Monica Zanardo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 03 Dec 2025 21:00:56 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Elogio dell’eccesso / 10 – Straniero in terra straniera: Curzio Malaparte https://www.carmillaonline.com/2025/12/03/elogio-delleccesso-10-straniero-in-terra-straniera-curzio-malaparte/ Wed, 03 Dec 2025 21:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91605 di Sandro Moiso

Curzio Malaparte, Giornale di uno straniero a Parigi, a cura di Michelangelo Fagotti e Monica Zanardo, Adelphi Edizioni, Milano 2025, pp. 425, 25 euro

Se è esistito in Italia un letterato scomodo ed eccessivo nelle sue manifestazioni va sicuramente individuato in Curzio Malaparte (1898-1957). Il suo essere stato, nel corso di una vita durata appena 59 anni, poeta, saggista, romanziere, giornalista, militare, diplomatico, agente segreto e regista cinematografico lo avvicina per certi versi ad un altro intellettuale scomodo dell’Italia del’900: Pier Paolo Pasolini. Anche se il paragone tra i due deve fermarsi quasi immediatamente, poiché la sfera [...]]]> di Sandro Moiso

Curzio Malaparte, Giornale di uno straniero a Parigi, a cura di Michelangelo Fagotti e Monica Zanardo, Adelphi Edizioni, Milano 2025, pp. 425, 25 euro

Se è esistito in Italia un letterato scomodo ed eccessivo nelle sue manifestazioni va sicuramente individuato in Curzio Malaparte (1898-1957). Il suo essere stato, nel corso di una vita durata appena 59 anni, poeta, saggista, romanziere, giornalista, militare, diplomatico, agente segreto e regista cinematografico lo avvicina per certi versi ad un altro intellettuale scomodo dell’Italia del’900: Pier Paolo Pasolini. Anche se il paragone tra i due deve fermarsi quasi immediatamente, poiché la sfera di riferimento culturale e letterario del primo, più che a quella dello scrittore friulano, era vicina alle esperienze di altri due autori e uomini di cultura europei quali Ernst Jünger (1895-1998) e André Malraux (1901-1976). Intellettuali colti e raffinati che, però, avevano tutti nascosto, sotto un tappeto di intuizioni spesso geniali e una patina di anticonformismo elitario, una contraddittorietà in materia politico-culturale talvolta disorientante e talaltra indisponente non solo per i semplici lettori, ma anche per i loro estimatori.

Interventista dalle radici anarco-nietzschiane nella Prima guerra mondiale e fascista della prima ora l’italiano che, però, alla fine della sua vita, dopo un soggiorno nella Cina di Mao, lasciò in eredità alla Repubblica Popolare la sua villa di Capri; giovanissimo volontario nella Legione straniera, autentico esteta e aedo della guerra che osservò e descrisse con lo sguardo di un entomologo, il tedesco, spesso avvicinato (forse a torto) al nazismo; avventuriero e ladro di tesori nelle colonie francesi dell’Estremo Oriente, poi militante anti-colonialista e comunista in Cina, combattente repubblicano in Spagna e, per finire, ammiratore e seguace di De Gaulle, fino a diventare Ministro della Cultura nel suo governo, il francese. Vite al limite si potrebbe dire, condotte da abili funamboli tutti attenti a non perdere mai la presa su una corda tesa nel vuoto, al di sopra delle catastrofi del XX secolo.

Nessuno dei tre poteva vantare le nobili origini che forse tutti avrebbero voluto poter rivendicare. Il più fortunato, dal punto di vista famigliare, fu forse Jünger, figlio di un imprenditore e chimico tedesco, mentre Malraux non avrebbe mai parlato con nessuno o avrebbe diffuso notizie inesatte su un’ infanzia passata in provincia con la madre e la nonna. Cosa cui avrebbe cercato di provvedere sposandosi nel 1921 con una ricca ereditiera di una famiglia ebraica di origini tedesche, la cui fortuna fu però rapidamente dilapidata da errati investimenti in borsa.

