Modena City Ramblers – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 24 Oct 2025 20:00:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Molti anniversari e troppo sangue https://www.carmillaonline.com/2019/04/25/molti-anniversari-e-troppo-sangue/ Wed, 24 Apr 2019 22:01:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52144 di Luca Baiada

Cent’anni dalla fondazione dei Fasci di combattimento: Milano, piazza San Sepolcro, 23 marzo 1919. Il fascismo, un tipico prodotto di successo del Made in Italy; forse la parola italiana più nota all’estero, insieme a mafia e pizza. Ipocrisia e sangue. Va al potere con le stragi di democratici e sindacalisti, con gli incendi, coi saccheggi; ma le condanne a morte che pronuncia col Tribunale speciale, quelle eseguite, sono poche decine. Lupara bianca e lupara nera. Al fascismo bastano sette anni dal suo primo governo per sforbiciare un pezzo della [...]]]> di Luca Baiada

Cent’anni dalla fondazione dei Fasci di combattimento: Milano, piazza San Sepolcro, 23 marzo 1919. Il fascismo, un tipico prodotto di successo del Made in Italy; forse la parola italiana più nota all’estero, insieme a mafia e pizza. Ipocrisia e sangue. Va al potere con le stragi di democratici e sindacalisti, con gli incendi, coi saccheggi; ma le condanne a morte che pronuncia col Tribunale speciale, quelle eseguite, sono poche decine. Lupara bianca e lupara nera. Al fascismo bastano sette anni dal suo primo governo per sforbiciare un pezzo della capitale e consegnarlo al papato, e pochi anni in più per legare le sorti del paese alla Germania con risultati disastrosi. Paradosso tutto nostro, quel suicidio differito del Risorgimento passa per patriottico.

Tre quarti di secolo dall’attacco partigiano in via Rasella (non per caso, la Resistenza scelse il 23 marzo) e dalle Fosse Ardeatine, il giorno dopo. L’attacco lo fecero i Gap, Gruppi di azione patriottica; patria non sapeva di populismo e non metteva in imbarazzo. Pochi giorni prima, il 10 marzo e sempre a Roma, per l’anniversario della morte di Mazzini i gappisti avevano disperso a revolverate i fascisti, che in via Tomacelli sfilavano contro il re e per la repubblica, ma quella finta di Mussolini. Brutto colpo, per i repubblichini, che sul «Messaggero» commentarono: «Purtroppo i soliti elementi perturbatori attentano alla serena compostezza del corteo». I comunisti sparano sui fascisti per impedire che si fingano mazziniani. Da approfondire, il senso di quell’accademia a mano armata.

La memoria è rimasta prigioniera del paradigma vittimario delle Ardeatine, crimine sepolto nel monumentalismo; l’azione ben riuscita di via Rasella non ha avuto la considerazione che merita, anzi è stata accusata di tutto: i partigiani che volevano l’eccidio, che dovevano consegnarsi ai tedeschi, che ignorarono moniti e comunicati. Qualche anno fa è stato pubblicato e demistificato il volantino fascista che fabbricò menzogne poco dopo il massacro (una manovra disinformativa persino più zelante di quelle tedesche); ma le smentite razionali non bastano, l’accusa contro la Resistenza risponde a un bisogno emozionale. Ha combattuto, ha spezzato l’inerzia, e nella città santa: è colpevole.

Mezzo secolo dalla strage di piazza Fontana, a Milano. Nel 1969 corre lo sviluppo economico, sono in piena maturazione l’industrializzazione e l’urbanizzazione, si è affacciata la rivoluzione sessuale, si progettano il divorzio, il nuovo diritto di famiglia, lo Statuto dei lavoratori. Si reclamano riforme dei codici, della scuola, dell’università. Una parte del paese vuole entrare nella modernità, un’altra frena: vi entrerà zoppicando.

