più non fosse corpo nostro. Anche perché a quel punto di noi, che ne sarebbe? Che cosa saremmo cioè noi, senza il nostro corpo? (p. 175)

Oltre che dal timore per la possibile profanazione del proprio corpo, l’orrore può derivare tal terrore per una sua trasformazione ed in entrambi i casi si può arrivare a desiderare la morte per porre fine al supplizio iniziato o imminente. Si pensi, ad esempio a quando Rick Grimes, il protagonista della serie The Walking Dead (dal 2010), trovatosi bloccato sotto a un carro armato circondato da zombi che intendono cibarsi di lui, vistosi senza scampo, per un attimo, prima di individuare una via di fuga, si punta la pistola alla tempia per suicidarsi, o, ancora, al finale del film La Mosca (The Fly, 1986) di David Cronenberg, quando lo scienziato Seth Brundle, ibridatosi con un insetto, ormai teriomorfo, in una residuale capacità di autodeterminazione, chiede alla ex compagna di porre fine alla sua esistenza.

Metamorfosi, mutazioni e modificazioni del corpo umano al centro dell’opera cronenberghiana sono elementi ricorrenti nelle narrazioni del cosiddetto body horror, sottogenere in cui la

realtà della corporeità viene così esposta, rivelata senza infingimenti, inverata in modo paradossale dal suo non essere più se stessa: non più integra, non più sana, non più vitale, in altre parole non più appropriata da quel meccanismo culturale ed esistenziale che lavora a minimizzare il corpo fino a farne un niente, un accessorio, un possesso. Disappropriata dall’individuo che crede di abitarla quando in realtà ne è parte, la carne si mostra nella sua potenza e nella sua vulnerabilità, nella sua magnificenza e nella sua repellenza, nella sua forza e nella sua disgregabilità. Proprio per aver portato la narrazione dentro il corpo, nel luogo del reale, i confini si intrecciano tra loro, scolorano, lasciandoci in balia del disorientamento che ci coglie ogni qual volta non possiamo rimandare oltre il confronto con la realtà: crollano i confini delle contrapposizioni che siamo soliti usare per muoverci nella quotidianità, ma vengono meno anche quelli delle categorie identitarie e quelli fisici che permettono un certo intuitivo livello di distinguibilità tra gli enti. Insomma, la mutevolezza è all’opera e non si può più fingere di non vederla (pp. 182-183).

D’altra parte, nonostante la tendenza a considerare il corpo come «stabile ancoraggio identitario» (p. 183), l’esistenza non può sottrarsi alla mutazione e la visione di opere orrorifiche come queste, in fin dei conti, mette di fronte alla propria vulnerabilità. Ci parlano di ciò, sostengono Pastorino e Navarria, narrazioni incentrate sulla «metamorfosi dell’umano in ciò che umano non è, soprattutto quando questo processo non è irreversibile […] ma si intervalla a momenti di recupero […] di quei lacerti residuali di ciò che si era ora che si è stati qualcosa che non si è» (p. 183). Si tratta di opere che evidenziano «quanto la dimensione identitaria sia carnale, corporea, fisica» (p. 183).

Alla luce del fatto che, come detto, la metamorfosi del corpo è un processo inevitabile, diviene difficile individuare un confine certo tra ciò che si era e ciò che non si è più, soprattutto, «se questa frontiera risulta valicabile più volte, in entrambe le direzioni» (p. 185), come nell’esempio di licantropia di Un lupo mannaro americano a Londra (An American Werewolf in London, 1981) di John Landis. «Perdere a tal punto il proprio controllo su di sé da essere condizionati in modo vincolante, perfino necessitante, da ciò che il proprio corpo è diventato, da ciò che noi stessi paradossalmente siamo diventati, è l’abisso del terrore da cui trae linfa questa narrazione. Da cui origina l’orrore stesso, non tanto quello delle vittime o dei superstiti, bensì quello di chi realizza di essere incarnato: fare i conti con l’incontrollabilità proteiforme e metamorfica del nostro corpo significa fare conti con la sua indisponibilità, con la sua irriducibile realtà che resiste a ogni nostro tentativo di disciplinarla, di evaporarla, di annichilirla» (p. 186)

Oltre che nelle trasformazioni fisiologiche che la vita corporea comporta, l’esperienza della «corporeità come dimensione che può determinarci senza poter essere determinata» (p. 186) può essere vissuta anche nella condizione della malattia. Secondo Pastorino e Navarria, pur mostrando esplicitamente la degenerazione carnale, l’horror

finisce col riproporre una cesura netta tra la malattia e l’esistenza fisiologica, un confine che sì può essere attraversato con lentezza estenuante e consapevolezza acuta, ma che presto o tardi conduce a luoghi da cui non si ritorna, in cui più si è umani. Se in certa misura si può comprendere come le dinamiche narrative che riguardano tutto ciò che appare come minaccioso, perturbante, disgustoso, spaventoso, funzionino anche riguardo al corpo malato, sembra qui essere in opera nella stessa messa in opera un meccanismo culturale che fonda ogni possibilità creativa e la orienta, in gran parte determinandola, vincolandola. Ecco allora che la maggior parte delle narrazioni trattano il contagio di un morbo come se producesse sempre effetti analoghi a quelli di un’invasione zombi, quando non viene direttamente ricollegato a questa. L’umanità sana rifugge, talvolta mostrando tratti di devianza psichico-morale che la delegittimano di fronte all’innocente, perché inevitabile, aggressività cannibalica degli infetti, spesso riproponendo anche in questo frangente lo schema di una lotta contro il mostro, nella forma della malattia che si è impossessata dei corpi, spossessandoli delle loro identità vitali. Della loro stessa vita. È forse in questa curvatura che il punto cieco dello sguardo horror sul morbo tange uno spazio di veridicità: la malattia per il (presunto) sano ha sempre qualcosa ha che fare con la mortalità, perché la richiama, la esibisce, e così converte la rinnegabilità in cui vogliamo relegarla, rivelandola come segreto manifesto della vita carnale stessa. Che vive perché sta morendo, che smetterà di morire solo quando smetterà di vivere (pp. 186-187).

La malattia spaventa in quanto restituisce alla carne il suo potere sull’individuo a cui non resta che che provare a fuggire il contagio nascondendo i sintomi agli altri e forse persino a se stesso, magari minimizzando o addirittura ignorando la propria corporeità per annichilirne il destino di morte.

Nelle messe in opera horror, sottolineano gli autori, per poter vantare un ruolo da protagonista nella narrazione, le malattie devono apparire «irriconoscibili rispetto alle loro forme consuete, più incontrollabili […], più devastanti, più letali. A imporre loro un controllo è la stessa trama narrativa che le relega a macroscopica trasformazione del corpo facente sì parte del regno del possibile e del verosimile, ma anche di ciò da cui si deve e dunque […] si può sfuggire» (p. 188).

Quando invece la vulnerabilità corporea viene messa in scena sotto forma di «desiderio di disporre della carne come di un regno dei balocchi da parte di qualche sadico torturatore» (p. 188), ecco che il body horror diventa «nella contemporaneità soprattutto un genere di esorcismo del corpo, che funziona con la tecnica dell’esposizione prolungata a ciò che scatena orrore, come terrore e disgusto, nel fruitore. Ma contemporaneamente lo attrae, la affascina, in modo morboso, tale che non possa distogliere lo sguardo qualunque cosa accada, e in modo perverso, tale cioè che si allontani da ciò che costituisce la norma nella sua realtà quotidiana (si spera)» (p. 188). Un esempio di ciò è ravvisabile nel torture porn in cui

ciò che conta è assistere voyeuristicamente a ciò che è a mala pena tollerabile, quando non insopportabile, sia per chi si trova sullo schermo, sia per chi prova con questo a schermarsi, difendendosi da un’immedesimazione con le vittime che fa contorcere gli arti e le budella, nel totale comfort del proprio divano o della poltrona cinematografica […] Nei torture porn lo schermo mantiene la sua funzione di separatore, quasi un buco della serratura da cui osservare qualcosa che lo spettatore sembra ricercare non per vivere un’esperienza, […] ma per osservare (e quindi in certa misura tenere le distanze da) un’esperienza altrui. È una differenza sottile ma sostanziale, che permette forse di riarticolare, almeno a partire dalla presente prospettiva di analisi, una ridefinizione del genere cui queste narrazioni appartengono, che con l’horror flirta senza riuscire a incarnarne, letteralmente, le dinamiche (pp. 189-190).


Processi di ibridazione


  1. Baudelaire, commentando tale opera, da lui definita “poema inconsueto”, nel 1846 scriveva: «Marat può ormai sfidare Apollo, la Morte lo ha ora baciato con labbra amorose, e lui riposa nella quiete della sua metamorfosi». 

  2. Cfr. Linda Williams, Film Bodies: Gender, Genre, and Excess, in “Film Quarterly”, Vol. 44, No. 4, Summer, 1991. 

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Processi di ibridazione. L’identità (è) instabile https://www.carmillaonline.com/2020/10/06/processi-di-ibridazione-lidentita-e-instabile/ Tue, 06 Oct 2020 21:03:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62298 di Gioacchino Toni

Se i film d’esordio Stereo (Id., 1969) e Crimes of the Future (Id., 1970) manifestano già i germi delle ossessioni del cinema cronenberghiano, è con i successivi Shivers – Il demone sotto la pelle (Shivers, 1975) e Rabid – Sete di sangue (Rabid, 1977) che l’autore inizia a focalizzarsi sul contagio e sulla mutazione accentuando, soprattutto nell’ultima opera citata, il coinvolgimento emotivo dello spettatore messo di fronte alla tragica condizione vissuta da chi, una volta mutato, si trova nell’impossibilità di condurre una vita relazionale e sociale tanto dal dover cercare [...]]]> di Gioacchino Toni

Se i film d’esordio Stereo (Id., 1969) e Crimes of the Future (Id., 1970) manifestano già i germi delle ossessioni del cinema cronenberghiano, è con i successivi Shivers – Il demone sotto la pelle (Shivers, 1975) e Rabid – Sete di sangue (Rabid, 1977) che l’autore inizia a focalizzarsi sul contagio e sulla mutazione accentuando, soprattutto nell’ultima opera citata, il coinvolgimento emotivo dello spettatore messo di fronte alla tragica condizione vissuta da chi, una volta mutato, si trova nell’impossibilità di condurre una vita relazionale e sociale tanto dal dover cercare nella morte una via di fuga dalla sua opprimente condizione.

L’ossessione cronenberghiana del mostrare il non-filmabile, materializzandolo, dandogli un corpo, come scrive Gianni Canova nella sua monografia dedicata al regista – David Cronenberg (Editrice Il Castoro, 2007)1 –, fa invece la sua comparsa con Brood – La covata malefica (The Brood, 1979). In tale film viene presentato un mad doctor del tutto particolare in quanto anziché creare in laboratorio l’elemento malefico, lo estrinseca dalla paziente stessa al fine di curarla da una patologia preesistente: la terapia adottata intende liberare i soggetti dalle nevrosi facendo sì che i disturbi psichici vengano somatizzati sotto forma di carne. È così che una vittima di violenze infantili, nel dare forma alla propria rabbia, si trova a partorire bambini mostruosi, asessuati e omicidi: la mente prende corpo, si trasmuta in carne. La malattia in questo caso ha origine nella famiglia della paziente e i bambini da lei partoriti sono la proiezione mostruosa di quanto patito in tale contesto, sono figli dell’odio.

Nella diegesi del film, i “deformi” partoriti da Nola anticipano in un certo senso quell’estensione mass-mediale del corpo a cui i protagonisti di Scanners arriveranno con la telepatia e che il [protagonista] di La zona morta raggiungerà grazie alla sua “seconda vista”. La differenza sta nella centralità assunta in Brood dal tema della maternità: giacché i “deformi” sono propaggini del corpo materno nello spazio, sono appendici ed estensioni fisiche del sistema nervoso che arrivano anche là dove il corpo della madre non può arrivare. Nola partorisce l’orrore: lo espelle da sé, lo fa altro, lo rende autonomo. E lo scarica su coloro (i padri simbolici) che l’hanno generato. […] Ma se l’orrore è una “creatura”, anche l’immagine è tale. E Cronenberg la “partorisce” allo stesso modo in cui Nola dà vita ai suoi deformi nanetti. Che possono essere visti, ancora una volta, proprio come una “corporeizzazione (e una metafora) del cinema: come un film le “creature” di Nola sono asessuate, non vedono che in bianco e nero (l’infanzia del cinema) e “durano poco”. Servono a scaricare impulsi aggressivi, danno corpo ai sogni: anche quando questi sono malsani e dannosi.2

L’ambito famigliare come fonte di malessere è un elemento ricorrente in più opere cronenberghiane; lo si trova in Maps to the Stars (2014) e in Scanners (Id., 1981). In quest’ultimo caso sotto forma di colpe del padre che ricadono sui figli: questi ultimi, costretti a distruggersi a vicenda, sono infatti vittime di un esperimento del genitore non andato a buon fine.

Scanners riprende l’ambito della telepatia, caro alla fantascienza degli anni Cinquanta, piegandolo alla lotta per il possesso della mente. La psiche in Cronenberg però, avverte Riccardo Sasso nel suo volume L’immagine mutante. Il cinema di David Cronenberg (Edizioni Falsopiano, 2018), è tutt’altro che un’entità astratta, capace com’è di generare e di distruggere: «è un’appendice del corpo che ne ha preso (e potenziato) le funzioni, un organo capace di penetrare senza il contatto fisico, è un’estensione (à la McLuhan) del corpo che spinge a riconsiderare il ruolo e i rapporti fra gli altri organi»3.

Scanners è un film che mostra le estreme conseguenze della mutazione; nella celebre sequenza finale, nel corso di una battaglia all’ultimo sangue tra le menti dei due fratelli, uno dei due assorbe l’altro, «si transustanzia in lui, liberandosi del proprio corpo e assumendo le sembianze del fratello»4. Il parto di questa lotta tra i due è un essere mutato, un ibrido con la voce di uno e le sembianze dell’altro, condannato però a non poter essere né l’uno né l’altro. Il confine tra Bene e Male, che in quest’opera sembrava più netto del solito, vacilla nelle sequenze finali, a riprova della sostanziale amoralità della poetica cronenberghiana.

La mosca (The Fly, 1986) è probabilmente uno dei film in cui la questione della mutazione è affrontata più direttamente e di questa, secondo Sasso, si possono cogliere tre momenti principali nel corso del film. Una prima fase, coincidente con l’arrivo della giornalista nella vita del protagonista che determina in esso una mutazione psicologica e comportamentale. Una seconda fase è dettata da quello che lo scienziato percepisce come come “tradimento” da parte della donna: la pubblicazione a sua insaputa sul giornale di un articolo relativo alle sue ricerche determina la decisione di procedere con l’esperimento su se stesso dando luogo a un processo di mutazione che momentaneamente ne aumenta le prestazioni. Il rifiuto della donna di essere a sua volta coinvolta nell’esperimento conduce il protagonista ad allontanarla e a “tradirla” con una donna abbordata in un bar. É da tale tradimento che, secondo Sasso, prende il via la terza fase della mutazione che conduce alla repentina trasformazione dello scienziato in mosca. Come per tutti i mutanti di Cronenberg, ancora una volta al protagonista non resta che cercare nella morte l’unico sollievo possibile alle sofferenze patite.

La mosca estremizza anche quella componente melò ravvisabile, come sottolinea Canova, in buona parte dell’intera opera cronenberghiana: frequentemente a essere messe in scena sono infatti storie di amori impossibili conclusi tragicamente con la morte. Nel film è la mutazione di uno dei due amanti a rendere impossibile la storia d’amore «Com’è possibile continuare ad amare un “io” che diventa un “altro”? Come amare quell’io anche nella sua “alterità”?»5.

Così come La mosca rappresenta il film in cui il regista canadese tratta più direttamente la tematica della mutazione, Inseparabili (Dead Ringers, 1988) è l’opera in cui la questione del doppio viene affrontata più esplicitamente e, proprio come La mosca, anche Inseparabili mette in scena un amore impossibile, inoltre, nuovamente, a far da catalizzatore agli eventi è la comparsa sulla scena di una figura femminile. Ancora una volta i personaggi cronenberghiani sono costretti a cercare nella morte un sollievo alla lancinante impossibilità di godere di una relazione.

Il tema del doppio torna anche ne Il pasto nudo (Naked Lunch, 1991), una pellicola stilisticamente lontana da Inseparabili: «Non più fratelli doppi che muoiono […] per l’impossibilità di separarsi […], ma mogli doppie la cui morte è l’unica soluzione per approdare al mondo salvifico della scrittura, e addirittura intere realtà doppie»6. Ciò conduce a quell’interzona che è «la proiezione mutante della mente allucinata del protagonista, il posto in cui albergano i deliri mentali fatti carne da uno scrittore con troppa fantasia e troppe droghe a disposizione»7. Interzona, dunque, continua Sasso, come spazio oscuro della psiche ove diviene possibile per il protagonista liberarsi delle costrizioni, esorcizzare le ossessioni, luogo popolato dalle forme devianti della sua realtà […] e soprattutto è il luogo di sviluppo del bildungsroman che ridarà senso alla sua vita stanca e monotona: Il pasto nudo»8.

Seppure pellicola anomala nell’ambito della produzione cronenberghiana, M. Butterfly (Id., 1993) contiene diverse ossessioni ricorrenti nella cinematografia del canadese: la mutazione, la sessualità, l’identità, il doppio e il ruolo giocato dall’innamoramento. Attraverso le modalità del melodramma, anche quest’opera mette in scena un’allucinazione, una fantasia in quanto, come sintetizza Canova, si tratta di un film «sull’origine “mentale” del desiderio e sulla genesi “cerebrale” della sessualità. Come se Cronenberg volesse dire che non ci si innamora mai di un altro (o un’altra), quanto dell’idea che ci si è fatti di lei (o di lui)»9.

M. Butterfly racconta di un amore reso impossibile non da una mutazione in atto (La mosca) né da un’incapacità a cambiare rispetto a ciò che si è (Inseparabili), «ma dal rifiuto di prendere atto della distanza che separa la propria idea dell’Altro da ciò che l’Altro effettivamente è»10.

Il ruolo sempre più importante e invadente della tecnologia nella società contemporanea, tanto da renderne dipendente l’essere umano, è al centro di Crash (Id., 1996), film del tutto privo di sviluppo narrativo in cui scene e azioni si susseguono per accumulo e giustapposizione prive di progressione diegetica. «Chiusi nella stanchezza di una routine sessuale che per quanto si accanisca nel moltiplicare i partner e i rapporti è condannata allo scacco dell’appagamento e al continuo deferimento del piacere»11, ciò che i protagonisti cercano negli incidenti stradali sembra essere una nuova forma di incontro, di connubio tra corpi e menti, capace di ridare impulso vitale a esistenze atrofizzate da una realtà ormai priva di rapporti interpersonali.

