mito – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 14 Sep 2025 22:01:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Di cosa l’America è il nome? https://www.carmillaonline.com/2025/05/25/di-cosa-lamerica-e-il-nome/ Sun, 25 May 2025 20:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88408 di Sandro Moiso

Roberto De Gaetano, La scena americana. Filosofia, letteratura, cinema, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2025, pp. 205, 20 euro

La raccolta si saggi appena pubblicata dalle edizioni Mimesis traccia, utilizzando un’ampia antologia di scritti dell’autore pubblicati sul quadrimestrale Fata Morgana, di cui è direttore, e Fata Morgana Web, un interessante percorso attraverso i possibili significati attribuiti all’America, così come è stata “immaginata” nel corso del tempo, e al mito che ne è derivato, in patria e altrove. De Gaetano, che è docente di Cinema e scrittura critica presso l’Università Sapienza di Roma, affronta temi legati, come afferma già il [...]]]> di Sandro Moiso

Roberto De Gaetano, La scena americana. Filosofia, letteratura, cinema, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2025, pp. 205, 20 euro

La raccolta si saggi appena pubblicata dalle edizioni Mimesis traccia, utilizzando un’ampia antologia di scritti dell’autore pubblicati sul quadrimestrale Fata Morgana, di cui è direttore, e Fata Morgana Web, un interessante percorso attraverso i possibili significati attribuiti all’America, così come è stata “immaginata” nel corso del tempo, e al mito che ne è derivato, in patria e altrove. De Gaetano, che è docente di Cinema e scrittura critica presso l’Università Sapienza di Roma, affronta temi legati, come afferma già il sottotitolo, alla filosofia, alla letteratura e al cinema. Per gentile concessione dell’editore si fornisce qui un ampio stralcio dell’introduzione allo stesso testo.

Sogno, incubo, scena, stile di vita, uomo, natura, deserto, prassi, romanzo, cinema, democrazia: per tutto questo e altro l’accostamento con l’aggettivo “americano” identifica subito una forma specifica e ben individuata in cui l’essere viene a espressione. Tale espressione riguarda tutti. Sicuramente il mondo occidentale, di cui l’America ha rappresentato l’attuazione di una possibilità ulteriore, l’invenzione del nuovo, l’immaginazione di una seconda nascita.
L’America porta a espressione una vera e propria ontologia, radicata e profonda, che ha al centro l’azione, concetto che attraversa tutte queste pagine.
Le forme di vita americane mostrano all’opera nel quotidiano la ristrutturazione continua dell’esperienza, il cambio costante di regola, l’affermazione di una pura potenza di cui il denaro è simbolo. Tant’è che il denaro per gli americani – ci ha detto Margaret Mead – non è esposizione del lusso. L’austerità di abbigliamento e di costumi è il contrassegno dell’americano, anche quando è molto ricco. Il denaro non va accantonato (nessuna logica del risparmio), va fatto crescere in modo continuo. Il denaro è possibilità e tale deve restare.[…] È una vertigine del possibile che attrae e paralizza. E che non riesce a fermarsi. Lo sguardo morale con cui giudichiamo il mondo americano è spesso indicativo più di cattiva coscienza che di altro.
In gioco c’è piuttosto l’impasse di una possibilità pura. Lo stallo di tale condizione deriva dal non prevedere che la possibilità possa riguardare anche il non. Qui Melville nel suo Bartleby, con la formula I would prefer not to, lo ha immaginato nel modo più potente: non esiste potenza effettiva che non sia anche potenza di non. È il contromovimento che la grande letteratura americana ha saputo costruire e immaginare: sospendere l’azione mettendosi in pausa o in fuga. Fuga dalla società e fuga da sé stessi. Così nasce l’America, e così tale nascita viene riproposta nella vasta terra americana. D. H. Lawrence lo dice in un testo che rimane epocale, dove l’America e gli americani, visti dall’Europa, emergono nella loro differenza, e proprio attraverso la letteratura: “They came largely to get away […]. To get away. Away from what? In the long run, away from themselves. Away from everything”.
Come nel racconto di Hawthorne, Wakefield, in cui il protagonista esce di casa, abbandona la famiglia, prima di ritornarvi dopo vent’anni. O come nel racconto fondativo della narrativa americana, Rip Van Winkle di Washington Irving, in cui il personaggio si addormenta per poi risvegliarsi a Rivoluzione americana avvenuta, con il mondo radicalmente cambiato.
[…] La grande potenza della letteratura americana, di quello che Matthiessen ha chiamato il “Rinascimento americano” di metà Ottocento, risiede nell’essere stata allo stesso tempo la letteratura di una nuova nazione, capace di trovare i poeti in grado di cantarla (il poeta chiesto da Emerson), ma anche la letteratura della fuga, della linea di fuga, per mare, foresta, wilderness. Fuga nello spazio, nel tempo, nel sonno, fuga sur place, fuga dalla vita morale, per entrare in un divenire dove la comunità si fa gruppo di incontro, dove il cameratismo conta più della famiglia (marcata a fuoco dalla colpa morale come in The Scarlet Letter). A contare sono l’individuo e le sue relazioni con il compagno, la natura, l’altro. L’individuo in viaggio, dove l’essere senza radici è una precondizione per costruire quello “Spirit of Place” lontano dal “blood”, dai legami di sangue europei.
Nessuna prescrizione morale può bloccare tutto questo divenire, dove ogni inizio porta con sé una fine, dove il desiderio di fondare è accompagnato da quello di fuggire.
L’America ci mostra qualcosa della nostra condizione umana: nascere non significa entrare in un mondo dato, ma aprirne uno nuovo, fondarlo. E questo significa divenire, mettere in questione ogni identità fissa, ogni legame con una terra. Si approda a qualcosa di nuovo solo se si lascia qualcosa di vecchio. Nascere è separarsi, così come rinascere. L’Europa ha dimenticato tutto questo, i suoi imperi hanno perimetrato spazi e assoggettato popoli, rendendo impossibile il divenire.
La democrazia americana è in primo luogo la forma in cui un divenire è possibile. Il suo fondamento è al fondo anarchico.
[…] La potenza immaginaria, simbolica e reale dell’America, la perennità del suo mito, risiedono nella congiunzione all’interno della prassi dell’annuncio del Nuovo Mondo e del suo dissolversi, della fiducia che anima l’uomo nuovo (cantata da Emerson in Self-Reliance) e di quella carpita dal truffatore (che ci racconta Melville in The Confidence Man), di una natura che è romanticamente il Tutto che salva ma anche la wilderness in cui ci si perde. Il confine è sottile, i ribaltamenti possono essere repentini e imprevisti, ma senza correre il rischio di percorrere tale linea la vita faticherebbe a esprimersi.
È di questo che l’America è il nome: del contemporaneo venire a espressione, e dunque a realtà, della vita, del nuovo, della nascita, ma anche, e allo stesso tempo, della dissoluzione, della linea di fuga, della deriva. L’incubo non è qualcosa di diverso dal sogno, è la sua piega interna. La vita, proprio perché democratica, è strutturalmente anarchica, fondata su accordi e convenzioni che possono cambiare, anche velocemente.
In tutto questo, l’antiamericanismo come slogan è un epifenomeno rispetto alla portata mitica e antropologica dell’America, di chi nella immanenza creatrice della prassi ha saputo inscrivere la sua trascendenza. L’America è stata e continua comunque a essere la scena in cui vediamo la nostra vita, la vita di tutti, in tutta la sua maestosa ambivalenza e contraddittorietà1.


  1. R. De Gaetano, Di cosa l’America è il nome introduzione a R. De Gaetano, La scena americana. Filosofia, letteratura, cinema, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2025, pp. 9-13.  

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E tutti danzarono in una festa crudele https://www.carmillaonline.com/2025/04/01/e-tutti-danzarono-in-una-festa-crudele/ Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87471 di Paolo Lago

Alessandro Bertante, E tutti danzarono, La nave di Teseo, Milano, 2025, pp. 151, euro 17,00.

Protagonista e io narrante di questo nuovo romanzo di Alessandro Bertante è Ivan Boscolo, un altro personaggio inserito in una dimensione picaresca, un nuovo cavaliere errante urbano, testimone di un’età votata allo sfacelo e alla distruzione. Allo stesso modo di altri personaggi messi in scena dall’autore nei suoi precedenti romanzi, Ivan compie degli spostamenti all’interno della città di Milano come un eroe epico sul campo di battaglia, come, appunto, un cavaliere che deve affrontare mille pericoli prima di giungere a destinazione. Nel descrivere [...]]]> di Paolo Lago

Alessandro Bertante, E tutti danzarono, La nave di Teseo, Milano, 2025, pp. 151, euro 17,00.

Protagonista e io narrante di questo nuovo romanzo di Alessandro Bertante è Ivan Boscolo, un altro personaggio inserito in una dimensione picaresca, un nuovo cavaliere errante urbano, testimone di un’età votata allo sfacelo e alla distruzione. Allo stesso modo di altri personaggi messi in scena dall’autore nei suoi precedenti romanzi, Ivan compie degli spostamenti all’interno della città di Milano come un eroe epico sul campo di battaglia, come, appunto, un cavaliere che deve affrontare mille pericoli prima di giungere a destinazione. Nel descrivere le sue gesta, la scrittura di Bertante si impenna nella direzione di una solennità sintattica cadenzata dalle ripetizioni e dalle anafore, dalla forma elenco che sembra ricalcare i cataloghi degli eroi dell’epica classica, da una sapiente lentezza del periodo in cui brillano spesso termini aulici e ricercati. Pensiamo soltanto, ad esempio, al brano seguente in cui, cadenzato dalla ripetizione di «Abbandonatemi qui» che sembra riecheggiare il «lasciatemi così come una cosa posata in un angolo e dimenticata» di Natale di Giuseppe Ungaretti, appare un conflitto quasi epico tra il presente ed il passato, inevitabilmente rivestito di un’aura mitica:

Abbandonatemi qui, su questa sedia di plastica puzzolente, testimone di questo infuocato epilogo che non ricorderà nessuno. Abbandonatemi qui, cullato dai miei ricordi d’infanzia, nel mio quartiere tradito e sfigurato. Abbandonatemi qui, non cercatemi più, il poco tempo che mi rimane a disposizione non posso sprecarlo a cercare di giustificare ogni cosa insensata che succede nel mondo. Sono finiti i giorni del sangue, della gloria, dell’odio e di ogni desiderio assoluto, delle voraci moltitudini in marcia e dei sogni che non si avverano mai. Navi di acciaio a solcare gli oceani, cattedrali a sfiorare il cielo per sfidarne la potenza, areoplani ipersonici, viadotti giganteschi che coronano le montagne, città splendenti in mezzo al deserto, centinaia di migliaia di persone in piazza infatuati dal sogno della rivoluzione, eserciti corazzati, promesse di civilizzazione, vile brutalità coloniale, vigore sessuale, sopraffazione, ambizione, conoscenza, folle pretesa di avere tutto (p. 23).

D’altra parte, E tutti danzarono appare strettamente legato, in un rapporto di intertestualità, ad altri romanzi dell’autore: non rovineremo certo il piacere della scoperta in un lettore che non conosce Bertante, anzi aumenteremo la curiosità di quello che già conosce l’autore, a dire che Ivan Boscolo non è altri che il figlio di Alberto Boscolo, il protagonista di Mordi e fuggi. Il romanzo delle BR (2022), uscito dalla lotta armata nell’autunno del 1973 e che non venne mai identificato. Ivan è un docente universitario di letteratura a Milano ed ha come collega un altro personaggio molto conosciuto dai lettori di Bertante: Alessio Slaviero. Ebbene, ritroviamo Alessio giovane come protagonista di Estate crudele (2016) e poco più anziano in Nina dei lupi (uscito nel 2011 per Marsilio, poi rieditato da nottetempo nel 2019 e da La Nave di Teseo nel 2023, da cui è stato tratto nel 2023 il film di Antonio Pisu). Anzi, le vicende narrate in E tutti danzarono precedono immediatamente quelle di Nina dei lupi.

In un giugno milanese caratterizzato da temperature altissime, in un’era (la nostra) di riscaldamento globale già connotata come distopica («Come era possibile che nessuno ammettesse, nemmeno le persone intelligenti e di buon senso, che la lotta politica al capitalismo, alla quale avevamo creduto più o meno sinceramente per decenni, si fosse trasformata nostro malgrado in una semplicissima quanto terribile urgenza ecologica e che il modello economico neoliberista ci avrebbe portato all’estinzione qualche secolo prima del previsto?», p. 25), segnata dalla crisi e dall’emergenza ecologica, il sindaco decide di organizzare e patrocinare una festa danzante nei parchi cittadini che richiama giovani da tutta Italia e da tutta Europa, alla quale partecipa anche Micol, la figlia adolescente di Ivan. In preda a una specie di trance, i giovani non riusciranno a smettere di ballare: di fronte a questo fenomeno di festa collettiva, divenuta forzata, il potere non trova niente di meglio che rispondere con la violenza, con cariche della polizia e dell’esercito come di fronte a un atto violento. La festa, perciò, incrina il meccanismo del potere, lo manda in tilt; d’altronde, si potrebbe anche osservare – come suggerisce l’io narrante Boscolo – che sia generata da un forte disagio dei giovani («una sorta di mania parossistica generata dalle paure e dalla fragilità emotiva di questi anni», p. 124), i «nostri figli» che «abbiamo lasciati soli» (p. 136). Di fronte ai cortei delle nuove Baccanti che invadono la città, il potere non trova di meglio che rispondere con il carcere e la violenza, come nella tragedia di Euripide.

Però, è bene osservare che quella narrata da Bertante si presenta come una «festa crudele», nell’accezione datale da Furio Jesi. Quando non è più possibile la vera festa, quando ormai il mito è inesorabilmente caduto e «tecnicizzato»1, si crea solo un simulacro di essa. Come afferma Boscolo, ciò che sta avvenendo in città ricorda «i culti misterici e orientali diffusi durante il crepuscolo dell’Impero Romano» ma ormai mancava «il mistero, il fascino dell’iniziazione, la volontà aristocratica della distinzione» (p. 32). Anche Slaviero, esperto di miti, pensa che la trance collettiva avvenuta nella contemporanea era tecnicizzata, emerga da «qualcosa di più antico» (p. 72), da un sostrato dionisiaco e pagano. L’intera narrazione di E tutti danzarono è pervasa dall’immagine del ritorno di un universo mitico e magico che è divenuto ormai incomprensibile («una psicosi irrazionale, governata da un linguaggio magico allegorico per noi incomprensibile da millenni, riemerso prepotente in questa estate crudele, sfidando ogni legge della logica», p. 112). Ciò che era autentico e genuino ritorna nella sua veste «tecnicizzata» portando con sé soltanto un’immagine di morte. La festa allora si trasforma in tragedia, in violenta mattanza ed è, come già accennato, una «festa crudele» («c’era sangue ovunque, ma non si sentiva un lamento», p. 127). Secondo Jesi, fra le feste crudeli raccontate dalla letteratura c’è il terremoto di Lisbona nell’evocazione di Voltaire, la peste di Milano e l’insurrezione della plebe in cui si ritrova Renzo nei Promessi sposi di Alessandro Manzoni; potremmo aggiungere allora anche la trance e la mattanza narrate da Bertante. Come scrive Furio Jesi,

quando la festa non è più possibile, poiché non esistono più i presupposti sociali e culturali per un’esperienza della collettività che “nel più profondo” sia “più affine alla giocondità che alla malinconia”, la memoria della festa antica e perduta assume nel rimpianto uno spicco così netto da attrarre nell’ambito della “festa” in negativo, della forma in cavo, ogni esperienza che sia collettiva, dolorosa, e che in qualche misura corrisponda – appunto in negativo – alle caratteristiche della vera festa2.