Piazza Fontana è una strage indiscriminata, la prima di tipo bellico dopo la guerra; le altre, da Portella della Ginestra a Reggio Emilia, hanno un margine di selezione delle vittime. Nel 1969 si colpisce a caso: il bersaglio grosso non è in quei morti, è il popolo. Insieme c’è la violenza poliziesca, la macchinazione che mira all’anello debole della contestazione: gli anarchici, estranei al circuito politico del blocco al governo e di quello all’opposizione, riottosi alla retorica del costituzionalismo ingessato, dissonanti dal reducismo ciellenista. Però la morte di Giuseppe Pinelli, un po’ simmetrica e un po’ decentrata rispetto alla bomba, colpisce mirando ed è un monito per tutti, fitta di segni che parlano di allineamento, di ubbidienza non solo governativa. L’uomo che quel giorno va tranquillo coi poliziotti in questura, fiducioso in un chiarimento, ne uscirà cadavere dopo un interrogatorio che viola ogni norma procedurale.

In carcere, additato come il mostro, finirà un altro anarchico innocente, Pietro Valpreda; ci vorranno anni e una modifica legislativa per tirarlo fuori. Ci si renderà conto, finalmente, che le leggi sono ancora quelle fasciste e che un detenuto può sparire senza garanzie. E insieme c’è la giustizia, così inadeguata che alla verità processuale su quel 1969 mancano ancora pagine importanti. La spiegazione corrente su Pinelli sarà un ossimoro osceno, il malore attivo, in cui – come nei Promessi sposi, con le febbri pestilenziali – l’indicibile si sposta sull’aggettivo. Qualcosa si muove, qualcuno fa, insomma c’è un che di attivo, in quella morte. Ma il sostantivo è incolpevole e sa di vecchio, di malfermo: il malore, meno grave della malattia, più svenevole di un dolorino. Pinelli era quarantenne. Da rivedere, sulla giustizia, il film Processo politico di Francesco Leonetti.

Un quarto di secolo dalla rifrequentazione di un tremendo archivio segreto. Fra il 1943 e il 1945 gli occupanti tedeschi e i collaborazionisti fascisti uccidono italiani in una quantità mai davvero calcolata: probabilmente almeno trentamila. Nel 1945 si decide di concentrare indagini e prove a Roma, negli uffici della giustizia militare, per far meglio chiarezza. Negli anni immediatamente successivi i fascicoli sono usati per celebrare pochissimi processi, poi sono lasciati alla polvere, nel silenzio di tutte le strutture partitiche, politiche, sindacali, combattentistiche. Molti sanno, tutti tacciono, qualcuno manovra. È uno scandalo senza paragoni nell’Italia postunitaria, forse nella storia europea: un paese occulta le prove di due anni di massacro dei suoi cittadini, di ogni età e condizione, compresi i bambini, i militari fedeli al governo legittimo, i partigiani, il clero, gli ebrei.

Un giornalista battagliero, Franco Giustolisi, chiamerà questa cosa orribile Armadio della vergogna, un’espressione fulminante. Dopo che l’Armadio è stato riaperto si muovono commissioni d’inchiesta, si scrivono relazioni, eppure restano oscure sia le implicazioni di un’inerzia così lunga, sia le modalità dell’improvvisa rifrequentazione dell’archivio. Avviene, appunto, nel 1994: cioè dopo il Trattato di Maastricht e dopo la trattativa Stato-mafia con la notte in odor di golpe denunciata da Ciampi, e dopo l’assassinio di Falcone e Borsellino. Soprattutto, a breve distanza dalla caduta del Muro di Berlino e dalla riunificazione tedesca, e subito dopo l’arrivo di Berlusconi al governo. In quell’anno i Modena City Ramblers cantano Quarant’anni: «Ho visto bombe di Stato scoppiare nelle piazze e anarchici distratti cadere giù dalle finestre. Ho venduto il mio didietro ad un amico americano. Ho massacrato Borsellino e tutti gli altri. Ho protetto trafficanti e figli di puttana. Ma ho un armadio pieno d’oro, di tangenti e di mazzette, di armi e munizioni, di scheletri e di schifezze».