Se l’invadenza tecnologica ha mutato il principio di piacere e con esso la sfera erotica degli individui, «la carne dei protagonisti di Crash non può prescindere dalla sua appendice tecnologica»12, la carne umana sembra risponde ormai soltanto al contatto con l’agente che ha rimodellato in Ventesimo secolo: l’automobile. Scrive Canova che «i personaggi di Crash sperimentano una dimensione della sessualità che trova nel “feticcio” novecentesco e tecnologico dell’automobile il proprio medium imprescindibile»13.

I corpi si toccano e si penetrano, le bocche parlano e sussurrano, le mani sfregano e palpeggiano, le auto si urtano e si collidono: Crash è un’algida ecografia dell’urto e del contatto, effettuata su corpi che raramente sembrano sorridere o godere, e che più spesso assumono espressioni dolenti e sofferte, come se avvertissero la biologia come un destino che inevitabilmente li condanna a non poter fare a meno di continuare a cercarsi, toccarsi e penetrarsi. […] Crash ci dice così di una civiltà che non può più permettersi il lusso di trovare nella natura (nel corpo, nel sesso, nello sperma, nell’orgasmo) il proprio appagamento, e che è condannata a cercare nell’artificio e nella merce (nella protesi, nella macchina, nel consumo, nell’introduzione violenta e “innaturale” di un desiderio inappagabile) l’unica residua possibilità di affermazione e di appagamento di sé.14

Come avviene in Videodrome ed eXistenZ (Id., 1999), siamo anche qua di fronte a una mutazione psicofisica dell’essere umano in «animale-macchina, una compenetrazione irreversibile tra mente, corpo e tecnologia tale che [l’essere umano] non può vivere (socialmente, sessualmente, addirittura ontologicamente) se non in relazione alla sua parte meccanica»15. La fusione tra essere umano e automobile viene ripresa, pur sotto altra luce, in Cosmopolis (Id., 2012): un corpo ormai ridotto ad alone di se stesso costretto a vivere all’interno dell’abitacolo di un’automobile.

Tornando a Crash, occorre dire del suo essere un film politico. Lo è certo perché mostra come la produzione di incidenti (e di morte) sia funzionale agli interessi dei produttori di automobili, quasi si trattasse di una piccola guerra quotidiana dispensata in dosi omeopatiche che al pari dei grandi conflitti bellici risulta di estrema utilità all’economia capitalista. Ma Crash è un film politico soprattutto per un altro motivo: ciò che ha fatto trasalire molti commentatori abituati a cercare una morale edificante di superficie nei film è che, come ha sottolineato Canova, Crash «mette in scena l’impotenza della politica a governare il desiderio. O perché sottrae al Politico come al teologo, al Sociologo come allo Psicanalista ogni possibilità di controllo sull’individuo e, quindi, ogni possibile e residua funzione»16. Crash è un film che inquieta perché, continua lo studioso,

individua nella possibilità di scegliere come morire l’ultima forma possibile di liberazione dell’individuo e della sua soggettività in un universo che ha ormai definitivamente cessato di essere antropocentrico. […] Crash fa compiere ai suoi personaggi il gesto blasfemo per eccellenza […]: la rivendicazione del diritto a riappropriarsi della vita scegliendo come e quando farla finire.17

Dopo essersi occupato con eXistenZ (Id., 1999) dell’impossibilità di discernere tra livelli di realtà e di virtualità, il regista canadese realizza Spider (Id., 2002), film che, come mette in evidenza Canova, prende il via con le immagini di un treno sulle cui lamiere campeggia un numero identificativo palindromo (47774), quasi a preannunciare che nella vicenda che lo spettatore si appresta a osservare l’inizio e la fine si riveleranno del tutto interscambiabili.

Il film obbliga lo spettatore a compiere un’immersione psicotica nella mente di un protagonista in cui si intrecciano e sovrappongono ricordi, realtà e visioni in ordine sparso: in Spider diviene impossibile discernere tra oggettivo e soggettivo, presente e passato, allucinazione e ricordo. L’opera si rivela davvero una ragnatela, una trappola nel suo essere costruita in modo da precludere allo spettatore di comprendere «se la storia a cui sta assistendo è la messinscena oggettiva della ricerca di un folle che fruga nel proprio passato o l’allucinazione soggettiva dello stesso personaggio che rivive il trauma della sua infanzia deformando la realtà tanto agli occhi di se stesso quanto a quelli dello spettatore»18.

A History of Violence (Id., 2005) appartiene a quel tipo di film che intendono mostrare come la violenza covi sotto la superficie e come, nonostante la sua rimozione alla vista, essa sia parte integrante e fondativa della storia di una comunità o di un’intera civiltà.19. Il film mostra come qualcosa di inquietante si nasconda anche dietro a un individuo come tanti che passa le sue placide giornate in una cittadina della provincia americana: come in altre opere è infatti la presenza congenita della violenza nella vita di tutti i giorni degli esseri umani a essere svelata strada facendo dal film. «Violenza endemica, violenza cronica, violenza appesa sotto la pelle del visibile. Questa è la scommessa [del film]: mostrare quanto sia labile i confine che separa la presenza della violenza dalla sua assenza (dalla sua rimozione), rendere visibile la hybris che abita la nostra tranquilla quotidianità»20.

Con A History of Violence si torna per certi versi alla tematica del doppio attraverso un individuo che manifesta presto la sua duplice identità: un essere che sembra aver messo da parte il male per vivere rettamente ma che si ritrova, improvvisamente, a dovervi ricorrere. Nel momento in cui riaffiora la parte rimossa della sua personalità, nascosta agli occhi di chi lo circonda, che però non è mai stata totalmente eliminata, né, sembra suggerire il film, avrebbe potuto esserlo, ecco che l’identità, ancora una volta nell’opera cronenberghiana, si rivela instabile.

Tra le forme con cui si manifesta la doppia identità del protagonista di A History of Violence vi è quella sessuale. Nel corso del film si succedono due scene di intimità tra i coniugi, separate proprio dal ritorno della violenza nella vita del protagonista, che consentono di esplicitarne l’alternanza identitaria: ad una prima scena che mostra un romantico rapporto amoroso ne succede una seconda in cui l’atto sessuale è consumato con ferocia animalesca.

Anche la famiglia assume una duplice connotazione: se quella d’origine si rivela fonte di violenza, quella costruita rappresenta una via di fuga dalla prima. Per riconquistare la serenità perduta al protagonista non resta che uccidere il fratello e con lui, per certi versi, la parte di sé che aveva invano tentato di soffocare. Ma la violenza pare non essere mai eliminabile; è infatti attraverso essa che il protagonista ritrova il suo posto tra i famigliari che, ignari, almeno fino a quel momento, del suo passato malvagio, dopo averlo scoperto finiscono per accettarlo, mentre il cinema, da parte sua, sembra ancora una volta svelare, nel suo mostrare cosa si nasconde sotto la superficie, come la violenza resti ineliminabile elemento costitutivo del sogno americano.

Anche La promessa dell’assassino (Eastern Promises, 2007) è un film incentrato sulla difficile convivenza tra identità diverse che si scontrano tanto all’interno del corpo sociale quanto all’interno dell’individuo. Se A History of Violence svela il lato oscuro che si nasconde dietro la superficie di individuo apparentemente privo di aspetti negativi, specularmente Eastern Promises, mostra invece la presenza di nobili intenti dietro o un’apparenza malvagia di un agente sotto copertura. Se in quest’ultimo film il protagonista è perfettamente consapevole della duplicità di ruolo che si trova a interpretare, non di meno si trova condannato a questa doppia natura; il suo animo è ormai segnato in maniera indelebile dal lato oscuro della sua vita così come lo è il corpo, inciso da ferite e tatuaggi.

L’interesse per l’instabilità della personalità conduce Cronenberg a un film come A Dangerous Method (Id., 2011) in cui, nell’intreccio tra Jung, Freud e la giovane Spielrein, sostiene Riccardo Sasso, il regista canadese sembrerebbe derivare l’idea della psicanalisi come virus che si insinua nella mente di un essere umano mutandone la conformazione: «tutto il film è l’anamnesi del processo di mutazione che avviene in Carl Gustav Jung dopo l’incontro destabilizzante con Sabina e l’inizio del suo rapporto malato con lei»21.

Jung, secondo Sasso, sembrerebbe fungere da cavia su cui Cronenberg analizza il fenomeno del contagio e a tale scopo il regista insiste nel mostrarlo particolarmente permeabile alle altrui intrusioni nel meandri della propria mente; si lascia persuadere dalle teorie di Freud e, tramite questo, dai convincimenti di Otto Gross, per poi infrangere il rapporto medico-paziente e instaurare con la giovane Sabina Spielrein un rapporto sentimentale e sessuale mutando così da medico in ammalato, mutazione che tocca anche gli altri personaggi, visto che, a loro volta, palesano doppi ruoli. «Il contagio del dottore avverrà per mezzo della sessualità, e per giunta di una sessualità perversa, dal momento che Jung si troverà parte attiva delle devianze erotiche, sadomasochistiche di Sabina»22.


Processi di ibridazione


  1. G. Canova, David Cronenberg, Editrice Il Castoro, Milano 2007. La monografia, uscita la prima volta nel lontano 1993, è stata aggiornata più volte; in questo scritto si fa riferimento all’edizione del 2007 

  2. Ivi, p. 42. 

  3. R. Sasso, L’immagine mutante. Il cinema di David Cronenberg, Edizioni Falsopiano, Alessandria 2018, p. 52. 

  4. Ivi, p. 56. 

  5. G. Canova, op. cit., p. 71. 

  6. R. Sasso, op. cit., p. 90. 

  7. Ivi, p. 98. 

  8. Ibid

  9. G. Canova, op. cit., p. 95. 

  10. Ivi, p. 96. 

  11. Ivi, p. 102. 

  12. R. Sasso, op. cit., p. 111. 

  13. G. Canova, op. cit., p. 100. 

  14. Ivi, pp. 102-103. 

  15. R. Sasso, op. cit., p. 112. 

  16. Ivi, p. 105. 

  17. Ivi, p. 106. 

  18. Ivi, p. 115. 

  19. La messa in scena del ruolo fondativo della violenza per una civiltà lo si ritrova sin dall’antichità; si pensi ad esempio al rilievo dell’Ara Pacis Augustae in cui la Dea Roma viene mostrata seduta su un cumulo d’armi ricordando così non solo come proprio le armi siano fondamenta della civiltà romana e strumenti attraverso i quali è stata riottenuta la pace, ma anche come, al bisogno, a queste si possa nuovamente ricorrere per difendere tutto ciò. 

  20. Ivi, p. 123. 

  21. R. Sasso, op. cit., p. 145. 

  22. Ivi, p. 146. 

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Processi di ibridazione. L’immagine (è) mutante https://www.carmillaonline.com/2020/09/21/processi-di-ibridazione-limmagine-e-mutante/ Mon, 21 Sep 2020 21:05:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62275 di Gioacchino Toni

«io cerco sempre di mostrare […] quel momento in cui ci si rende conto che la realtà non è che una possibilità, debole e fragile come tutte le altre possibilità» David Cronenberg

Agli inizi degli anni Ottanta esce nelle sale Videodrome (Id., 1983) di David Cronenberg, opera con cui il regista canadese inaugura una serie di pellicole in cui, in maniera più esplicita rispetto ad altre sue realizzazioni, pone lo spettatore di fronte allo sconvolgimento dei piani di realtà. Si tratta di un film incentrato sul rapporto dell’individuo con quell’apparecchio [...]]]> di Gioacchino Toni

«io cerco sempre di mostrare […] quel momento in cui ci si rende conto che la realtà non è che una possibilità, debole e fragile come tutte le altre possibilità» David Cronenberg

Agli inizi degli anni Ottanta esce nelle sale Videodrome (Id., 1983) di David Cronenberg, opera con cui il regista canadese inaugura una serie di pellicole in cui, in maniera più esplicita rispetto ad altre sue realizzazioni, pone lo spettatore di fronte allo sconvolgimento dei piani di realtà. Si tratta di un film incentrato sul rapporto dell’individuo con quell’apparecchio televisivo, vero e proprio generatore di immagini all’interno della realtà domestica che, come scrive Riccardo Sasso – L’immagine mutante. Il cinema di David Cronenberg (Edizioni Falsopiano, 2018) –, agisce «come un organismo patogeno, inizializzando un meccanismo virale grazie al quale l’uomo è stato trasformato, mutato in un un nuovo individuo, un homo tecnologicus, che ha incorporato in sé la tecnologia e da essa trae un sostentamento vitale necessario alla sua sopravvivenza»1. L’essere umano contemporaneo è giunto a cibarsi di televisione, tanto che i poveri che nel film si recano alla Cathode Ray Misison, al posto di un pasto caldo, ricevono la loro dose quotidiana di immagini televisive. Non è difficile leggere in Videodrome la convinzione mcluhaniana della televisione come strumento antropogenetico in grado di incidere sulla biochimica umana.

La televisione, suggerisce l’opera cronenberghiana, non si limita più a riprodurre la realtà, si è fatta «più reale della realtà stessa: ha agito fisicamente sulla struttura del […] cervello, creando al suo interno dei tumori, veri e propri organi di senso, capaci di costruire in lui un nuovo sistema percettivo»2. L’immagine è mutante, in questo caso nel senso che agisce, mutandolo, sull’individuo che ne viene a contatto. L’essere umano messo in scena da Cronenberg, a partire da Videodrome, è un essere che «ha assorbito in sé la tecnologia e nello stesso tempo l’ha corporeizzata»3; il protagonista del film, dopo essere stato contagiato dal virus, si è ibridato con la macchina, «ha penetrato la tecnologia (come nella famosa scena in cui si fonde con il televisore), l’ha resa carne pulsante (la televisione è divenuta un organismo, che respira e vomita frattaglie) e al contempo ne è stato violato, penetrato – gli si è formata un’apertura sull’addome dal quale escono ibridi biomeccanici»4.

Con Videodrome, sostiene Gianni Canova nella sua monografia dedicata al regista – David Cronenberg (Editrice Il Castoro, 2007)5 – «Cronenberg riflette sull’intossicazione iconica derivata dal consumo di immagini televisive e sulle modificazioni fisiche e antropologiche che la diffusione della tv sta apportando all’apparato percettivo umano»6. Il film pone inquietanti interrogativi «sulla natura riproduttiva delle immagini e sul rapporto di ambivalente fascinazione e repulsione che l’occhio umano prova di fronte ai propri sogni e ai propri incubi reificati e incessantemente riprodotti sullo schermo della tv»7. Il regista decide di mettere in scena un mondo condannato a vivere in uno stato di perenne allucinazione, in cui gli esseri umani sembrano poter essere programmabili al pari degli apparecchi di registrazione audiovisiva. In anticipo di alcuni decenni rispetto alla serie televisiva Black Mirror (Id., dal 2011 – in produzione, Channel 4; Netflix), Videodrome si pone come opera audiovisiva politica in quanto riflettendo sul consumo di immagini fa provare direttamente allo spettatore «le potenzialità e le aberrazioni insite nel […] desiderio di consumare tecnologicamente immagini»8.

Oltre a palesare i processi di contaminazione fra organico ed elettronico, con una televisione che diviene carne e una carne che a sua volta funziona come un videoregistratore, in Videodrome, suggerisce Canova, Cronenberg «applica anche al linguaggio (al cinema) quei processi di contaminazione e confusione che mostra all’opera sul piano dei corpi»9. Ecco allora che il film può essere visto come il paradigma di uno stile fondato sull’instabilità enunciativa: Videodrome non permette allo spettatore di considerare la macchina da presa come un “narratore onnisciente”, diviene impossibile, continua Canova, attribuire alle immagini un aprioristico statuto ontologico di verità. Il continuo cambiamento di punti di vista non consente di stabilire se ciò che si osserva è “realtà”, allucinazione o sogno. Insomma, ad essere messa in discussione in questa pellicola è (anche) la stessa nozione di “realtà” cinematografica.

La questione della mente come terreno di conflitto presente in Scanners (Id., 1981) e Videodrome, torna prepotentemente anche in La zona morta (The Dead Zone, 1983) con il protagonista che, risvegliatosi da uno stato comatoso dopo un incidente, si ritrova alle prese con una vera e propria mutazione mentale che gli permette di viaggiare nel passato e nel futuro degli individui con cui viene a contatto. Come in Scanners, anche in questo film non è difficile individuare suggestioni cristologico-messianiche; il protagonista in questo caso “muore” (in un incidente), “risorge” (dal coma) e si “immola” per la salvezza dell’umanità. Se rispetto ad altre opere cronenberghiane qua i personaggi sembrano più definiti nel palesarsi buoni o malvagi, basta attendere la parte finale della pellicola per veder vacillare tali certezze.

In La zona morta Cronenberg rilegge Stephen King con la lente di McLuhan, interpretando la “seconda vista” [del protagonista] come una prerogativa tipicamente mediale, cioè come un’estensione illimitata dei suoi organi di senso. La “zona morta” [del protagonista], quel buco nero coscienziale che gli consente non solo di “vedere” l’altrove spazio-temporale, ma anche di alterare e cambiare il corso degli eventi, significa proprio questo. Che l’utopia mass mediale si è come “incistata” nel suo corpo, si è fatta corpo essa stessa. O che il suo corpo si è trasformato in una sorta di medium totale10.

Se nel romanzo le capacità mentali del protagonista vengono ricondotte a un trauma infantile, Cronenberg fa derivare la “nuova vista” dall’incidente stradale, a sua volta causato da una carenza visiva: il non aver saputo vedere l’autocarro, «un’insufficienza visiva funziona insomma da preludio all’acquisizione di una visione “panottica”: e proprio qui, in questa mirabolante onnipotenza del vedere, si insinua il “virus” cronenberghiano dell’ambiguità»11. Dunque, conclude Canova, a essere messo in dubbio dal regista è ancora una volta lo statuto di verità delle immagini. Allo spettatore non resta che dubitare di esse: messa da parte la convinzione di trovarsi di fronte a una macchina da presa che funziona come “narratore onnisciente”, non è più possibile accordare incondizionata fiducia alle immagini; da un momento all’altro tutto potrebbe palesarsi come allucinazione di un personaggio.