Nella devastante «tecnicizzazione» che ha pervaso la nostra società, il mito non può che riemergere in una forma falsificata, come lo squallido simulacro di qualcosa che è ormai perduto. Il mondo descritto da Bertante è sull’orlo di un collasso e sta caracollando insieme alla sua ebbrezza tecnologica indotta dal benessere del capitale. Eppure, il protagonista Ivan Boscolo, come Alessio Slaviero e gli altri personaggi messi in scena dall’autore negli altri suoi romanzi, pure a un passo dall’inferno, nella disperata ricerca senza fine della figlia Micol, sembra non perdere mai la sua capacità mitopoietica, il suo sguardo incantatore ed ‘epicizzante’ sulla realtà. Uno sguardo che si concretizza adesso nella scrittura di E tutti danzarono che diviene essa stessa evocatrice di mondi perduti e incantatrice di questa nostra realtà in bilico sul disastro.


  1. cfr. F. Jesi, Letteratura e mito, Einaudi, Torino, 1968, p. 36. 

  2. Id., Conoscibilità della festa, in id., Il tempo della festa, a cura di A. Cavalletti, nottetempo, Milano, 2023, p. 66. 

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La rivoluzione come una bella avventura / 5: S-Contro, storia di un collettivo antagonista https://www.carmillaonline.com/2025/02/26/la-rivoluzione-come-una-bella-avventura-5-s-contro-storia-di-un-collettivo-antagonista/ Wed, 26 Feb 2025 21:00:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86973 di Sandro Moiso

Sergio Gambino, Luca Perrone, S-Contro, Un collettivo antagonista nella Torino degli anni Ottanta, con i contributi di Salvatore Cumino e Alberto Campo, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 176, 18 euro

«Noi sentivamo di avere una collocazione forte! Io nell’84, quando abbiamo cominciato, avevo vent’anni, eravamo giovani, ma ci sentivamo di avere un grande compito e anche in completa controtendenza. Io, Marco e Sergio abbiamo vissuto il riflusso in modo molto forte, quando tutti si ritiravano, noi avanzavamo». (Efisio, militante di S-Contro)

E’ una gran bella storia quella di S-Contro, sotto molti punti di vista. Una storia in cui [...]]]> di Sandro Moiso

Sergio Gambino, Luca Perrone, S-Contro, Un collettivo antagonista nella Torino degli anni Ottanta, con i contributi di Salvatore Cumino e Alberto Campo, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 176, 18 euro

«Noi sentivamo di avere una collocazione forte! Io nell’84, quando abbiamo cominciato, avevo vent’anni, eravamo giovani, ma ci sentivamo di avere un grande compito e anche in completa controtendenza. Io, Marco e Sergio abbiamo vissuto il riflusso in modo molto forte, quando tutti si ritiravano, noi avanzavamo». (Efisio, militante di S-Contro)

E’ una gran bella storia quella di S-Contro, sotto molti punti di vista. Una storia in cui Torino, la città-fabbrica per eccellenza, ha rappresentato ancora una volta un laboratorio, così come lo era stata fin dall’inizio del secolo passato. Una città, però, in cui negli anni Ottanta non era certo facile vivere, soprattutto per i giovani che erano giunti sulla scena politica e sociale dopo che l’ubriacatura delle lotte degli anni ‘60 e ‘70 si era già ampiamente smorzata e la classe operaia della FIAT aveva già subito la sua più grande sconfitta proprio all’inizio del nuovo decennio.

Una città in cui i sedimenti della repressione, politica e militare, della lotta armata si accompagnavano alle siringhe dell’autodistruzione di una parte, non secondaria, della generazione appena precedente che, dopo le vittorie delle lotte operaie e studentesche e le illusioni che ne erano conseguite, aveva dovuto fare i conti con le sconfitte, la repressione e la delusione di una “rivoluzione tradita”. Anche da quei compagni di un tempo che sul cammino passato avevano iniziato a costruire ben più redditizie carriere sulla scena politica e culturale, cittadina e nazionale.

Fu certamente, e lo si capisce dalle numerose testimonianze dirette raccolte nella ricerca di Sergio Gambino e Luca Perrone, un’esperienza ispirata tanto dalla necessità politica di stare al passo con le trasformazioni già all’epoca in atto, quanto dallo spirito di avventura, ogni volta unica e irripetibile, che da sempre anima le iniziative delle giovani generazioni. Un elemento, quest’ultimo, inestinguibile e di vitale importanza per far sì che la vecchia talpa della rivoluzione possa continuare la sua sotterranea azione contro la Storia, o almeno contro quella codificata dalla narrazione imbalsamata e dalle leggi dell’ordine costituito, per scardinarla e stravolgerne le rotte e le traiettorie che non possono mai essere date una volta per tutte. Così come, invece, il capitale e i suoi funzionari di ogni grado e colore politico vorrebbero.

Non a caso il primo saggio, quello di Luca Perrone, si apre proprio sulla sconfitta operaia alla Fiat .

Gli anni Ottanta a Torino si aprono con i trentacinque giorni di blocco della Fiat dell’autunno 1980 in risposta ai 23.000 licenziamenti voluti dall’azienda e con la marcia dei quarantamila quadri del 14 ottobre che chiude questa lotta. Come noto quella vertenza era stata preceduta dal licenziamento dei 61 operai alla Fiat nell’ottobre 1979. Eppure ancora la vertenza contrattuale del 1979 si era caratterizzata per una imponente serie di blocchi stradali al di fuori delle fabbriche e aveva visto l’apparizione di nuove soggettività operaie e giovanili, in qualche modo imparentate a quelle del Movimento del ’77 e che praticavano il rifiuto del lavoro su larga scala. La Torino operaia esce trasformata da quella sconfitta che travalica i limiti sindacali. In quell’inizio degli anni Ottanta, l’attacco al sindacato conflittuale e alle avanguardie di classe da parte di Agnelli e Romiti è imponente e devastante, mentre i processi di ristrutturazione modificano in profondità la fisionomia sociale della città-fabbrica italiana per eccellenza. La vertenza Fiat del 1980 inaugura cosi un decennio di crisi, di chiusure di fabbriche, di processi di ristrutturazione produttiva, che stravolgono lo stesso tessuto urbano della città. E sarà la composizione sociale della città a uscirne stravolta1.

Una sconfitta, occorre qui ricordarlo, cui avevano contribuito sia il comportamento dei sindacati confederali che il PCI, che non esitò a portare davanti agli operai i maggiori quadri dirigenti sia a livello locale (Piero Fassino e Giuliano Ferrara) che nazionale (Enrico Berlinguer) per contribuire a contenerne la rabbia e, successivamente, far passare la mozione favorevole all’interesse dell’azienda con una truffaldina e tutt’altro trasparente conta dei voti a favore o contro l’accordo raggiunto con la stessa2.

Questo per dare l’idea di un clima in cui l’azione repressiva continuava a svolgersi, sia a livello locale che nazionale, sotto l’egida della sinistra di governo3, tutta tesa ad isolare e a marchiare con lo stigma del terrorismo qualsiasi iniziativa antagonista, come si coglie nel testo ciclostilato, prodotto da S—Contro, Se alzato il pugno ti sparano, sulla vicenda del militante triestino Pietro Maria Greco, detto Pedro e imputato per il processo 7 aprile, ucciso da una task force di Digos e Sisde la mattina del 9 marzo 1985 nell’androne di casa.

Eppure, eppure…
Una nuova generazione iniziava a muoversi e a produrre volantini, comunicati e pagine a stampa dal carattere fortemente classista, anzi dai contenuti “bellicosamente classisti“ come recitava la rivista prodotta dal collettivo. Giovani militanti che dal 1984 al 1991 diedero vita non soltanto alla fanzine, uscita in cinque numeri dal 1984 al 1987, dal cui titolo avrebbe preso nome il collettivo, ma anche ad una coraggiosa attività di agitazione presso le scuole medie superiori, soprattutto tecniche e professionali e, per quanto ancora possibile, le fabbriche della città e della sua periferia.

Collettivo che iniziò a riunirsi nella centralissima via Po al numero 12, nella sede dell’Organizzazione comunista internazionale (Oci). Le cui memorie, qui raccolte, non possono essere che di parte. Non certo per nostalgia, ma per sottolineare come gli ideali rivoluzionari, esattamente come l’Araba Fenice, tornino sempre a risorgere da quelle che si pensavano ceneri ormai spente. Naturalmente con modalità culturali, ancor prima che politiche, ogni volta differenti e più consone ai tempi, come si sottolinea in diverse testimonianze degli ex-militanti di S-Contro intervistati e, tangenzialmente, anche nel saggio di Alberto Campo, in quegli anni protagonista della nascente scena e critica musicale torinese, Canta che ti passa? La musica a Torino negli anni Ottanta4.

Sergio Gambino è stato militante del collettivo S-Contro e successivamente ha partecipato all’esperienza di Radio Black Out e attualmente è socio di Ultrasuoni Records, mentre Luca Perrone collabora con la rivista «Machina», per la quale ha raccolto i materiali prodotto dal collettivo torinese (qui) ed è autore o coautore di svariati saggi di carattere storico.
I due curatori oltre a documentare la storia del collettivo, hanno scelto di intervistare molti di coloro che parteciparono a quell’esperienza, come, ad esempio, Salvatore Cumino che, all’interno del testo in questione, ha curato il breve saggio Dopo il diluvio: militanti politici oltre la città fabbrica5, utile per contestualizzare criticamente quell’esperienza.

Per numero di affiliati il collettivo era esiguo e poteva dunque attraversare senza troppe contraddizioni i filtri concettuali che descrivevano la transizione di quegli anni. Sempre esistono persone e gruppi che vivono (magari anche proficuamente) fuori dal proprio tempo e S-Contro era cronologicamente sfasato, contro la corrente del decennio. I suoi militanti, in più, riusavano una «estetica» risalente al primo Novecento e alle sue avanguardie, ma anche certe suggestioni do it yourself di matrice punk. A scanso di equivoci, non c’era niente di postmoderno in ciò: gli «intenti bellicosamente classisti» del collettivo erano agiti – si parla della componente «giovane», all’epoca dei fatti compresa tra i 16 e i 30 anni di eta – da soggetti che erano anche prodotti del loro tempo. I militanti politici, quando non rinchiusi in luoghi immuni dal confronto con il sociale, possono essere in anticipo o ritardo sulla realtà sociale, ma sono essi stessi impregnati dello spirito d’assieme del collettivo societario in cui sono inseriti.
Anche a Torino, infatti, nella transizione oltre la città-fabbrica cambiavano le figure e le forme del conflitto. Più che cambiare scemavano […] Conflitti – anche duri – si daranno pure in seguito, ma le figure sociali e gli immaginari saranno differenti. Nel declinare della città-fabbrica (senza dismissione del comando capitalistico ma con una sua ristrutturazione guidata spesso dalle stesse forze sociali e dinastie famigliari) si riduceva anche il ruolo politico, culturale, organizzativo degli operai come “classe”. Torino era ancora immersa nell’industrialismo (solo qualche anno dopo scoprì che ne stava allestendo la spettacolare dismissione) e nella retorica della città-fabbrica; l’immaginario contro-culturale si nutriva di un’estetica (che, beninteso, per ampi strati della società era del tutto reale) della disperazione urbana; ma la composizione sociale, i mestieri, i riti, i luoghi di ritrovo (per quanto ci interessa «neo-proletari» o «iper-proletari») stavano mutando. Quel proletariato giovanile di cui S-Contro si proponeva come agente politico («neo-leninista»?) non era da tempo né forza-lavoro né classe operaia in socializzazione. Aveva dismesso questa veste, da un lato, cestinando volontariamente l’etica del lavoro: già l’immaginario «pagano» delle nuove forze operaie della fabbrica taylor-fordista, spesso meridionali di origine, era poco rispettoso delle sacre icone stachanoviste. E certo non erano «lavoristi» gli zingari dei circoli del proletariato, le femministe, i settantasettinidi ogni risma. Ma erano ovviamente anche stati dismessi, con la periferizzazione e la precarizzazione che si respirava già, sebbene un buon diploma tecnico consentisse ancora – per poco tempo – decine di colloqui di lavoro per entrare nell’esercito industriale che contava ancora centinaia di migliaia di effettivi6.

Ma una storia politica, musicale, contro-culturale e di militanza, che attraversa gli anni Ottanta, nella Torino che si avviava a essere una città post-industriale, tra fine della lotta armata e riflusso, non può fare a meno delle testimonianze dirette di chi, allora giovane, iniziò a fare politica in quel contesto. Per questo vale la pena di riportare qui le testimonianze di Davide e Betty.

Davide: Io sono nato nel 1966, vengo da un quartiere operaio di Torino, che e Lucento-Vallette, mio padre era un operaio della Teksid, era un operaio torinese di mestiere e del Pci, mia madre era una casalinga, la classica famiglia torinese, non di immigrazione dal Sud. […] La mia formazione, prima di arrivare a fare un po’ di politica, è stata quella di un quartiere operaio, con le sue contraddizioni, tra cui il dilagare dell’eroina. Ho avuto molti amici e compagni di scuole che sono morti, altri che hanno avuto percorsi di carcere, io mi sono salvato anche perché avevo paura di bucarmi. […] Nel 1980, quando ci sono stati i licenziamenti Fiat, io avevo quattordici anni, se ne discuteva molto in casa, mio padre era combattuto, se stare con il movimento operaio o con i Quarantamila (che poi non erano quarantamila…). Lui non era un militante del Pci, ed era della parte piu conservatrice del Pci, e come tanti altri operai aveva una stima per “Giovannino” Agnelli. Alle superiori vado al Baldracco, una scuola chimica-conciaria, senza alcuna formazione politica alle spalle. Qui inizio a conoscere il movimento new wave, dark, questo in quarta, verso il 1984, quindi ho un approccio musicale al fenomeno culturale e politico, e poi avevo una voglia di ribellione mia, una forma di riscatto individuale e personale. In quinta conosco Salvatore che viene a volantinare come studente medio davanti alla mia scuola, e qui inizia il mio percorso nel collettivo S-Contro. Il primo anno di militanza capivo poco delle riunioni che si facevano: i bordighisti, le posizioni specifiche di un gruppo e di un altro, non riuscivo a coglierle. La cosa che mi ha spinto per una continuità nella militanza e di approfondimento è stato questo mix tra lettura generale e sguardo sui fenomeni musicali e sociali. Mi sentivo un po’ “a casa”, perché era un gruppo di giovani, un gruppo metropolitano, di una citta industriale come Torino, era un gruppo orizzontale, le leadership erano naturali, non c’era un riconoscimento formale di un leader. […] Ma allo stesso tempo c’era un percorso di formazione politica e parallelamente c’era la questione musicale, in senso generale, che per me e stato uno dei collanti maggiori di quel gruppo di compagni7.