La rifrequentazione non ha neppure una data sicura. Di altri misteri italiani si conosce almeno il giorno; nel 1994 l’Armadio ricompare senza un verbale, senza una fotografia. Negli anni che seguono si celebrano una ventina di dibattimenti, l’ultimo termina nel 2015; va in prigione solo un sottufficiale. La Germania non paga nessun risarcimento; anzi, alla Corte internazionale dell’Aia fa condannare l’Italia per lesa maestà, perché uno studio legale ha ipotecato una villa tedesca a Como. Attenzione. La posta in gioco non è solo di crediti italiani e di una villa: con quella sentenza la Corte, cioè la voce giudiziaria dell’Onu, dice che gli Stati non possono mai essere condannati a pagare, neppure per crimini di guerra o contro l’umanità. Vale per il passato e per il futuro, per Sant’Anna di Stazzema e per la Siria. È il 2012: la crisi economica dilaga, terrorismo e destabilizzazioni fanno il doppio gioco sul sangue di interi paesi, e Wikileaks, col Cablegate e coi documenti sull’Afghanistan e l’Iraq, ha svelato intrighi e massacri. Ecco che sul tavolo anatomico dei giuristi, all’Aia, le stragi di italiani dal 1943 al 1945 sono dissezionate e manipolate per fabbricare un salvacondotto legale a quelle future, ovunque. Gli apprendisti stregoni cuciono i lutti della Seconda guerra mondiale col fil di ferro del formalismo; ne esce un mostro alla Frankenstein, servizievole alla ragion di Stato. Sangue assolve sangue.

Settant’anni dalla fondazione della Nato. Voluta contro un blocco politico-economico che non esiste più da un trentennio, è sopravvissuta al suo nemico e continua a condizionare il presente. I responsabili di crimini nazifascisti commessi in guerra sono stati protetti e adoperati; la strategia della tensione è stata l’area in cui la Nato ha incontrato il nazifascismo bellico e la protezione postbellica della sua impunità, cioè l’ombra silenziosa dell’Armadio della vergogna.

Lo stragismo nazista e fascista, sempre antipopolare, sempre collaborazionista, ha disseminato di ingiustizia e reticenza un secolo segnandone le tappe. Durante la guerra è stato usato per fabbricare il complesso di colpa per la Resistenza, la squalifica profonda degli italiani, e per gettare le basi di un senso di inferiorità contrario al Risorgimento, al socialismo e alla democrazia; da rileggere, le pagine di Giuseppe Dossetti su Marzabotto come delitto castale. Dopo la guerra ha stravolto l’ingresso del paese nella modernità, costruendo col metodo terroristico la minaccia del colpo di Stato, lo scacco alle conquiste sindacali e democratiche, la difesa a oltranza dei privilegi di classe. Dopo la dissoluzione del blocco socialista e la riunificazione della Germania, i contraccolpi di quel sangue e quei silenzi hanno continuato a pesare. I segreti della strategia della tensione e l’impunità delle stragi nazifasciste in tempo di guerra hanno ricevuto una protezione solida, dentro l’abitudine del potere all’utilizzo indiscriminato della criminalità organizzata e del fascismo; abiti intercambiabili, in Italia, e sempre con l’ornato di una cultura prostituita alla distrazione. Da rivedere l’intervista al regista (Orson Welles), in La ricotta di Pasolini: «Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa». La ricotta comincia col Vangelo di Marco: «Non esiste niente di nascosto che non si debba manifestare; e niente accade occultamente, ma perché si manifesti».

Ancora da sondare, i rapporti fra le coperture dell’Armadio della vergogna e il reimpiego del fascismo negli anni della conflittualità armata, come le relazioni fra crimine, fascismo e affarismo – riciclaggio, privatizzazione di beni pubblici, traffico di droga e armi – nella prima metà degli anni Novanta, in concomitanza coi delitti più vistosi (Falcone, Borsellino). Tutti da affrontare, i legami con altri delitti che hanno segnato la situazione europea poco prima della liquidazione del socialismo o nell’immediatezza (omicidi Olof Palme, Alfred Herrhausen, Detlev Rohwedder).

