Modi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Aug 2025 20:00:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il nuovo disordine mondiale / 12: Vittorie perdute*. https://www.carmillaonline.com/2022/04/28/il-nuovo-disordine-mondiale-12-vittorie-perdute/ Thu, 28 Apr 2022 20:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71617 di Sandro Moiso

“Siamo in guerra. Ma per quale vittoria? E se non lo sappiamo, come potremo stabilire se avremo vinto o perso, quando mai finirà?” (Lucio Caracciolo) “Questo è il futuro, sorellina…” (La canzone del tempo – Ian R. MacLeod)

Ci siamo. Dopo più di sessanta giorni dal suo inizio, la guerra nei fatti è dichiarata. Non quella della Russia con l’Ucraina, ma quella che fino ad ora si è manifestata, nemmeno troppo, sottotraccia: Biden contro Putin, Nato contro Russia e contro gli alleati recalcitranti, Occidente “democratico” contro resto del [...]]]> di Sandro Moiso

“Siamo in guerra. Ma per quale vittoria? E se non lo sappiamo, come potremo stabilire se avremo vinto o perso, quando mai finirà?” (Lucio Caracciolo)
“Questo è il futuro, sorellina…” (La canzone del tempo – Ian R. MacLeod)

Ci siamo. Dopo più di sessanta giorni dal suo inizio, la guerra nei fatti è dichiarata.
Non quella della Russia con l’Ucraina, ma quella che fino ad ora si è manifestata, nemmeno troppo, sottotraccia: Biden contro Putin, Nato contro Russia e contro gli alleati recalcitranti, Occidente “democratico” contro resto del mondo “autoritario”.

Ma guai a parlare di imperialismo, se non è quello russo-putiniano; guai a parlare di pace se non è quella dettata dai cannoni e dall’invio di armi; guai ragionare; guai uscire dal coro; guai smontare la propaganda bellica di entrambi le parti in conflitto.
Guai, guai, guai…
Basti invece cantare come i sette nani disneyani: Andiam, andiam, andiam a guerreggiar… (i nanetti di allora cantavano lavorar, ma che importa ormai ai nano-burocrati rappresentanti del capitale internazionale?). Oppure “Bella Ciao”, contro qualsiasi commemorazione della Resistenza che non si limiti ad esaltare l’unità nazionale e interclassista con i fascisti di un tempo e con quelli di oggi.

Così, nei libri di Storia futuri (stampati, online oppure semplicemente scolpiti nella pietra), come data di inizio vero del Terzo conflitto mondiale potrebbe essere ricordata non quella del 24 febbraio 2022 per l’invasione russa dell’Ucraina, ma quella del 26 aprile dello stesso anno. Giorno in cui, a Ramstein in Germania, il vertice Nato allargato ha, di fatto, dichiarato ufficialmente guerra alla Russia. Zelensky (autentico Renfield del vampirismo occidentale, ma tutto sommato personaggio secondario della catastrofe mondiale cui stiamo andando incontro), Boris Johnson (a caccia di una riabilitazione politica per la propria carriera e di un nuovo ruolo imperiale per il Regno Unito, costi quel che costi) e Sleepy Joe Biden (l’esibizione concreta del sonno della ragione che guida le scelte occidentali e della Nato) hanno scelto per noi, per la specie e l’umanità intera: basti leggere i titoli dei maggiori quotidiani del giorno successivo, il cui significato può essere sintetizzato con una frase di antica memoria: Alea iacta est (il dado è tratto).

Così mentre i russi avanzano poco a poco, conquistando i territori orientali ucraini e procedendo nell’opera di accerchiamento dei quarantamila soldati delle forze armate di Kiev attestati su quel fronte, i leader occidentali promettono, già intravedendola attraverso gli occhi spiritati di Zelensky, una vittoria in realtà piuttosto difficile da raggiungere e, in compenso, gravida di rischi già contenuti nelle stesse scelte che dovrebbero favorirla. Come, a solo titolo di esempio, l’ulteriore stanziamento di 33 miliardi di dollari richiesto da Joe Biden al congresso americano per la fornitura di altre armi all’Ucraina. Richiesta che fa inevitabilmente pensare alla previsione di una guerra di “lunga durata”.