Se così stanno le cose, allora il protagonista di La zona morta non è tanto un “eroe positivo”, quanto piuttosto, continua lo studioso, un semplice testimone del fatto che ormai l’unica realtà è quella percepita dai sensi. Rispetto al romanzo, inoltre, il regista elimina i riferimenti politici diretti «per concentrarsi esclusivamente su ciò che negli anni Ottanta sta trasformando radicalmente le forme e le strutture di una civiltà mass mediale planetaria che obbliga tutti a fare i conti con la viralità delle immagini e con la necessità di ridefinire lo statuto comunicativo»12.

A ben guardare è la medesima convinzione a cui, qualche tempo prima, è giunto James Ballard che, infatti, in un’intervista sostiene esplicitamente che «ciò che siamo abituati a chiamare realtà, oggi è una fantasia creata dai mass media, dai film, dalla televisione, dalla pubblicità, dalla politica»13. Dunque, conclude lo scrittore inglese, ai giorni nostri risulta “più reale” la pubblicità di un film di un mito di fine Novecento come Arnold Schwarzenegger che non un prato ai bordi di una strada.

L’interesse per le modalità con cui l’individuo contemporaneo percepisce e vive una realtà ormai trasformatasi (anche) sotto la spinta dei media audiovisivi è sicuramente uno degli aspetti che accomunano Ballard e Cronenberg, autori che anticipano con le loro opere quel dibattito teorico che nel corso degli anni Novanta vede numerosi studiosi porsi “il problema della realtà”, ragionando a proposito della progressiva scomparsa del “reale”. A tal proposito l’antropologo Marc Augé, ad esempio, giunge a parlare di “finzionalizzazione”, di messa in finzione della realtà14.

Nel film La zona morta viene messo in evidenza anche un altro aspetto del ruolo mutageno televisivo: l’invadenza esercitata da tale medium nei confronti del protagonista nel momento in cui le sue facoltà diventano di pubblico dominio. Sull’incidenza televisiva sulla vita dei personaggi, una volta che questi finiscono per qualche motivo sotto l’occhio morboso delle telecamere, torna anche A History of Violence (Id., 2005). Come a dire che non importa da che parte dello schermo ci si trovi: la televisione si rivela in grado di mutare la vita degli individui anche soltanto prendendoli di mira e mettendoli sotto i riflettori.

Oltre a riprendere la riflessione sulla “nuova carne” intrapresa, sotto diverse sfaccettature, da Videodrome, Scanners e La zona morta, con La mosca (The Fly, 1986) Cronenberg presenta un film mutante al pari del corpo che mette in scena, tanto che Charles Tesson15 vi individua un’opera di finzione che mette in scena la natura e il meccanismo dell’immagine-video palesando il problema della “perdita” che tocca inevitabilmente ogni passaggio dalla realtà alla sua riproduzione. Scrive a tal proposito Canova che il teletrasporto messo in scena dal film rinvia al trasporto dei corpi dalla realtà all’immagine attuato dai mezzi audiovisivi: in tutti i casi nel trasporto qualcosa si perde per strada. «Ed è su questo qualcosa che si concentra Cronenberg in La mosca. Che è dunque, ancora una volta, un film sul meccanismo generativo delle immagini e sull’orrore che la perdita (cioè la “mutazione” sottrattiva) implica in questo procedimento non può non generare»16. La capsula di teletrasporto del film potrebbe allora essere letta, suggerisce lo studioso, come metafora dell’impotenza visiva del cinema, come esplicitazione della «sua “cecità” nei momenti cruciali: quelli in cui l’immagine nasce staccandosi dal corpo e facendosi altro da lui»17 e l’orrore scaturirebbe proprio dalla percezione di tale impossibilità.

Riflessioni sulla natura delle immagini sono presenti anche in Inseparabili (Dead Ringers, 1988). Se nei due gemelli ginecologi alcuni studiosi hanno individuato riferimenti al ruolo del regista, ossia colui che mette al mondo immagini, il film è però anche un’opera che si confronta con l’attrazione per ciò che abita l’interno dei corpi umani e con l’ossessione di mostrare il non-filmabile. «Inseparabili è uno straordinario film su questo paradosso. Non solo un film sul “doppio”, sui gemelli, sulla simmetria e sulla specularità, ma anche (e soprattutto) un vertiginoso periplo intorno all’irrappresentabiltà del corpo, sempre in bilico fra il visibile e il non mostrabile, fra ciò che vediamo e ciò che non potremo mai (o non possiamo ancora) vedere»18. In questo caso il regista opta per un’opera implosiva anziché esplosiva decidendo di non mostrare la carne, di non squarciare i corpi e di lasciare che le immagini scivolino sulle superfici concentrandosi piuttosto sull’orrore del guardarsi dentro.

Con eXistenZ (Id., 1999) ancora una volta Cronenberg inserisce in una sua opera la questione dell’obsolescenza del corpo, la sua inadeguatezza di fronte alle nuove tecnologie. A tale inadeguatezza eXistenZ risponde con un coinvolgimento diretto del corpo umano nella dimensione del gioco, senza bisogno di ricorrere a macchine, schermi ecc. La connessione avviene tramite una consolle semiorganica che attraverso una bioporta si lega, con una sorta di cordone ombelicale artificiale, alla spina dorsale, dunque al sistema nervoso dell’essere umano. Non si tratta più di un collegamento con l’universo simulatorio ottenuto tramite lo sguardo; qua è l’apparato percettivo umano ad essere condotto in un’altra dimensione.

Si può affermare che con questo film Cronenberg estremizzi ulteriormente Videodrome a proposito della «indicibilità circa lo statuto linguistico e mediatico delle immagini di volta in volta proposte, in una perenne oscillazione fra il registro mimetico-riproduttivo e quello allucinatorio-visionario »19. La percezione dello spettatore viene lasciata in balia del dubbio nell’impossibilità di distinguere tra realtà del mondo e realtà videoludica. Per far ciò Cronenberg elimina ogni artificio retorico codificato con cui la grammatica audiovisiva è solita indicare il livello di rappresentazione. eXistenZ è film del tutto privo di sviluppo narrativo, costruito su una vertiginosa mise en abime in cui reale e virtuale risultano indistinguibili, combacianti, forse ormai persino inseparabili.

Di nuovo Videodrome, praticamente: ma al posto di una video-arena nella quale emittenti televisive si contendono il possesso delle menti a scapito di spettatori persi in un ginepraio allucinatorio, qua è nella game-arena della realtà simulata che le corporazioni e le sette […] combattono fra loro per conquistare le masse, e che i personaggi gareggiano per sopravvivere, in quella forma di allucinazione consensuale che è il videogioco. […] Ai poveri che ricavavano la loro “dose di televisione” nella basilica tecnologica della Cathode Ray Mission [di Videodrome] si sostituiscono gli uomini e le donne di tutti i giorni per la loro dose di evasione, la loro dose di esistenza20.

L’impossibilità dell’essere umano di prescindere dal processo di “vetrinizzaizone”21 mediatica la si ritrova in Maps to The Stars (Id., 2014), opera dalla struttura più convenzionale che insiste tanto sulla dipendenza dell’individuo dall’immagine quanto sull’instabilità della sua identità e lo fa ambientando la narrazione nella fabbrica di immagini e immaginari per eccellenza: Hollywood.


Processi di ibridazione


  1. R. Sasso, L’immagine mutante. Il cinema di David Cronenberg, Edizioni Falsopiano, Alessandria 2018, p. 64. 

  2. Ivi, p. 65. 

  3. Ibid

  4. Ibid

  5. G. Canova, David Cronenberg, Editrice Il Castoro, Milano 2007. La monografia, uscita la prima volta nel lontano 1993, è stata aggiornata più volte; in questo scritto si fa riferimento all’edizione del 2007 

  6. G. Canova, op. cit., p. 52. 

  7. Ibid

  8. Ivi, p. 59. 

  9. Ivi, p. 56. 

  10. Ivi, p. 64. 

  11. Ivi, p. 65. 

  12. Ivi, p. 67. 

  13. James Ballard, All that Mattered was Sensation, Krisis Publishing, Brescia 2019. Testo bilingue con intervista e prefazione di Sandro Moiso e un saggio critico di Simon Reynolds. 

  14. Si veda la serie di interventi Il reale delle/nelle immagini di G. Toni pubblicati su “Carmilla”. 

  15. C. Tesson, Les yeux plus gros que le ventre, “Chaier du cinéma”, n. 391, gennaio 1987. 

  16. G. Canova, op. cit., p. 74. 

  17. Ibid

  18. Ivi, p. 79. 

  19. Ivi, p. 109. 

  20. R. Sasso, op. cit.,  pp. 120-121. 

  21. La tendenza alla “vetrinizzazione”, secondo il sociologo Vanni Codeluppi, deriva dalla necessità dell’individuo contemporaneo di creare e gestire la propria identità attraverso una pratica di esposizione/narrazione di sé attuata soprattutto, anche se non esclusivamente, attraverso i social media. Si tratta di un tentativo di catturare l’attenzione attraverso un adeguamento agli standard di rappresentazione sociale prevalenti. Si vedano i volumi: V. Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino 2007; Id., Mi metto in vetrina. Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty, Renzi e altre “vetrinizzazioni”, Mimesis, Milano-Udine 2015. 

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Processi di ibridazione. La realtà (è) nella mente https://www.carmillaonline.com/2020/09/07/processi-di-ibridazione-la-realta-e-nella-mente/ Mon, 07 Sep 2020 21:01:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62110 di Gioacchino Toni

Dopo aver affrontato nello scritto Il demone (è) sotto la pelle alcuni percorsi tra le opere cronenberghiane proposti dal recente volume di Diego Altobelli, Human Fly. David Cronenberg e i luoghi della mutazione (Bakemono Lab edizioni, 2020), riprendiamo qua con il terzo itinerario presentato dallo studioso – Dalle Starliner Towers alla pelle tatuata de La promessa dell’assassino – che prende il via dal complesso residenziale in cui è ambientato Shivers – Il demone sotto la pelle (Shivers, 1975), luogo che metaforicamente mostra come dietro alla bellezza e [...]]]> di Gioacchino Toni

Dopo aver affrontato nello scritto Il demone (è) sotto la pelle alcuni percorsi tra le opere cronenberghiane proposti dal recente volume di Diego Altobelli, Human Fly. David Cronenberg e i luoghi della mutazione (Bakemono Lab edizioni, 2020), riprendiamo qua con il terzo itinerario presentato dallo studioso – Dalle Starliner Towers alla pelle tatuata de La promessa dell’assassino – che prende il via dal complesso residenziale in cui è ambientato Shivers – Il demone sotto la pelle (Shivers, 1975), luogo che metaforicamente mostra come dietro alla bellezza e alla pulizia delle geometrie funzionaliste si nasconda l’orrore che si palesa sotto la forma di efferati omicidi.

Il regista ricorre allo spazio architettonico residenziale come a una metafora del corpo umano: «il residence dove è ambientato il film è in tutto e per tutto un corpo visto dall’interno, con le sue aperture (bocca, naso, orecchie), i corridoi (i vasi sanguigni), i sotterranei e il garage (le viscere)»1, ed è all’interno di queste pareti/epidermide umana che prolificano quei vermi che conducono alla mutazione. In questo caso l’agente di contagio determina la riattivazione di appetiti sessuali eliminando ogni freno inibitorio; è dunque un desiderio sfrenato a dilagare nelle viscere di quelle Starliner Towers che si volevano totalmente assoggettate alla razionalità architettonica, dunque dei corpi umani che, allo stesso modo, si volevano totalmente sottoposti al controllo della ragione.

Attraverso il verme che entra e penetra nelle tubature e nelle intercapedini, il palazzo sembra animarsi diventando il vero antagonista del film: dopo essere stato infetto, il residence “prende vita” condizionando gli abitanti che vivono al suo interno. Così che l’eleganza stilistica della scena, con ambienti puliti, sgombri, arredati con fare moderno, si sporca del germe che muta quegli appartamenti; a un tratto, come spettatori capiamo che non è tanto il parassita a rappresentare il pericolo del contagio, ma il fatto stesso di trovarsi all’interno di quelle mura. Siamo all’interno di un corpo malato, corrotto e irrecuperabile.2

Una volta contagiato anche l’ultimo degli abitanti, questi abbandonano l’edificio per propagarsi all’interno delle arterie della città: l’orda selvaggia – che non manca di rinviare all’immaginario zombie romeriano – potenzialmente può estendere il contagio all’intera città e con essa al mondo intero. Ed è proprio nell’ambientazione metropolitana che nel film successivo, Rabid – Sete di sangue (Rabid, 1977), si diffonde l’orrore. Se in Shivers il parassita permette ancora agli esseri umani un’esteriorità “normale”, con Rabid, sostiene Altobelli, la mutazione pare compiere un passo ulteriore intaccando anche l’aspetto esterno.

Anche in questo caso non mancano anaologie con gli zombie romeriani ma, scrive Gianni Canova nella sua monogrfia dedicata al canadese (Editrice Il Castoro, 20073) che se in un film come La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1968) di Geroge Romero «si ha una struttura centripeta che conduce tutte le creature risorte dalla tomba a concentrarsi attorno alla casa isolata che diventa il simbolo dell’ultima resistenza degli umani, Rabid sete di sangue presenta invece una struttura centrifuga che porta i personaggi ad allontanarsi dalla clinica Keloid, lungo un percorso narrativo che si sfrangia e si ramifica nel territorio urbano, seguendo i rigangoli capillari del propagarsi della malattia»4.

Anche in Rabid le ambientazioni assumono un valore simbolico: «la Keloid Clinic è il ventre che partorisce il mostro, dopo averlo tenuto in incubazione, esattamente come le Starliner Towers del film precedente; i viali della città di Montreal diventano flussi sanguigni dove si consuma la follia»5. L’esperimento scientifico – il trapianto di pelle necessario alla protagonista – diviene elemento mutante che, incontrollato e incontrollabile, dilaga in una città presentata come estensione del corpo della donna, ulteriore passo verso l’infezione dell’intero pianeta.

A ben guardare, sostiene Altobelli, Shivers e Rabid, nonostante l’apparenza, non sono poi così distanti da La promessa dell’assassino (Eastern Promises, 2007 ), ultima tappa di questo terzo itinerario. Si tratta, in questo caso, di un film costruito sulla pelle, un’epidermide solcata da tatuaggi, cicatrici e ferite che si fa testimone della storia dei personaggi attraverso un linguaggio che però, al pari delle diverse lingue che si intersecano e dei codici comportamentali delle diverse parti in lotta, risulta pressoché incomprensibile. Ancora una volta, in fin dei conti, sostiene lo studioso, si tratta di un film sulla convivenza di diverse identità all’interno di un unico corpo e di nuovo, suggerisce Cronenberg, la convivenza di più entità appare impossibile. Nel film ogni corpo è in qualche modo connesso a un altro e il regista racconta il legame tra i personaggi e tra gli spazi. «L’identità passa per forza di cose dal corpo, dice Cronenberg, ma passa anche […] dalle ferite che su quella pelle sono inferte. Sono loro – i segni, i tagli, i tatuaggi – a svelare l’identità. Ma cos’è diventato l’uomo, quando alla fine del percorso si è rivelato?»6.

Il quarto itinerario proposto dal volume – Alla Civic Tv per la proiezione di A Dangerous Method – parte da Videodrome (Id., 1983), un viaggio allucinatorio in cui la percezione dello spettatore si fonde con quella del protagonista, a sua volta ormai inestricabile dalla televisione in un intrecciarsi di piani che confonde il grado di mediazione dell’immagine. Chi guarda cosa? Attraverso quale mediazione? Quando per il protagonista, e per gli spettatori, la video-allucinazione ha iniziato a intrecciarsi, sovrapporsi, sostituirsi alla realtà? Se, riprendendo Marshall McLuhan, si pensa al monitor televisivo come a un’estensione del sistema nervoso umano, la distinzione tra i piani sembra allora farsi davvero impossibile.

In una celebre sequenza del film viene mostrato un talk show televisivo in cui O’Blivion «parla attraverso la televisione. Anzi, è lui stesso la televisione. Lo show televisivo, infatti, invita un televisore (!) che proietta l’immagine del professore che interagisce con gli ospiti come se fosse presente con loro»7. Lo spettatore, al pari dei personaggi, subisce un vero e proprio martellamento visivo fatto di schermi e richiami al concetto stesso di vedere e alla sua ambiguità. La realtà, suggerisce il film, è la nostra percezione della stessa e «per concepirla l’unico elemento sono le immagini. Se lo sguardo convince il nostro cervello che ciò che vediamo è vero, il corpo si adeguerà di conseguenza»8.

Il rapporto tra realtà e percezione del reale viene ripreso in eXistenZ (Id., 1999), che per certi versi rappresenta un aggiornamento di Videodrome, una fase successiva del processo di mutazione in atto in cui Cronenberg elimina ogni punto di riferimento per lo spettatore costretto ad accontentarsi di perdere atto di ciò che vede «alla ricerca di una via di uscita da quel corpo in cui, non si sa bene quando, come o perché, ci si è ritrovati»9.

Rispetto a Videodrome, secondo Altobelli, eXistenZ pare persino più inquietante in quanto ogni situazione mostrata viene percepita dallo spettatore come del tutto reale nel momento in cui si sta svolgendo e ciò perché, una volta che si accetta di entrare insieme ai protagonisti nel gioco, tutto può essere accettato. Forse, si potrebbe aggiungere, nel frattempo è cambiato, e parecchio, anche lo spettatore rispetto ai primi anni Ottanta… qualche “decennio televisivo” in più e massicce dosi di schermi sempre più indissociabili dal corpo hanno mutato drasticamente l’individuo e il livello di ciò che è disposto ad accettare nella fruizione10.

In eXistenZ Cronenberg, oltre alla percezione del reale, azzera persino lo spazio e il tempo (la protagonista a un certo punto si mette persino “in pausa”), «eXistenZ non inizia e non finisce, i suoi confini sono sfumati al punto da essere impercettibili: l’inizio di eXistenZ può tranquillamente essere considerata la sua fine, in un circolo infinito della percezione»11. Al termine della proiezione il dubbio di aver assistito a una mera allucinazione senza capo né coda può far capolino ed ecco allora che l’itinerario proposto da Altobelli ci conduce al film A Dangerous Method (Id., 2011) ove ci si trova a chiedersi cosa la protagonista femminile realmente veda e cosa no. Altobelli definisce l’opera un elegante «dramma della perversione» che narra del triangolo relazionale vissuto per qualche anno da Freud, Jung e la giovane Sabina Spielrein. «Pericolosi (dangerous) echi (method) della coscienza che, al netto dell’uso che ne vogliamo fare, porteranno comunque all’annientamento. I sogni, appunto, le visioni. Come quelle che avevano invaso la realtà in Videodrome e eXistenZ. Epiloghi concettuali iniziati in uno studio di psicanalisi»12.