Le stragi fasciste dal 1919 preparano la dittatura, che prepara i massacri sociali, coloniali, bellici. Le stragi belliche, massacri dentro l’immane massacro, sorreggono l’occupazione militare, la schiavizzazione, la deportazione, il saccheggio, la repressione materiale e morale. Le stragi della strategia postbellica orientano il cambiamento dell’Italia in conformità alla spartizione del mondo in blocchi. Le stragi del 1992-1993 chiudono quella stagione, mettendo a tacere chi sa troppo e aprendo la strada a un nuovo quadro di potere, che serve alla penetrazione economica nei paesi ex socialisti e alla distruzione dell’originale socialdemocrazia italiana, coi suoi specifici miti e pilastri (democristianesimo, eurocomunismo, partecipazioni statali, banche pubbliche). Questo lunghissimo sacrificio umano ha per costante l’eliminazione mirata di notabili (uomini d’ordine antifascisti, politici onesti, sindacalisti impegnati, intellettuali coraggiosi, magistrati scomodi) e il massacro casuale, indiscriminato, contro il popolo, che la strategia del sangue riduce a massa informe di carne.

Davvero, tanti anniversari. Eppure, a leggerli insieme si capisce meglio. Un uomo diritto che visse per amore, patria e poesia, e morì d’esilio in povertà: «Non accuso la ragione di stato che vende come branchi di pecore le nazioni: così fu sempre, e così sarà: piango la patria mia, “Che mi fu tolta, e il modo ancor m’offende”». Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, 17 marzo.

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Viva la lotta partigiana. Nuovo disco della Banda Popolare dell’Emilia Rossa https://www.carmillaonline.com/2016/04/05/disco-della-band-operaia-banda-popolare-dellemilia-rossa/ Mon, 04 Apr 2016 22:01:27 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29509 di Giovanni Iozzoli

collage_1C’è stata un’epoca, in questo paese, in cui per milioni di persone l’ingresso in fabbrica rappresentava anche un’esperienza di civilizzazione e cultura: si entrava in produzione analfabeti e se ne usciva cittadini consapevoli, grazie alla partecipazione di massa, alle grandi lotte, alle salette interne coi giornali, alle 150 ore o alla formazione sindacale. Era l’epoca folle in cui si pretendeva nientemeno che “far entrare la Costituzione nelle fabbriche”. In quei giorni lontani, il lavoro operaio, oltre che alienazione, non di rado produceva poeti, scrittori e musicisti – e la musica era il linguaggio perfetto per tenere [...]]]> di Giovanni Iozzoli

collage_1C’è stata un’epoca, in questo paese, in cui per milioni di persone l’ingresso in fabbrica rappresentava anche un’esperienza di civilizzazione e cultura: si entrava in produzione analfabeti e se ne usciva cittadini consapevoli, grazie alla partecipazione di massa, alle grandi lotte, alle salette interne coi giornali, alle 150 ore o alla formazione sindacale. Era l’epoca folle in cui si pretendeva nientemeno che “far entrare la Costituzione nelle fabbriche”. In quei giorni lontani, il lavoro operaio, oltre che alienazione, non di rado produceva poeti, scrittori e musicisti – e la musica era il linguaggio perfetto per tenere insieme le antiche memorie contadine “preindustriali” con la dura realtà “metallica” delle catene di montaggio e degli scioperi.
Poi gli anni sono passati e le fabbriche (soprattutto quelle più scintillanti e tecno) sono tornate ad essere ciò che per cui sono state create: luoghi di sfruttamento e miseria, anche culturale. Sono quindi voci prepotentemente fuori dal coro, quelle di chi, a partire dalla propria soggettività operaia – dallo specifico cioè di una condizione oggettiva – continua a produrre cultura “altra”, ostinatamente nemica della narrazione dominante in cui la sottomissione operaia è giusta e naturale.