Erich Suckert, vero nome di Curzio Malaparte che aveva rinnegato in età adulta il cognome paterno, nacque invece a Prato da Edda Perelli e dal tintore sassone Erwin Suckert. Come terzogenito di sette fratelli, poco dopo la nascita fu affidato a balia alla famiglia dell’operaio tessile Milziade Baldi e di sua moglie, che lui avrebbe poi considerato come i suoi autentici genitori, mentre i pessimi rapporti con il padre tedesco avrebbero influenzato per tutta la sua vita una particolare antipatia verso la nazione e la cultura germaniche. Spingendolo così tra le braccia di quella francese. Un amore poi deluso, come dimostra il diario appena pubblicato da Adelphi, ma che lo spinse fin dalla dichiarazione di guerra del 1914 ad arruolarsi ancora sedicenne nelle fila, anch’egli, della Legione straniera.

Se queste sono, per così dire le origini del viaggio di Malaparte attraverso la Storia del ‘900. il Giornale di uno straniero a Parigi trasmette al lettore le impressioni dell’autore successive alla fine del secondo conflitto mondiale, al ritorno da un soggiorno in Francia tra l’estate del 1947 e la fine del 1949. Ma come lo stesso Malaparte ci avverte nel suo Abbozzo di una prefazione:

Ogni “giornale” è ritratto, cronaca, racconto, ricordo, storia. Delle note prese giorno per giorno non sono un giornale: sono momenti presi a caso nello scorrere del tempo, nel fiume del giorno, che passa. Un “giornale” è un racconto: il racconto di una tranche de vie (definizione di romanzo di una famosa scuola), di un periodo, un anno, più anni, della nostra vita. E poiché la vita segue la logica di un racconto, ha un inizio, uno sviluppo, una conclusione (una vita umana è una serie di inizi, di sviluppi, di conclusioni, all’interno del cerchio chiuso dell’inizio, dello sviluppo, della conclusione della vita, nel cerchio della vita). Non è vero che un “giornale” comincia a caso, si sviluppa a caso, non si conclude, se non con la fine della vita. Un giornale, come ogni racconto, comporta un inizio, un intreccio, uno scioglimento. L’argomento del Giornale di uno straniero a Parigi è il mio ritorno a Parigi dopo quattordici anni d’assenza, è la scoperta di una Francia nuova, di un popolo francese nuovo, è il ritratto di un momento, nella storia della nazione francese, della civiltà francese, che coincide con un momento particolare della mia vita, della storia della mia vita. Non pretendo di rinnovare il genere del “giornale”. Suggerisco soltanto che un giornale è un racconto, come è un racconto il teatro. E qui tocco il punto importante: un “giornale” è un’opera teatrale portata sulla scena della pagina. È il punto in cui il racconto si avvicina di più al teatro. Tutto vi tende a un fine, a una conclusione, secondo le leggi classiche dell’unità, ma attorno al personaggio che si chiama « io »1.

Le poche righe appena citate non servono soltanto come viatico per la comprensione del “diario” parigino di Malaparte, ma anche per quella di tutta la sua opera che, per quanto suddivisa tra articoli di giornale, cronache, diari, “romanzi”, sempre avrebbe rappresentato una sorta di palcoscenico sul quale intrecciare le vicende drammatiche oppure mondane comprese tra il primo conflitto mondiale e gli anni ‘50 del XX secolo con la vita dell’autore e le sue personali opinioni.

Si potrebbe, infatti, dire che se nell’opera di Ernst Jünger ogni evento ed osservazione si trasforma in distaccato giornale di osservazioni di carattere entomologico2, in Malraux ogni evento doveva per forza essere “romanzato”. Tanto da far rimettere spesso in discussione, da parte della critica o dei suoi avversari “politici”, molti aspetti delle sua presunta o autentica partecipazione agli eventi narrati con estrema dovizia di particolare (battaglie, massacri, insurrezioni, eroismi nelle guerre nell’aria e per terra). Una reinvenzione letteraria dell’esperienza personale che avrebbe spinto lo scrittore francese ad intitolare Antimemorie la sua autobiografia, pubblicata nel 1967, un abile e spregiudicato gioco letterario in cui la vita, gli incontri e le vicende di Malraux sono spesso nascosti o distorti ad arte, mascherati sotto l’immagine che di se stesso voleva dare al pubblico3.