Non tanto e soltanto per le parole già pronunciate in precedenza dal ministro degli esteri russo Lavrov a proposito del rischio di deflagrazione di una terza guerra mondiale e neppure per le minacce contenute nel discorso tenuto da Putin, a Pietroburgo il 27 aprile, con il riferimento al possibile ricorso ad armi per ora impreviste o sconosciute per l’alleanza occidentale. Ma anche, e forse soprattutto, per le crepe sempre più evidenti che tale dichiarazione di guerra aperta alla Russia rischia di aprire non soltanto tra i presunti alleati, ma anche con le altre potenze presenti sul pianeta. Cina e India in testa.

Come si afferma nell’editoriale del primo numero della rivista «Domino»:

Per gli esseri umani cogliere la profondità del momento storico che abitano è esercizio assai complesso. Travolti dalle circostanze, impegnati a sopravvivere, non percepiscono il frangente vissuto. Nel 476 d.C. nessuno si accorse che la deposizione dell’imperatore Romolo Augustolo avrebbe decretato la fine dell’impero romano d’Occidente – ammesso che sia accaduto sul serio1.

Così, se in Europa la questione delle forniture di gas ha già aperto un divario non secondario tra le richieste americane di sanzioni e gli effettivi interessi economici e produttivi di paesi come la Germania, l’Ungheria, la Slovacchia, la “neutrale” Austria e, anche, della timorosa e confusa italietta draghiana (in cui il peso dell’ENI, che avrebbe già deciso di pagare in rubli le forniture, non può affatto essere considerato secondario sia dal punto di vista economico che politico)2, nonostante le dichiarazioni dell’imperturbabile e insignificante Ursula von der Leyen, secondo la quale «l’Europa non si piegherà al ricatto (russo)», nel resto del mondo l’Occidente, per fingere una sua presunta aumentata influenza, ha dovuto accontentarsi di invitare al vertice di Ramstein paesi come la Liberia, la Tunisia, la Giordania, il Kenya e poco altro ancora.

Atterriti dall’aggressività russa, nei prossimi mesi i principali paesi europei aumenteranno grandemente la spesa militare. Su tutti, la Germania. Massimo esportatore relativo al mondo, tra i più capaci soggetti esistenti, da decenni Berlino è priva di reali forze armate – nelle parole dello Stato maggiore britannico, «i soldati tedeschi sono soltanto campeggiatori aggressivi». Dimensione innocua, utile per tranquillizzare i vicini, prossima a scomparire.
[…] Così il Regno Unito vorrà inserirsi nell’estero vicino della Germania, tornando a ergersi a principale sodale di polacchi e rumeni, come capitato in altri drammatici passaggi della storia.

Sebbene in questa fase salutino con soddisfazione il suo nuovo corso, presto gli Stati Uniti inizieranno a sospettare del satellite berlinese, troppo ingombrante per diventare bellicoso. Fino ad accendere la vecchia competizione bilaterale, soltanto parzialmente sopita con la seconda guerra mondiale. Al di là dell’appartenenza al medesimo fronte, Washington conserva una latente ostilità nei confronti della Repubblica Federale, memore d’aver faticosamente avversato ogni crescente potenza teutonica3.

Sbandierando poi la dichiarazione cinese che «nessuno vuole la terza guerra mondiale», i media italiani guerrafondai fingono una sorta di presa di distanza della Cina dalla politica russa, mentre è evidente che, pur nella sua ovvietà, la Cina non condivide l’attuale politica di aggressione verbale e militare portata avanti dai maggiori rappresentanti della Nato (USA e Gran Bretagna) nei confronti dei governanti e dei territori russi.

L’altro tema su cui si glissa, poi, è il fatto che il nazionalista Modi, in India, abbia di fatto respinto per ben tre volte la richiesta portata avanti, al più alto grado di rappresentanza politica, da Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Europea affinché il suo paese abbandonasse la posizione astensionista nei confronti della condanna della condotta russa, tenuta fin dalla prima votazione alle Nazioni Unite nei primi giorni del conflitto russo-ucraino.