Un esempio di questa capacità di “contro-discorso” è la Banda Popolare dell’Emilia Rossa che, dall’esordio del 2011 ha rafforzato la sua proposta di ricca alternativa, con la sua musica e la sua persistente presenza nelle piazze, nelle manifestazioni e nelle feste politiche in mezza Italia. L’elemento di originalità della Banda è nella sua composizione: è “operaia” per davvero, la maggior parte dei membri sono uniti da vincoli di attivismo sindacale e da un ruolo di avanguardia nei propri stabilimenti; quando cantano di scioperi, stanno raccontando il loro vissuto quotidiano e la lotta di classe non è ideologia ma condizione quotidiana di dignità. Altro elemento, distintivo è il testardo ricollegamento alla storia sociale, letteraria, orale e musicale, del movimento operaio e bracciantile, una scelta che può apparire residuale solo agli ingenui: il terreno della memoria è così fondamentale, che la cultura “mainstream” ha mobilitato negli ultimi 30 anni enormi risorse per estirpare ogni testimonianza di resistenza popolare e demonizzare ogni velleità e ogni tentativo storico di costruire alternative di società. E a fianco della memoria irrompe, nella musica della BPER, l’urgenza del presente: è così che si passa dagli “ever-red” come Su comunisti della Capitale a un brano dedicato all’eccidio di Odessa alla Casa dei Sindacati, il caso di stragismo terrorista più rimosso nella storia recente. Un corto circuito sempre vivo tra passato e futuro, perché è solo l’impegno del presente che può tenere insieme le due dimensioni. E quindi un classico di Woody Guthrie, This land is my land, (nella sua versione non censurata), si accompagna ai canti dei lavoratori africani della Castelfrigo che esultano davanti ai cancelli per la conquista di un contratto dignitoso dopo giorni di scioperi e picchetti. E si parla di Vic Arrigoni e di rivoluzione palestinese, sulle note della musica ebraica klemzer – invocando l’Ittihad, l’unità di classe degli sfruttati contro ogni deriva etnico-confessionale. Bella e necessaria anche la risposta al vergognoso video-propaganda degli scagnozzi di Marchionne, che al ritmo di Be Happy ballavano sulle linee produttive di Melfi, pretendendo di spacciare l’immagine di una fabbrica dal volto umano, proprio là dove il livello di spremitura del lavoro operaio sta in realtà diventato insostenibile: “un pezzo, un culo” (una citazione da La Classe Operaia va in Paradiso) e un contro-ballo che evoca la rivolta e la dignità del lavoro vivo, contro la sua rappresentazione moderna, de-materializzata, neutrale, impalpabile e ballerina.

collage_3Cinque inediti e cinque rivisitazioni prestigiose che colpiscono per l’ormai raggiunta maturazione professionale del suono. La band che era partita (come naturale) da un livello amatoriale, si sta ormai consolidando come una realtà musicale di interessante livello – grazie anche a qualche saggio innesto professionale e a importanti collaborazioni (vedi Lucio Gaetani, tra i fondatori dei Modena City Ramblers).
Funky, blues, allusioni etniche e ballate tradizionali: tutto si tiene, nel dipanare un filo rosso che percorre ogni brano. Con durezza e verità, come ci si attende da un gruppo così, ogni nota lavora per il testo e ogni testo – che sia un classico o un inedito – cerca di colpire al cuore chi ascolta.

Il disco – Viva la lotta partigiana – è ovviamente autoprodotto. Una campagna crowfounding ha raggiunto in un paio di giorni l’obiettivo e adesso ogni ulteriore contributo servirà ad ampliare il raggio d’azione della band, che viene ormai chiamata a suonare dappertutto ma che è stata costretta, per ovvie ragioni logistiche ed economiche, a declinare qualche invito importante a cui, forse, ora, sarà possibile aderire (interessante anche il dato della campagna: la maggior parte dei soldi sono arrivati da colleghi di fabbrica e da reti sindacali, come a dire: un “disco operaio” a partire dai suoi finanziatori).

bper006L’ascolto di questo disco rinnoverà in molti l’orgoglio di aver attraversato, nel passato e nel presente, quella cosa strana, contraddittoria e struggente che è stata la storia del movimento operaio: la sensazione di essere stati comunque – tra limiti, sconfitte ed errori – dalla “parte giusta” della storia, l’unica da cui ripartire per fare argine contro la barbarie avanzante.
Insomma, dalla Motor Valley italiana – tra Ferrari, Maserati, precariato sociale, prosciuttifici e Rsu – una proposta di cultura e musica di classe, popolare e sofisticata (e un tempo tutte queste cose riuscivamo a tenerle insieme), che sentiremo ancora per molto tempo nelle piazze di lotta di questo paese.

Questo è il link cui accedere per aderire alla campagna


 

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