Il quinto itinerario – In macchina. Cosmopolis e la fusione possibile – proposto da Altobelli prende il via da Veloci di mestiere (Fast Company, 1979), un film spesso considerato un corpo estraneo all’interno della produzione cronenberghiana ma che a suo modo, secondo lo studioso, risulta comunque utile per comprendere la poetica del regista canadese in quanto, pur essendo ancora ben lontani da quelle «intuizioni apocalittico/emotive» che si ritroveranno in Crash (Id., 1996), già in questo film si intravedono i germi di alcune tematiche ricorrenti nel cinema del canadese. «Il film è un’appendice che già mostra, dietro il rassicurante racconto della rivalsa di un corridore contro un sistema corrotto, tutti quei dispositivi tossici che andranno a insinuarsi nella poetica di Cronenberg e che porteranno all’ossessione morbosa (corporale e mentale) descritta in Crash»13. In quest’ultimo film Altobelli vede un’opera sull’incomunicabilità,

un’allarmante e lucida riflessione sulla natura umana e sul suo bisogno di esprimersi a un livello primordiale, usando il corpo e il sesso. È un film sussurrato dove i protagonisti subiscono i fatti che si susseguono con un atteggiamento passivo e remissivo; la loro unica reazione è dettata dal desiderio carnale dell’accoppiamento. Dall’illusione che il breve momento di estasi derivato da questo impulso possa far loro dimenticare le rispettive inquietudini, i malesseri, la sottintesa depressione che, in effetti, sembra caratterizzare tutti i personaggi.14

James Ballard, a proposito della sua prova letteraria, ne parla come del primo romanzo pornografico basato sulla tecnologia. D’altra parte anche il film che ne ha tratto Cronenberg tratta del rapporto perverso uomo/macchina, natura/tecnologia. «Ecco quindi un’altra contrapposizione impossibile: la natura (l’uomo, il sesso, il corpo) e la tecnologia (le macchine, che rappresentano anche il cosiddetto progresso) sono due entità inconciliabili»15. Tale fusione, sottolinea Altobelli, al pari di altre trattate dal canadese, vedono la ricerca della convivenza infrangersi sul desiderio del singolo individuo. Se in altre opere la razionalità capitolava sotto l’illusione di un orizzonte comune, «in Crash è l’istinto a prevalere e a far capitolare già per questo ogni possibilità di buon esito dell’incontro»16.

Pur chiamato a essere testimone delle perversioni dei personaggi, lo spettatore sembra restare, per quanto stupito, abbastanza indifferente di fronte alla sessualità esibita in Crash: «l’assenza di una vera struttura narrativa coinvolge anche noi come spettatori che vaghiamo, come fa Ballard, attraverso una serie di ambienti urbani e industriali»17. Nastri d’asfalto, garage ospedali… come nei primissimi film di Cronenberg – Stereo (1969) e Crimes of the Future (1970) – i protagonisti, e con essi gli spettatori, si spostano da un ambiente a un altro senza una logica particolare. In Crash al regista, sostiene lo studioso, sembra interessare cosa c’è “dietro” l’atto sessuale, più che quest’ultimo e qui abbiamo soprattutto disperazione e solitudine.

La città è l’altro corpo che viene stuprato, scorticato, scoperto totalmente. Cronenberg mostra le corsie stradali come mostrerebbe le arterie che scorrono sotto pelle. In quelle strade i personaggi diventano globuli rossi, sono cellule, piastrine pronte a defluire e a emergere quando qualcosa (la lamiera, il ferro) taglia quel corpo, quella pelle (la strada, la città). Come a dire: facevamo già parte di un tutto e non lo sapevamo. L’esito di una separazione è necessariamente la morte. Senza appello. E nel confronto tra vita e morte, non ci resta che la tragica fine di un’esistenza vissuta senza scopo.18

È in Cosmopolis (Id., 2012) – atto d’accusa senza appello nei confronti di un sistema che non riesce, non può, fare a meno di rende tutto moneta di scambio – che secondo Altobelli si assiste alla fusione desiderata in Crash: «il corpo è già all’interno della macchina, è già fuso in essa. […] è un corpo (visivamente) immateriale all’interno di un guscio (l’automobile) che lo irrobustisce fino a dargli quella forma che nella sua natura manca [in quanto] morto prima del tempo»19. Qua la carne diviene inconsistente; siamo di fronte a un fantasma alla ricerca di «una sua identità fisica lontana dall’involucro ipertecnologico della limousine in cui è costretto a vivere in una simbiosi che rimanda naturalmente a film come Crash o Veloci di mestiere, ma certamente anche alle mutazioni di La mosca, o alle coesistenze metafisiche di Videodrome»20.

L’ultimo tragitto tra le opere cronenberghiane proposto da Altobelli – A Hollywood, per Maps to the Stars – prende il via con M. Butterfly (Id., 1993), film in cui «il sesso è una liberazione, un atto naturale e anche, per la prima volta nel cinema di Cronenberg, sentimentale. Eppure il dramma è dietro l’angolo»21, forse perché, ancora una volta nulla è come pare. In questo film a mutare non è il singolo ma la coppia stessa. «La coppia di amanti dall’equivoca identità, sfocerà nella mutazione quando l’uomo diverrà la donna di cui (non) si è innamorato. È come se Cronenberg tentasse di rivelare cosa si nasconde sotto la (nuova?) carne. La pelle è un coperchio fatto per essere divelto dal furore passionale del sentimento»22.

In Brood – La covata malefica (The Brood, 1979), il regista mette in scena l’impossibilità di una famiglia di concretizzarsi come entità e lo fa attraverso un percorso a tappe allegorico disseminato di sottotesti. Nel film si è posti di fronte a immagini mentali che prendono vita e si danno a vedere, allucinazioni visive o percettive che attraversano la mente anche dei personaggi di Maps to The Stars (Id., 2014), punto d’approdo di questo ultimo percorso proposto da Altobelli. Questo ultimo film mette lo spettatore di fronte a un’umanità distorta quanto il sistema a cui appartiene e da cui è stata plasmata. Maps to the Stars insiste sulla necessità dell’essere umano di mostrarsi, sulla dipendenza dall’immagine che lo rappresenta e lo Star System hollywoodiano mostra qua di contenere al suo interno il germe dell’autodistruzione innescata dal desiderio di essere altro, dramma che, sostiene Altobelli, può facilmente essere esteso all’universo televisivo o dei social network.


 Serie completa Processi di ibridazione

 


  1. D. Altobelli, Human Fly. David Cronenberg e i luoghi della mutazione, Bakemono Lab edizioni, Roma 2020, p. 87. 

  2. Ivi, p. 89. 

  3. G. Canova, David Cronenberg, Editrice Il Castoro, Milano 2007. La monografia, uscita la prima volta nel lontano 1993, è stata  aggiornata più volte; in questo scritto si fa riferimento all’edizione del 2007. 

  4. Ivi, p. 30. 

  5. D. Altobelli, op. cit., p. 94. 

  6. Ivi, p. 100. 

  7. Ivi., p. 106. 

  8. Ivi, p.109. 

  9. Ivi, p. 114. 

  10. Cfr. V. Codeluppi, Vivere negli schermi. La nostra nuova esistenza all’interno dello spazio dei media, in C. Bordoni (a cura di), Il primato delle tecnologie, Mimesis, Milano-Udine, 2020. Si veda anche G. Toni, Processi di ibridazione. La carne, lo schermo e l’inner space contemporaneo, “Carmilla”. 

  11. D. Altobelli, op. cit., p. 117. 

  12. Ivi, p. 121. 

  13. Ivi, p. 128. 

  14. Ivi, p. 129. 

  15. Ivi, p. 130. 

  16. Ivi, p. 130. 

  17. Ivi, p. 132. 

  18. Ivi, p. 132. 

  19. Ivi, pp. 133-134. 

  20. Ivi, p. 134. 

  21. Ivi, p. 142. 

  22. Ivi, p. 145. 

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Nemico (e) immaginario. Processi di zombificazione ed umanità 2.0 https://www.carmillaonline.com/2017/02/23/nemico-e-immaginario-processi-di-zombificazione-ed-umanita-2-0/ Wed, 22 Feb 2017 23:01:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35755 di Gioacchino Toni

diaryofthedead«I Veri Zombi non hanno nulla di esteriormente orribile o mostruoso, ma hanno parvenze umane. Sono umani. Gli zombi siamo noi, l’umanità 2.0. Questi, i principali tratti distintivi: indifferenza agli stimoli esterni, assenza di volontà, di emozioni e di senso critico, istinto cieco ed egoistico di sopravvivenza, automatizzazione dei gesti e dei comportamenti, decervellamento, deresponsabilizzazione, conformismo, eterodirezione, smarrimento del senso del reale» Livio Marchese

In diverse produzioni audiovisive recenti il genere zombi sembra essere giunto al capolinea nel suo girare a vuoto e preoccuparsi, quasi esclusivamente, di forzare sempre più i limiti della rappresentazione dell’Orrore perdendo per strada [...]]]> di Gioacchino Toni

diaryofthedead«I Veri Zombi non hanno nulla di esteriormente orribile o mostruoso, ma hanno parvenze umane. Sono umani. Gli zombi siamo noi, l’umanità 2.0. Questi, i principali tratti distintivi: indifferenza agli stimoli esterni, assenza di volontà, di emozioni e di senso critico, istinto cieco ed egoistico di sopravvivenza, automatizzazione dei gesti e dei comportamenti, decervellamento, deresponsabilizzazione, conformismo, eterodirezione, smarrimento del senso del reale» Livio Marchese

In diverse produzioni audiovisive recenti il genere zombi sembra essere giunto al capolinea nel suo girare a vuoto e preoccuparsi, quasi esclusivamente, di forzare sempre più i limiti della rappresentazione dell’Orrore perdendo per strada alcune caratteristiche di critica radicale presenti nel genere sin dall’inizio. Livio Marchese nel suo breve saggio “La fabbrica degli zombi: da Caligari al Grande Fratello”, contenuto nel volume AA.VV., Critica Dei Morti Viventi. Zombie e cinema, videogiochi, fumetti, filosofia (Villaggio Maori Edizioni, 2016) [libro già affrontato su Carmilla nel corso della serie “Nemico (e) immaginario“], con un occhio di riguardo alle responsabilità dei media e dell’audiovisivo, indaga la trasformazione dalla figura del morto vivente alla luce di quella che può definirsi una mutazione dell’essere umano.

Lo scritto prende il via dall’analisi di White Zombie (L’isola degli zombies, 1932) di Victor Halperin, opera che porta per la prima volta gli zombi sul grande schermo e può essere considerato il film archetipo del genere. In tale film gli zombi sono individui resi dominabili e sfruttabili come forza-lavoro da stregoni vudù che li mantengono in uno stato di morte apparente. L’atmosfera del film, sostiene Marchese, rimanda al cinema espressionista tedesco degli anni Venti ed in particolare a Das Cabinet des Dr. Caligari (Il gabinetto del dottor Caligari, 1920) di Robert Wiene. La relazione tra cinema e zombi, secondo lo studioso, non si risolve però in una mera predilezione tematica o iconografica ma potrebbe, addirittura, essere di natura ontologica.

In una sequenza del film di Wiene ambientata in una fiera all’interno di un tendone nella cui oscurità, che rimanda alla sala cinematografica, «gli spettatori borghesi assistono allo spettacolo del morto vivente e interrogano l’onnisciente sonnambulo sul loro futuro. La risposta è inequivocabile: “morte!”. Vista da questa prospettiva, la sequenza appare portatrice di un presagio agghiacciante: lo spettatore, cercando la risposta alle proprie domande esistenziali nei “morti viventi”, nelle vuote parvenze, ottuse e bidimensionali che infestano lo schermo, va incontro a un destino funesto, finendo per assimilarsi ad esse. In altre parole, il cinema, o meglio, “certo” cinema zombifica lo spettatore, rendendolo un inerte automa. Lo diceva Buñuel, l’immagine in movimento è un’arma potentissima, tanto meravigliosa, quanto pericolosa. Agendo sugli stati psichici più profondi, essa può liberare e prolungare lo sguardo, quanto condizionarlo e obnubilarlo fino allo stupore catatonico. Il cinema è un’arte patogena, l’immagine una spora e il “complesso dello zombi” la malattia che affligge l’umanità del terzo millennio» (pp. 19-20). Da un certo punto di vista White Zombie, sin dai primi anni Trenta, mostra quel che sarebbe divenuta l’umanità.

Secondo Marchese la portata della mutazione dell’essere umano contemporaneo è esplicitata in maniera esemplare dal film The Last Man on Earth (L’ultimo uomo della Terra, 1964) di Ubaldo Ragona / Sidney Salkow, ispirato al romanzo I am Legend (Io sono leggenda, 1954) di Richard Matheson. Nel film tutto risulta minaccioso e lo stesso dottor Robert, l’ultimo esemplare della vecchia umanità, pur immune alla contaminazione, «è destinato a soccombere ai nuovi mostri eterodiretti, in quanto rappresentante di un passato ormai superato e da cancellare […] La conclusione ultrapessimista del film, che fa di Robert quasi una figura cristologica, suggerisce la tragica considerazione della necessità ma, al tempo stesso, dell’inutilità del pensiero-azione, che nulla può di fronte a un cambiamento così epocale. Da questa prospettiva, L’ultimo uomo della Terra appare come un terrificante apologo sulla Grande Mutazione» (p. 21).

La figura dello zombi irrompe sul finire dei tumultuosi anni Sessanta grazie a Night of the Living Dead (La notte dei morti viventi, 1968) di George Romero; da allora fino agli anni Ottanta del Novecento un certo cinema zombi mantiene la sua feroce critica nei confronti della società, del militarismo e di un certo uso della scienza. Successivamente ecco il rappel à l’ordre normalizzatore, ed al giro di boa del terzo millennio il genere zombie tende ad essere recuperato dal sistema in linea con «quella mutazione conformista che un po’ tutto il cinema di genere – e quello fantastico in particolare – sembra aver pagato all’apocalisse dello sguardo» (p. 22). Tutto ciò in linea con il rappel à l’ordre a cui è sottoposta l’intera società nel corso degli anni Ottanta.

28_DayDunque, sostiene Marchese, al filone haitiano-vudù, esauritosi, salvo qualche rara eccezione, attorno alla metà degli anni Sessanta, ed alla serie di film di (ed alla) Romero, contraddistinti da una feroce critica sociale, succede una terza ondata di cinema zombi inaugurata da 28 Days Later (28 giorni dopo, 2002) di Danny Boyle, film che non manca di richiamare The Crazies (La città verrà distrutta all’alba, 1973) di George Romero. Ad essere messa in scena nel film di Boyle è una realtà in cui gli esseri umani si trasformano in creature antropofaghe non appena venuti a contatto con agenti virali. Tale nuova ondata zombi è spesso associata al clima catastrofico, paranoico e d’incertezza diffusosi soprattutto dopo l’attacco alle Twin Towers, in cui entrano in causa anche l’invadenza dei media e la crisi economica.

Secondo lo studioso nella produzione cinematografica e televisiva dell’ultimo quindicennio, salvo rare eccezioni, la figura dello zombi ha perso tanto il fascino del filone haitiano, quanto la sferzante critica sociale e politica presente nell’ondata romeriana. Marchese accusa le produzioni più recenti di ripetere sostanzialmente il medesimo schema narrativo con poche varianti: l’irrompere dell’orrore nella quotidianità borghese, la catastrofe mostrata in diretta dalla tv, le città evacuate in un clima da fine del mondo, la pandemia, l’incubo del contagio e del contatto con l’“altro”, la dissoluzione di ogni ordine sociale, i problematici rapporti tra i superstiti…

«All’apice del suo successo planetario – la “zombitudine” ha valicato i margini del fotogramma ed è diventata una moda, quasi uno stile di vita (imperdibile l’interessantissimo documentario Doc of the dead di Alexander O. Philippe, 2013) –, bisogna rilevare come il cinema zombi post 11 settembre, sul piano etico ed estetico, si caratterizzi per una piattezza narrativa disarmante e per il conformismo delle soluzioni stilistiche, che sul piano strettamente iconografico appaiono spesso quasi ricalcate, in maniera a dir poco inquietante, sul modello delle riprese televisive di quel tragico evento» (p. 24).

Diary of the Dead (Le cronache dei morti viventi, 2007) di George Romero viene indicato da Marchese come un’interessante riflessione metalinguistica. La storia è quella di uno studente di cinema che, intendendo realizzare un film horror, finisce col trovarsi catapultato in un mondo in cui i morti tornano in vita attaccando i vivi e decide di sfruttare l’occasione per realizzare “un horror in presa diretta”. È il protagonista, Jason, ad essere un vero zombi: «malato di immagine e drogato di virtuale, si relaziona a un mondo che va in pezzi protetto dallo schermo della videocamera. Forte della convinzione di dover informare la gente su ciò che accade, ma non esitando ad aggiungere gli effetti sonori più sinistri al montaggio finale allo scopo di amplificare il terrore, perché “la verità a volte non basta”, Jason sconta il delirio d’onnipotenza e l’egomania di coloro che nutrono una fiducia ottusa nel virtuale, nella falsa democraticità della Comunicazione, credendo di poter salvar l’umanità postando l’ennesimo video su internet, seduti nel buio della loro cameretta» (p. 27). Il film coglie e restituisce il nauseante disorientamento derivato dall’eccesso di immagine a cui si è sottoposti nella società contemporanea contraddistinta da un’ossessione generalizzata per la registrazione di immagini e relativa condivisione attraverso i media.

«Diary of the dead è anche un interrogativo nichilista su cosa significhi fare cinema oggi, all’epoca dell’apocalisse dello sguardo, e su quale senso possa avere continuare a raccontare storie, a inventare immagini, a inflazionare con ulteriori cine-frammenti un mondo nel quale la verità e la realtà fattuale appaiono non più conoscibili e scomposte in innumerevoli e non verificabili ipotesi-di-realtà che si annullano a vicenda, affogando nel vortice costante di un rumore di fondo frastornante che ha come esito ultimo l’indifferenza di fronte al reale, il sonnambulismo percettivo, quella morte dello stupore che coinvolge ormai tutti quanti, produttori e fruitori d’immagini» (p. 28).