Betty: Io sono entrata in S-Contro nell’84 […]… La consapevolezza politica era minima, almeno da parte mia, ma ero attratta da tutto ciò che potesse essere una formazione politica di rottura con l’esistente. Inizialmente mi ero avvicinata al movimento punk e a Piazza Statuto, poi tramite Efi e altri compagni ho cominciato ad avere un’idea piu strutturata del mio pensiero politico.
Abbiamo anche tentato di frequentare via Plava, dove si trovavano i comitati a sostegno per i prigionieri politici. Fu un’esperienza molto deludente perché dopo un incontro questi erano inspiegabilmente spariti. In quel periodo molti compagni del circuito di via Plava vennero arrestati o furono costretti alla latitanza a causa di un’ inchiesta sui Nuclei comunisti rivoluzionari, che più che un gruppo “armato” era una rete di solidarieta attiva e sostegno ai detenuti politici, una rete formata da ex militanti di Pl e ex Autonomi, nonché del Movimento in generale. Questo dà la misura di quanto all’epoca fossi completamente inconsapevole di ogni cosa.
S-Contro risolveva e dava forma alla mia ideologia politica che era sostanzialmente leninista, per quella che doveva essere la pratica politica e l’organizzazione. Il collettivo S-Contro del primo periodo, quando si trovava in via Po 12, vedeva parecchi attori, di diverse generazioni. Io frequentavo la parte giovanile dell’organizzazione – Efi, Marco, Sergio – mentre Cesare e Mimmo erano gia piu distanti. […] La nostra ambizione di avanguardia rivoluzionaria fu soddisfatta nel 1985, quando un movimento studentesco si affacciò per la prima volta dopo anni nell’arena politica […] e ricordo un lungo periodo di attività politica e di volantinaggi, faticosissimi, davanti alle scuole per reclutare militanti. Le scuole erano quasi tutte scuole medie superiori, tecniche e professionali. Se ci doveva essere una radicalizzazione doveva partire dai ceti popolari. Ovviamente la scuola non era l’unico tema di interesse del gruppo, anche il livello internazionale era per noi significativo8.

Due testimonianze prese tra le tante riportate all’interno delle ricerca, entrambe significative di quello spirito di avventura, che mescola il desiderio di conoscenza con quello del cambiamento radicale, che animò quell’esperienza così come quella delle generazioni precedenti e riassumibile, sostanzialmente, nel desiderio “mitico” della Rivoluzione. Desideri ed esperienze che, quasi sempre finiscono con l’incontrare e conoscere, leopardianamente, i limiti di ogni desiderio irrealizzato, per quanto forte e intensamente vissuto.

Per chiudere la storia di S-Contro, però, conviene lasciare ancora la parola a Salvatore:

S-Contro formalmente si chiude nel 1991, con la nascita di Rifondazione comunista finisce e non si riunisce più. Per me il ’90 e uno spartiacque. Io non ero un artista, alcune passioni le ho portate in Radio Black out, dove facevo un programma musicale. Quando finalmente occupammo i centri sociali, noi portammo lì a suonare tutti quelli che prima andavamo a vedere con Nevio e Sergio con quelle micidiali trasferte, aderivamo a un circuito nazionale che si chiamava Circuito autogestito ed era una cosa molto interessante. Non la voglio sminuire, ma […] quello mi divertiva. Però fuori dal Gabrio non l’avrei mai fatto. […] Per me era più importante comunque… non so se chiamarla la “militanza dei volantini”, alla fine i volantini avevamo quasi smesso di farli in realtà… S-Contro si scioglie nel ’91, dopo la Pantera io comincio a seguire, senza alcuna convinzione, la prospettiva di «Politica e Classe». […] La scelta era stata di andare a vedere cosa succedeva in Rifondazione comunista, ma parallelamente decidiamo di fare un collettivo studentesco post-pantera, Ombre rosse, che non funziona, funziona un anno, un anno e mezzo, facciamo una rivista, «Riff-raff» (torinese)… Per me ha voluto dire immergersi in quel milieu che si crea tra la radio, i centri sociali, i collettivi, le riviste, che caratterizza i primi anni Novanta. Io quella stagione penso di averla vissuta con molta intensità, tutta, a partire dalle occupazioni. Dopo non molto tempo ci fu una crisi anche per me, perché non vedevo più una dimensione espansiva, generativa, soprattutto non era avvenuto quel processo di capacità di uscire dai centri sociali per costruire… Lì mi portavo dietro la cultura maturata in S-Contro, comunque senza la capacità di orientare la classe operaia, nel senso di una frazione della composizione di classe in grado di spostare, di agire politicamente in chiave ricompositiva, di essere avanguardia di massa dentro il movimento politico. Classe operaia intesa non come operai fisici. Mi era abbastanza chiaro… Con «Riff-raff» […] C’era già tutto un avvicinamento ai temi che erano posti soprattutto dagli studiosi di area operaista o post-operaista, nel mio caso personale molto filtrata dalla frequentazione e lettura di Romano Alquati, che ebbe un’importanza fondamentale in quegli anni, anche se poi non lo seguii nella proposta di formare gruppi di conricerca. Per me la scelta fu quella: sciogliersi, vivere creando altre strutture che ci sembravano piu adeguate al tipo di composizione giovanile, più istruita. Dico cosa pensavamo all’epoca, oggi penso cose un po’ diverse, per cui fatico a vedere una linearità. Quello fu un passaggio che mi portò abbastanza lontano anche rispetto alla seconda fase di S-Contro, dove il momento politico, organizzativo, per creare il partito dell’unita della sinistra di classe non socialdemocratica (che era la formula che utilizzavamo) mi sembrava fosse la stella polare che dovesse orientare la nostra prospettiva politica. Non pensavo più quello9.

Molti lettori avranno forse storto il naso di fronte all’uso di termini come avventura e mito nel descrivere l’esperienza di S-Contro, ma che potrebbero costituire due concetti adatti più di altri per comprendere la permanenza nell’immaginario collettivo, soprattutto giovanile, di quell’ipotesi che sembra non voler morire, nonostante tutto. Un immaginario che raramente guarda alla Rivoluzione come ad una scienza, troppo spesso di carattere economicistico, e che ogni volta rivela, invece, come l’unica scienza, pur sempre cangiante nelle sue forme organizzative, possa soltanto essere quella dell’insurrezione.

Un’idea che può far comprendere che i miti maggiori espressi dall’immaginario della specie, a partire da quelli religiosi, hanno sempre salde fondamenta nella storia, nei suoi diversi modi di produzione e riproduzione succedutisi nel tempo e nelle loro infinite contraddizioni. Un mito, comunque, per cui vale ancora la pena di combattere, nonostante gli errori, le eresie, le sconfitte e gli orrori delle solo e sempre pretese ortodossie che ne hanno costellato la storia, come le vicende di S-Contro e dei suoi militanti stanno ancora lì a dimostrare.


  1. L. Perrone, S-Contro. Un collettivo antagonista nella Torino degli anni Ottanta in S. Gambino, L. Perrone, S-Contro. Un collettivo antagonista nella Torino degli anni Ottanta, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 9-10.  

  2. Si vedano le immagini di SENZACHIEDEREPERMESSO, il documentario di Pietro Perotti e Pier Milanese prodotto nel 2015, sulle lotte operaie alla Fiat dagli anni Settanta alla sconfitta del 1980, qui  

  3. A Torino, città laboratorio per eccellenza come si diceva poco prima, il primo questionario antiterrorismo diffuso sul territorio metropolitano, già nel 1977, fu opera dell’amministrazione Novelli.  

  4. In S. Gambino, L. Perrone, op. cit., pp. 53-58.  

  5. In op. cit., pp. 45-51.  

  6. S. Cumino, Dopo il diluvio: militanti politici oltre la città fabbrica, pp. 47-48.  

  7. Una storia torinese degli anni Ottanta raccontata dagli ex-militanti in op. cit., pp. 88-89.  

  8. Ibidem, pp. 89-90.  

  9. Ivi,pp. 153-154.  

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Il mito e il cielo https://www.carmillaonline.com/2024/12/17/il-mito-e-il-cielo/ Tue, 17 Dec 2024 21:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85825 di Neil Novello

Giulio Guidorizzi, I miti delle stelle, Milano, Raffaello Cortina, 2023, pp. 219, 24,00 euro.

L’uomo non si accontenta di ammirare il cielo stellato. Desidera anche leggerlo. Così le costellazioni rilucenti nella volta celeste, dalle origini della cultura occidentale identificano, oltre che un luogo di contemplazione, uno di interrogazione. Domandare il nome e cercare una via di comprensione nell’infinito libro delle stelle è una prerogativa dell’astronomia greca, e ancora prima della tradizione babilonese e di quella mesopotamica. Ma quando osserva il cielo, l’uomo greco anzitutto precisa la sinopia immaginaria delle costellazioni. Perché la linea che lega stella a [...]]]> di Neil Novello

Giulio Guidorizzi, I miti delle stelle, Milano, Raffaello Cortina, 2023, pp. 219, 24,00 euro.

L’uomo non si accontenta di ammirare il cielo stellato. Desidera anche leggerlo. Così le costellazioni rilucenti nella volta celeste, dalle origini della cultura occidentale identificano, oltre che un luogo di contemplazione, uno di interrogazione. Domandare il nome e cercare una via di comprensione nell’infinito libro delle stelle è una prerogativa dell’astronomia greca, e ancora prima della tradizione babilonese e di quella mesopotamica. Ma quando osserva il cielo, l’uomo greco anzitutto precisa la sinopia immaginaria delle costellazioni. Perché la linea che lega stella a stella forma un’immagine gravida di significato culturale. La sua astrazione però è solo apparente. Essa non reca nulla che possa veramente definirsi astratto. L’immagine stellare fissa un mito e attraverso esso afferma il fondamento di una cultura originaria. Anzi l’immagine stellare identifica un μυθος, un racconto mitologico, una sorta di Urphänomen. I miti delle stelle di Giulio Guidorizzi (Raffaello Cortina, 2023) contiene dunque due libri, uno sul mito e uno sulle costellazioni, un libro sul mito che si fa costellazione, un libro sull’immaginario dell’antica Grecia.

Leggere le stelle è anzitutto un’opera di riconoscimento della costellazione. Essa testimonia l’immagine, l’emanazione immaginaria di un racconto. Così I miti delle stelle può essere letto come una colta mitografia oppure come un trattatello di astronomia. Ma anche qualcos’altro. Può essere letto pure come un viaggio nella storia della pittura. Ripercorrere la traccia mitologica guardando il cielo è una linea dell’impianto ideato da Guidorizzi, un’altra guarda per così dire alla terra, all’opera d’arte come luogo figurale del mito. Così per spiegare l’Orsa Maggiore, proprio in apertura di libro, seguiamo le tradizioni e le relative «varianti» del mito attraverso le opere pittoriche di Baldassarre Peruzzi, Ignaz Stern e Jean-Honoré Fragonard. L’Orsa Maggiore (e l’Orsa Minore) sono le protrettrici astralmente effigiate di Zeus, il neonato padre degli dei. Nel mito greco, per merito di un ingegnoso sotterfugio escogitato dalla madre Rea, Zeus bambino scampa alla pulsione cannibalica del padre Crono. Pertanto Rea affida il neonato a due orse. E così la loro trasfigurazione astrale occupa la sommità, l’alto del cielo, perché la coppia animale è onorata dal loro figlio putativo, Zeus appunto. Tra le due Orse, troviamo il «dragone» che protegge il giardino delle Esperidi, il luogo divino in cui un melo, dono di Gea, la Terra, alla sposa di Zeus, Era, genera frutti d’oro. Interdetto all’umanità, il giardino con le mele auree è violato da Eracle, che uccide il dragone. Le scaglie corporee del mostro diventano la costellazione, come testimonia, nel volume, l’illlustrazione di un ovale del cinquecentesco Lorenzo della Sciorina.

Così di costellazione in costellazione, il libro appare uno spartito musicale sul cui pentagramma il mito è spiegato anche dalla pittura. E la pittura, a esempio nel caso del Bacco di Annibale Carracci, illustra così il mito di Arianna come la sua ghirlanda alla base della costellazione della Corona. E come inoltre la pioggia d’oro attraverso cui Zeus ingravida Danae che dà alla luce Perseo, l’assassino della Gorgone, figurata in un dipinto di Tiziano. Le tradizioni del mito e le sue varianti concorrono dunque a organizzare le linee del cielo sia nel caso di narrazioni per così dire creaturali sia nel caso di oggetti come la Lira. Esiste infatti una costellazione legata allo strumento musicale greco per antonomasia, lo strumento inventato da Ermes, transitato poi nelle mani di Apollo e finalmente giunto a Orfeo. La sua storia luttuosa il mito la associa alla riconquista infernale di Euridice. La scelta pittorica qui cade su Orfeo e Euridice di Rubens.

Non solo gli astronomi Arato di Soli, Eratostene, Igino, Conone di Samo, Cleostrato di Tenedo, Manilio, l’intera cultura greca è chiamata a dialogo sul mito e le costellazioni: Omero, Esiodo, Pindaro, Alceo, Eschilo, Euripide, Erodoto, Apollonio Rodio. Così la cultura latina con le Metamorfosi di Ovidio, fino alla cultura astronomica moderna con Galileo. Ogni fonte, specie tra le antiche, partecipa di un discorso tra il mito e le stelle, il mito che si proietta nella costellazione e la costellazione che espone la sinopia astrale del mito. Così il caso della «più poetica delle costellazioni», le sette stelle che formano le Pleiadi. Nel mito greco, Zeus le colloca in cielo per salvarle, perché sfuggano alle mire seduttive di Orione. Attraverso Merope, tra le Pleiadi la stella meno brillante, è fornita anche l’occasione per introdurre la figura del marito, il celebre Sisifo, rappresentato da un altrettanto celebre dipinto di Tiziano. Attraverso le costellazioni dell’Inginocchiato, dell’Auriga, del Cavallo, del Deflino e del Serpentario, la narrazione approda a una costellazione più famosa di altre: Orione. Questa dell’«URU-ANNA» di origine mesopotamica identifica la scena-madre del cielo. E non solo perché accanto a Orione vi è il Cane. Esso insegue la Lepre, non lontano si intravede lo Scorpione e dinanzi a Orione sta il Toro contro cui quel potentissimo combatte. Nella quadreria a corredo del libro, il dipinto che evoca Orione è di Nicolas Poussin. Riguarda però un frammento del mito, il momento in cui il figlio di Poseidone, accecato per vendetta da Enopione, brancola alla ricerca del sole nascente.