Rifiuto che pone l’India, una delle principali potenze economiche del globo e membro più che importante dei BRICS, in una situazione di attesa che, senza manifestare soverchie simpatie per Putin e la sua politica, si rivela comunque minacciosa per la tranquillità occidentale, la cui politica di intervento militare sempre più esteso si accontenta di giustificarsi attraverso la pretesa di un cambio della guardia in Russia, magari con la speranza di tornare ai tempi di El’cin, senza tener conto dell’autentico tsunami geopolitico che sia le scelte di Putin che proprie hanno e stanno contribuendo a sollevare su scala planetaria.

Ha dunque perfettamente ragione chi ponga l’esiziale domanda, al nostro governo come a quelli occidentali coinvolti, talvolta controvoglia come quello tedesco, nelle decisioni prese a Ramstein: quale vittoria si vuole perseguire? Ma, soprattutto: sono state messe in conto le conseguenze di una possibile sconfitta? A quanto pare, come per l’alterigia che accompagnò il generale Custer al disastro del Little Big Horn, NO.

Sconfitta che potrebbe derivare non soltanto dal differenziale bellico intercorrente tra l’arsenale nucleare russo e quello occidentale in Europa (qualcosa come dieci a uno, 2000 armi tattiche contro 200, secondo Lucio Caracciolo), ma anche dal fatto, che pur in caso di pareggio, le condizioni del continente europeo, soprattutto, potrebbero uscirne radicalmente modificate al ribasso (sia sul piano economico che sociale) a causa delle distruzioni che ne conseguirebbero.

Se tali distruzioni potrebbero già essere, in forma minore, anticipate dalla crisi economica derivante da un embargo del gas russo, paventata dalla gran parte degli imprenditori europei4, e dalle proteste sociali che ne deriverebbero, mentre già una parte significativa dei paesi mediorientali o affacciantisi sul Mediterraneo meridionale vede già accrescersi le spinte delle proteste di piazza per le difficoltà alimentari derivanti dal medesimo conflitto5, le conseguenze reali e finali potrebbero andare oltre qualsiasi previsione politica, economica o militare.

In questo senso, nonostante le minacce reiterate dell’Occidente ai due paesi che continuano ad acquistare il 70% delle loro armi dalla Russia e ad approfittare, oggi e in futuro, della necessità della stessa di vendere le risorse energetiche non più richieste da una parte dei paesi occidentali, India e Cina potrebbero uscire vincitrici da un conflitto destinato probabilmente a indebolire fortemente l’Europa, la Russia e, seppur con qualche differenza se riusciranno ad approfittare delle distanza dal teatro bellico, gli Stati Uniti stessi. Vincere senza muover un dito e senza sparare un colpo costituirebbe la massima realizzazione del pensiero militare orientale e cinese in particolare. Mentre, al contrario, si rivelerebbe un’autentica catastrofe per il capitalismo occidentale, i suoi apparati, le sue società, i suoi sistemi produttivi e le sue dottrine belliche.

Ipotesi non così peregrina se si considera come la Cina ha potuto sostituire gli americani in Afghanistan, dopo la loro precipitosa ritirata, occupandone le basi militari più importanti, come quella aerea di Bagram, oppure accaparrarsi i diritti di sfruttamento degli enormi giacimenti di terre rare, di cui quel paese è ricco, senza colpo ferire.

La minaccia poi contenute nelle dichiarazioni della von der Leyen durante il suo recente viaggio in India, nel tentativo di smuovere Modi dalle sue posizioni, ovvero quella che un embargo dei microprocessori prodotti a Taiwan, che realizza in proprio o su licenza più del 60% della produzione mondiale degli stessi, nei confronti della Russia potrebbe far sì che l’India, insieme alla Cina, potrebbe non più ricevere gli armamenti più sofisticati prodotti dall’industria bellica russa proprio per mancanza di quelli, potrebbe ottenere un effetto contrario a quello desiderato. Ovvero spinger la Cina, con l’avvallo indiano cosa impensabile fino a poco tempo fa, ad affrettare i preparativi per un’invasione dell’isola contesa all’influenza occidentale fin dal 1949.