Il testo di Malaparte, oggi edito da Adelphi, era invece rimasto tra le sue carte e fu pubblicato postumo nel 1966, a cura di Enrico Falqui, da Vallecchi nelle «Opere complete». Come afferma Monica Zanardo, in quella che può essere considerata come una postfazione all’edizione attuale, il Journal:

offre un sottile e disincantato spaccato della Francia del dopoguerra, dove l’autore aveva soggiornato tra il giugno del 1947 e la fine del 1949. Pensato per essere pubblicato in Francia e scritto per lo più in francese, il ‘diario’ malapartiano si ricostruisce cucendo una serie di fogli sciolti che denunciano stadi diversi di elaborazione [..]. È difficile dunque stabilire con certezza con quali tempi e modi Malaparte si sia dedicato alla composizione di questa sua opera, ma possiamo rilevare che, a dispetto del titolo, non ci troviamo di fronte a un journal in senso stretto.
Siamo ad esempio molto lontani da quel Giornale segreto dove, tra l’aprile del 1941 e l’ottobre del 1944, aveva registrato dialoghi e fatti di cui era stato testimone come corrispondente di guerra e che poi, opportunamente finzionalizzati, avevano nutrito la stesura di Kaputt.
[…] I materiali relativi al Giornale di uno straniero a Parigi, invece, non hanno nulla dell’annotazione cursoria ed estemporanea: le varie entrate si depositano in forma dattiloscritta a un livello di rielaborazione già avanzato, con un notevole scarto rispetto alla registrazione del dato puramente evenemenziale. Non si tratta per Malaparte – né mai è così per questo autore – di offrire un mero referto testimoniale o un affondo introspettivo: luoghi, date, persone e fatti sono per lui la materia grezza che solo l’arte del romanziere può rendere a tutti gli effetti viva e parlante; come già ricordava Falqui, nel Giornale parigino non v’è dunque « nulla di affidato unicamente alla trascrizione o rievocazione, cronachistica e basta, dell’episodio: incontro, invito, visita, conversazione, spettacolo o incidente che sia stato ». È del resto lo stesso Malaparte a sottolinearlo nella prefazione: « Un “giornale” è un racconto » dichiara, e del racconto assume di conseguenza tutti gli elementi di costruzione e narrativizzazione4.

Il tema conduttore del testo rimasto incompiuto è quello dell’estraneità vissuta dall’autore in quella che riteneva la sua seconda se non autentica patria, la Francia, dopo i cambiamenti intervenuti successivamente alla seconda guerra mondiale. Guerra che, comunque, lo avevano reso meno interessante per quelli che credeva essere gli “amici francesi”. E anche se non tutti lo avrebbero rifiutato, spesso nei suoi confronti avrebbero dimostrato la freddezza che si manifesta nei confronti di un nemico o ex-amico, proprio a causa della guerra scatenate nel giugno del 1940 dal regime fascista nei confronti del paese d’oltralpe, già sotto attacco da parte delle forze armate tedesche.

Così un Malaparte che, nonostante la partecipazione alla marcia su Roma e la firma apposta sul manifesto degli intellettuali fascisti, era sempre rimasto un elemento scomodo per il regime, come egli stesso afferma nel Journal – «Sono stato arrestato undici volte in vent’anni, non posso dormire tranquillo da nessuna parte, in Italia»5 – si ritrova apolide, lontano da quelle sponde che sperava volessero ancora accoglierlo e allo stesso tempo rifiutato da quell’Italia che, prima in armi poi sotto le bandiere mussoliniane e infine al servizio degli occupanti anglo-americani6, egli aveva sempre creduto di servire.

Un opportunista, certo e in maniera evidente, ma che per le sue idee era stato allontanato dal quotidiano «La Stampa» di cui era stato direttore, espulso del Partito Nazionale Fascista e condannato a 5 anni di confino all’isola di Lipari, anche se già nel 1934 il confino era stato commutato in soggiorno obbligato a Forte dei Marmi. In particolare a disturbare, per così dire, il regime era stata, oltre che la sua vicinanza al fascismo cosiddetto di sinistra e a Giuseppe Bottai, la pubblicazione in Francia nel 1931 di un testo che in Italia sarebbe stato tradotto soltanto nel 1948: Technique du Coup d’État (Tecnica del colpo di Stato), sostanzialmente un manuale per la conquista del potere attraverso il rovesciamento dello Stato. Nel libro, bruciato sulla pubblica piazza per volontà di Hitler ma che giunse a ventisette edizioni in Francia e fu tradotto anche in inglese, spagnolo, polacco e cecoslovacco, si analizza e critica sia l’ascesa al potere del Partito bolscevico in Unione Sovietica che di quello nazionalsocialista in Germania. Come ebbe modo di affermare lo stesso autore nel Memoriale scritto nel 1946:

Nel 1930, mentre ero direttore della «Stampa» […] invece di scrivere per il giornale articoli laudativi e cortigianeschi, dedicai il poco tempo che mi rimaneva libero a scrivere la Technique du Coup d’État per l’editore francese Bernard Grasset. […] Quando lasciai la «Stampa» nel gennaio del 1931, il libro era pronto ad andare in stampa e, conoscendo, la natura del libro, decisi di recarmi in Francia perché la sua pubblicazione non mi sorprendesse in Italia. […] L’edizione italiana fu proibita da Mussolini sia per il tono del libro, sia per il capitolo su Hitler e il nazismo. Esso è il primo libro apparso in Europa contro Hitler. Il successo del libro mi portò di colpo alla ribalta di celebrità internazionale. Furono pubblicati su di me centinaia di articoli, concesse centinaia e centinaia di interviste, ebbi inviti per conferenze, per collaborazioni, offerte per contratti editoriali, molte università, fra cui l’Università americana di Yale, mi invitarono a tenere corsi di lezioni sulla letteratura moderna europea. In Italia i giornali fascisti attaccarono il mio libro e io fui accusato di fuoruscitismo. Non sto a ridire le ingiurie di cui fui coperto7.

Affermazioni in cui si può riscontrare l’attitudine del Malaparte a mettersi al “centro del mondo”, in un senso molto prossimo a Malraux, ma anche la volontà di rimarcare le distanze “prese per tempo” dal regime. Come sottolinea ancora Giorgio Luti nella medesima introduzione:

Sta di fatto che l’opera nelle sue linee generali era già stata progettata prima della improvvisa «defenestrazione» dalla «Stampa» dovuta sicuramente all’atteggiamento di fiancheggiamento che Malaparte aveva assunto nei confronti delle rivendicazioni operaie in tutta l’Europa (si pensi alle corrispondenze dall’estero sullo scottante argomento a cui il giornale torinese concedeva larga ospitalità) e in particolare nella città sede della FIAT, cioè dell’industria i cui proprietari finanziavano il giornale8.

Quest’ultima osservazione induce a rilevare la complessità di una figura e di un percorso politico e intellettuale in cui, comunque, hanno sempre avuto un ruolo di rilievo i comportamenti contraddittori che spesso hanno caratterizzato molte personalità della cultura del ‘900, ma non solo. Motivo per cui occorre ancora ricordare come Enrico Falqui, in occasione della pubblicazione per Vallecchi, nel 1971, dell’allora ancora inedito Ballo del Cremlino dello stesso Malaparte9, si augurasse:

che finalmente fosse scaduto per lo scrittore pratese il tempo del «purgatorio» in cui lo aveva ingiustamente relegato la cultura italiana dell’epoca ormai lontana della repentina scomparsa nel luglio del 1957. Era tempo che nascesse – scriveva Falqui – l’occasione di impostare su altre basi un incontro che per troppo tempo e non certo per colpa di Malaparte, era stato rimandato sotto la spinta di equivoci e risentimenti che poco avevano a che fare con la cultura, con la letterartura e con l’arte. Cose che del resto capitano quando ci si incontra con uno scrittore che prima di tutto è stato un personaggio pubblico, un protagonista di primo piano della vita politica italiana del ventennio fascista e nei primi anni del dopoguerra: un intellettuale inquieto sempre in bilico tra «rosso» e «nero»10.

La riproposta delle opere di Malaparte, il cui elenco si potrebbe definire sterminato, intrapresa da diversi anni dalle Edizioni Adelphi forse risponde a questa necessità di riscoperta auspicata da Falqui ed è, come spesso accade per questo editore, sicuramente meritoria11. Tipica comunque di una casa editrice il cui principale artefice, Roberto Calasso (1941-2021), si era rivelato spesso altrettanto scomodo per la bigotteria culturale italiana, sia di destra che di sinistra.