Tra la costellazione del Cigno e il Cane Maggiore, la costellazione che fissa un brano del mito di Minosse, Teseo, Arianna e il Minotauro, la costellazione di Argo, in cui è raffigurata la nave degli Argonauti e il mito di Giasone, Medea e il vello d’oro, il racconto del mito e delle stelle tocca la costellazione di Eridano. E il «triste mito» di Fetonte: un «ragazzo che volle assumersi un compito troppo più grande di lui e morì a causa della sua ingenuità» cadendo dall’alto del cielo – come raffigura un disegno di Michelangelo – nel fiume Po. Con la Chioma di Berenice, la costellazione dedicata alla regina, sposa di Tolomeo III d’Egitto, e la costellazione del Centauro, il pedagogo Chirone, educatore di Giasone e Achille, l’origine mitologica delle costellazioni non esprime più una mera legge di cultura, ma richiama per così dire il fondamento narrativo della civiltà greca. Essa fissa nel cielo un formidabile immaginario cristallizzando nella mitografia astrale un’esigenza di durata, qualcosa che venendo da un immaginario prova a fondarne uno nuovo: una concezione del mondo.

Così I miti delle stelle, se su Chirone chiude un sipario, ne apre un altro sul dialogo tra il mito e il segno zodiacale. Si snoda pertanto una narrazione tra l’Ariete opaco, poiché l’«animale divino aveva lasciato sulla terra il suo mantello», il vello d’oro, il Toro, il cui occhio è nientemeno che «Aldebaran», i Gemelli quale emblema della perfezione nell’amore tra le creature, e il Cancro con il suo temerario granchio che sfida nientemeno che Eracle alle prese con l’Idra di Lerna. La lotta dunque tra l’eroe mitologico e l’animale, nella formazione zodiacale occupa uno spazio esemplare. Un caso, immortalato in un dipinto di Zurbaràn, riguarda l’episodio della vittoria, ancora di Eracle, sul leone di Nemea, la sinopia stellare della belva che campeggia sopra l’Idra e il Cancro. Diverso è invece il caso mitologico di Erigone-Vergine, la fanciulla suicida presso il sepolcro paterno.

A proposito di animali ed eroi, lo Scorpione, secondo una tradizione mitologica, è l’assassino di Orione. Anzi la morte del «gigante violento» racconta una storia di hubrys, la storia di un essere persuaso di poter «uccidere qualunque creatura nata sulla Terra» ma egli stesso rimasto vittima di un letale agguato. Animali assassini, creature non invincibili, e oggetti. L’unico dello Zodiaco è la Bilancia. Anche però creature ancipiti, figure come il Sagittario, potente, spaventosamente energico, insignito di un premio esemplare, essere collocato al centro della Via Lattea. Così gli ultimi tre segni zodiacali, dalla «divinità dai confini incerti» del Capricorno, il cui incontro indurrebbe a uno «smarrimento dell’anima», alla «figura strana» di un «uomo che versa acqua da una giara» dell’Aquario fino ai Pesci, esauriscono la nomenclatura della volta celeste.

Dotare poi di un nome non mitologico il «latte» divino di cui è screziata la Via Lattea, per gli «astronomi greci» che osservano il cielo equivale a un «mistero profondo», insondabile. La cultura occidentale, che pure ritrae la Via Lattea nella maniera sublime e profondamente umana del Somniun Scipionis nella Repubblica ciceroniana, doveva ancora avanzare, svilupparsi scientificamente almeno fino al Sidereus nuncius di Galileo. Per capire finalmente la Via Lattea capendo qualcosa di sconcertante, la verità più profonda sulla condizione dell’uomo. Ammirare e perdersi nella sua sterminata immensità, nella sua infinità, alla modernità rivela il più inquietante segreto, poter vivere culturalmente l’infinito. Per l’uomo, è un monito, un’abbacinante presa di coscienza. Non più la tolemaica idea della propria centralità nell’universo ma la sua abissale solitudine ontologica, quella di una creatura che abita la più estrema lontananza, la periferia dell’intero creato.

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Silenzi magnogreci https://www.carmillaonline.com/2023/11/25/silenzi-magnogreci/ Sat, 25 Nov 2023 21:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80070 di Franco Pezzini

Marilù Oliva, Atlante della Magna Grecia. Italia del Sud e Sicilia tra mito e archeologia, pp. 224, € 29, Rizzoli, Milano 2023.

La Magna Grecia fu un mondo particolarissimo, mutevole, mai scontato, variegato, nato dalla bellezza dell’integrazione. Sincretismi tra popoli che non si conoscevano e che non sempre si accolsero, relazioni pacifiche o burrascose che portarono comunque a un’assimilazione su diversi fronti. […] l’arte rimasta ci rivela quanto magma creativo ci fosse alla base di tali novelle comunità. Quanta voglia di realizzarsi, di affermarsi, quanti progetti: […] siamo di fronte a comunità reattive. Gente consapevole che si giocava [...]]]> di Franco Pezzini

Marilù Oliva, Atlante della Magna Grecia. Italia del Sud e Sicilia tra mito e archeologia, pp. 224, € 29, Rizzoli, Milano 2023.

La Magna Grecia fu un mondo particolarissimo, mutevole, mai scontato, variegato, nato dalla bellezza dell’integrazione. Sincretismi tra popoli che non si conoscevano e che non sempre si accolsero, relazioni pacifiche o burrascose che portarono comunque a un’assimilazione su diversi fronti. […] l’arte rimasta ci rivela quanto magma creativo ci fosse alla base di tali novelle comunità. Quanta voglia di realizzarsi, di affermarsi, quanti progetti: […] siamo di fronte a comunità reattive. Gente consapevole che si giocava il tutto per tutto sul nuovo territorio e voleva conservare i traguardi conquistati. […] Questo Atlante è una mappatura di luoghi che ora sembrano sopiti, perché gli archeologi li hanno restituiti alla luce dopo secoli in disuso, in cui sono stati sepolti o dimenticati.

E dunque apriamolo, questo Atlante che ridà voce a un triste silenzio e inizia con una citazione fulminante dai Fasti di Ovidio, “Ciò che chiamano Italia era Magna Grecia”. Non male ricordarlo, in un’epoca in cui sgomitano da poltrone e poltroncine i tronfi e ignoranti epigoni della pretesa “razza” italiana e del mascellone romano, “che assoggettò la Magna Grecia, trascinando il Sud Italia in un processo di decadenza devastante”.

Dopo aver rinarrato con la vivacità e i colori propri della sua penna le vicende di Odisseo e di Enea (2020 e 2022), Marilù Oliva ha proseguito la sua immersione nei miti classici attraverso formule di scrittura ulteriori e variegate. Cosciente che certe storie meritino di essere ri-offerte collettivamente – e sembra un esito importante e nobilissimo da parte di chi prima ha mostrato di saper costruire in proprio una ricca produzione di solidi romanzi, ponendosi poi al servizio di fonti antiche –, ha così pubblicato in rapida successione I divini dell’Olimpo. Quattro incontri con gli dèi (Solferino, 2022), Il viaggio mitico (con Matteo B., suo figlio, e illustr. Claudia Plescia – che pure presenta una parte narrativa autonoma: De Agostini, 2022), Miti straordinari. Storie di eroine, eroi, divinità e creature che non ti aspetti (illustr. Rosaria Battiloro: De Agostini, 2023), con ottimi risultati e un linguaggio consono a un pubblico molto ampio. E ora arriva questo nuovo splendido volume, nei fatti un dettagliato atlante archeologico, di elegante scrittura e dotato di un meraviglioso apparato di foto illustrative.

Dopo una bella Prefazione esploriamo così Campania (Cuma, Pithecusa/Ischia, Poseidonia/Paestum, Elea/Velia, Palinuro), Calabria (Reggio Calabria, Locri Epizefiri, Kaulonia/Monasterace, Scolacium/Squillace,  Kroton/Crontone, Petelia/Strongoli, Cirò Marina, Sibari), Basilicata e Puglia (Eraclea, Metaponto, Taranto, Gallipoli, Botromagno), Sicilia (Zancle/Messina, Naxos, Leontinoi/Lentini, Siracusa, Kamarina/Santa Croce Camerina, Gela, Akragas/Agrigento, Selinunte, Segesta/Calatafimi Segesta), con cenni a parecchie altre località.

Zone qui esplorate nelle vestigia archeologiche (colpi d’occhio panoramici sulle singole aree, templi e brandelli di muratura, vasi di straordinaria bellezza, sculture a rilievo, specchi e monete, statue di sirene e teratomachie, mostri marini e laminette orfiche, tavole inscritte, busti di donne, dee o antichi intellettuali barbuti…) come in quelle toponomastiche e mitiche: Cuma da “onda”, Pithecusa da “(Isola) delle scimmie”, Poseidonia da “(Città) di Poseidone”, Zancle da “falce”, Leontinoi da “leone” (forse la pelle di quello nemeo ammazzato da Eracle) e così via, legate alle forme degli insediamenti o ad antiche storie e devozioni dei luoghi.

Poi lo sappiamo, il rapporto tra mito e γεωγραϕία (descrizione della terra) è complesso, elastico ed estremamente variegato – a partire dal fatto che sia il linguaggio del mito (inteso nel senso dell’antropologia religiosa, ma anche nelle accezioni meno tecniche) sia quello geografico si rifanno fondamentalmente all’immaginario, ai suoi sottotesti e implicazioni – compresi stereotipi, paradigmi ideologici, costellazioni valoriali, banali pregiudizi. E per contro il rapporto tra i luoghi e le storie resta sfuggente, affabulatorio. Vero, i miti greci vedono raccordi spesso solidi con i territori di tradizioni e pratiche liturgiche storicamente documentate (Grecia continentale, isole, colonie occidentali – particolarmente, ma non solo, la Magna Grecia – e orientali). Ma a volte si tratta del localizzarsi tardivo di eventi mitici dalla collocazione originaria più sfuggente, magari con uno slittamento a regioni via via più lontane (le Colonne d’Ercole a Gibilterra, per dire, o la destinazione italica di Enea). Ma troviamo anche miti locali per definizione, come quelli legati a eroi eponimi (a volte traghettati con la colonizzazione) e santuari, o a realtà del territorio e relativi fenomeni naturali – per esempio certe peculiarità geografiche o geologiche che sussumono paradigmi teratologici preesistenti, come nella collocazione di Scilla e Cariddi sullo stretto nostrano, o della Chimera in Licia – e insomma il discorso sarebbe molto ampio e costringerebbe a inabissarsi in una casistica capillare.

Resta il fatto che viaggiare con riferimento all’atlante del mito sia possibile, e permetta – come poi per i viaggi informati dalla letteratura o dal cinema – esperienze intellettualmente ed emotivamente forti, a dispetto delle modifiche intervenute nei luoghi a distanza di tempo: emblematico il memoriale vittoriano di George Gissing in una Magna Grecia remotissima da quella offerta dai classici. Anche senza pensare a un’aura speciale dei siti, è indubbio che per chi sia minimamente sensibile il trovarsi in luoghi assurti a veri e propri poli dell’immaginario offra un fascino vertiginoso di secoli (e spesso di bellezza). La studiosa Anna Ferrari, per esempio, ha proposto negli anni una serie di preziosissimi dizionari sul mito e le sue declinazioni anche geografiche, tra i quali un ricco Dizionario dei luoghi del mito (Rizzoli, 2011).

Oliva fa un’operazione diversa, partendo da luoghi reali e cogliendo gli echi. Talora flebili, e torniamo al silenzio citato all’inizio, perché, nonostante gli studi, tanto resta misterioso. Se a volte nomina nuda tenemus perché le antiche storie si sono perdute, per nostra fortuna le biblioteche erudite del mondo classico e postclassico hanno conservato una valanga di dati, versioni anche contraddittorie, minori o (appunto) locali dei miti implicati. Ma cosa racconta la coppa del naufragio del Museo di Pithecusa, con il corpo di un uomo immerso tra pesci e piccole svastiche, forse un cadavere che galleggia come troppi in questo Mediterraneo? A quali idee sulla vita e la morte rimanda la Tomba del Tuffatore di Paestum, con l’affresco oggetto di interpretazioni contraddittorie anche molto recenti?

Agli itinerari offerti seguono Conclusioni, un Dizionario essenziale, Indice e Bibliografia.

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Venire in salvamento https://www.carmillaonline.com/2023/11/14/venire-in-salvamento/ Tue, 14 Nov 2023 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79685 di Neil Novello

Giuseppe Occhiato, L’ultima erranza, Rubbettino Editore, 2023, pp. 356, 19 euro

La poesia greca e la poesia latina, tra l’Iliade omerica e l’Eneide virgiliana, espongono il topos culturale della morte senza sepoltura. È la preliminare condizione per figurare un orizzonte di destino: l’erranza tragica dell’anima nell’aldilà. A riferire delle citazioni liminari scelte da Giuseppe Occhiato nel romanzo L’ultima erranza, i versi di Omero e Virgilio sugli insepolti istituiscono l’archetipo di un’idea, una credenza utilizzata dallo scrittore calabrese per giustificare l’oltremondana peripezia di Rizieri Mercatante, il protagonista del romanzo. La sua tragedia consta dunque di un fio [...]]]> di Neil Novello

Giuseppe Occhiato, L’ultima erranza, Rubbettino Editore, 2023, pp. 356, 19 euro

La poesia greca e la poesia latina, tra l’Iliade omerica e l’Eneide virgiliana, espongono il topos culturale della morte senza sepoltura. È la preliminare condizione per figurare un orizzonte di destino: l’erranza tragica dell’anima nell’aldilà. A riferire delle citazioni liminari scelte da Giuseppe Occhiato nel romanzo L’ultima erranza, i versi di Omero e Virgilio sugli insepolti istituiscono l’archetipo di un’idea, una credenza utilizzata dallo scrittore calabrese per giustificare l’oltremondana peripezia di Rizieri Mercatante, il protagonista del romanzo. La sua tragedia consta dunque di un fio terribile. Esso non è tanto nell’essere morto giovane e per di più di morte violenta, caduto miseramente in una fine sanguinosa già raccontata da Occhiato nella grande epopea di “Oga Magoga” (ed. or. 2000). E non è neppure nell’essere realmente insepolto. Pure inumato nei suoi «sette palmicelli di terra» nel cimitero di Santocostantino, alla sua morte Rizieri non ha ricevuto il conforto del rituale funerario tradizionale. Ecco allora il momento tragico e la sua incolpevole erranza oltremondana. Secondo la credenza, l’errante dell’aldilà, non è più corpo vivo e non ancora anima morta, erra nell’attesa di ricevere sulla terra quanto non ha mai avuto, i cosiddetti «funerali all’antica». E dunque il pensiero magico, la credenza lo fa disperatamente, e in eterno, vagare nell’altro mondo. La sua condizione rischia di essere sospesa per sempre. Rizieri è un trapassato in attesa di trapassare.