Mentre, con una certa forzatura nel ragionamento, si continua ad affermare che Putin con la sua azione è riuscito a rendere più forte e collaborativa l’alleanza occidentale, ci si nasconde che in realtà è proprio l’azione occidentale a rendere possibili, magari anche solo momentaneamente, alleanze fino ad ora imprevedibili, come quella tra i due colossi asiatici. Soprattutto in un momento in cui, lo capirebbe anche il più asino degli strateghi, gli USA, nonostante la baldanza dei suoi rappresentati e del suo svanito presidente, non potrebbero impegnarsi su tutti i fronti destinati a svilupparsi a seguito del precipitare della situazione attuale. In cui anche il pesante riarmo giapponese, il più importante dalla fine del secondo conflitto mondiale in poi, esattamente come per quello tedesco, non significa soltanto allineamento agli ordini americani e occidentali, ma piuttosto l’apertura di una partita in proprio e a tutto campo.

Come sonnambuli, i rappresentanti occidentali riuniti a Ramstein, si sono avviati sul loro viale del tramonto, contenti oppure inconsapevoli di essere destinati a precipitare nel dimenticatoio della Storia, ma, esattamente come il loro avversario Putin, vilipeso, insultato e demonizzato insieme a tutto il popolo russo, ben determinati a cercare di difendere la propria posizione egemonica anche a costo della rovina e distruzione dei propri governati o di buona parte della specie umana.

Così come l’attorucolo Zelensky persegue orgogliosamente, stupidamente e neppure in nome dei reali interessi del popolo che si è trovato ad amministrare.
Con buona pace di tutti coloro in tutto ciò vogliono cogliere, ad ogni costo, un esempio di Resistenza, piuttosto che la demoniaca competizione imperialista che la sottende. Su ogni fronte.

Con leggerezza si parla della guerra, della sua necessità senza averne mai saggiato la pornografia della morte e la crudezza delle sue perversioni. Senza accorgersi che si lustra così la sua forza di attrazione, le si offre uno scopo, un senso, una dignità, una causa, un quarto di nobiltà. E’ un errore fatale. […] Nell’enunciazione di concetti primitivi, l’onore, il dovere riaffiora soprattutto una perfida tradizione irrazionalistica, uno sconclusionato dannunzianesimo fuori tempo: con la voluttà dell’esser eroe, il culto della morale guerresca, il vivo foco della lotta, e altri intrugli che infiammano i piccoli ribellismi borghesi di ogni tempo6.

* Il riferimento è a Vittorie perdute (Go Tell the Spartans), un film di Ted Post del 1978. Ambientato in Vietnam, nel 1964, narra le vicende di un contingente di soldati sud-vietnamiti e americani che si accingono a occupare la base abbandonata di Muc Wa. Dopo aver affrontato attacchi notturni di piccoli contingenti di Vietcong, vengono sterminati. Se sul Vietnam, fino al 1990, sono stati prodotto negli USA più di 100 film, questo, interpretato da un cinico e disincantato Burt Lancaster, è scritto benissimo, con divertito distacco, da Wendell Mayes, ed è uno dei meno noti, ma dei più sottili e dialettici tra tutti quelli realizzati sull’argomento.

(12 – continua)


  1. Punto di svolta in Ritorno al futuro, «Domino» n° 1, aprile 2022, p.7  

  2. Si veda: Vanessa Ricciardi, Putin comincia a togliere il gas e spacca l’Unione europea, «Domani», 28 aprile 2022  

  3. Punto di svolta, op. cit. p.9  

  4. Si veda anche soltanto il tentativo di tenere aperti i rapporti col mercato russo da parte dei maggiori calzaturifici italiani, che nei giorni scorsi in barba ai divieti hanno inviato una loro nutrita delegazione di rappresentanti in Russia  

  5. Si veda: Francesca Mannocchi, La guerra, la carestia e le rivolte del pane, «La Stampa» 23 aprile 2022  

  6. Domenico Quirico, L’ebbrezza militarista che spinge al conflitto, «La Stampa» 28 aprile 2022  

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Il popolo dell’Apocalisse https://www.carmillaonline.com/2021/02/03/il-popolo-dellapocalisse/ Wed, 03 Feb 2021 22:00:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64774 “Liaisons, ricerca partigiana transoceanica”, vol. I In nome del popolo, Agenzia X, Milano 2020, pp. 248, 15,00 euro