Poiché quasi tutte le opere di Malaparte richiederebbero un’analisi ben più lunga di quello che lo spazio di una recensione come questa potrebbe loro dedicare, è necessario ritornare in chiusura al diario parigino del 1947-1949. Senza però dimenticare di ricordare che, tra i tanti passaggi di fronte che caratterizzarono sempre la vita dello scrittore, negli anni successivi al conflitto non poté mancare, come per tanti altri transfughi del fascismo di sinistra o del fascismo tout court, un tentativo di avvicinamento dello stesso al Partito comunista.

Con cui, per sollecitazione dello stesso Togliatti, avrebbe dovuto collaborare attraverso le pagine della rivista settimanale «Vie Nuove», cui inviò gli appunti redatti nel 1957, in occasione di un viaggio nella Cina comunista, dove, osservando la vita nelle città e soprattutto nel campagne, era rimasto affascinato dai fermenti rivoluzionari in atto e aveva avuto anche modo di intervistare Mao Zedong. Appunti che, però, non vennero pubblicati a causa dell’opposizione di Calvino, Moravia, e altri intellettuali, che avevano sottoscritto una petizione affinché “il fascista Malaparte” non potesse pubblicare su una ”rivista comunista”12.

Il diario francese è sicuramente di altro tenore e riporta immediatamente il lettore in quel mondo intellettuale, e spesso salottiero, che da sempre e non soltanto in Francia, aveva attratto lo scrittore per le storie infinite che ne potevano derivare. Come, ad esempio, quelle narrate dall’ambasciatore italiano in Francia, Quaroni, ma un tempo Ministro d’Italia in Afghanistan di cui conservava, come si trattasse di un viaggiatore del XVIII secolo, memorie straordinarie.

[Quaroni] mescola l’erudizione allo spirito della scoperta, la meraviglia dell’esploratore al diplomatico dotato di uno spirito d’osservazione nutrito di letture e di esperienze. Mi parla dei cavalli e dei cani del re dell’Afghanistan, della caccia reale, dei ricordi, ancora vividi, che Alessandro Magno ha lasciato in quelle contrade misteriose. Mi parla della straordinaria popolarità del poeta persiano ****, che ogni contadino afgano conosce a memoria. Ama l’Afghanistan, e quando gli dico che c’è una sola contrada al mondo che eccita la mia immaginazione, che c’è una sola contrada che vorrei visitare, dove vorrei vivere, ed è l’Asia centrale, l’altopiano dell’Altai, e le immense solitudini delle steppe persiane e afgane, del Turkmenistan, donde si vede all’orizzonte la linea di matita azzurra dell’Himalaya, sorride, deliziato. Amo i diplomatici, amo la loro compagnia, la loro conversazione. Solo i diplomatici, ai giorni nostri, possono prendere nella società il posto dei dotti gesuiti del XVII secolo, che tornavano dall’Oriente, dall’Africa, dall’America centrale, e che portavano con sé tutto un tesoro di conoscenza, la cui fragilità, la cui delicatezza, davano alle loro parole, quando parlavano di una montagna o di un fiume immenso, o di un deserto, o di un forte, o di un castello, l’impressione che parlassero di minuscoli, fragili, trasparenti oggetti di porcellana13.

Un giornale in cui alle intuizioni fulminanti, «Il cinema è la patria degli stranieri» (a proposito del cinema di Roberto Rossellini, p. 14), si accompagnano ricordi che riportano al clima successivo al primo grande macello imperialista di cui Malaparte fu attento cronista e magnifico cantore in un’opera, che nel 1921 costituì anche il suo battesimo letterario e che si spera le Edizioni Adelphi, in tempi di guerra come quelli che stiamo vivendo, vogliano al più presto riproporre al pubblico: Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti14.

La prima opera a prendere una posizione decisamente opposta alla leggenda militarista e perbenista fondata sulla presunta viltà dei soldati italiani al fronte e che in realtà, come lo stesso Malaparte sottolinea facendone un’apologia, diedero vita ad una enorme ribellione disfattista che soltanto l’assenza di un partito volto al rovesciamento dell’ordine monarchico e borghese impedì che si trasformasse in autentica rivoluzione, così come era invece accaduto sul fronte russo nell’inverno tra il 1916 e il 1917. Un tema, quello dei patimenti dei militari al fronte e successivi alla guerra, che viene ripreso, come s’è detto poc’anzi, nelle pagine del Giornale che ricordano un episodio successivo alla fine della guerra, nel 1919.