Nel 2007, per il marchio Iride (Rubbettino) Occhiato pubblica la prima edizione dell’Ultima erranza. Nel 2023 l’opera è ristampata con l’introduzione di Emilio Giordano. Giuseppe Occhiato, il classico più ignoto della letteratura calabrese e nazionale, nel 2022 rilanciato da una nuova edizione di Oga Magoga, risale lentamente la dura china di un ingiusto anonimato culturale. E ciò soccorre per cancellare lo stigma di regionalismo letterario, e ancora peggio di meridionalismo, affibbiato alla sua opera. Al di là dell’agnizione omerico-virgiliana, L’ultima erranza, si direbbe una meravigliosa isola staccatasi proprio dall’immenso arcipelago Oga Magoga, è ambientata a Mileto, la terra di Occhiato. Racconta la storia di un nostos, quello di Filippo Donnanna. È un emigrato che ritorna al paese dopo quarant’anni di lavoro a San Candido, nell’Alto Adige. Donnanna è un’«anima in penìo», un purgante terrestre che si dibatte tra un inquieto travaglio metafisico, il problema dostoieskijano di Dio, un’amara, cupa nostalgia, l’insensatezza dell’esistenza. E ancora, una vana meditazione sull’assurdità della vita e della morte, il male nel mondo e il terrore del nulla. L’interezza della sua condizione umana è da Occhiato figurata come un «groviglio di mèrveri». Quando Donnanna cerca un amico d’infanzia, don Nazareno Gullà, vibra in lui un ulisside metafisico, un uomo alla «deriva» sia perché ha perduto il «senso di tutto» sia perché al religioso supplica una lezione di tanatologia. Donnanna domanda a don Gullà il dono di una parola salvifica, una meditazione sull’essere e sulla fine. Il suo problema filosofico, crudo, lucido e feroce, inquadra una realtà inaccettabile. Quest’anima dolente è afflitta da elucubrazioni heideggeriane e si comprende alla luce del pensiero di Leopardi. Noi siamo stati abbandonati sulla terra. E la morte non è che l’esperienza di un amaro passaggio dallo stato di abbandono all’ultimativo nulla. Su tale senso tragico governa l’indifferenza di Dio. Per rivelare a Donnanna la formula della salvezza difendendo la fede come natura del «cuore» umano nonché atto d’amore per la «religiosità popolare», cioè il vissuto della tradizione, don Gullà scommette su un effetto di sortilegio. Non dona a Donnanna una parola, indica solo una via. Essa riguarda la «storia» occulta di un’«antica carrozza da morto», una storia legata a un oggetto prezioso, che a Donnanna però dovrà servire da «lezione di vita». Da lezione e anche da mezzo per afferrare la sfuggente «verità» sul senso della vita, la fissazione che lo affligge a morte accogliendo così, in maniera traslata, la filantropica «offerta di salvezza» da parte del religioso. Nell’intenzione di don Gullà, la conoscenza della misteriosa «storia», cui il prete invita a interessarsi per ricostruirne il corso e afferrarne il senso profondo, nella ricezione da parte di Donnanna assume un valore esperienziale pedagogico. È il solo mezzo attraverso cui la crisi dell’uomo potrà risolversi in un orizzonte di redenzione. Del recupero di una fede di «cuore» e della consapevolezza culturale della «religiosità popolare», l’«antica carrozza da morto» è il simbolo salvifico. E così conoscere le azioni terrene compiute da don Natalino, il padre di Rizieri e l’artefice della «storia» legata alla «carrozza», per orientare l’«erramìa dell’anima» del figlio in altro e diverso destino, nel pensiero di don Gullà definisce la clavis hermeneutica necessaria a Donnanna per capire il proprio mondo, la propria crisi umana. E anche altro: per rovesciare in coscienza culturale lo statuto di un tormento profondo fatto di inesplicabili «demoni interiori». Attraverso l’opera di don Natalino, Donnanna e Rizieri, i due mondi dell’Ultima erranza, entrano in rotta di collisione.

Donnanna ritorna a Mileto nel 1983, la sua «indagine» autosalvifica riguarda dunque la «leggenda» dei funerali messa in scena da don Natalino nel 1963 per onorare la morte di Rizieri, tuttora senza onoranza, avvenuta nel 1943. Rizieri è ancora in «attesa» di conquistare la plenitudine dell’aldilà. La sua morte del 1943 accade esattamente vent’anni dopo il 1923, l’anno della vile e colpevole fuga di don Natalino in Argentina. Essa consegue all’aver compiuto una «barbara infamità», l’«empietà» dell’abbandono della moglie Costanza e quindi dei figli Rizieri e Chicchina. Ora l’afflitto Donnanna, riannodando il filo della «leggenda», riannoda anche la storia di un’altra afflizione, quella della coscienza di don Natalino. Nel suo personale nostos, don Natalino cerca, non meno che Donnanna, la propria «redenzione» attraverso i dovuti «funerali all’antica» per l’errante Rizieri. Morire definitivamente per lui significa transitare sul «ponte di santo Iapico», il pons probationis che ammette all’eternità. L’ultima erranza diviene quindi un congegno soteriologico. La crisi esistenziale di Donnanna è curata dalla «storia» di don Natalino, i cui «rimorsi» per l’abbandono della famiglia e la morte senza rituale tradizionale del figlio, a sua volta sono curati dall’impresa dei «funerali all’antica». Ciò vuol dire «accompagnamento, lutto, mortorio, ricònsolo», il «corteo all’antica maniera» e la «carrozza a cavalli», tutto come usava a Santocostantino nel 1943. Sono desideri tradizionali dettati in «sogno» dal figlio al padre. Un’onoranza funebre che anzitutto salva Rizieri dall’«erramìa» eterna, dal non essere ancora «morto all’intutto», e inoltre salva sia don Natalino che fa sia Donnanna che sa.

Rincorrere il filo della «piccola inchiesta privata» sulla storia dei Mercatante, per Donnanna significa rincamminare, attraverso la vicenda, nel proprio mondo interiore. Nella «leggenda» da ricostruire è occultato il senso profondo dell’origine. De Martino avrebbe parlato di antropologia religiosa. Così il nostos di Donnanna non è solo geografico, è anzitutto spirituale. E la sua anima è malata perché il suo mondo è una fine di mondo. Nell’alveo del suo stesso tramonto, attraverso la promessa autosalvifica dell’«inchiesta», Donnanna lavora a riconquistare un’ontologica alba perduta, a reintrodurre un senso nella sua anima schopenahueriana. Il caso e l’errore appaiono come le cifre dominanti della sua condizione inumana. Anche il problema teologico di Donnanna, alla fine si rivela come la mera proiezione metafisica di una crisi gnoseologica. La sua ricerca infatti gravita nell’umano perché figura un’interrogazione al «senso della vita, la sua realtà primigenia, il suo mistero». Proprio come Rizieri, caduto in un aldilà oscuro, incomprensibile, sprofondato in un emisfero di tenebra. Il «mondo sottano», certificando la fine parziale della sua vita, replica il destino di Donnanna, proteso nella colossale impresa di ricostruire, attraverso quella che è divenuta una «leggenda», il significato perduto della vita e del suo essere. Donnanna agisce dunque dall’interno di una catastrofe. Qui si inscrive anche la scissione tragica di don Natalino, realmente al confine tra il mondo non finito di Rizieri e il nuovo al suo inizio.

Donnanna, Rizieri e don Natalino identificano un’esperienza apocalittica. L’emigrante calabrese di San Candido cerca se stesso nell’anima profonda del paese, l’Argentino nel folle recupero di un passato perduto, la parte viva e irrisolta di Rizieri per capire come è fatto l’altro mondo desiderando ancora il nostro mondo. Il radicamento terrestre del trapassato è riassunto in un solo nome, la memoria incancellabile della «zingarellota» Orì, l’amore crudele e la più sinistra reminiscenza di Oga Magoga, la creatura inseguita da Rizieri anche nell’aldilà. Ma don Natalino, nella sua smania di vivificare il tempo, di regredire nel passato per conquistare il proprio presente, figura anche l’anello di congiunzione, il punto di sutura tra le due realtà di Donnanna e Rizieri. I fatti del 1963, con don Natalino, appaiono salvifici per i fatti di Rizieri del 1943 e per i fatti di Donnanna del 1983. La loro indeterminazione ontologica spiega la ricerca di una smarrita «pienezza» spirituale e destinale. Più la ricerca sulle res gestae di don Natalino entra nell’orizzonte di conoscenza di Donnanna, più il ricercatore saturnino supera i «conflitti interiori». E così sulla sua via negationis fiorisce una nuova domanda alla vita.

Nel suo ventennio di erranza, Rizieri compie un viaggio paradantesco. È lui l’homo viator che vaga in un aldilà intemporale, in un incomprensibile pre-«purgatorio». Qui la condizione stessa del vagare è foriera di incontri, parole, struggenti consapevolezze riguardo alla vita abbandonata sulla terra. Dapprima rivede, ma come in un allucinato sogno, la madre Costanza. Incontra il cugino Rinardo, in Oga Magoga l’ideatore del «geniale stratagemma» per uccidere il «minatòtaro». Parla con la «rimita» Brandoria Palaia. Ritrova il «santufemioto». Ed è visitato dalla beffata amante Mata Fara, la feroce «nimpia dei calibis» di Favazzina, discesa nel pre-«purgatorio» per vendicarsi di lui, il «tradimentoso». Ma Rizieri agogna soprattutto di rivedere l’amata Orì. Per questa solitaria anima di purgante, incontrare l’umanità dell’«oltremondo» significa ripercorrere le tracce del passato ormeggiando le vie aperte in Oga Magoga. Tutto il suo mondo di vivo è una visione che risale alla sua memoria di non vivo e non morto.

Tra don Natalino, Rizieri e le visite al camposanto, quella di Donnanna è anche un’amara interrogazione della Morte. La domanda è senza risposta. Essa però occorre per illuminare l’orizzonte ambiguo della vita, per strappare un lacerto di senso allo spettro cupo del nulla. Orfano di un figlio, all’origine dell’ansia metafisica di Donnanna vi è un trauma. È una ferita remota da cui scaturisce la sua ossessione. Essa traspare dalla ricerca di sé nell’impresa di un altro padre per un altro figlio. E per Donnanna non è solo l’ammissione di un antico dolore, è anzitutto il sovrumano tentativo di capirlo il dolore, di disancorare il lutto da sé attraverso il dolore e il lutto dell’altro. L’altro di L’ultima erranza edifica allora una ripetizione, una ricapitolazione, poiché identifica come la replica di un medesimo patimento.

Come Donnanna erra nel mondo, così Rizieri vaga nel «mondo sottano». E la loro specularità di condizione, tra umana e transumana, dal lato di Donnanna è espressa nella figura ermeneutica di don Gullà, dal lato di Rizieri nell’incontro con la vecchia e letale conoscenza di Oga Magoga, «Madama Mortazza». Il prete e il pupo Morte illuminano la via, interpretano i mondi di Donnanna e Rizieri e così tracciano vie di senso in luoghi vissuti come realtà senza senso. Figurano cioè come interpreti di un’utopia. Rizieri anela al «ponte di santo Iacopo», il confine ultimo ovvero la morte definitiva conquistata dopo i «funerali all’antica». Tende però anche all’impossibile, riabbracciare il suo disperato amore di Oga Magoga, la selvaggia Orì. È un sogno irrealizzabile al di qua del «ponte di santo Iacopo», poiché l’anima di Orì era in vita e resta in morte inafferrabile, tanto più che ora è murata in un altro mondo, il mondo proprio alle «credenze» della sua cultura zingaresca. Ancora di più, il sogno di ritrovare Orì appare irrealizzabile soprattutto dopo che Rizieri varca il «ponte di santo Iacopo», la sua unica e più realistica teleologia. E ciò perché il passaggio cancella, così come prescrive la credenza, sia la memoria sia il sentimento ereditati dalla vita sulla terra. La morte ora è la morte. Per l’indomito Rizieri, L’ultima erranza edifica allora due scenarî, uno è la via della nuda verità appresa dalla diretta testimonianza della Morte, l’altro una via di verità ma travestita da vana, falsa speranza. È la traccia, questa ultima, testimoniata dal subdolo «Puricinella». L’inganno però non ha valore destinale. Nonostante la prova, Rizieri non rincontrerà mai più Orì. La verità della Morte è «sacrosanta», la credenza posa su un mito fisso: prima i «funerali all’antica» per morire, dopo il «ponte di santo Iacopo» per essere morto.

Dinanzi alla «meraviglia e ammirazione per quell’uomo che era riuscito in una simile impresa», la fantasmagorica, eroica «storia» del funerale di don Natalino per Rizieri, la «piccola, personale inchiesta di don Filippo Donnanna», appena giunta alla sua fine accerta l’«enormità babilonica delle sue trovate». Per di più, esse si svolgono nel mese di agosto, il tempo delle «feste» e dunque di quella «religiosità popolare» cui Donnanna oppone uno scetticismo, un radicalismo accentuato dal suo desiderio di «sulità». Il duplice risarcimento, così per Donnanna come per Rizieri, non è tanto in una generica riconciliazione, il primo con il mondo, il secondo con l’«oltremondo», non per avere entrambi esaudito un inarrivabile sogno. Rizieri, con l’uscita dallo stato di non vita e di non morte certificato dal passaggio del «ponte di santo Iacopo», e Donnanna, con la conclusione della «ricerca», cioè aver colto nella leggendaria vicenda di don Natalino l’«onoranza della tradizione», richiamano un orizzonte in cui la salvezza è anzitutto una pacificata riconciliazione con il passato. Mentre Rizieri è un nostalgico cosciente, un’anima che nel «mondo sottano» lotta perché conserva la memoria del «mondo soprano», la luminosa conquista di Donnanna, la stessa cognizione chiamata a spiegare la sua vita felice nel paese, non sta nel sentimento nostalgico ma vive nel tentativo di riconquistare una coscienza culturale perduta. È questa la «lezione di vita» intuita nelle parole di don Gullà, l’insegnamento che traduce il suo lungo tormento in una finale placazione d’anima. Così anche la resa di Rizieri dinanzi alla «cittadella proibita» di Orì figura l’esperienza di un’erranza non più infinita. È quindi una condizione spirituale, la piccola redenzione di Donnanna, che non abbandona l’uomo alla perdita irrimediabile della propria presenza, ma fa balenare, se non la piena «salvezza», almeno il consolante ritrovamento di un «diverso equilibrio interiore». Il suo nome è inscritto in quella semplice «fede» nell’umile vita paesana, nella credenza e nella religiosità. E così Donnanna si è finalmente «riconciliato con la realtà di quel mondo», la minima realtà umana della propria terra, la realtà in cui più è rivelata la presenza di Dio.

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Il mostruoso femminile nell’immaginario giapponese https://www.carmillaonline.com/2023/06/30/il-mostruoso-femminile-nellimmaginario-giapponese/ Fri, 30 Jun 2023 20:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77491 di Gioacchino Toni

Al di là delle molteplici forme con cui si manifesta – siano esse quelle di demoni dal ghigno spaventoso, di orribili fantasmi o di antropofaghe vecchie arcigne – e dai linguaggi che lo raccontato – dall’oralità alla scrittura, dal mito al folclore, dalla fiaba al teatro, dal cinema alla televisione e alla cultura pop –, sin dai tempi più remoti il mostro che si aggira per il Giappone è la donna. Di ciò intende dar conto il volume di Rossella Marangoni, Onibaba. Il mostruoso femminile nell’immaginario giapponese (Mimesis, 2023), proponendo [...]]]> di Gioacchino Toni

Al di là delle molteplici forme con cui si manifesta – siano esse quelle di demoni dal ghigno spaventoso, di orribili fantasmi o di antropofaghe vecchie arcigne – e dai linguaggi che lo raccontato – dall’oralità alla scrittura, dal mito al folclore, dalla fiaba al teatro, dal cinema alla televisione e alla cultura pop –, sin dai tempi più remoti il mostro che si aggira per il Giappone è la donna. Di ciò intende dar conto il volume di Rossella Marangoni, Onibaba. Il mostruoso femminile nell’immaginario giapponese (Mimesis, 2023), proponendo un affascinate e inquietante viaggio alla ricerca del mostruoso femminile che popola l’immaginario giapponese dall’antichità ai giorni nostri cogliendone la messa in discussione dell’idea di normalità e del concetto di identità che strutturano le miopi comfort zone immaginarie in cui ci si illude di trovare rifugio.