Marchese risulta molto severo nei confronti della produzione audiovisiva zombi più recente tanto da salvare quasi soltanto il buon vecchio Romero che, con opere come Land of the Dead (La terra dei morti viventi, 2005) e Survival of the dead (L’isola dei sopravvissuti, 2009), dimostra di saper ancora padroneggiare la metafora del morto vivente per riflettere sulla deriva della società e sulla condizione umana.

only-lovers-left-alive«Spia sintomatica del comune sentire dell’umanità del terzo millennio, il cinema zombi non va oltre la remunerativa ambizione di registi e produttori d’immagini di soddisfare il bisogno di forzare sempre più i limiti della rappresentazione dell’Orrore, da parte di un pubblico che in essa trova sfogo catartico e compiacimento. A fronte di tanto eccesso di ostentazione, vedere tutto per non pensare a nulla, gli zombi più credibili, i Veri Zombi, sono quelli dell’ultimo capolavoro di Jim Jarmusch, Solo gli amanti sopravvivono (2013). Che non si vedono quasi mai e che compaiono solo nei discorsi dei protagonisti, due raffinati vampiri che vivono isolati dal mondo, difendendo gelosamente il loro spazio vitale dalla contaminazione con gli “zombi”, gli esseri umani, che ritengono colpevoli di aver distrutto la natura, rinnegato la vera arte, pervertito la scienza e smarrito il senso del bello» (pp. 29-30). Dunque, gli zombi siamo noi nel manifestare «indifferenza agli stimoli esterni, assenza di volontà, di emozioni e di senso critico, istinto cieco ed egoistico di sopravvivenza, automatizzazione dei gesti e dei comportamenti, decervellamento, deresponsabilizzazione, conformismo, eterodirezione, smarrimento del senso del reale» (p. 30).

Secondo Marchese ormai il cinema che parla di “veri zombi” non ha a che fare tanto con i film, più o meno truculenti, che si ostinano a mettere in scena orrorifiche creature barcollanti, bensì è quello «che racconta gli effetti della Grande Mutazione sull’evoluzione della natura umana, spingendoci a riflettere in particolar modo sulla responsabilità dei media e dell’audiovisivo nel compimento della profezia caligariana» (p. 30) ed a tal proposito si sofferma su tre film: Benny’s video (1992) di Michael Haneke, Tony Manero (2008) di Pablo Larrain e Reality (2012) di Matteo Garrone.

L’opera di Haneke mostra gli effetti del bombardamento d’immagini sul comportamento umano. Benny, il protagonista del film, che mantiene i contatti con mondo quasi soltanto in maniera indiretta attraverso un monitor che riproduce la realtà esterna all’abitazione e passa buona parte della giornata visionando film horror, uccide una coetanea da poco conosciuta, anch’essa del tutto assuefatta alle immagini cruente. «Dopo aver trascinato il corpo inerte per la stanza, Benny asciuga il sangue sul pavimento con un lenzuolo. Quando lo riappende al suo posto, dopo averlo lavato, esso non reca più alcuna traccia: è come uno schermo televisivo sul quale scorrono gli orrori più inenarrabili senza lasciare impronta. Le immagini, nell’era della Comunicazione, scorrono in un flusso costante, amorfo e volatile, ma la loro eredità psichica ed emotiva è persistente ed esiziale» (p. 31).

Il film di Pablo Larrain è ambientato nel Cile di fine anni Settanta e racconta la storia di Raúl Peralta, un ballerino ossessionato dalla figura di Tony Manero protagonista di Saturday Night Fever (La febbre del sabato sera, 1977) di John Badham. La macchina da presa segue Peralta «per le strade fatiscenti di una città avvolta da una cappa plumbea, opprimente e claustrofobica, in un contesto umano degradato, privo di tessuto connettivo e dedito solo alla sopravvivenza. Il punto di vista dello spettatore coincide con quello di Raúl, che come un animale braccato è indifferente a tutto ciò che non riguarda direttamente il conseguimento del suo scopo» (pp. 31-32). Il ballerino intende partecipare ad uno show televisivo in cui si premiano i sosia perfetti dei personaggi famosi e non esita ad uccidere chi sembra frapporsi alla sua identificazione con Tony Manero. «Identificarsi con i divi dello spettacolo, riprodurne gesti, movimenti e adottarne il look, rappresenta l’unica via di fuga in una società che non lascia spazio all’individuo. La massima mortificazione della libertà individuale provoca schizofrenicamente ulteriore desiderio di omologazione» (p. 32).

Anche nell’opera di Garrone siamo alle prese con un personaggio ossessionato dal raggiungimento della notorietà televisiva. Nel film, ambientato a Napoli, il pescivendolo Luciano decide di partecipare alla selezione per il Grande Fratello e nella snervante attesa di risposta il «sogno di fama e di successo s’impossessa di lui sotto forma di un’ossessione maniacale che può trovare sbocco solo nella dissociazione psichica. Da questo punto di vista, Reality è un film davvero terrificante. Garrone racconta l’alterazione nella percezione della realtà prodotta dalla società dello spettacolo su un’umanità fiaccata da desideri, sogni di successo, frustrazioni, ansie, paure. Non è un film sulla realtà virtuale, ma sulla virtualità della realtà in un mondo dominato dal culto dell’Apparire, in cui il Grande Fratello ha sostituito Dio ed è la televisione a fornire quella speranza d’immortalità che un tempo era promessa dalla fede o dalle ideologie» (pp. 32-33).

È dunque questa “umanità 2.0”, totalmente plasmata dall’immaginario dei media a mostrare, secondo Marchese, i segni inequivocabili della zombificazione in atto, se non avvenuta.

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Nemico (e) immaginario. Mutazioni nell’immaginario dello zombi https://www.carmillaonline.com/2017/02/15/nemico-e-immaginario-mutazioni-nellimmaginario-dello-zombi/ Wed, 15 Feb 2017 22:30:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35731 di Gioacchino Toni

cover_critica-dei-morti-viventi Il rappel à l’ordre contemporaneo. Dalla paura della morte all’ossessione della malattia, dalla critica radicale ad una visione conservatrice

«lo zombi-morto appartiene a uno stadio dell’immaginario (e dei media) – a un frame – che ormai appare superato, e al contempo a un momento della storia culturale occidentale in cui il tema della morte sta per essere definitivamente messo da parte […] per lasciare il posto a quello della malattia, ingigantito nella forma della pandemia» Antonio Lucci

«il frame-zombi, pur rimanendo, subisce un reframing radicale, passando dall’essere incarnazione di [...]]]> di Gioacchino Toni

cover_critica-dei-morti-viventi Il rappel à l’ordre contemporaneo. Dalla paura della morte all’ossessione della malattia, dalla critica radicale ad una visione conservatrice

«lo zombi-morto appartiene a uno stadio dell’immaginario (e dei media) – a un frame – che ormai appare superato, e al contempo a un momento della storia culturale occidentale in cui il tema della morte sta per essere definitivamente messo da parte […] per lasciare il posto a quello della malattia, ingigantito nella forma della pandemia» Antonio Lucci

«il frame-zombi, pur rimanendo, subisce un reframing radicale, passando dall’essere incarnazione di un immaginario resistenziale, ad essere supporto di un’immagine della società connotata da caratteri appartenenti al mondo concettuale conservatore» Antonio Lucci

Riprendiamo la serie “Nemico (e) immaginario” grazie ad alcuni spunti interessanti offerti dal breve saggio “Non pensare allo zombi! Strutture narrative e metamorfosi della non-morte” di Antonio Lucci contenuto nel volume AA.VV., Critica Dei Morti Viventi. Zombie e cinema, videogiochi, fumetti, filosofia (Villaggio Maori Edizioni, 2016), ove sono presenti anche scritti di Rocco Ronchi, Livio Marchese, Tommaso Ariemma, Tommaso Moscati, Emiliano Cinquerrui e Cateno Tempio.

Lucci ripercorre la trasformazione dell’immaginario degli zombi costruita dagli strumenti narrativo-mediatici contemporanei ripercorrendo al contempo il tipo di frames che tale immaginario veicola e rafforza. Nonostante George Romero trasformi, sin dalla fine degli anni Sessanta, decisamente la figura dello zombi rispetto alle sue origini haitiane, lo studioso individua tre elementi che restano sufficientemente costanti: gli zombi sono morti che tornano in vita,  sono sempre più di uno e sono una massa indifferenziata.

Lo zombi haitiano messo in scena dal film White Zombies (L’isola degli zombie, 1932) di Victor Halperin è esplicitamente vittima del sistema capitalista; è un morto che viene risvegliato da uno stregone che lo priva di volontà per renderlo schiavo impotente mancante di bisogni e desideri ed è impossibile da redimere. L’immaginario dello zombi haitiano è costruito sul terrore per una schiavitù che rischia di essere eterna, tanto che nemmeno con la morte l’individuo riesce ad emanciparsi da essa. Si tratta di un immaginario che prospetta uno stato atemporale in cui esiste soltanto il lavoro ed il comando.

«Questo elemento – lo zombi come paradossale controfigura dell’oppresso – resterà sempre, più o meno dichiaratamente, come elemento caratterizzante il frame-zombi. […] Gli zombi-drogati delle piantagioni della HASCO […] erano lavoratori senza forza-lavoro, in quanto per essere forza-lavoro, in una prospettiva marxiana, bisogna essere innanzitutto forza, ossia qualcosa che vive, e che vivendo eccede il lavoro, si ricarica delle proprie energie, della propria vitalità, dopo, malgrado e al di là del proprio impiego nell’attività produttiva. Lo zombi haitiano, privato anche di questa potenzialità produttiva, non è più né forza-lavoro (ma solo lavoro) né proletariato, in quanto privato persino della potenzialità di creare prole, di essere vita che perpetua sé stessa, ma pura morte, nuda morte che cammina: walking dead. Lo zombi – incarnazione visiva del ritorno del rimosso freudiano – si vendicherà di questa schiavitù preoriginaria nelle sue incarnazioni successive, che da un lato renderanno la figura dello zombi un emblema della critica al capitalismo, mentre dall’altro esso diventerà una macchina da riproduzione, un prole-tario nel senso letterale del termine: un ente nel cui essere ne va della propria produzione e riproduzione» (pp. 72-73).

Se il film Night of the Living Dead (La notte dei morti viventi, 1968) di George Romero può essere interpretato in chiave antirazzista, con The Dawn of the Dead (Zombi, 1978) di George Romero è esplicatamene l’immaginario capitalista ad essere messo in discussione e, secondo lo studioso, in questo film mutano alcune caratteristiche fondanti del frame-zombi: «se, infatti, l’idea originaria per cui lo zombi porta in sé un potenziale critico nei confronti delle strutture di potere esistenti era già presente in nuce nella figura della mitologia haitiana (lì, come visto, la critica alla schiavitù si esprimeva indirettamente come critica nei confronti del malvagio stregone-schiavista, simbolo del padronato bianco), essa si presenta ora con una forza sempre maggiore nelle trasposizioni cinematografiche romeriane» (p. 74). In realtà già sul finire del primo film di Romero, al di là della critica al razzismo, si trovano alcuni elementi che resteranno costanti nella produzione romeriana, come la critica nei confronti di governanti e militari palesemente incapaci di proteggere la popolazione nelle situazioni di pericolo.

«L’inoperosità dello zombi diventa in questo film paradigmatica (gli zombi sono pura “potenza di non”, una potentia negativa per eccellenza, in quanto il loro agire non crea mai nulla, nessun prodotto, ma solo l’opposto di un prodotto, un non-prodotto, vale a dire la contraddizione in atto che è il morto vivente) assieme al rovesciamento della sua posizione proletaria. Se – come visto – lo zombi haitiano era deprivato sia della sua inoperosità (base di qualsiasi forza, anche di quella produttiva) sia della sua capacità procreativa di generazione e riproduzione, lo zombi romeriano – al contrario – rappresenta l’oppresso nel momento della sua rivolta e propagazione: gli zombi romeriani sono (non-) morti che creano altri, potenzialmente infiniti, seguaci della loro stessa non-morte, portando così alle sue conseguenze estreme, critiche e massime il proprio potenziale prole-tario. Gli zombi, dunque, mutano con Romero – in maniera importante anche se non direttamente percepibile – le coordinate-base dei loro frames di riferimento: restano massa, ma da asservita diventano soggiogante, non sono più in potere di un padrone, ma fanno parte di un movimento eminentemente acefalo, collettivo e organizzato “dal basso” nella propria assenza di opera» (pp. 75-76).

28-days-laterUna nuova mutazione dell’immaginario zombi, sostiene Lucci, ha a che vedere con «la teoria del complotto e l’ansia sociale nei confronti dei possibili risvolti tanatologici (e tanatopolitici) della medicalizzazione sempre più evidente della cosa pubblica» (p. 76). Secondo lo studioso è a partire da 28 Days Later (28 giorni dopo, 2002) di Danny Boyle che tale filone diviene il nuovo standard per il genere zombi, anche se in realtà nasce insieme alle prime opere di Romero, basti pensare a The Crazies (La città verrà distrutta all’alba, 1973). «Fin dall’inizio, quindi, potremmo dire che nella testa del creatore dello zombi sul grande schermo, e più in generale nell’immaginario collettivo, lo zombi e l’infetto sono l’uno il Doppelgänger dell’altro, camminano – claudicanti – assieme» (p. 77).

Dunque se da un lato lo zombi è un morto che ritorna, dall’altro è un vivo malato. «Le due figure non possono mai totalmente coincidere: a livello cinematografico, infatti, vi è piuttosto una sovrapposizione iniziale che diviene poi una staffetta tra i due generi, per finire con una sostituzione praticamente totale […] lo zombi-morto appartiene a uno stadio dell’immaginario (e dei media) – a un frame – che ormai appare superato, e al contempo a un momento della storia culturale occidentale in cui il tema della morte sta per essere definitivamente messo da parte – sia nel dibattito pubblico che nelle angosce che dominano le rappresentazioni collettive – per lasciare il posto a quello della malattia, ingigantito nella forma della pandemia» (pp. 77-78).

A partire da 28 Days Later, sostiene Lucci, le narrazioni insistono nell’indicare l’origine degli zombi nella contaminazione da virus, solitamente derivante da un esperimento militare o da un atto terroristico, e ciò determina un allontanamento dell’immaginario zombi dalle sue origini ove veniva data importanza alla tematica della morte ed a quella del lavoro e della sottomissione. La variante contemporanea dello zombi tende piuttosto a concentrarsi sullo zombi infetto che spesso perde la proverbiale goffaggine e lentezza per divenire un corridore affamato, dunque una perfetta incarnazione dei valori della società capitalistica realizzata.

Lo zombi contemporaneo, lo zombi-infetto, non è più un morto che ritorna e se «il potenziale critico dello zombi-morto si esprimeva per contrasto metaforico (gli zombi erano gli schiavi, o le vittime incoscienti – e al fondo innocenti dell’innocenza propria dei morti – delle macchinazioni militari o governative), gli zombi-infetti sono sempre più spesso solo la molla d’innesco di film che hanno al proprio centro un’antropologia pessimistica, e che hanno come fine quello di mostrare come – in una società resettata, in cui le istituzioni collassano e tornano al punto zero, grazie a o per colpa degli zombi – l’essere umano sia il vero mostro» (p. 79).

Lucci sottolinea come nelle recenti produzioni audiovisive, nonostante lo zombi-infetto sia tale a causa di un virus propagato, più o meno volontariamente, da altri, l’accento tende ad essere posto non tanto sui rapporti tra esseri umani e zombi, quanto piuttosto sulle dinamiche intercorrenti tra i gruppi umani dopo l’apocalisse. «In questo modo, mostrando la crudeltà dell’animale umano allo stato di natura, il genere si rovescia da cultural-critico in conservatore: vengono, infatti, sempre più affermati i valori della famiglia, del gruppo, della leadership (un tormentone, nei film del genere, la domanda “Who is in charge?”, “Chi comanda qui?”), della violenza “giustificata”, della sopravvivenza del più “adatto”. In questo punto il frame-zombi, pur rimanendo, subisce un reframing radicale, passando dall’essere incarnazione di un immaginario resistenziale, ad essere supporto di un’immagine della società connotata da caratteri appartenenti al mondo concettuale conservatore» (pp. 79-80).

Nella serie di fumetti The Walking Dead, da cui è tratta l’omonima serie televisiva, vi è un momento in cui esplicitamente la narrazione dello zombi-morto finisce col coincidere con quella dello zombi-infetto: «nel mondo di TWD un’infezione dall’origine sconosciuta ha colpito tutti in potenza, ma il divenire-zombi si attualizza solo una volta che (non importa come) si muore. Dunque l’infezione (preoriginaria) e la resurrezione (necessaria e inevitabile, come in un’inevitabile realizzazione postmoderna del dogma cristiano) finiscono per coincidere in un’unica narrazione, dove la teoria del complotto fa da sfondo. TWD riesce così, da un lato, a rimanere una serie paradossalmente “mortalista” (dove cioè la morte svolge ancora un ruolo portante nella determinazione dello zombi, in pieno stile romeriano, anche se affiancata dall’idea della zombificazione come risultato di un virus), anche laddove […] la narrazione dello zombi-infetto sposta l’accento più sui rapporti umani e sulle implicazioni delle macchinazioni (complottiste) delle entità statali nell’epoca pre-apocalisse. Questo punto (il “mortalismo”) è di particolare rilevanza in TWD, perché, paradossalmente, fa “rientrare” lo stato d’eccezione che l’outbreak, per definizione, crea: nel mondo di Rick Grimes e della sua compagnia, infatti, gli zombi (ossia la presenza quotidiana della morte) sono la normalità, la morte che essi incarnano e rappresentano è inevitabile… così come necessariamente, anche per noi, la morte è, e non può che essere» (pp. 80-81).

A differenza di ciò che avviene nelle narrazioni romeriane, in The Walking Dead gli zombi sembrano essere divenuti parte della normalità. A tal proposito Lucci si sofferma sull’episodio intitolato “The Grove” (n. 14 – Stagione 4) in cui la piccola Lizzie, aggregatasi a Carol dopo aver perso la madre, si dimostra incapace di considerare gli zombi ontologicamente diversi dagli umani. Tale logica appare inconcepibile ai personaggi adulti e, attraverso essi, tende a risultare assurda anche allo spettatore. «In realtà, dal punto di vista logico, l’atteggiamento di Lizzie è perfettamente coerente con le coordinate ontologico-esistenziali del mondo in cui sta crescendo: gli zombi sono (in un modo del tutto peculiare, per noi inconcepibile) persone, fanno parte della realtà, di quella determinata realtà, è impossibile ignorarli, e – soprattutto per chi conosce solo quel mondo, come i bambini, appunto – ghettizzarli ontologicamente, come un’anomalia che non va accettata in alcuna maniera, appare parimenti assurdo. La paradossale figura di Lizzie rappresenta l’interiorizzazione parossistica delle categorie del mortalismo assoluto che la presenza della morte entificata (ossia dello zombi) porta nel proprio orizzonte logico». (pp. 81-82).