Voglio bene a questi uomini, a questi Francesi: sono della mia stessa razza. Anch’io sono un uomo del 1914. Ma mi si stringe il cuore, al ricordo di come li vidi tornare a casa, dopo la guerra, dopo la vittoria, nel 1919. Tutte le volte che incontro di questi uomini, non posso difendermi dal ricordare quell’episodio. Era il primo maggio 1919, un grande comizio di protesta per la vita cara, per non so che, era stato organizzato in Piazza della Concordia. Da tutte le parti dell’immensa città, giungevano colonne e colonne di uomini ancora in uniforme bleu horizon, migliaia e migliaia di mutilati sorretti dai compagni, e folle enormi di anciens combattants, tutti in uniforme terrosa, stinta, sgualcita delle trincee. Nelle prime ore del pomeriggio, la Place de la Concorde era occupata da un immenso esercito di antichi soldati, da migliaia e migliaia di soldati fra i più valorosi del mondo. […] Erano i migliori soldati del mondo, i più tenaci, i più duri, i più ostinati, i più coraggiosi. Cantavano i loro canti di guerra, […] qua e là, sventolavano su quell’esercito bandiere rosse; i mutilati, ammassati sotto l’Hotel Crillon, agitavano le loro grucce, i loro bastoni. Era un esercito di veterani, pronto alla lotta, invincibile e vittorioso. Dalla terrazza dell’Hotel Crillon, mescolato alla piccola folla di spettatori delle delegazioni straniere per la pace, io contemplavo quell’immenso esercito, col quale avevo sofferto, combattuto. Erano i miei compagni di guerra, ero fiero di loro. A un tratto, dal giardino delle Tuileries, dalla Rue Boissy-d’Anglas, dalla Rue de Rivoli, dai Champs-Élysées, dal ponte, sbucarono folti gruppi di agenti, armati di sfollagente, che si gettarono su quell’invincibile esercito di veterani, li massacrarono, li bastonarono, li dispersero, li inseguirono a calci nel sedere. Quell’immenso, invincibile esercito di veterani fuggì, si disperse, sul pavé della sterminata Piazza rimasero abbandonati, tristi e lugubri, berretti, grucce, bandiere. Addossato a una colonna, io frenavo a stento le lacrime. Fu quel giorno che io sentii oscuramente che la mia generazione aveva perso la guerra15.

Ma se l’autore sentiva ancora di essere vicino a quei francesi con cui aveva combattuto in passato, una fascia consistente di (ex-) amici e conoscenti non provava invece più lo stesso sentimento nei suoi confronti.

A sorprendermi un po’, e a turbarmi, è l’aria con cui mi guarda François Mauriac. Con uno sguardo di rimprovero, dall’alto, come se, dal nostro ultimo incontro, fossero accadute delle cose che mi si possano rimproverare. Faccio un rapido esame di coscienza. Non ho fatto niente di male, niente che mi si possa rimproverare, niente contro la Francia e i francesi, niente contro l’onore, la giustizia, la verità, la libertà, niente contro François Mauriac. In tutti questi anni, ho sofferto come tutti, ho passato diversi anni in carcere, come molti. Per me, François Mauriac è rimasto lo stesso. Perché io non sono lo stesso per François Mauriac? Ah, sono italiano. Il mio paese ha dichiarato guerra alla Francia, i soldati del mio paese hanno occupato dei territori francesi. Ecco. Ma quando ero nel carcere di Regina Coeli, quando ero a Lipari, quanti francesi salivano la scalinata di Palazzo Venezia e andavano a rendere omaggio a Mussolini. Politici, scrittori, francesi di ogni sorta. Comunque sia, non serbo loro rancore, erano nel loro diritto16.

Come il personaggio di un romanzo di Robert Heinlein, Malaparte, pur ispirato da buoni propositi e nostalgici sentimenti si sente “straniero in terra straniera”, ormai sia in Italia che in Francia17. Un destino che lo accomuna a molti profughi e superstiti della catastrofe del ‘900 europeo che determinò la fine del predominio delle culture e delle economie europee sul resto del mondo, nonostante lo sforzo di estenderlo e difenderlo con una seconda guerra mondiale che, però, finì soltanto col determinare la fine del colonialismo europeo; mentre la successiva lunga pausa illusoria di pace e prosperità globale, almeno dall’inizio del XXI secolo, sembra essersi fatta sempre più labile e incerta.