Spesso nel mostro è possibile scorgere un corpo che, sottraendosi alla sottomissione, si manifesta come minaccia. I mostri femminili che attraversano la cultura giapponese, al di là della forma con cui si presentano, tendono ad assumere il volto dell’irriducibile Altra. «Un essere femminile che non si piega a un modello imposto, a uno schema previsto» (p. 10). Insomma, nel mostro aleggia un essere fuori controllo che, estrinsecando il suo furore, si trasforma in qualcosa di spaventoso che non può essere imbrigliato. Se di certo tutto ciò non è prerogativa esclusivamente nipponica, ricorda infatti Marangoni come in molte culture si guardi alla donna come fonte di contaminazione e impurità, come a un corpo che attrae e al tempo stesso intimorisce anche per il suo potere riproduttivo, in ambito nipponico assume caratteristiche del tutto peculiari.

Secondo la studiosa, i presupposti culturali della mostruosità femminile in Giappone vanno ricercati nell’ambito del sacro, nel corpus di credenze dell’universo arcaico, contadino, prebuddhista che, a partire dall’epoca moderna, si è soliti denominare shintō, la cui spiritualità ha nella purezza e nella contaminazione due temi fondamentali. Nel mondo arcaico giapponese gli elementi di contaminazione sono soprattutto la morte e il sangue e se quest’ultimo in un primo tempo riguarda indistintamente uomini e donne, lentamente, ma inesorabilmente, con l’affermarsi nel IX secolo di una società sempre più patriarcale, che ha letteralmente espulso le donne dalla ritualità religiosa e dal potere politico, ha preso piede un’idea di contaminazione legata esclusivamente al corpo femminile.

Durante la seconda metà del X secolo, il kegare, la contaminazione del sangue che riguardava, tra l’altro, il parto e le mestruazioni, si trasformò gradualmente in un concetto generale di impurità nelle donne e, dapprima limitato a momenti specifici nel corso della loro esistenza, passò a segnare una totale, definitiva impurità. […] E fu proprio quando i guerrieri presero il potere, alla fine dell’era Heian, che la nozione del kegare femminile si diffuse a livello popolare. Così, in un dato momento della storia giapponese, la donna si ritrova marginalizzata (p. 18).

Di ciò che è stata la donna nello shintō antico sono via via restati soltanto depotenziati ruoli di comparsa e lo stesso buddhismo, nelle molteplici sfacettature con cui si è sedimentato in Giappone, pur avendo nel corso del tempo attribuito anche ruoli importanti alle donne, ha contribuito, secondo la studiosa, al loro sostanziale annichilimento. Se, ad esempio, nel buddhismo primitivo la teoria dei Cinque Ostacoli limita la mobilità spirituale ascendente delle donne, a partire dal IX secolo, nel buddhismo giapponese medievale, con l’interdizione delle donne dai luoghi sacri, si giunge di fatto alla loro esclusione totale dalla buddhità realizzata.

A partire dal VII secolo, i due principali percorsi spirituali che attraversano il Giappone tendono a fondersi in una sorta di sincretismo shintō-buddhista, protrattosi sino almeno alla metà del XIX secolo, che si mescola con gli stereotipi di genere tradizionali.

Se, ad esempio, nel sutra apocrifo di origine cinese Bussetsu daizō shōkyō ketsubon kyō o Il sutra corretto del Buddha sulla ciotola di sangue – tradotto anche come Sutra della Piscina di Sangue – il “problema del sangue” tocca indistintamente donne e uomini, nella versione giapponese, dal momento in cui sono i guerrieri a comandare, viene posta maggiore enfasi sulle mestruazioni e sul parto piuttosto che sul sangue in generale. Insomma le donne vengono ritenute colpevoli, impure per la loro stessa natura. È, secondo la studiosa, proprio dall’affermarsi del concetto di impurità intrinseco alla natura della donna che occorre partire per comprendere la costruzione della sua mostruosità nella cultura giapponese.

Il mito che si sedimenta agli albori della civiltà nipponica si rapporta con la presenza nell’area di elementi della cultura cinese e del confucianesimo dando luogo a un’immagine ambivalente delle figure femminili: potenti e coraggiose ma anche soggette al volere maschile che le riduce al silenzio. Dal momento in cui sono gli uomini a narrare i miti e le storie, la figura femminile tende a essere via via annichilita dalle religioni e dalla civiltà del Giappone: «la donna è estromessa dal potere, allontanata dalla possibilità di compiere azioni di mediazione fra mondo dei vivi e mondo dei morti (ricordo che le prime regine erano anche sciamane) per ritrovarsi relegata a un ruolo decorativo, subordinato, ruolo che è ancora ben presente nel Giappone contemporaneo» (p. 35).

Un personaggio paradigmatico dell’indole femminile secondo la visione maschile che struttura il mito giapponese, presente anche nelle fiabe e nel folclore, è quello della donna dall’indole mutante e ingannatrice che irretisce l’uomo attraverso la sua bellezza nascondendo la sua vera personalità e, in definitiva, la sua mostruosità. Non sono rari i casi in cui la donna si trasforma in animale o si rivela tale. Altro elemento ricorrente nell’immaginario giapponese è quello della donna inafferrabile, costantemente in fuga, come nei casi della yukionna, “donna di neve”, e della kuwazu nyōbō, la “moglie che non mangia”.

La yukionna, diffusasi soprattutto nel Giappone nord-orientale, è una sorta di creatura la cui bellezza cela un essere vampiresco che succhia la vita degli uomini.

Nel personaggio della yukionna si rivela ancora una volta la duplicità della donna, una duplicità che si ravvisa, anche se in modi diversi, un po’ in tutte le storie che possiamo prendere come esemplari in un discorso sul mostruoso femminile. L’incapacità di definire questo Altro che è la donna, la sua inafferrabilità, la sua ostinazione a non voler sottostare alle regole, al controllo, infine l’impossibilità di capirla perché “è lei che non vuol farsi capire”, così come non vuole farsi catturare, imbrigliare in una rete: tutto ciò la rende fonte perenne di preoccupazione, di ansietà, di malessere (pp. 62-63).

Il personaggio della kuwazu nyōbō è presente in numerose varianti in tutto il Giappone: una donna ambita come moglie perché sembra non nutrirsi mai, una donna non problematica, che lavora alacremente senza consumare, ma che poi, osservata di nascosto, si mostra invece una divoratrice insaziabile che, vistasi scoperta, si rivela spietata nei confronti del marito.

L’onibaba, demone femminile vivente, non proveniente dall’aldilà, compare in numerose storie nipponiche sotto forma di donna in preda al risentimento e ad un insopprimibile desiderio di vendetta nei confronti dell’uomo. Spesso questo demone si rivela come una vecchia dall’aspetto spaventoso.

Altro demone ricorrente nelle favole giapponesi è quello della yamauba, la “vecchia della montagna”, a volte benevola, altre molto meno tanto da rivelarsi un essere mostruoso stupido e crudele, che si ciba di carne umana e incline a bere il sangue dei neonati, spesso descritta come una creatura che vive rintanata nelle montagne a metà tra l’animalesco e l’umano, dai lunghi capelli bianchi scarmigliati, con piedi ferini, denti aguzzi e unghie lunghissime. Quando viene a contatto con gli uomini può avere con loro un atteggiamento passivo (soprattutto quando li riceve nel proprio territorio) o attivo (quando è lei a recarsi nelle abitazioni altrui) rivelandosi antropofaga.

Che si tratti di mostri o divinità, sono frequenti i casi in cui le figure femminili che popolano le storie giapponesi mostrano la loro duplicità, si rivelano indefinibili e mutanti, a volte benevole, altre spietate. La rōjo, ad esempio, è una presenza spettrale di vecchia dai lunghi capelli bianchi che indossa un kimono bianco, diafana, spesso intenta a filare, una figura isolata e liminale in bilico fra la vita e la morte. In alcune fiabe è presente la figura della donna vecchia che, considerata ormai improduttiva, viene abbandonata dai famigliari o dalla comunità; quasi a ricompensarla dell’accantonamento vine dotata del potere di produrre ricchezza materiale che solitamente dispensa a sconosciuti mostratisi compassionevoli nei suoi confronti.

Ricorrenti nelle storie giapponesi sono situazioni in cui la donna si rivela – “per sua natura” – in preda a un sentimento incontrollabile di gelosia che può renderla un essere demoniaco, oppure situazioni in cui la donna soggetta a fantastiche trasformazioni rivela l’incapacità di domare il proprio corpo, di conformarsi al modello di donna deciso per lei dal patriarcato, da tale inadeguatezza deriva il suo allontanamento dalla comunità.

Le forme di spettacolo e di letteratura popolare che si sono sviluppate in Giappone in epoca Edo, spiega la studiosa, hanno le radici tanto nelle antiche forme di religiosità popolare quanto in forme di devozione di derivazione buddhista.

Una delle convinzioni più diffuse e rintracciabili ancor oggi è quella riguardante i goryō, “spiriti inquieti” (o onryō, “spiriti irati”). È, questa, una credenza che sta alla base di molte storie di fantasmi. Alle radici della credenza negli spiriti inquieti è la preoccupazione generalizzata circa la contaminazione da varie fonti di impurità quali la morte, la nascita, il sangue e la presenza delle relative pratiche culturali che circoscrivevano l’impurità (p. 117).

A differenza di quanto accade nel Giappone antico, in epoca moderna, soprattutto nel teatro e nell’arte della stampa dal XVIII in poi, gli spettri sono esclusivamente donne che manifestano una rabbia di tipo interiore derivata dalla gelosia e dal risentimento. Spesso sono rappresentati con con un kimono bianco privo di cuciture, sul modello della veste funeraria, fluttuanti nell’aria accompagnati da fuochi fatui blu, verdi o violacei.

Tradizionalmente, nella cultura nipponica i capelli hanno tanto una connotazione positiva, legata alla forza e alla fertilità, che negativa, rinviante al selvaggio, al corpo incontrollato, dunque alla sessualità. Nel corso del tempo la lunga capigliatura nera spettinata diviene ricorrente dapprima nel folclore, poi nel teatro, dunque nel cinema manifestando la perdita del controllo del corpo e il tormento o il furore delle passioni. I fantasmi femminili che popolano l’inizio del periodo moderno sono dunque in buona parte legati a risentimenti privati derivati da tradimenti o amori non corrisposti.

A partire dal XIX secolo i nuovi personaggi mostruosi femminili non sono più, come accadeva precedentemente, intenti a ritrovare la pace o a riconciliarsi con il passato, quanto piuttosto ad agire nel presente per vendicarsi scatenando la rabbia che li anima contro chi viene individuato come nemico. Ciò che anima questi spiriti femminili è dunque «un desiderio di vendetta per la soddisfazione di veder trionfare la propria rabbia» (p. 126).

L’idea e l’immagine del dèmone spaventoso come la yamanba o la yukionna resta una costante nell’immaginario giapponese, ma alla fine del XIX secolo, con l’ingresso in Giappone di motivi legati ai movimenti letterari e filosofici europei e con il desiderio del Giappone di modernizzarsi anche dal punto di vista culturale smarcandosi dal feudalesimo di periodo Edo, muta velocemente la visione della donna: da dèmone spaventoso a bella e crudele, bella senz’anima. La belle dame sans merci, che si trasformerà in questo periodo di passaggio fra un secolo e l’altro in femme fatale, in dark lady, inizia a comparire nelle pagine della letteratura, dapprima accompagnata, da una vena di esotismo, poi riforgiata come personaggio giapponese (pp. 139-140).

Nel Giappone moderno, tra la seconda metà del XIX e l’inizio del XX secolo, alla donna brutta che popola gli incubi maschili si sostituisce la donna bellissima e seducente che conduce alla perdizione: «bella ma crudele, bella ma glaciale, bella ma priva di morale. È la donna-vampiro, la dark lady, la femme fatale» che, secondo Marangoni, si contrappone

alla donna orripilante delle epoche precedenti perché, in passato, aspetto fisico e aspetto interiore si saldavano in un’unica visione spaventosa, mentre nella modernità si assiste a una separazione fra aspetto fisico – che in generale è di grande bellezza, una bellezza quasi sovrumana o comunque non-umana – e la natura della personalità, inquietante, crudele, malvagia, priva di sentimenti, e quindi capace di grande seduzione ma incapace effettivamente di amare. Una separazione, appunto. Vediamo che la donna è malvagia perché è corruttrice in quanto rende succube l’uomo al potere dell’erotismo, lo porta alla perdizione, a uno smarrimento non solo fisico ma ideale, a perdere di vista i suoi obbiettivi, i suoi schemi morali, per precipitarlo nell’inferno, un inferno di immoralità, di depravazione, di lussuria e così via (p. 141).

Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo emerge un inedito desiderio di sovvertire le regole sociali, politiche e sessuali.

si attesta la visione di una nuova donna demoniaca, crudele nella sua arte della seduzione condotta con spietatezza, un personaggio che si sostituisce alle figure femminili del folclore. Non è però meno spaventosa né meno minacciosa di chi l’ha preceduta nell’immaginario fiabesco, poiché rappresenta una nuova sfida nei confronti del patriarcato e soprattutto del nuovo modello di femminilità imposto alle donne del nuovo stato Meiji, donne che devono fare la loro parte nell’avanzata verso la modernità, verso l’industrializzazione, verso la crescita bellica del nuovo Giappone. E il modello è quello, ricordiamolo, della buona moglie e madre saggia (p. 148).

Nel cinema giapponese il personaggio della femme fatale manifesta alcune caratteristiche ricorrenti strettamente collegate tra di loro: erotismo, morte, conflitto di genere. L’uomo, presentato come preda, subisce l’attrazione di una donna altera e sensuale a cui non può resistere ritrovandosi così intrappolato in preda a un erotismo distruttivo che si traduce in morte. In tale rapporto distruttivo l’uomo tende ad essere trascinato verso il baratro da una femme fatale dissimulatrice che, in preda a un desiderio di rivalsa di genere, «gioca, lucida e spietata, con il suo burattino, lo solleva, lo blandisce e in un moto di dispetto, lo abbatte. E trionfa» (p. 162).

Ovviamente, sottolinea la studiosa, in un contesto come quello giapponese, in cui «alle donne era stato imposto un ruolo subordinato non solo nella realtà, ma anche nell’immaginario» (p. 163), un personaggio come quello della femme fatale non può avere fortuna: troppo inquietante per l’immaginario maschile e pericolosa fonte di immedesimazione femminile.

Così la dark lady, che nella cinematografia hollywoodiana è caratterizzata da una potente sessualità e da un potere distruttivo, diventa nel cinema giapponese qualcun altro. Qualcos’altro. Un mostro, un fantasma, una creatura soprannaturale dalla vita breve: incanta l’uomo, lo innamora, lo seduce, e poi se ne va come era arrivata. Scompare come un sogno o, se mostro, viene placato con riti e incantesimi e infine, pacificato, reso inoffensivo, fatto scomparire. Un incubo notturno che la luce del mattino allontana (p. 163).