Nelle narrazioni delle serie televisive, che hanno tempi narrativi lunghi, le categorie logiche, ontologiche ed etiche, constata Lucci, mutano facilmente rispetto alla realtà pre-apocalittica ed il genere zombi (sia nella variante dead che in quella dell’infetto) non può che mettere in scena strutture sociali e morali trasformate mentre nei film, che hanno tempi di narrazione meno dilatati, ed il racconto tende a svilupparsi a ridosso dell’apocalisse, si possono più facilmente esporre elementi di critica culturale, mostrando gli esseri umani in balia di situazioni estreme. «Laddove l’apocalisse diventa uno stato acquisito, essa viene normalizzata, e la funzione della narrazione-horror quale esperimento mentale viene meno» (p. 82).

the-walking-deadFacendo riferimento alla puntata intitolata “Them” (n. 10 – Stagione 5) lo studioso si sofferma su una frase pronunciata da Rick Grimes: “We are the walking dead!”. Con tale affermazione si ha il superamento del dualismo tra zombi-morto e zombi-infetto; l’uomo e lo zombi finiscono col coincidere. E non è casuale, continua Lucci, che tale frase venga pronunciata dopo lo scontro tra il gruppo di Grimes e gli abitanti di Terminus, che intendevano sperimentare un’utopia post-apocalittica accogliente ed avendo dovuto far ricorso alla violenza per difendere la propria libertà, si sono poi trasformati in un gruppo militarizzato incline al cannibalismo.

Dunque, conclude Lucci, l’affermazione “We are the walking dead!” «è vera non solo perché ogni vivente, nel mondo di TWD, è già sempre infetto (senza contare che – anche prima dell’infezione – ogni vivente porta in sé la propria morte), ma anche e soprattutto perché in un mondo dove la resurrezione è avvenuta senza giudizio, tutti – vivi e morti – sono zombi, e tutto è permesso. I cannibali di Terminus, al fondo, così come Lizzie, sono abitanti perfetti di un mondo in cui le coordinate storiche ed etiche di riferimento non possono che essere mutate, e dove gli ancoraggi della morale pre-apocalisse (ad esempio concetti come “persona”, “comunità”, “fratellanza”, “onore”, ecc.) perdono tutto il loro valore. Anche qui, nella variante post-apocalittica e post-moderna dello stato di natura hobbesiano, il genere zombi perde il suo valore cultural-critico, normalizzandosi, e diventando anzi conservatore: vengono rimpiante quelle istituzioni che invece l’esperimento mentale dell’apocalisse metteva radicalmente in questione. Infatti, in un mondo dove tutto è permesso, dove non c’è Dio, e la prova di questa assenza è (al contrario di quello che sosteneva San Paolo) proprio l’avvenuta resurrezione dei morti, rimane solo la speranza che arrivi un qualche Leviatano (nella forma militarizzata dell’esercito o in quella tecnocratica di una cura), in quanto Deus ex machina, a salvarci» (p. 82).


Qua l’intera serie “Nemico (e) immaginario

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Nemico (e) immaginario. Il ritorno del mostruoso tra cattiva coscienza coloniale e neocolonialismo https://www.carmillaonline.com/2016/09/20/nemico-e-immaginario-il-ritorno-del-mostruoso-tra-cattiva-coscienza-coloniale-e-neocolonialismo/ Tue, 20 Sep 2016 21:30:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33294 di Gioacchino Toni

la-hordeNel corso della serie “Nemico (e) immaginario” abbiamo sottolineato come nelle diverse produzioni audiovisive di norma lo zombie non sia identificato come individuo quanto piuttosto come massa indifferenziata esattamente come vengono presentati e trattati i migranti che sbarcano sulle coste europee prontamente  concentrati in spazi di isolamento all’interno o ai confini della “Fortezza Europa”. Nella più recente rappresentazione distopica, ove il carnefice è artefice della disumanizzazione schiavista, la memoria della violenza sembra riemerge materializzandosi in corpi dalla brutale aggressività.

Continuiamo la nostra serie “Nemico (e) [...]]]> di Gioacchino Toni

la-hordeNel corso della serie “Nemico (e) immaginario” abbiamo sottolineato come nelle diverse produzioni audiovisive di norma lo zombie non sia identificato come individuo quanto piuttosto come massa indifferenziata esattamente come vengono presentati e trattati i migranti che sbarcano sulle coste europee prontamente  concentrati in spazi di isolamento all’interno o ai confini della “Fortezza Europa”. Nella più recente rappresentazione distopica, ove il carnefice è artefice della disumanizzazione schiavista, la memoria della violenza sembra riemerge materializzandosi in corpi dalla brutale aggressività.

Continuiamo la nostra serie “Nemico (e) immaginario” ripratendo da una scena del film La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1986) di George Romero in cui l’eroe nero viene scambiato per uno zombie ed ucciso dagli uomini bianchi. Si tratta di un errore “del tutto comprensibile”, visto che nella società bianca il nero è uno zombie, è una presenza priva di soggettività. Quello subito dal personaggio nero può dirsi dunque un processo di de-umanizzazione ed a ben guardare è il medesimo processo a cui sono sottoposti i migranti sugli schermi televisivi e fuori da essi.

Nel saggio di Gaia Giuliani, Zombie, alieni e mutanti. Le paure dall’11 settembre a oggi (Le Monnier, 2016), meritoriamente recensito da Luca Cangianti nel suo “I mostri dell’accumulazione originaria”, l’autrice ha, tra le altre cose, particolarmente approfondito il ritorno del mostruoso tra cattiva coscienza coloniale e neocolonialismo. Il «nemico si manifesta come l’Altro e l’Altra esterni, mostrificati, deumanizzati, che si moltiplicano all’infinito, che non cessano mai di attrarre/sbarcare e opprimere l”umanità’ con la propria invadenza o con la propria incontrollabile ‘pazzia’ e/o sete di vendetta. Egli è l’Altro assoluto che ha attraversato le acque per venire a capovolgere una nave già piena, come nel caso dei sopravvissuti al disastro del 3 ottobre 2013 al largo di Lampedusa, o in quello dei pescatori di perle (migranti irregolari cinesi) che muoiono nel totale silenzio mediatico al largo delle coste britanniche […] È l’Altro-assoluto contro cui la società – quella fatta di ‘simili’ per cultura, religione, spirito democratico e, parrebbe conseguirne, appartenenza razziale – si rinsalda e si muove compatta» (pp. 10-11).

La studiosa ricorda come contemporaneamente all’appello alla solidarietà democratica, europea, occidentale, contro l’attacco alla redazione di “Charlie Hebdo” del gennaio 2015, in difesa della libertà d’espressione, nelle società occidentali è stata riadattata «la narrazione dello scontro di civiltà contro i ‘cattivi extraterrestri’ (gli stranieri simmeliani trasformati in potenziali criminali) e lungo il perimetro degli spazi nazionali e comunitari si rafforzano le misure di protezione delle frontiere contro l’immigrazione» (p. 11). Secondo Giuliani è esemplare l’intreccio francese tra “costruzione dell’Altro-assoluto” e “costruzione del Sé nazionale”: un paese dal violento passato coloniale plurisecolare contraddistinto da un’amnesia di Stato a proposito dello schiavismo e dal riprodursi di una narrazione istituzionale di stampo coloniale della “missione civilizzatrice” e del Progresso. Nel saggio, a tal proposito, si ricorda come la legge francese n.2005/158 del 23 febbraio 2005, nell’articolo 4, richieda espressamente che agli studenti della scuola dell’obbligo venga spiegato il «ruolo positivo della colonizzazione francese […] specialmente in Nord Africa».

Convinta dell’idea che il mostruoso rimandi, a maggior ragione oggigiorno, «alla mutazione interna dell’organismo umano e all’incapacità cartesiana di ristabilire il controllo su di essa» (p. 12), Giuliani definisce l’alterità (alieno/a, non-morto/a, mutante, cyborg ecc.) come post-umana. Inoltre, la studiosa definisce neocoloniale il tentativo di ristabilire il controllo su tutto ciò che è mutato, producendo alterità, trasgredendo alle regole della razionalità sovrana.

Nel saggio si ricorda come la narrazione distopica non abbia mancato di soffermarsi sull’ambivalenza della mutazione determinata dalla scienza e dalla tecnologia, a tal proposito si può far riferimento, ad esempio, alla produzione cinematografica di David Cronenberg degli anni Settanta ed Ottanta o, nel decennio successivo, a film come 12 Monkeis (1995) di Terry Gilliam od ancora, nel nuovo millennio, ad opere come I am Legend (2007) di Francis Lawrence, District 9 (2009) di Neill Blomkamp e World War Z (2013) di Marc Forster.

Esiste un’evidente continuità tra il “subumano” proprio del periodo coloniale e schiavista ed il “non-umano” o “post-umano” neocoloniale; in entrambi i casi la sua eliminazione solleva da responsabilità e lo sterminio diventa “naturale” nel suo essere presentato come la “soluzione finale” che permette il ritorno ad un’ontologia di un particolare tipo dell’umano di nuovo al centro dell’universo. Molte narrazioni recenti insistono sul fatto che il non-umano, o post-umano, conviva già con l’umano e tale convivenza, sostiene la studiosa, rimanda «alla codificazione della cosiddetta ‘società multirazziale’ del mondo reale, con le sue divisioni e contraddizioni sociali e culturali» (p. 16).

cover_zombie_alieni_e_mutanti_giulianiRifacendosi ad «una prospettiva genealogica che tende a rintracciare la paura nella storia delle sue rappresentazioni e dei suoi significati a partire dalla modernità, dalla nascita dello Stato nazione e dagli albori del movimento coloniale delle potenze europee verso ovest» (p. 18), il saggio affronta tematiche che vanno dal “ritorno del mostruoso” al “rapporto tra modello multiculturale ed Alterità assoluta” (tra “normalizzazione della diversità” e costruzione di una “diversità inconciliabile”), dalle “fantasie di bianchezza” presenti nelle narrazioni della catastrofe (utopiche e distopiche) alla “cittadinanza emotiva” concentrata «sull’incontro con l’alterità da parte delle diverse incarnazioni (culturali, sociali istituzionali) della ‘norma bianca’ in Europa e nelle ex colonie di popolamento» (p. 19).

Da parte nostra, in questo scritto, ci limiteremo alla questione del “ritorno del mostruoso” – affrontato dall’autrice nel primo capitolo del volume – rimandando per le altre questioni trattate dal denso ed interessante saggio al quadro d’insieme ricostruito nella già citata recensione stesa da Luca Cangianti [su Carmilla].

Giuliani legge alcune figure del cinema di genere horror e dintorni come allegorie della violenza coloniale e del suo ripresentarsi attraverso narrazioni distopiche sotto le sembianze di morti viventi. In generale il mostruoso coincide con la rappresentazione della finis mundi e se tale funzione può essere intesa come componente importante nella costruzione della “comunità antropologica”, nel corso dei secoli, sostiene la studiosa, si è strutturata nei termini dei confini dell’Ecclesia cristiana e, nella modernità, nei termini della separazione cartesiana e rinascimentale tra conoscente e conosciuto. Il satanico, bestializzato dall’iconografica della Scolastica sino a metà del Trecento, viene incorporato nelle leggende dei viaggiatori cinquecenteschi che toccavano i lontani territori del Pacifico, africani, caraibici, amazzonici… fino al Calibano shakespeariano. Ancora a cavallo tra Otto e Novecento Cesare Lombroso colloca proprio a tali latitudini la “barbarie calcificata” inestirpabile, incline al cannibalismo ed in epoca ancora più recente, ricorda Giuliani, sopravvivano tracce di tali “storie antropologiche” utili all’auto-rappresentazione dell’occidente che si vuole civilizzato e civilizzatore, si pensi a tal proposito il film Cannibal Holocaust (1980) di Ruggero Deodato.

In età rinascimentale il cannibalismo (vero o presunto) dei nativi è inteso come prova evidente della loro “bestialità” o sottomissione all’anti-Cristo. La mostruosità del cannibalismo gioca un ruolo importante nella legittimazione del primo colonialismo divenendo “l’estremo male” da combattere in funzione dell’edificazione dell’Utopia. La bestia umana deve essere eliminata o sottomessa «alle leggi della Cristianità, dell’istituzione politica e, infine, del capitale […] La conquista e la realizzazione di nuove società abitate solo dagli elementi migliori (cristiani, bianchi e proprietari) necessitava di un’”accumulazione originaria” nel senso più marxiano del termine, ossia, da un lato, la cannibalizzazione della forza lavoro, il suo addomesticamento mediante lavoro servile o schiavo» (p. 27). Ed è proprio a questo secondo fine «che adempierà la costruzione di un nuovo mostruoso (lo/la schiavo/a ‘negro’, il coolie e il/la migrante ‘bruna’ del Mediterraneo, della Cina e dell’Asia meridionale sovente descritti mediante riferimenti a bestie ed insetti) utile a dividere e governare la forza lavoro mediante statuti (razziali) differenziali» (p. 27).

La donna sin dal Medioevo viene collocata tra le mostruosità per poi divenire nell’epoca del razionalismo settecentesco, dell’imperialismo e della moralità vittoriana, «la diversità assoluta all’interno degli spazi domestici dell’intimità borghese e della sua riproduzione. Diverrà non solo l’oggetto di violenze mediche, culturali e di polizia […] ma la sua diversità diverrà uno dei dispositivi di inferiorizzazione all’interno della comunità coloniale e imperiale della Modernità» (p. 27).

Dunque, continua Giuliani, il mostruoso è il prodotto della cattiva coscienza coloniale che si ripresenta a noi tramite la figura del non-morto, è il Calibano che si ripresenta per vendicarsi dello stigma e della violenza. È la “coscienza nera” che si incarna sottraendosi alla rimozione dell’esperienza coloniale e dello schiavismo, che si ripresenta prendendo a morsi chi ha massacrato in nome del progresso e chi oggi lucra erigendo “confini razzializzati” contro l’umanità migrante. «Questo cannibalismo in lettere e celluloide ribalta il cannibalismo fisico e simbolico dei conquistadores, dei padri pellegrini, degli schiavisti e di chi possedeva le piantagioni, ma anche quello dei ‘capitalisti’ descritti da Marx nel frammento dei Grundrisse del 1858, avidi di sangue – di denaro, di carne da lavoro – come ‘vampiri’» (p. 28).

Già in diversi scritti abbiamo fatto riferimento alla comparsa haitiana della figura dello zombi ed alla nascita di quella “Repubblica nera” incubo degli Stati Uniti segregazionisti. Abbiamo anche visto come le prime pellicole americane che affrontano gli zombie inevitabilmente abbiano a che fare tanto col senso di colpa nei confronti delle sofferenze inflitte agli schiavi, quanto col timore che infondono i neri nella società bianca. Abbiamo anche preso atto di come, tra gli anni ’30 e ’50, attraverso la figura dello zombie, l’immaginario cinematografico americano richiami la questione della “perdita di di volontà e controllo su se stessi”; l’epoca è quella della Depressione, dei conflitti mondiali, della Guerra fredda e della minaccia atomica. Nel corso degli anni ’60, con i movimenti di lotta per i diritti civili, il cannibalismo degli zombie portati sullo schermo da Romero pare legarsi al riscatto dei morti viventi contro la violenza razzista operata dal capitalismo.

I film di Romero «tematizzano il ritorno dei diseredati, dei subalterni e dei reietti della società statunitense sotto forma di zombie cannibali, i quali sono gli unici in grado di svelare […] come ricchezza e consumismo, fondati su violenza e marginalizzazione, non siano altro che realtà fragili, transeunti, ‘grondanti di sangue’» (p. 30). I linving dead romeriani vengono raffigurati come “moltitudine rivoluzionaria”, oscillando tra “massificazione” e “individuazione” e questi, pian piano smettono di essere massa indistinta per divenire “moltitudine di identità”. Se nella produzione romeriana si ricorre alla figura del morto vivente per riflettere sulle contraddizioni e sulle diseguaglianze americane, nelle produzioni più recenti, sostiene Giuliani, non si tratta più tanto di fare i conti con il “lato mostruoso” della società umana ma di “invocare un nuovo inizio”, di fondare un nuovo mondo con ogni mezzo necessario. Il nemico venuto dal passato, “il nuovo Calibano” che ha voce ma non linguaggio, deve essere eliminato attraverso una “guerra fondativa” di esseri superiori. Come esempi di ciò la studiosa cita il film spagnolo REC (2007) di Jaume Balagueró e Paco Plaza, ove l’origine satanista dell’epidemia legittima la “guerra giusta” contro il demone zombie, la saga Resident Evil (2002-2012) di Paul W. S. Anderson, ove la guerra è mossa contro zombie derivati da un’epidemia batteriologica determinata da esperimenti farmaceutici e World War Z (2013) di Marc Forster, ove l’apocalisse zombie porta ad uno “stato di guerra permanente”.

In questo ultimo caso la studiosa evidenzia come a tale “stato di eccezione permanente senza confini” non pare accompagnarsi alcuna critica alla società presente mentre circa la società a venire, il film, sembra indirizzarsi verso fantasie di supremazia eteronormativa di classe (borghese) e di razza (bianca). «Essa appare come lo spettro di quella guerra che il filosofo italiano Carlo Galli ha chiamato ‘globale’, all’alba della Guerra al Terrore di George Bush Jr. In questo quadro la guerra non è più quella tra Stati, come per tutta la Modernità e in particolare, su scala globale, sin dalla prima guerra mondiale: in esso riaffiora l’idea di guerra ‘giusta’ invocata da san Tommaso e dalla cristianità medievale, e successivamente dal colonialismo, contro vecchi e ‘nuovi barbari’» (p. 34).

Nell’età globale la legittimazione della guerra pare poggiarsi sul confronto tra morali decisamente semplificate e, nella visione occidentale, si stabilirebbe così, secondo Galli, una sorta di gerarchia di valore tra la guerra a difesa (o portatrice) di diritti e democrazia mossa da poteri legittimati dall’ordinamento internazionale ed il terrorismo fondato sugli istinti più bassi. A tal proposito Giuliani preferisce rifarsi alla tesi di Tasal Asad (Sull’attentato suicida) sulla linea di continuità che l’inferiorizzazione coloniale del nemico traccia tra modernità e post-modernità. Tale impostazione la si ritrova anche in Judith Butler (Sexual politics, torture and secular time) quando a proposito della “Guerra al Terrore”, soffermandosi sulle torture nei campi di detenzione americani, sostiene che tali pratiche coercitive, violente ed umilianti possono essere considerate l’esplicitazione di una logica già presente “a monte” nella stessa idea di “missione civilizzatrice”.