Una rivista è uno spazio comune dove si riconoscono delle intelligenze unite nella differenza. La sua ricchezza è lo squilibrio delle esperienze e delle intelligenze soggettive. (Primo Moroni)

Esce, con qualche ritardo rispetto alla pubblicazione in Francia e negli Stati Uniti, il primo volume tematico di “Liaisons”, una rivista che è nata da anni di lavoro ed elaborazioni, legami personali e dibattiti che hanno coinvolto giovani studiosi e attivisti provenienti da diversi e numerosi [...]]]> “Liaisons, ricerca partigiana transoceanica”, vol. I In nome del popolo, Agenzia X, Milano 2020, pp. 248, 15,00 euro

Una rivista è uno spazio comune dove si riconoscono delle intelligenze unite nella differenza. La sua ricchezza è lo squilibrio delle esperienze e delle intelligenze soggettive.
(Primo Moroni)

Esce, con qualche ritardo rispetto alla pubblicazione in Francia e negli Stati Uniti, il primo volume tematico di “Liaisons”, una rivista che è nata da anni di lavoro ed elaborazioni, legami personali e dibattiti che hanno coinvolto giovani studiosi e attivisti provenienti da diversi e numerosi paesi del mondo. Un intreccio di amicizie e di comuni sensibilità che si è posto un obiettivo ambizioso e necessario: dar voce e spazio a un certo modo di porsi domande dentro il “tempo della fine”.

In un contesto mondiale in cui il terreno della politica, luogo in cui diverse soggettività si incontano e si scontrano dialetticamente, si sta dissolvendo con il venir meno della funzione dei parlamenti e dello Stato nazionale, dediti ormai principalmente alla gestione delle repressione e degli affari correnti indicati da centri finanziari e di potere “esterni”, si rende necessario una maggiore attenzione alle storie particolari, a come si presentano e ripresentano all’interno di determinati e differenti contesti.

Così a partire dalle lotte e dai percorsi organizzativi locali, “Liaisons” cerca di portare alla luce e rendere visibile una trama di situazioni e di prospettive che si allontanano sia dalle politiche rivendicative e governamentali sia dalla vecchia retorica della Rivoluzione.
Al di là di ogni aspirazione universalistica, la rivista tenta di riunire conflitti e intenti apparentemente distanti tra loro. Affinità sotterranee che sono in realtà alal ricerca di uno spazio condiviso, una cassa di risonanza, un riverbero planetario1.

Come si afferma nell’Introduzione:

Ora, proprio quando il mondo ci si presenta, attraverso la sua dissoluzione, sotto forma di una drammatica unità, all’orizzonte un’umile internazionale prende forma e potenza. La riconosciamo a partire da una serie di gesti familiari: la moltiplicazione dei conflitti diretti con la polizia, la diserzione generalizzata dalle istituzioni, il blocco delle strutture petrolifere e nucleari, la proliferazione delle Zad e la messa in comune dei mezzi per vivere e resistere. Dappertutto, assistiamo a un risveglio della vitalità politica, dell’intelligenza strategica e del desiderio di combattere – stavolta non il mondo, ma la sua fine.
Siamo nati in un’era di separazioni, alle soglie dell’inabissamento di un secolo stanco. Condividiamo la stessa insoddisfazione nei confronti delle grandi narrazioni, ma il loro spettro ci tormenta. Prigioniere e prigionieri del tempo della fine, rimaniamo con le spalle al muro davanti a un compito dalla portata incommensurabile: le nostre aspirazioni infatti non possono più relazionarsi con alcun contenuto positivo, ma con ciò da cui partiamo. La nostra eredità politica non è figlia di alcun testamento. Un’affermazione tanto più vera in un mondo che sta per essere distrutto fino all’ultimo grammo.
[…] In questo contesto, l’ultimo dei disastri possibili sarebbe credere di poter ancora risolverli. Tale è il miraggio del populista, che crede di poter riprendere la situazione in mano. Così, tutto il mondo si è sorpreso della vittoria del “Make America Great Again” di Trump quando Putin, Berlusconi, Erdoğan, Modi e Netanyahu da anni regnano (o hanno regnato) sullo stesso registro. Che provengano da milieu popolari o ne maneggino lo stile, tutti riesumano la supposta alleanza tra il sovrano e il suo “popolo”, dissimulando l’enorme divario tra questo e le élites, trincerate dietro gli apparati di stato – ciò che alcuni chiamano deep state. Per conquistarsi i cuori, promettono di salvaguardare tutto ciò che in un “popolo” è identico a se stesso, per scagliarlo contro la minaccia che proviene dalla minoranza, sia essa etnica, sessuale o politica, fino a compromettere praticamente tutto e tutti. Dalle viscere di questa massa abbandonata nel bel mezzo del deserto neoliberale, sorge un nuovo popolo del risentimento. Quasi senza rendercene conto siamo passati da un regime di pacificazione imposto con la guerra a un regime di guerra tout court, che minaccia di sottrarci l’agenda delle cose a venire, di ribaltare la gerarchia di ciò che conta o meno, di ciò che polarizza o lascia indifferenti. Il nemico ha invaso i nostri spazi, minacciando di estirpare l’erba che ci cresce sotto i piedi. E non si limita all’esproprio capitalista, ma ambisce a intercettare le energie di chi si oppone all’ordine liberale per metterle al servizio di una macchina di governo che non si pone neanche più il problema di apparire “socialmente accettabile”. Tutto accade come se gli attuali movimenti autoritari si espandessero al ritmo della virtù ipocrita del liberalismo occidentale, come suo inconfessabile, mostruoso doppio.
[…] E tutto questo “in nome del popolo”.
D’altra parte, di fronte alla convocazione del popolo sull’altare della nazione, i movimenti che si sollevano contro quest’ultima sono chiamati a loro volta, in mancanza di migliori definizioni, “popolari”. Eppure è chiaro come l’effervescenza delle Primavere arabe o del movimento contro la loi travail in Francia sia dipesa dal pensionamento degli organi tradizionali di rappresentanza popolare, ovvero i partiti e i sindacati.
[…] Lontano da ogni “discorso di metodo” politico, l’epoca non ci lascia altra scelta se non quella di pensare un’esistenza senza soggetto, progetto o eredità – compresa quella del “popolo”. In un certo senso, si tratta di riconoscere il fallimento della politica come l’abbiamo sempre conosciuta, persino di quella che abbiamo amato. Ma ammettere un fallimento non è un’ammissione di impotenza, perché la potenza designa ciò che ancora non è venuto alla luce, e che spetta a noi far emergere2.

Per dare corpo al progetto il primo volume monotematico di “Liaisons” prende in esame dieci casi di lotte e contraddizioni sviluppatesi sulla base di questo “fallimento” della politica tradizionalmente intesa: i nazionalismi autoctoni del Canada e québécois, il lungo e rigido inverno politico russo e ucraino, il pueblo che di organizza per difendere il proprio territorio in Messico, la decomposizione delle rigidità giapponesi, le contraddizioni del Libano sospeso tra modernità ed Islam, le ancor maggiori contraddizioni degli Stati Uniti sospesi tra guerra civile e contraddizioni razziali, etniche ed economiche, le azioni di protesta in Sud Corea, le lotte in Francia tra gilets jaunes, loi travail e sicurezza nazionale, la frammentazione catalana e spagnola e, infine, uno sguardo sulle prospettive del “populismo” in Italia.

Quest’ultima e breve sintesi dei contenuti non è sicuramente sufficiente a render conto dei diversi testi e dei movimenti trattati, basti però soltanto concludere che la lettura di questo numero di “Liaisons” può essere davvero indispensabile per chi voglia seriamente porsi delle domande, non offuscate dalla retorica del “bel tempo che fu”, sulla realtà odierna del conflitto sociale diffuso e del suo possibile divenire.


  1. Lo stesso obiettivo condiviso da un testo collettaneo di prossima pubblicazione per Il Galeone editore: Guerra civile globale. Fratture sociali del terzo millennio (a cura di Sandro Moiso)  

  2. “Liaisons”, vol I In nome del popolo, Agenzia X, Milano 2020, Introduzione, pp.16 – 18  

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