Le femme fatale fanno la loro breve comparsa nel cinema giapponese non come donne reali ma come fantasmi. Ben altri sono «i personaggi femminili accettabili: l’amante “bambina”, capricciosa e inoffensiva, la moglie diligente e devota, la nuora preziosa e filiale» (p. 166).

Nella cultura giapponese i mostri femminili sono una presenza costante; hanno saputo adattarsi alle epoche esprimendo nuove paure e lo hanno fatto occupando i nuovi media man mano disponibili. Dalle pagine sono via via passati ai cinema, ai manga delle edicole, ai videogiochi fino ai parchi a tema. «I contenuti dell’immaginario si rinnovano e alcuni mostri nuovi escono allo scoperto, rivelando, se ce ne fosse ancora bisogno, che le certezze del nostro tempo hanno piedi d’argilla, che le donne giapponesi faticheranno ancora a lungo prima di brillare. Il XXI secolo, in questo, non sembra molto diverso dal XX» (p. 169).

Sul finire degli anni Settanta del Novecento, nelle campagne della prefettura di Tochigi, a nord-est di Tōkyō, per poi diffondersi nel resto del Giappone, si diffonde una sorta di leggenda metropolitana che rivela inquietanti avvistamenti, riportati dai media, di un altro mostro femminile: la kuchisake onna, “la donna dalla bocca spaccata”, una donna dotata di una bocca spaventosamente larga.

La sua iconografia classica è quella tipica della office lady, indossa un completo da ufficio d’ordinanza (giacca, camicia e gonna), ma presenta a prima vista un elemento discordante. I suoi lunghi capelli neri, infatti, sono scomposti, spettinati in un turbine che già in sé rivela un che di mostruoso. La bocca va da un orecchio all’altro, spalancata, rivela denti aguzzi e un sorriso che più che amichevole è minaccioso (p. 170).

A caratterizzarla è inoltre il ricorso a una mascherina chirurgica, con cui cela la bocca spaventosa, e il possesso di una lama di grandi dimensioni (falce, forbici o  coltellaccio).

Ennesimo mostro femminile capace di terrorizzare. «Cosa c’è di così inquietante in un volto dalla bocca spropositatamente grande? La consapevolezza che non si tratta di un essere umano, ma dell’ennesima espressione femminile della minaccia» (p. 171). Variamente interpretata all’epoca, in questa mostruosità si è preteso vedere una denuncia dei guasti della chirurgia estetica – in voga soprattutto nel corso degli Ottanta –, oppure «una denuncia della kyōiku mama, o educational mama, un comportamento materno sempre più invadente sulla scolarizzazione dei ragazzi, competitivo e castrante» (p. 171). Nella simbologia della bocca larga vi è anche chi ha individuato

un chiaro riferimento alla femme castratrice, quella vagina dentata che è manifestazione delle paure maschili più nascoste. Una donna disposta a tutto pur di mantenersi giovane e bella. Una madre che si trasforma in un mostro malvagio e inibente. Una office lady che nasconde il desiderio delle donne di far carriera, spodestando gli uomini dal mondo del lavoro, dalla vita aziendale. Sostituendosi a essi. Una minaccia terribile. E quanto lontana dalla verità, verrebbe da aggiungere (p. 172).

Insomma, secolo dopo secolo, la donna sembra essere sempre associata a fenomeni empi, disordinati, subumani e sgradevoli, come se contenesse in sé qualcosa che la rende nemica dell’umanità (maschile), estranea alla sua civiltà.

Lo abbiamo visto, un lungo e sottile filo, rosso come il sangue, collega gli yōkai femminili, dalla rabbia esteriorizzata, dalle fauci spalancate e dalle corna minacciose, con le altrettanto – sottilmente ma inesorabilmente – pericolose dark lady delle pagine letterarie di fine XIX, inizio XX secolo. Ma non finisce qui, perché nuovi mostri si creano e la filiazione, dalle yomotsu shikome del mito alla kuchisake onna e oltre, prosegue lungo le linee dell’immaginario (maschile) giapponese (p. 173).

Marangoni conclude riflettendo sulle “cattive ragazze” che attraversano le megalopoli a ridosso del cambio di millennio sfrontate nell’infrangere il modello della “ragazza perbene”, la ojōsama, di buona e abbiente famiglia, istruita senza necessità di lavorare, sfoggiante un dress code classico, dal comportamento composto, cortese, non assertivo. È a tale modello che si contrappongono ragazze moderne, disinibite, spesso proveniente da famiglie di classe medio-bassa, caratterizzate da trucco appariscente, abbronzatura, abbigliamento trasgressivo e atteggiamento attivo, assertivo; una galassia di mutevoli tribù urbane (kogyaru negli anni 1995-1998, ganguro negli anni 1998-2000, yamanba dal 2000, manba dal 2003 ecc.). Sono forse mostri queste ragazze? Diverse letture sociologiche di tali fenomeni giovanili vi hanno individuato una volontà di sfida lanciata verso gli uomini, soprattutto anziani.

Queste sottoculture scardinano l’idea che noi abbiamo del Giappone, di una società omogenea: è quello che ci hanno fatto credere; ce l’hanno fatto credere per tutti gli anni Ottanta, ce l’hanno fatto credere studiosi che hanno voluto presentarci una società che nei loro intendimenti era totalmente armonica, in cui non c’era posto per la diversità, in cui non c’erano elementi fuori posto. […] Mi piace vedere come le ragazze anche quando non sono in gruppo non smettono di manifestare la propria unicità anche con piccoli particolari, lottando contro la sessualizzazione ancora fortissima del corpo femminile, contro la sua mercificazione (pp.175-176)

In comune con i mostri della tradizione queste cattive ragazze hanno il rigetto della società che sta loro attorno. Ma, in definitiva, conclude Marangoni, in cosa consiste la mostruosità della donna?

Creature ambigue, che suscitano in noi sentimenti ambivalenti, contraddittori: orrore/meraviglia, attrazione/ repulsione. Creature liminali, in bilico fra due dimensioni (e, a volte, fra due generi): noi/l’altro, bene/male, passato/presente, questo mondo/l’altro mondo. Creature che mettono in discussione la nostra idea di normalità e il nostro concetto di identità. Queste ragazze che creano la propria moda per le strade delle megalopoli continuano a dirci che i mostri siamo noi, siamo noi nel nostro rifiuto, nella nostra incapacità di comprensione, nella nostra incrollabile fede nel giudizio degli altri e nel nostro desiderio di puntare l’indice contro gli altri senza tentare di capirli (p. 177).

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Lo spazio e il deserto nel cinema di Pasolini https://www.carmillaonline.com/2020/06/04/lo-spazio-e-il-deserto-nel-cinema-di-pasolini/ Thu, 04 Jun 2020 21:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60153 di Gioacchino Toni

Paolo Lago, Lo spazio e il deserto nel cinema di Pasolini. Edipo re, Teorema, Porcile, Medea, Mimesis, Milano-Udine, 2020

Il libro in uscita proprio in questi giorni di Paolo Lago indaga il ricorso a contrapposizioni di ordine estetico, sociale e politico nella cinematografia pasoliniana, concentrandosi in particolare sull’insistenza con cui nei film Edipo re (1967), Teorema (1968), Medea (1969) e Porcile (1969) viene messo in scena il conflitto tra lo spazio delle fredde, geometriche e controllate ambientazioni borghesi e quello desertico e desolato del “mondo periferico” abitato e attraversato da [...]]]> di Gioacchino Toni

Paolo Lago, Lo spazio e il deserto nel cinema di Pasolini. Edipo re, Teorema, Porcile, Medea, Mimesis, Milano-Udine, 2020

Il libro in uscita proprio in questi giorni di Paolo Lago indaga il ricorso a contrapposizioni di ordine estetico, sociale e politico nella cinematografia pasoliniana, concentrandosi in particolare sull’insistenza con cui nei film Edipo re (1967), Teorema (1968), Medea (1969) e Porcile (1969) viene messo in scena il conflitto tra lo spazio delle fredde, geometriche e controllate ambientazioni borghesi e quello desertico e desolato del “mondo periferico” abitato e attraversato da personaggi erranti appartenenti a un universo estraneo agli schemi della razionalità capitalista.

Nelle pellicole pasoliniane sembra quasi che sotto lo spazio ordinato e geometrico della borghesia si muova «un magma tellurico, un deserto barbarico e mitico che promana dalle profondità della coscienza dei personaggi. Sembra che lo spazio cereo e geometrico possa essere annullato da un momento all’altro dall’incedere dello spazio desertico, astorico e atemporale, connotato nel profondo dal mito della barbarie.» (p. 11)

Detto che la barbarie in Pasolini assume una connotazione positiva – quasi sinonimo di mitico, puro e primitivo –, la contrapposizione spaziale proposta dal regista riflette quella fra la società industriale e la società arcaica e contadina dello spazio desertico delle periferie italiane o dei deserti africani. Secondo Lago lo spazio desertico messo in scena da Pasolini può essere letto ricorrendo alla definizione data da Gilles Deleuze e Felix Guattari di “spazio liscio”, abitato da comunità nomadi contrapposto allo “spazio striato” della città sottoposto al controllo.

Se la contrapposizione tra rigore urbano e barbarie “periferica” è ravvisabile sin da Ragazzi di vita (1955), Accattone (1961) e Mamma Roma (1962), è però con Edipo re che, sostiene lo studioso, nel cinema di Pasolini emerge la dimensione di uno spazio desertico rappresentante una forma di società altra e alternativa a quella capitalistica. «La dialettica fra spazi diventa dialettica fra società: da una parte, quella barbarica, arcaica, pura e quindi mitica che, ormai, si può solo trovare nei paesi del cosiddetto Terzo Mondo, dall’altra, quella borghese e capitalistica, precipitata nell’inferno dei nuovi consumi […], connotata da colori smorti e pallidi e da interni rigidi e geometrici.» (p. 17). Il regista esplicita così come a suo modo di vedere, fuori dello spazio borghese che, asservito com’è alla forma merce della società neocapitalistica, impone nelle sue rigidità geometriche “movimenti unidimensionali” e ripetitivi, da catena di montaggio, esista una realtà arcaica, mitica e barbarica che ancora mantiene elementi irriducibilmente estranei alla dominazione del capitale.

Se la pasoliniana contrapposizione tra un (positivo) universo arcaico, mitico e una (negativa) società moderna industrializzata è stata più volte interpretata come reazionaria, secondo Lago si potrebbero invece cogliere in essa analogie con il pensiero di Robert Kurz che ritiene indispensabile, per rompere una volta per tutte con i rapporti feticistici e di dominio del sistema capitalista, optare per una scelta anti-moderna radicale ed emancipatoria che nulla abbia a che fare con i reazionari approcci antiilluministi o antimoderni di matrice borghese-occidentale. L’antimodernità evocata da Kurz, sostiene Lago, «non si allontana molto dall’idea pasoliniana di contestazione della società dei consumi: l’idealizzazione, da parte del poeta, della società e della realtà africana, pur con tutte le sue problematiche sociali e politiche, è legata appunto a una forma di antimodernità, di contestazione radicale dei rapporti feticistici e di dominio.» (p. 105)

Nel film Edipo re, costruito sull’opposizione fra la cultura arcaica e quella moderna, l’ambientazione borghese del prologo si presenta come uno spazio sospeso, in silenziosa attesa di essere divorato «dal deserto avanzante, dal ritmo tribale e ferino che sta per erompere dall’altrove del mito.» (p. 28). L’epilogo della narrazione si concentra invece sulla figura nomadica, perturbante e sovvertitrice dell’ordine urbano e costituito, di Edipo mendicante che si muove in una Bologna che sul finire degli anni Sessanta pare ormai essersi piegata al consumismo. «Edipo viaggiatore non è più contornato dalle folle popolari africane, ma dal mondo del benessere economico degli anni Sessanta, rappreso nelle sue movenze di falsa felicità. […] Edipo insinua, all’interno dell’universo stanziale borghese, il demone del nomadismo e del vagabondaggio: elementi trasgressivi e sovvertitori. Egli è il sovvertitore poeta – portatore di un sacro irrimediabilmente perduto dalla classe borghese – che è giunto dal deserto, da uno spazio antitetico a quello della città degli anni Sessanta, uno spazio che magmaticamente continua a sussistere ad uno strato oscuro e ctonio, pronto nuovamente a fare irruzione nell’ordo geometrico dei nuovi consumi.» (pp. 45-46)

Nonostante Edipo incontri anche il mondo operaio, il suo vagabondaggio nomadico si palesa però estraneo ad esso, situandosi piuttosto a un livello sottoproletario. «Edipo emarginato e vagabondo è un nuovo nomade sottoproletario che attraversa la catatonica società degli anni Sessanta, fino a giungere al luogo della propria nascita.» (p. 46) Il film si chiude infatti in quel Friuli degli anni Venti, ricostruito nel contado lombardo, che assume di certo connotazioni amniotiche e regressive ma, sottolinea Lago, appare anche «irrimediabilmente contaminato dal germe nomadico e sovvertitore portato da Edipo.» (p. 47)

In Teorema «il personaggio sacrale dell’Ospite, quasi un nuovo Dioniso che si insinua nelle spire dello “spazio striato” del potere economico e sociale» (pp. 18-19), si configura come vero e proprio elemento perturbante nel suo farsi portatore del sacro all’interno dello spazio striato desacralizzato della lussuosa dimora dell’alta borghesia milanese. L’Ospite, detentore della medesima valenza sacrale dello spazio del deserto, appare all’interno dello spazio borghese come un elemento distruttivo di quell’universo consacrato al denaro: si presenta come «un sacro che sembra giungere da lontano, da lande desertiche e ferine ed appare incarnato nella figura di un giovane dio ribelle e trasgressore dell’ordine costituito.» (p. 54)

Gli aspetti dionisiaci dell’Ospite sono palesati soprattutto dalla sua presenza fisica e corporea portatrice di un eros capace di modificare la caratterizzazione dello spazio dell’ambiente borghese scardinando la stessa istituzione sociale della famiglia. Si viene così a determinare «uno spazio “ibridato” dal deserto ctonio e terribile, lo spazio barbarico e “liscio” che sta avanzando verso le attonite spazialità “striate” borghesi. È uno spazio fisico che si contrappone all’universo amniotico e regressivo della campagna milanese». (p. 63)

Lago si sofferma sul momento in cui il ricco industriale Paolo, ormai contaminato dall’Ospite, nel suo percorso verso lo spazio deterritorializzato e barbarico del deserto, dopo essere giunto alla stazione di Milano – emblema della meccanizzazione dell’individuo moderno –, si spoglia dei suoi abiti borghesi in mezzo alla folla. Liberatosi ormai dei simulacri borghesi, l’industriale prosegue poi il suo viaggio verso quel deserto che sembra prospettare «una nuova era che si apre sotto i piedi nudi di un borghese che si è distaccato per sempre dalla sua classe sociale, ormai annientata essa stessa. La dimensione fisica del corpo prosegue nell’urlo: quest’ultimo è un’appendice corporea che esprime, di esso, lo stato ferino e selvaggio e, nel contempo, la profonda angoscia annientatrice che ormai ha avvolto la coscienza del personaggio. Fuori dalla catatonia borghese, dalle geometrie e dalle scatole che racchiudono e serrano l’universo della quotidianità dei nuovi consumi, non vi è che deserto e angoscia.» (p. 83)

Anche Porcile è strutturato sull’opposizione di due spazi: agli spazi geometrici e razionali, in quanto tali generatori di mostri, della villa signorile percorsi meccanicamente da esponenti dell’alta borghesia tedesca di fine anni Sessanta marcatamente compromessa col nazismo, si contrappongono le brulle, desertiche, silenziose e sacrali pendici dell’Etna, proiettate in un indefinito medioevo, percorse disordinatamente dal personaggio del cannibale sovvertitore dell’ordine nel suo estremismo portato al limite dell’orrore, che, come una “macchina da guerra nomade”, sembra prepararsi ad aggredire lo “spazio striato” borghese.