28daysÈ dunque in tale contesto culturale e geopolitico che si viene a dare una particolare mutazione dello zombie a partire dall’inizio del nuovo millennio: «il mutante è soprattutto un infettato che viene ad essere il pericolo numero uno, incontrollabile attentatore suicida che per contagio trasforma gli altri in terroristi. Di fronte a lui la sovranità statuale si manifesta come totalmente impotente» (p. 35). Il morto vivente di 28 giorni dopo (28 Days Later, 2002) di Danny Boyle rappresenta un’umanità animalizzata regolata dalle leggi del branco e della forza che ha in sé tanto le caratteristiche dei mutanti che della bestia rabbiosa. Tali caratteristiche le ritroviamo nel francese La horde (2009) di Yannick Dahan e Benjamin Rocher, ove più che camminare gli zombie corrono velocemente: il walking dead si è mutato in un running dead.

La natura mutante risignifica la figura del morto vivente quale risultato del dilagare del virus e secondo Peter Dendle (The Zombie Movie Encyclopedia) i timori incarnati da questi nuovi zombie non sono espressione della perdita del sé ma di una sua sovraesposizione. Se le vecchie generazioni di zombi sono contraddistinte dalla mancanza di affettività, dall’irrazionalità, dalla semplificazione e dalla lentezza, ora palesano un’energia senza precedenti.

Secondo Giuliani il nuovo morto vivente incarna anche la figura del pericolo post-11 settembre 2001 e post-massacri vari da Columbine ad Utøya, fino agli episodi più recenti. Si tratta di un pericolo errante ed incontrollabile che proviene dal vicino di casa, dai propri compagni di scuola o di lavoro che improvvisamente palesa una forza ed una violenza inimmaginabili.

La studiosa sottolinea come in queste produzioni si evochi l’idea che a sopravvivere possano essere le figure più adattabili, più avvezze a difendersi, come i giovani, le donne ed i marginali, quasi a palesare «una speranza di un’umanità futura che chiude con i debiti le sperequazioni (di genere, classe, razza) che hanno da sempre infestato la storia dell’Occidente» (p. 41). Non sfugge, però, continua la studiosa, come in diverse produzioni audiovisive recenti questi sopravvissuti, per fondare una nuova società, finiscano col piegarsi nuovamente a regole e consuetudini conservatrici: nel film di Boyle, «Selena smetterà di essere la guerriera autonoma e coraggiosa per divenire (o tornare ad essere) la femmina bisognosa di protezione […] e dispensatrice di cure materne» (p. 41).

Vi sono però alcune importanti differenze tra i due film citati tanto a proposito dell’estensione del contagio che delle cause scatenanti. Da una parte l’insularità britannica del film di Boyle può lasciar pensare che il contagio non si sia propagato “al di fuori” dell’isola mentre diverso è il rapporto tra la Parigi in fiamme di Yannick Dahan e Benjamin Rocher e le sue periferie postcoloniali prive di barriere al contagio. Circa le cause, in 28 giorni dopo l’origine dell’epidemia è palesata nella sperimentazione laboratoriale, mentre La horde sorvola totalmente sulle cause scatenati concentrandosi sulla vita degli umani di fronte alla possibile fine dell’umanità così come conosciuta. Inoltre, se nel film britannico l’umano-rabbioso è mortale, non è un non-morto, nel lungometraggio francese il linving dead rappresentata “l’intramontabilità della catastrofe”.

In comune i due film hanno l’ambientazione urbana e Londra e Parigi rappresentano la metropoli europea centro del potere coloniale in passato e luogo di attrazione per migranti, oltre che di sperimentazione di “pratiche di governabilità”. «La mobilitazione/dislocazione dei corpi secondo le regole del controllo biopolitico e del mercato salta all’arrivo del cannibale la cui corsa frenetica e in gruppo sembra non ammettere barriere di classe, razza e genere. È una marea distruttiva e fagocitante che annulla i dispositivi della segregazione spaziale e della produzione capitalistica incarnate dalle metropoli europee. Lo scenario urbano svuotato dei significati che fondano l’ordine sociale è così la massima espressione del sovvertimento delle regole alla base della società umana come polis» (p. 42).

Come abbiamo visto affrontando il saggio di Federico Boni, American Horror Story. Una cartografia postmoderna del gotico americano (Mimesis, 2016) [su Carmilla], l’ambientazione rurale è tipica del gotico americano, ad essa, sostiene Giuliani, si accompagna una vera e propria disumanizzazione cannibalistica rimandante al conflitto tra la costruzione nordista della nazione e dei suoi “altri-interni”. A tal proposito tra gli studi più interessanti occorre citare, anche se datato, il saggio di Sacvan Bercovitch, The american Jeremiad (1978).

Nella serie britannica Dead Set (2008) ideata da Charlie Brooker, da noi affrontata nuovamente grazie a Federico Boni, The Watching Dead. I media dei morti viventi (Mimesis, 2016) [su Carmilla], la ruralità rimanda all’isolamento, all’impossibilità di controllare e difendere il territorio e, più in generale, nelle produzioni europee, sostiene Giuliani, l’ambiente agreste rinvia alla «costruzione della barbarie-interna in conflitto con l’urbanità ‘civilizzata’» (p. 42). Vale la pena notare come anche in Dead Set, al pari di 28 giorni dopo e La horde, i cannibali corrano veloci ed in questo caso è evidente l’analogia con la velocità di trasmissione televisiva.

Il film 28 settimane dopo (28 Weeks Later, 2007) di Juan Carlos Fresnadillo, sequel del film di Boyle, si concentra sulla questione della “molteplicità” che caratterizza la società londinese, sulla difficoltà di definire una demarcazione netta volta ad escludere il nemico esterno ed a neutralizzare quello interno e sull’immunizzazione della popolazione attraverso la quarantena.

Giuliani segnala come analizzando in sequenza cronologica, i film affrontati – 28 giorni dopo (2002), 28 settimane dopo (2007), Dead Set (2008) e La horde (2009) – è possibile «affermare che la speranza di sopravvivenza infusa dal primo, e tematizzata dal secondo come olocausto del mostruoso, viene drammaticamente distrutta dal terzo e dal quarto, i quali sacrificano progressivamente ogni sogno di sopravvivenza dell’idea di umano – e del suo rapporto tra corpo e mente, vita e morte» (p. 47).

Se in diverse produzioni americane recenti, come World War Z (2013) di Marc Forster, si rintracciano alcune caratteristiche tipiche del cinema di guerra, come ad esempio il palesare una netta dicotomia spaziale, etica e politica tra i contendenti e la possibilità di ripristinare l’ordine internazionale modernamente inteso (meglio se entro la fine del film), nelle produzioni europee come 28 giorni dopo, 28 settimane dopo, Dead Set e La horde, secondo Giuliani, non abbiamo l’eroe unico e non vi è superamento definitivo della crisi.

In World War Z quella che inizialmente sembra una critica ad un uso scriteriato delle tecnologie e della scienza si risolve in un’esaltazione delle capacità del maschio bianco occidentale e della razionalità scientifica e militare. Se si confrontano World War Z e Land of the Dead di Romero, si vede come entrambi «pongono al centro la rottura della geometria spaziale umana – spazzata via da un take over zombie irresistibile, per Romero la rottura con la geometria/gerarchia significa una nuova idea di progresso che […] include il post-umano o ha nel post-umano il proprio attore principale. In WWZ la rottura è solo una sospensione di un ordine sociale e politico che viene subito ristabilito e che vede vincitori ‘i migliori, i più bianchi, i più ricchi, i più tecnologici abitanti dell’Occidente civilizzato’» (p. 48).

In una serie di recenti produzioni audiovisive il vivo si deve riconciliare col non-morto e, riprendendo Michel Foucault, si può dire che il potere di “uccidere” (lo zombie) da parte dello Stato lascia il posto al potere di “lasciarlo vivere” (recluso) ed, infine, al potere di “farlo vivere” riabilitandolo, governando il bios dei post-zombie. Dunque i walking dead subiscono un processo di individualizzazione e soggettivazione, divengono “oggetti governamentali” e «devono vivere, al fine di permettere ai vivi di riconciliarsi col trauma dell’apocalissi. E allo stesso tempo essi divengono nuda (post-)vita – un bios molto particolare – la cui ricodificazione sociale e biologica in quanto ‘membri della società’ dipende da medicine che prima i dottori, poi i famigliari, iniettano nella loro spina dorsale. Lo Stato governa sulla loro costruzione biologico-corticale e così facendo, permette alle persone di ricostruire le proprie comunità» (p. 36). I morti viventi si trasformano da minaccia a manifestazione della mutazione (da umana a post-umana) che ha investito le società contemporanee.

Giuliani vede nelle fantasie di vittoria sul contagio presenti in tanta narrazione distopica contemporanea una volontà di riscatto mossa dal senso di colpa «di chi è stato all’origine contagio di se stesso». Abbiamo visto in altri scritti della serie “Nemico (e) immaginario” come il contagio derivi spesso da interventi umani sulla natura. «È il senso di colpa che produce mostri, come lo era in quelle descrizioni dei tropici di fine Ottocento da parte dei medici australiani che sostenevano che l’uomo bianco là desiderava l’indesiderabile, aspirava a ciò che non sarebbe mai riuscito ad ottenere: la sopravvivenza in un ambiente già, o diventato, ostile. Con la differenza che là la natura non doveva essere violata, e nelle narrazioni distopiche contemporanee è la natura violata che si vendica» (p. 36).

revenants456Nel volume vengono passate in rassegna tre recenti realizzazioni audiovisive – Fido (2006) di Andrew Currie, Les revenantes (2012 – in produzione) ideata da Fabrice Gobert ed In the flesh (2013-1914) scritta da Dominic Mitchell e diretta da Jonny Campbell – che pur nella loro diversità, in un modo o nell’altro, risultano contraddistinte dal grado di precarietà in cui versa un’umanità ormai incapace di governare le conseguenza della guerra e/o della tecnica e del Progresso.

Il film Fido, di produzione americana/canadese, è un horror-comico in cui «la memoria incarnata dalla violenza a cui rimanda la figura dello zombie è quella della schiavitù» (p. 54). Alla fine di una cruenta guerra dell’umanità contro gli zombie una grande azienda realizza un collare in grado di neutralizzare gli istinti aggressivi degli zombie rendendoli mansueti servitori della comunità piccolo-borghese nordamericana. Il film è ambientato tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 e questi “zombi addomesticati” sostituiscono quella componente sociale, razziale e di classe maggiormente sfruttata. La nuova figura di schiavo non deve essere riprodotta, non sporca, non mangia ed è ubbidiente al padrone. La tranquilla vita piccolo-borghese della cittadina viene interrotta dall’attacco omicida di cannibali in libertà e la storia «si conclude con il sovvertimento dell’ordine sociale (razziale e di genere) ma non di classe» (p. 56). Il nuovo mondo che pare far capolino a fine narrazione pare essere di quelle «donne per bene, pur sempre angeli del focolare ma ora anche capofamiglia, in cui l’uomo gioca la parte del ‘sottosviluppato’ addomesticato» (p. 56).

Il tema principale della serie Les revenantes è individuato da Giuliani nel “dono” del ritorno dei morti tra i loro cari. Il fatto che i morti tornino alla spicciolata per riprendere il loro posto tra i loro cari nella piccola comunità montana situata accanto ad un’enorme ed inquietante diga crea immediatamente problemi di comprensione e di convivenza a cui si aggiunge il riaffiorare del vecchio paesino dalle acque del bacino idrico che si abbassano misteriosamente. Il riemergere del passato, secondo la studiosa, potrebbe essere «simbolo del riscatto dalla violenza umana sulla natura e il sovrannaturale, la valle sembra utilizzare il ritorno degli oltrepassati come una sorta di vendetta contro chi in quell’area ha continuato a vivere» (pp. 56-57). Resta misterioso il motivo per cui alcuni personaggi tornino in vita più volte così come sono ignote le ragioni per cui questi revenants vengano reclamati da loro simili privando nuovamente le famiglie dei propri cari.

Nella serie In the flash, prodotta dalla BBC, si ha una narrazione molto intimista tra zombie e “scomparsi e poi ritornanti”. Giuliani sottolinea come qui si scavi nei conflitti famigliari di una piccola comunità ed il ritorno di Kieren Walker ha tutte le sembianze di un dono offerto alla famiglia per riparare agli errori commessi precedentemente. Il tutto pare ruotare attorno alla trasformazione dello zombie in una nuova possibilità d’amore e di riscatto. «La storia di Kieren e sua madre ci inducono alle ragioni della scelta, da parte del regista e narratore, del genere zombie e del post-umano per raccontare una storia di marginalità e sofferenza (cagionata da discriminazione di genere, classe e sessualità) all’interno di una piccola comunità inglese: il post-umano e l’Apocalisse, in particolare, sembrano permettere infatti, seguendo le teorie del femminismo materiale, di tematizzare la critica all’epistemologia maschile e bianca, all’antropocentrismo eterosessuale e illuminista e al patriarcato (etero) sessista che è sia matrice della secolarizzazione sia pilastro del potere spirituale della Chiesa» (p. 60). Il ruolo della chiesa è qui decisamente ambivalente; da una parte essa ha contribuito a mantenere unita la comunità nel corso dell’insurrezione ma ha basato tale coesione sull’odio nei confronti dei ritornanti.

Giuliani si sofferma anche sulla sovversione femminile dell’ordine costituto presente sia nel film Fido che nella serie In the flash. Nell’horror-comico Fido le donne americane intendono abbandonare il ruolo di «passive domestiche dedite alla riproduzione del maschio e della sua egemonia tipico dei primissimi anni Sessanta (si pensi alla rappresentazione della domesticità femminile nella serie americana Mad men): sono anche quelle che più nettamente infrangono i tabù sessuali legati alla linea del colore e di classe, e le regole sociali che stabiliscono il confine tra normalità e anormalità» (pp. 60-61). Nel caso di In the flash abbiamo donne che segretamente «costruiscono le reti affettive che sembrano garantire materialmente l’avvento di un futuro ‘migliore’: le madri e mogli dei ritornanti si incontrano in una stanza buia, separata, insieme all’infermiera e madre di Philip, il segretario del vicario (La ragazza madre del paesino), che ha deciso di insegnare loro come ‘medicare’ i propri famigliari PDS [Partially Deceased Syndrome, sindrome del parzialmente deceduto]. È sempre lei che ha creato questo gruppo di ‘autocoscienza’ e ‘autoaiuto’, perché le donne possano raccontare che cosa provano e come riescono a fare i conti con i PDS e la società attorno» (p. 61). Dunque, in qusto ultimo caso, le donne hanno un “ruolo ponte” tra umano e post-umano.

Nella serie la milizia, nonostante comprenda anche donne, secondo la studiosa rappresenta lo spazio semantico della virilità, del maschio, del soldato che custodisce la purezza della nazione e si fonda sulla convinzione che la minaccia è ancora presente pur certificando che la mutazione non è eliminabile. «La milizia si nutre dell’emergenza e, al contempo, la combatte: come per le polizie anti-terrorismo a cui è demandata parte della gestione governamentale del ‘nemico’ all’interno delle società reali, anche nella narrazione distopica il permanere del ‘mostruoso’ come parte integrante della società legittima il controllo di polizia su persone e relazioni. Come per le prassi e il discorso securitario e anti-terrorista posti in vigore dagli apparati di sicurezza britannici a partire dalla guerra in Afghanistan e in Iraq e dagli attacchi suicidi del luglio 2005, così anche nel racconto horror di In the flash tutti sono chiamati a fare i delatori e a manifestare, anche dentro le proprie case, la presenza di un PDS. Ma non devono agire da soli contro ‘i ritornanti’: devono piuttosto affidarsi alla milizia, alla polizia, auto-dichiaratasi in charge dell’eliminazione del risorto, come in una ‘società totale’ che non ammette critica né diversità» (p. 61).

Dunque, conclude Giuliani, se guardiamo 28 giorni dopo, 28 settimane dopo, Dead Set, La horde, Fido, Les revenants ed In the flash «in continuità con le guerre ‘coloniali’ del secolo scorso […] queste produzioni insistono sul backlash, sugli effetti di ritorno, di una condotta che può, in queste distopie, essere definita coloniale: il nemico è divenuto ‘inestirpabile’, ed è una costante intrinseca all’Europa ‘sin da quando essa è uscita da se stessa per reinventarsi sugli altri continenti. Al suo pari, il mondo degli uomini, nelle narrazioni distopiche prese in considerazione, ha ‘superato i propri confini’. A meno di una guerra che come quella ‘atomica’ potrebbe cancellare l’umano, insieme al post-umano, dalla faccia della Terra, l’apertura ‘della porta coloniale’ ha permesso all’altro, persino al non-morto che viene dall’aldilà, di varcare l’uscio e restare» (p. 62).

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Estetiche del potere. Virtualizzazione, estetizzazione, neutralizzazione ed altre patologie virali del Tele-Capitalismo https://www.carmillaonline.com/2016/05/04/estetiche-del-potere-virtualizzazione-estetizzazione-neutralizzazione-ed-patologie-virali-del-tele-capitalismo/ Wed, 04 May 2016 21:30:50 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29579 di Gioacchino Toni

videodrome_tv«L’Intrattenimento è la falsa felicità di una vita che resta noiosa e denegata. L’Informazione è la falsa conoscenza di una realtà che resta oscura e oscenizzata» Carmine Castoro

«Non ci viene chiesto di credere, ma di comportarci come se credessimo… Ciò significa che l’informazione è proprio il sistema del controllo» Gilles Deleuze

L’interminabile rappresentazione della politica italiana spettacolarizzata dalla televisione ha, per certi versi, in Tangentopoli il suo intervallo tra la prima e la seconda stagione di una messa in scena seriale televisiva che riprende estetiche della ficiton, [...]]]> di Gioacchino Toni

videodrome_tv«L’Intrattenimento è la falsa felicità di una vita che resta noiosa e denegata. L’Informazione è la falsa conoscenza di una realtà che resta oscura e oscenizzata» Carmine Castoro

«Non ci viene chiesto di credere, ma di comportarci come se credessimo… Ciò significa che l’informazione è proprio il sistema del controllo» Gilles Deleuze

L’interminabile rappresentazione della politica italiana spettacolarizzata dalla televisione ha, per certi versi, in Tangentopoli il suo intervallo tra la prima e la seconda stagione di una messa in scena seriale televisiva che riprende estetiche della ficiton, del docudrama e del mockumentary. Tangentopoli chiude la prima stagione ed inaugura la seconda. Quest’ultima ha portato come novità principale la virtualizzazione del dissenso della piazza nei confronti del palazzo. I talk show televisivi, l’infotainment in tutte le sue nauseabonde forme, hanno messo in scena un conflitto tra piazza e palazzo che si risolve, alla fine di ogni puntata, nel rassicurante riassorbimento del dissenso all’interno del sistema e ciò avviene, principalmente, grazie ad un nuovo saltimbanco di turno che, di volta in vota, veste il ruolo di “novità antisistemica”. Tale attore cambia nel giro di alcune puntate perché, inevitabilmente, è destinato a dover essere sostituito palesandosi, nel frattempo, e sempre più velocemente, come anch’egli sia espressione del palazzo.