Per comprendere molti aspetti di un presente dalle radici molto profonde e sparse la lettura di molte opere di Malaparte, tra cui quest’ultima, si rivela illuminante e necessaria, nonostante lo stigma che, come per Céline, non a caso lo colpì, come si è già detto, negli anni del secondo dopoguerra.

Céline e Malaparte furono scrittori emblematici per la singolarità delle loro esistenze e il carattere peculiare della loro letteratura che si situa al centro dei dibattiti socio-ideologici della loro epoca; scrivere è un modo per definirsi attraverso il rifiuto e la solitudine, è il desiderio di un io che rigetta la società e vuole esprimere la propria denuncia attraverso la letteratura. Gli autori riusciranno quindi con questa loro pretesa di verità, di critica continua espressa senza alcuna moderazione, a farsi criticare, censurare e addirittura esiliare. Il pensiero di Malaparte e Céline si basa su un’osservazione critica e attenta della società in cui vivono, osservazione che i due scrittori riescono a rendere attraverso una scrittura molto elaborata e personale. La loro critica va alla storia scritta dai potenti, nel tentativo di mettere in scena la tragedia della povertà e della sottomissione ai poteri invisibili, lasciando spazio a chi nella storia non ha nessuna autorità, buttando giù le false verità e la facile retorica. I due autori, di cui non è immediato trovare la chiave di interpretazione, propongono quindi una riflessione sul rapporto tra gli uomini, sulla relazione tra l’individuo e il potere politico-economico, sempre mostrando una coscienza della lingua e del loro ruolo di scrittori che li rende estremamente interessanti nel contesto letterario del primo Novecento e che non ha smesso di affascinare i critici sino ai giorni nostri. Céline e Malaparte, come molti romanzieri loro contemporanei, esprimono il rifiuto del mondo, coscienti dell’impossibilità di salvarsi dal disastro che la guerra ha lasciato: l’uomo ha mostrato la sua crudeltà, si è denudato ed ogni forma di coesione e di unione è crollata. In tale contesto disastrato i due letterati si mostrano solitari, individualisti nelle loro scelte, avversari di ogni chiesa e partito. La loro è anche scrittura di immersione nel marcio della società, tra gli sventurati, attraverso uno stile singolare ed un lessico aspro e dirompente18.

Una poetica che, per quanto riguarda lo scrittore italiano, si manifestò violentemente e visionariamente nelle sue due opere più celebri: Kaputt (1944) e La pelle (1949). La prima delle quali fu definita dallo stesso Malaparte come «un libro crudele. La [cui] crudeltà è la più straordinaria esperienza che io abbia tratto dallo spettacolo dell’Europa in questi anni di guerra».

Maria Antonietta Macciocchi, iniziale destinataria degli appunti sulla Cina cui si è accennato più sopra e che gli fu vicina negli ultimi momenti della vita, ha ricordato in un convegno tenutosi a Prato nel 1987, a trent’anni dalla scomparsa dello scrittore, che almeno in Francia l’«anno malapartiano» aveva ricevute cospicue e convinte adesioni da parte di molti intellettuali e tre intere pagine dedicate allo stesso dal quotidiano «Le Monde», tutte tese a rompere il silenzio ufficiale intorno all’«infame Malaparte»19.

La Macciocchi può avere ragione nell’estendere a tutti o quasi gli intellettuali italiani il cliché di fascisti pentiti dopo il colpo di bacchetta magica del 25 luglio, e pentiti senza esami di coscienza, ma con opportunistici colpi di spugna, che escludevano per l’intelligenza italiana esiti tragici come quelli di Drieu de la Rochelle, di Brasillach o di Céline, donde il «regolamento di conti» della società dei colti ai danni di un suo adepto, che «rompeva tutti gli schemi del vecchi provincialismo, e si ricollegava a grandi momenti complessi del pensiero e della vita, talora contraddittori, fatti di abiure e di speranze, di negazione della fede e di fede, vale a dire di un uomo che riassumeva in sé la fantastica razionalità dell’europeo e l’irrazionalità del «maledetto toscano». In altre parole Malaparte amplificava in modi addirittura spettacolari il percorso […] che era stato di molti, quasi di tutti, «oberato in patria di tutti i “vizi” della sua generazione, e dell’intero ceto intellettuale italiano», e si attirava perciò i fulmini dalla corporazione delle lettere e delle scritture20.

Con buona pace di Alberto Moravia che con il suo “stile” velenoso lo aveva invece definito scrittore strumentale perché lo scrivere libri «gli consentiva di brillare con le donne nei salotti», mettendosi «in smoking»21.


  1. C. Malaparte, Giornale di uno straniero a Parigi, a cura di Michelangelo Fagotti e Monica Zanardo, Adelphi Edizioni, Milano 2025, pp. 9-10.  

  2. L’entomologia fu una grande passione dello scrittore tedesco che alle osservazioni degli insetti dedicò numerose pagine e momenti della sua vita “privata”. Nel testo Cacce sottili (Guanda, 2022) è riassunta la storia di questa passione cui Jünger non cesserà di dedicarsi per tutta la vita: negli anni della guerra come nel corso di viaggi in Italia, nel Medio Oriente, in Asia. Gli insetti offrirono sempre allo scrittore occasione di riflessione sul tempo e sul mutare del volto della natura, sui desideri umani, sulla ricerca inesausta, infaticabile, del sapere e del piacere. Il mondo sottile degli insetti, scenario di bellezza e crudeltà, diventava così una metafora del cosmo. E dei suoi drammi.  

  3. A. Malraux, Antimemorie, Bompiani, Milano 2022.  

  4. M. Zanardo, Straniero in due patrie: Curzio Malaparte a Parigi, in C. Malaparte, Giornale di uno straniero a Parigi, op. cit., pp. 415-416.  

  5. C. Malaparte, op. cit., p. 14.  

  6. Dopo aver rifiutato nel settembre del 1943 l’adesione alla RSI, nel novembre dello stesso anno era stato arrestato dal Counter Intelligence Corps (CIC), il controspionaggio alleato, per le sue attività diplomatiche e da allora aveva iniziato a collaborare col CIC.  

  7. Cit. in G. Luti, Il cronista dell’Europa «catilinaria», Introduzione a C. Malaparte, Tecnica del colpo di stato, Vallecchi Editore, Firenze 1994, pp. 22-23.  

  8. G. Luti, op. cit., p. 23.  

  9. C. Malaparte, Il ballo al Kremlino (Materiale per un romanzo), Adelphi Edizioni, Milano 2012.  

  10. G. Luti, op. cit., p. 19.  

  11. Di Curzio Malaparte fino ad oggi le Edizioni Adelphi hanno ripubblicato, oltre al già citato Ballo al Kremlino: Il buonuomo Lenin (2018), Maledetti toscani (2017), La pelle (2015), Kaputt (2014), Tecnica del colpo di Stato (2011) e Coppi e Bartali (2009).  

  12. In realtà le note dei viaggi in Russia e in Cina di Malaparte, furono pubblicate, a cura di Giancarlo Vigorelli, l’anno successivo alla sua morte da Vallecchi Editore: C. Malaparte, Io, in Russia e in Cina, Firenze 1958.  

  13. C. Malaparte, Giornale di uno straniero a Parigi, pp. 17-18.  

  14. C. Malaparte, Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti (secondo il testo della prima edizione del 1921),Vallecchi Editore, Firenze 1995.  

  15. C. Malaparte, Giornale, op. cit., pp. 38-39.  

  16. Ivi, pp. 22-23.  

  17. R. Heinlein, Straniero in terra straniera (titolo originale Stranger in a Strange Land, prima edizione 1961), Fanucci, Roma 2025.  

  18. L. Libeccio, Céline, Malaparte. Malaparte, Céline: una poetica del disincanto, «Cahiers d’études italiennes», 24/2017.  

  19. M. A. Macciocchi, Ricordo di Malaparte scrittore europeo, in Malaparte scrittore d’Europa. Atti del convegno (Prato 1987) e altri contributi, Marzorati Editore- Comune di Prato, 1991. 

  20. M. Biondi, I giorni dell’ira: «Viva Caporetto!» Apologia di una disfatta, Inroduzione a C. Malaparte, Viva Caporetto!, op. cit., pp. 10-11.  

  21. Cit. in G. Grana, Il «camaleonte» e il sistema letterario italiano, in Malaparte scrittore d’Europa, op. cit., p. 2.  

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