In alcune puntate, tale personaggio, capace di fagocitare l’ostilità nei confronti dell’establishment, può assumere l’immagine dell’uomo che si è fatto da solo mettendo a profitto le potenzialità del tubo catodico, oppure può indossare le vesti di un patetico sempliciotto logorroico ed iperattivo rottamatore capace di alternare il serioso completo d’ordinanza a citazioni giovanilistiche con pantaloni che svelano quattro dita di calze e smartphone sempre col clic in canna. Le nuove puntate della serie dovrebbero offrire nuovi protagonisti. Potrà trattarsi di un personaggio un po’ paonazzo in felpa localistica variabile, con un tablet sottobraccio, di cui probabilmente non ha ancora capito la funzione, ma fa tanto “popolarfuturista”, o di qualche videopredicatore qualunquista che gioca con la tv sulla falsariga del morettiano: «Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?» (Ecce Bombo, 1978). Tali nuovi personaggi sembrano, in entrambi i casi, più concentrati sul cosa dire per assorbire consenso immediato a buon mercato che non a badare se quel che dicono di pomeriggio è coerente con ciò che hanno affermato di mattino. La sensazione è che la serie sia davvero ormai con l’acqua alla gola e gli sceneggiatori inizino a non sapere più cosa inventarsi per prolungare lo spettacolo se non alternando e miscelando armi di distrazione/seduzione/distruzione di massa, dentro e fuori lo schermo televisivo.

La televisione ha contribuito a trasformare la politica italiana svuotandola, allontanando la gente dalla politica attiva ed, al tempo stesso, ha assunto un ruolo cruciale nel regolamentare la spartizione degli irriducibili e fedeli spettatori tra i nuovi politici cacciatori di “mi piace” utili ormai solo al mantenimento di una narrazione falsamente antisistemica in grado di riassorbire l’ostilità anti-palazzo. Sembra davvero di avere a che fare con un sistema agonizzante, perennemente in attesa di qualche trovata messianica, di un coup de théâtre, a cui non sembrano credere nemmeno i più creativi del palazzo e tutto ciò mentre le scelte politiche ed economiche vengono pianificate da organismi privati totalmente svincolati da una benché minima forma rappresentanza [su Carmilla].

castoro-clinica-tvA proposito del ruolo assunto della televisione in epoca contemporanea è da poco uscito l’interessante saggio di Carmine Castoro, Clinica della TV. I virus del Tele-Capitalismo. Filosofia della Grande Mutazione, Mimesis, Milano – Udine, 2015, 266 pagine, € 20,00. L’intento del libro è quello di rintracciare ed evidenziare quelle logiche e quelle estetiche che allontano dalla comprensione della realtà in cui si vive. L’autore sostiene la necessità di una nuova ontologia critica dell’immagine in grado di dare autonomia e capacità critica a coscienze ormai abbandonate alle lusinghe del progresso e del benessere neoliberista e Clinica della TV, individuando una decina di “virus” propri del Tele-capitalismo, offre davvero numerosi spunti a proposito del ruolo che tale medium, con inevitabili riferimenti al web, viene ad avere nell’età contemporanea.

A proposito dell’attuale Presidente del Consiglio, protagonista momentaneo della pessima serie tele-politica italiana trasmessa a reti unificate, a cui ci si riferiva in apertura, anche Carmine Castoro, nel suo libro, non manca di segnalare come lo spettacolo sia davvero osceno e si presenti oggi come «un’orgia di slide, selfie, tweet, spending interattive, lavagne informatizzate, open government, e tutta una faraonica azione web-aggressive e, direi io, complexity-resistent, ovvero galoppante sul fronte mediocratico ma resistente all’interezza e alla poliedricità delle questioni sul tappeto, puntata più sulle mirabilie del 2.0 che sulla ruvidezza di una cittadinanza in piena debacle» (p. 61). Ed, ancora, continua l’autore, in Renzi «ogni esternazione è un fritto misto di inflessione toscana, battutine da animatore, metafore calcistiche, magnifiche sorti e progressive, dribbling sofistici, canzonature di disagi e coperture di Grandi Consorterie e volponi da off shore: un tritame disdicevole intriso di pavoneggiamenti sognanti e salmodianti che, ovviamente, dimentica di dissodare le strutture socio-economiche e che passa – suprema beffa – per realpolitik senza macchia e senza paura, mentre è solo il vecchio Ancien Regime smaltato di tele-giovanilismo e tele-ginnastica, parolai e posturali, in una selva di short message e frasi a effetto che sanno solo di dirigismo e auto-incensamento» (p. 62).

Nell’era contemporanea il Potere, sempre più reticolare, non ha interesse a vietare totalmente le notizie ma agisce affinché i media trasmettano un flusso casuale di comunicati decontestualizzati. Il Potere contemporaneo, argomenta Castoro, affianca all’intervento repressivo pratiche di seduzione consumistica, di instupidimento, deprivanti l’essere umano di capacità critica, costruendo uno stato di noia diffusa volto ad allontanare gli individui dall’agire politico. Si tratta, secondo l’autore, di un «tele-potere che meccanizza le nostre risposte, ci abitua al sensazionalismo e a contenuti inutili, neutralizza la forza stridente delle vere notizie che restano quasi sempre nel sottoscala dei tg, ci nega piani d’insieme e spettri allargati per cercare di capire dietro l’episodio occasionale di cronaca, lo scoop stupefacente o gli incontri fra i Grandi della terra, cosa cova, cosa si cela, l’unità di cose lontane, le matrici culturali realmente nuove che potremmo abbracciare a livello mondiale per crescere ed emanciparci tutti» (p. 96). L’effetto auto-determinante dei media, si sostiene nel saggio, consiste «nel dare una patente di ovvietà, necessità e irreversibilità a quella che è solo una, e una soltanto, delle milioni di possibilità di profilare la nostra quotidianità, di tracciare i nostri bisogni, di alzare la temperatura della nostra felicità» (p. 97)

L’informazione veicolata dai media sembra davvero sequestrare gli accadimenti pubblici rendendoci incapaci anche solo di capire se sono davvero successi. Il linguaggio televisivo, nel suo essere linguaggio di potere, assume la forma di sapere, ma si tratta di un sapere parodistico e vuoto che trova giustificazione in se stesso. Castoro sostiene che il fatto che il reale venga istituito attraverso la sua rappresentazione, o che la costruzione del fatto venga operata attraverso il suo racconto mediatico, presuppone la costrizione alla fonte stessa come la condizione a priori di ogni trasmissione di esperienza. Il condizionamento da infrastruttura, secondo l’autore, non è da ricercarsi nella parzialità dei messaggi, ma nella loro modalità. A tal proposito il saggio, riprendendo alcune riflessioni di Carlo Freccero (Televisione, 2013), evidenzia come la verità non risulti più nella rispondenza tra enunciato e realtà ma, piuttosto, nella “correttezza dell’enunciazione”. L’attuale televisione non si preoccupa di dire il vero circa un evento esterno, ma produce una sua verità che il pubblico ha modo di seguire mentre si costruisce in diretta.

In Clinica della TV si sostiene che oggi «il falso non è solo copertura o nascondimento del vero, ma, peggio, auto-determinazione e auto-rafforzamento di una luccicanza tecnologica, di una retorica del visibile così pervasive, credibili, osannate e al di sopra di ogni sospetto, da alimentare i nostri convincimenti più stabili con estrema facilità, fino a far indossare al Reale stesso l’indumento ottico che più serve a difendere taluni profitti privati, e/o orientare le masse verso alcune precise stazioni dell’indottrinamento e dell’illiberalità tout court» (p. 11).

Ciò che viene propinato dai media attrae intorno a qualcosa che risulta del tutto slegato da una corrispondenza oggettiva con la realtà; ciò che viene mostrato è un allestimento, una messa in scena. «Nel Tele-Capitalismo, insomma, la razionalità occidentale gioca il suo punto di svolta fra un rapporto potere-sapere imbastito su verità che hanno origine metafisica o svolgimenti storicistici presupposti certi e indubitabili, e, una volta crollate queste, l’utilizzo di tecniche addomesticanti che si presentano come valori inclusivi e livelli accettati di percezione e comportamento, e con i quali la televisione si incarica di irrigare il mentale e il sociale proprio per esercitare coercizione sulla libera espressione, da sempre ispida e riottosa allo status quo. Quello che Deleuze in una conferenza del 1987 così riassume splendidamente: “Avere un’idea non è dell’ordine della comunicazione… un’informazione è un insieme di parole d’ordine. Quando venite informati, vi dicono ciò che si presume che crederete. In altri termini informare è far circolare una parola d’ordine. Le dichiarazioni della polizia sono chiamate giustamente dei comunicati. Ci comunicano informazione, ci dicono ciò che si presume che possiamo, dobbiamo o siamo tenuti a credere. O anche a non credere, ma facendo come se ci credessimo. Non ci viene chiesto di credere, ma di comportarci come se credessimo… Ciò significa che l’informazione è proprio il sistema del controllo”» (pp. 19-20)

Videodrome99In tv, sostiene Castoro, tutti gli argomenti vengono miniaturizzati e banalizzati, tutta la complessità del reale tende ad essere ridotta a «statistiche di morte, citazioni di somme di danaro investito o meno dallo Stato, resoconti spicci di inviati-attacchini col microfono in mano e inquadrature di file di bare in bella mostra col solito piagnisteo di politici e opinionisti di sottofondo. Qui c’è tutta la potenza di fuoco, la retrattilità elastica di poderose liberalizzazioni nelle parole e nelle immagini, ma coagulate e assoggettate in chiacchiere, flash passeggeri, scalette di notiziari, prosopopee accademiche e telecompassioni da “pomeriggio in famiglia”. Il Tele-Capitalismo è davvero tutto qua, in questa santabarbara di ipocrisie e preconcetti che hanno però il sentore della libertà, l’eco lontana del pluralismo e della polifonia di voci “libere”» (p. 49).

Il saggio, nel passare in rassegna quelle che l’autore individua come dieci patologie virali del Tele-capitalismo, si apre affrontando la logica telecapitalistica della “Mutazione” intesa come «artificializzazione della realtà percepita che acquisisce i connotati dell’innaturale e dell’inappropriato, considerando invece per “natura” e per “proprium” un paesaggio biopolitico realmente condiviso, secondo l’ampiezza e la chiarezza di cause, processi, obiettivi» (p.17).

Un capitolo del libro è dedicato all’importante fenomeno della “Estetizzazione” ed, a tal proposito, si afferma che la logica telecapitalistica prevede un processo di riduzionismo del soggetto attraverso due passaggi: «un’anatomizzazione del “soma” secondo il modello imperativo dell’attrazione, della salute e della prestanza (seni turgidi, addomi piatti, muscoli gonfi, visi lisci, capelli folti, gagliardia motoria etc.) e una esteriorizzazione del “carattere” che deve smussare i suoi deficit, arrotondare il suo porsi, far vedere che il traguardo di massimo successo, l’alleluia di chi osserva, sono sempre prossimi, e che ci si presta senza rammarico al contegno di chi è bendisposto e vuole accedere al dogma mercantile del much expensive e/o del much more» (p. 231).

Nell’affrontare il processo di “Neutralizzazione” Castoro riprende alcune riflessioni di Doris Lessing (Le prigioni che abbiamo dentro, 2010) ed afferma che: «La logica telecapitalistica della neutralizzazione consiste nella positivizzazione di tutto quanto […] Despoti sudamericani o tele-democrazia che si abbiano di fronte, dice a chiare lettere la Lessing: “Il lavaggio del cervello si basa su tre fondamenti o modalità oramai ben noti. La prima è la tensione seguita dal rilassamento. Questa per esempio è la formula usata dagli interrogatori del prigioniero, quando l’inquisitore è alternativamente duro e tenero – prima un sadico, poi un amico gentile. La seconda è la ripetizione: dire o cantare la stessa cosa in continuazione. La terza è l’uso degli slogan, la riduzione di idee complesse a una semplice serie di parole”. Semplicità che nei laboratori delle mnemotecniche e del self-management psicologico viene perseguita come un principio di contabilità vero e proprio per togliere di mezzo tutto quanto è solo esornativo nelle nostre vite» (pp. 219-222).

Un’altra patologia virale indotta dalla televisione è quella che può essere definita come “messa in finzione della realtà” – processo individuato da Marc Augé (La guerra dei sogni) sin dai primi anni Novanta [su Carmilla] – ed a tale questione Castoro dedica il capitolo intitolato “Virtualizzazione”. «La logica telecapitalistica della virtualizzazione è il rischio della sparizione della realtà, della sua fantasmizzazione, e del suo tele-trasporto, quasi sotto banco, verso una sorta di ammortizzazione del reale stesso, che si astrae, si disperde, si interrompe e involve in un universo parallelo» (p. 187).

Trattando il processo di virtualizzazione, è inevitabile che l’autore finisca per estendere il ragionamento al web. Secondo l’autore il virtuale «è come se oscillasse da un lato, in maniera ascensionale, verso un arricchimento della nostra soggettività, delle nostre chance di ri-creare il mondo e i rapporti politici e affettivi che investiamo in esso, attingendo a quella “pratica di vuoto fertile” fatta di “riconoscimenti lievi” e “libera impotenza”, al vuoto come condizione paradossale e tormentosa della creatività, abitare la soglia, “sottrarre dentro” che significa “asciugarsi, divenire sempre più essenziali, vuoti, inesperti”. Dall’altro, verso una sorta di brillamento del reale, come quando si sprigiona sotto controllo l’energia di un ordigno: accensione e abbattimento. E quest’ultimo è l’esatto opposto di un virtuale inteso come anti-conformismo, ironia, rinascenza, sapienza impegnata, astensionismo delle risposte, incursione costante nel possibile, indefinitezza» (p. 187).

Facendo riferimento alla rete, l’autore, riprendendo alcune interessanti riflessioni di Giuliano Santoro (Cervelli sconnessi, 2014), afferma che «“l’intelligenza collettiva” è spesso bypassata dalla “emozione connettiva”, e che questo Sinusoide perverso-partecipativo dei sistemi digitali non può che chiamarsi, per dirla alla Santoro, con l’etichetta di “net-liberismo”. Intendendo con questa targa ideologica la grande trasformazione della Rete all’interno di un sistema socio-economico che avrebbe grazie ad essa incrudelito le sue leggi del profitto, del monopolio, del lavoro schiavistico o sottopagato, dei modelli di rabbonimento/ravvedimento delle masse» (p. 189). Afferma Castoro che sebbene le cause del processo di semplificazione e di ricerca di un facile sensazionalismo non siano da attribuirsi per intero alla smaterializzazione del capitale ed alle possibilità di simultaneità e di condivisione offerte dalla rete, è evidente che «l’utilizzo prevalentemente ludico-gossiparo-distrattivo di un certo linguaggio legato al virtuale non fa che approfondire la barbarie mentale e l’analfabetismo di ritorno, e rendere più caotica e oppressiva quella cortina invisibile di controllo e tele-sorveglianza che ci ha trasformati in cittadini-consumatori da invogliare e spolpare nelle maglie di un mercato sempre più smart» (p. 189).
Se da un lato la rete collega gli individui, dall’altro li mantiene in una situazione di isolamento; individui che cercano riscontri al loro ego attraverso asciutti riconoscimenti rilasciati da amicizie virtuali, di certo non migliorano la loro condizione di solitudine. «Nella società delle iperconnessioni ognuno di noi è agente di polizia mortuaria per l’altro, giudice che “nomina” ed elimina, sicofante e sabotatore perché sia sempre il vicino a fare da parafulmine e da anello debole della catena alimentare del Potere» (p. 191).

Circa le contraddizioni insite nel web, ci sembra valga la pena riprendere un ragionamento di Wu Ming 1, in parte riportato dallo stesso Castoro: «La questione non è se la rete produca liberazione o assoggettamento: produce sempre, e sin dall’inizio, entrambe le cose. E’ la sua dialettica, un aspetto è sempre insieme all’altro. Perché la rete è la forma che prende oggi il capitalismo, e il capitalismo è in ogni momento contraddizione in processo. Il capitalismo si affermò liberando soggettività (dai vincoli feudali, da antiche servitù) e al tempo stesso imponendo nuovi assoggettamenti (al tempo disciplinato della fabbrica, alla produzione di plusvalore). Nel capitalismo tutto funziona così: il consumo emancipa e schiavizza, genera liberazione che è anche nuovo assoggettamento, e il ciclo riparte a un livello più alto. La lotta allora dovrebbe essere questa: far leva sulla liberazione per combattere l’assoggettamento. Moltiplicare le pratiche liberanti e usarle contro le pratiche assoggettanti. Ma questo si può fare solo smettendo di pensare alla tecnologia come forza autonoma e riconoscendo che è plasmata da rapporti di proprietà e produzione, e indirizzata da relazioni di potere e di classe» (Wu Ming 1, Feticismo della merce digitale e sfruttamento nascosto: i casi Amazon e Apple).

Verrebbe da dire che grande è la con-fusione tra dentro e fuori gli schermi ma la situazione è tutt’altro che eccellente: «Da un lato, un virtuale sfilacciato, “democratico” perché di accesso garantito a tutti, splatter di testi e immagini, troppo spesso fasulli e pensati a tavolino; dall’altro un televisivo che ha ancora una funzione accentratrice e che richiede col suo futile organigramma maggioranze silenziose e prone» (p. 194)

clinica-tvCastoro auspica che l’immagine oggi smetta di «ingannare, ingigantire, ingiungere. Ovvero, falsificare accecando l’orizzonte fenomenologico delle cose e delle passioni; ingrandire smisuratamente e senza precipuo valore ciò che meriterebbe di essere odiato, respinto o accantonato; intimare comportamenti, appropriarsi dei nostri strati più profondi, diluire le capacità critiche, implementare il senso della disfatta se non si acconsente a certi status e a certi dispositivi disciplinari sempre vigenti» (p. 10). Da parte nostra, affinché tutto ciò possa accadere, pensiamo occorra che il reale, che, se pure è scomparso dagli schermi, non lo è al di fuori di essi – pur essendosi avviato a quel processo di “messa in finzione” su cui si è speso Marc Augé [su Carmilla] – riprenda il sopravvento ma lo riprenda incanalandosi in una prospettiva volta ad abolire lo stato di cose presente. Solo così l’immagine può smettere di ingannare, ingigantire ed ingiungere. Solo così la politica può tornare ad essere partecipata e non simulata sugli schermi. Solo così l’essere umano può immaginare, prospettare e costruire un futuro alternativo all’esistente.

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