Se quello desertico si presenta come uno spazio caotico in costante movimento, solcato dalle eruzioni magmatiche del vulcano e attraversato da un personaggio che sembra provenire dai suoi più profondi interstizi, gli interni della villa borghese suggeriscono un’idea di immobilità. «Se quest’ultima si configura quasi come un monumentale sepolcro che racchiude il pensiero e l’ideologia di una borghesia industriale in ascesa che cova terribili mostruosità nel suo passato, gli stessi personaggi borghesi appaiono come tante marionette che da questa ideologia sono manovrate. Essi, costretti a percorrere linee geometriche, diritte, senza vie di fuga, come geometriche e rigide sono le stesse linee architettoniche della villa, compiono i loro movimenti incanalati in uno spazio “striato” che ne regola i flussi. La disobbedienza è inconcepibile per tale borghesia ed è per questo che il figlio non disobbediente né ubbidiente, ma comunque tacito sovvertitore del suo ordine, si allontana per le campagne compiendo movimenti tortuosi e imprevedibili, correndo, prendendo vie sconosciute alla sua stessa classe sociale ma conosciute ai contadini con i quali […] egli è in sinergia.» (pp. 97-98)

Nello spazio del deserto “medievale” i volti vengono inquadrati con primi piani capaci di conferire loro una plasticità scultorea che sembra quasi staccarli dall’ambiente circostante: questi corpi scolpiti sembrano pulsare insieme al magma tellurico, «sono forme ctonie che, come animali, si muovono in uno spazio libero dominato dal silenzio. Se la parola condannava i personaggi borghesi a gesti ripetitivi, a percorrere cunicoli imprigionanti, adesso, il silenzio e i suoni naturali rappresentano l’eruzione di una fisicità finalmente liberata, trasgressiva e sovvertitrice. Se la parola imprigiona i personaggi borghesi nel ruolo di languide marionette prigioniere di spazi teatrali e cunicolari, il silenzio libera e circonfonde lo spazio di una magmatica dimensione fisica e ferina.» (p. 101)

Nel corso della sua analisi, Lago presta attenzione anche alla contrapposizione linguistica presente in Porcile. La lingua borghese, salvo che in un paio di monologhi, si caratterizza per il ricorso a termini aulici e per una dizione precisa. «I personaggi borghesi sono quasi delle macchine per parlare, delle marionette la cui presenza corporea è annullata e dominata dalla parola: è, appunto, il “teatro di Parola” pasoliniano, in cui la razionalità sonora della voce si eleva su qualsiasi altro aspetto scenico. È parola sepolcrale che si crede viva, è sepolta e prigioniera ma si crede portatrice di illuministica razionalità negli spazi aperti della nuova industrializzazione degli anni Sessanta.» (p. 105) A questo tipo di parola del potere e del dominio si contrappone il silenzio arcaico proprio dell’ambientazione medievale. «Il silenzio dei contestatori è una opposizione al controllo esercitato dal potere sulla stessa parola […] Contestatori totali, essi negano la parola per non essere sottoposti al principio dell’ordine e del controllo, della segregazione che li avrebbe precipitati nei meandri oscuri di una follia e di una prigione, di un supplizio. Il loro silenzio è la loro crudeltà, i loro movimenti e i loro attacchi sono tanti atti di sabotaggio contro un potere che cerca di catturarli ma anche contro lo stesso dominio razionale della borghesia industriale degli anni Sessanta.» (p. 107)

Medea riprende per certi vesti le tematiche dei film precedenti prospettando il conflitto fra il mondo contadino e preindustriale e quello borghese e neocapitalistico. Viene qua messo a confronto l’universo arcaico del mito, del tutto estraneo al moderno pragmatismo borghese, con il mondo razionale di Giasone ormai adulto. Il contrapporsi di uno spazio curvilineo con uno rettilineo sembra sottende un’opposizione fra diverse culture e società.

Le prime inquadrature «mostrano la potente rappresentazione di un paesaggio che, in virtù della sua sacralità, assume anche connotazioni politiche e sociali all’interno della vibrante opposizione che separa Medea e Giasone all’interno del film, opposizione che pone l’uno di fronte all’altro due universi distinti.» (p. 118) Agli occhi di Giasone divenuto adulto, proposto dal film quasi come il prototipo del borghese, lo scenario non appare più come quello divino e sacrale arso dal sole ma assume le sembianze geometriche caratterizzate da spente tonalità pastello, tipiche degli scenari borghesi presenti anche in altri film. Se lo spazio dai colori pastello è ripreso da una macchina da presa rigidamente bloccata, quello desertico, dai colori decisamente più accesi, vede invece il regista ricorrere alla macchina da presa a spalla tremolante. Risulta evidente come tale duplicità stilistica sia funzionale alla volontà di palesare un’opposizione tra mondi e culture che però non mancano di momenti di sconfinamento e ibridazione.

Giunto al cospetto di Medea, che ora si presenta in posizione dominante, Giasone si trova letteralmente in balia del volto segnato dal desiderio di vendetta della donna. «Il fuoco erompe dalle finestre della sua casa lambendo le pietre e sovrastando lo stesso volto della donna barbara ed emarginata: è il fuoco, sacro come quello dei rituali della Colchide, a suggellare, per mezzo del suo magmatico perpetuarsi in una circolarità ctonia, la vendetta della barbara, “primitiva”, irrazionale ed emarginata Medea contro il ricco, razionale, “borghese” e integrato Giasone.» (p. 142)

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Il battito profondo dell’epoca https://www.carmillaonline.com/2020/02/10/il-battito-profondo-dellepoca/ Mon, 10 Feb 2020 22:01:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57599 di Jack Orlando

Mikkel Bolt Rasmussen, La contro rivoluzione di Trump. Fascismo e democrazia, Agenzia X, Milano 2019, pp.152, 14,00 euro

È possibile definire fascisti personaggi, quali Trump e Salvini, che tengono banco nell’opinione pubblica con un repertorio di aberrazioni xenofobe e volgari e bufale spacciate per dati certi? E se davvero sono fascisti, siamo di fronte ad un “ritorno” del fascismo? Ancora più a fondo, che cos’è oggi fascismo? Sono temi resi ormai noiosi da un dibattito mainstream assurdamente sterile e pedante, nonché da una sinistra pronta a dare del fascista [...]]]> di Jack Orlando

Mikkel Bolt Rasmussen, La contro rivoluzione di Trump. Fascismo e democrazia, Agenzia X, Milano 2019, pp.152, 14,00 euro

È possibile definire fascisti personaggi, quali Trump e Salvini, che tengono banco nell’opinione pubblica con un repertorio di aberrazioni xenofobe e volgari e bufale spacciate per dati certi? E se davvero sono fascisti, siamo di fronte ad un “ritorno” del fascismo? Ancora più a fondo, che cos’è oggi fascismo?
Sono temi resi ormai noiosi da un dibattito mainstream assurdamente sterile e pedante, nonché da una sinistra pronta a dare del fascista a chiunque, salvo poi scendere a patti con le peggiori figure del tempo, salvo agire dispositivi legali degni di una zelante camicia bruna. Eppure all’alba di questi tesi anni Venti è d’obbligo una riflessione seria e fuori da schemi stantii, non solo su quali siano le forme del fascismo contemporaneo, ma anche sulle traiettorie che esso disegna nella grande politica grazie all’azione di personaggi politici che, evidentemente, deviano dal solito registro a cui è abituata l’assise delle democrazie rappresentative. Un’assise che oggi, come non mai, rivela tutta la sua ipocrisia e fragilità.

L’analisi che Rasmussen, docente di Arte e studi culturali presso l’Università di Copenaghen e autore anche di Hegel after Occupy (2018), fa del fenomeno Trump cade allora nel momento opportuno, fornendo un’agile quanto complessa prospettiva sul nemico di oggi, quello che sta generando le nuove forme dello Stato e della politica.
Attorno al grottesco presidente degli Stati Uniti, si condensano alcuni dei nodi che si possono cogliere, mutatis mutandis, in tutti gli esponenti e i movimenti del cosiddetto sovranismo contemporaneo di ogni latitudine.
Trump non è Mussolini, né Hitler, non è un fascista classico con la divisa che saluta marzialmente le truppe armate del suo partito, eppure è un fascista; un protofascista, o un fascista Pop, se vogliamo. Le forme e i contesti sono cambiati radicalmente dagli ultimi anni Venti, ma alcuni elementi cardine permangono nella loro invariabile sostanza.

Anzitutto siamo davanti alla contestazione della contestazione, ovvero la messa in forma di quel bisogno securitario che innerva la vita della classe media in decadimento e che, incapace di vedere il suo carnefice nel capitalismo, che stesso l’ha generata, si rivolge rabbiosamente verso chi quel capitalismo lo ha attaccato, ad esempio con l’imponente ondata di proteste del biennio 2010-2011: i contestatori dell’ordine, al pari delle minoranze, dei devianti, sono la minaccia da cui difendersi, i nemici della Nazione, esattamente come lo sono le banche e i politici corrotti. È una visione paradossale e contraddittoria questa della middle class al collasso, preda di una crisi della presenza che solo un grande taumaturgo è in grado di curare. Ed è qui che emerge, dal fondo delle narrazioni democratiche, l’uomo forte, il salvatore, il riparatore dei torti.

Così si è presentato Trump al popolo: come il vincente, l’uomo di successo in grado di fare soldi a palate e tenere in riga dipendenti e famiglia, l’inviato della provvidenza giunto a fare pulizia dentro casa, giunto da fuori delle stanze dell’enstablishment e quindi pulito, non ancora corrotto dalle meschinità di palazzo.
Tra le macerie della crisi e gli appelli alla calma e all’interesse generale, che poi non fa mai bene a nessuno, si è piazzato al centro del palcoscenico, gambe larghe e petto in fuori, per dire che lui non è il presidente di tutti, che è il presidente solo degli americani buoni, lavoratori, onesti (e bianchi, etero e cristiani ovviamente) e andassero a quel paese i neri, i messicani, gli arabi, le lesbiche, i comunisti! Poche parole chiare, in mezzo a fiumi di delirio, che disegnano una linea invalicabile tra sé e l’altro, l’invariabile nemico, quello da abbattere per ritornare ai fasti d’un tempo. Per rendere l’America great again. Come lo era negli anni ‘50, con le fabbriche in città, gli operai disciplinati, le mogli ubbidienti, i comunisti spezzati e i neri bastonati nelle loro catapecchie. Con la macchina pulita, il mutuo della casa, la TV in salotto, le cimici dell’FBI nel telefono e le guerre sporche in Sud America.

È stato rimesso in gioco l’immaginario rassicurante di una società che o è andata perduta del tutto o, più probabilmente, non è mai esistita se non nelle soap opera. E attorno a quel rassicurante e depresso focolare domestico si è ricostruito il mito fondativo di una società ideale, di un popolo eletto, si sono mobilitate le pulsioni affettive, irrazionali (se proprio vogliamo definire irrazionale la voglia di un cantuccio caldo e comodo) e le si sono elevate a programma politico. Trump, ma non solo lui, ha compreso che un sogno forte è un’arma ben più potente di qualsiasi pacato e complesso programma elettorale.

Attorno al sogno, al mito, ha saputo ricreare la sua comunità nazionale, la cosiddetta comunità di destino, quella che trascende la popolazione anagraficamente data ed i territori stabiliti di diritto. Una comunità che si pone sul piano epico e metastorico: non gli Stati Uniti delle istituzioni, ma l’America dei grandi racconti, la terra del latte e del miele, la potenza che incute terrore ai suoi nemici; non gli statunitensi stretti nella morsa della crisi sistemica, ma gli americani delle réclame della Coca Cola, i Padri Pellegrini, John Wayne e Humphrey Bogart.
Terra, Popolo, Nazione, Comunità, Destino, questi sono gli ingredienti della ricetta di Trump, quella per essere grandi, per dominare il mondo, per schiacciare i nemici. E non servono tanti a argomenti razionali a confutare o sostenere il piano; d’altronde è talmente evidente! Talmente forte! Chi, se non un nemico malvagio e perverso, può essere contro la Nazione e il suo destino di tornare essere grande?

Non c’è dubbio, siamo di fronte ad una operazione politica di primissimo ordine, gli elementi chiave del fascismo poi ci sono tutti: l’uomo forte, la comunità (il trittico terra/popolo/nazione), il nemico da abbattere e l’antico ordine da restaurare. Eppure c’è un problema: abituati, come si è, a pensare il fascismo nelle sue forme solenni, storiche ed inquietanti, si perde la misura della sostanza e si finisce per guardare con una miope e ottusa sufficienza soltanto alle forme di questo nuovo fascismo in salsa pop.

Perché anziché sgorgare dalle caserme, dalla guerra, dai proclami solenni, questo nuovo fascismo è giustamente figlio del suo tempo, sgorga dalla realtà che lo circonda (come potrebbe essere altrimenti, d’altronde?) e assume le forme della televisione trash, dei talk show imbarazzanti, dei tweet, dei post fb, dei meme e della merda delirante, contraddittoria e no sense che ci inonda dagli schermi a ogni ora del giorno e della notte. È molto più facile e al passo coi tempi blaterare in continuazione sui social network piuttosto che arringare una folla inquadrata, dire che gli arabi sono ladri violenti e vengono da “paesi di merda” è più attuale che parlare del complotto giudaico. Eppure il senso ultimo rimane lo stesso, gli effetti i medesimi.

That’s the show now! E che vi aspettavate voi, i plotoni di SS che fanno il passo dell’oca in centro città? Un’idea un po’ poco originale, diciamocelo.
Sia quel che sia, ma ciò che è certo è che Trump (o qualunque altro sovranista al suo posto, ricordiamolo) con la sua ricetta di etnonazionalismo xenofobo, securitarismo violento, protezionismo economico e deregulation ha trovato la sua soluzione alla crisi. Le formule ci sono, la narrazione pure, i simboli e i registri funzionano e vengono urlati a piena voce in un teatro che ha perso qualsiasi altra attrattiva, dove le voci degli altri attori sono fioche, sbiadite e noiose repliche di uno spettacolo già fallito.

Questo è il volto della nuova politica, l’unica che appare vincente d’altronde, cosa vogliamo fare per abbattere questo nemico allora? Chiamare alla difesa della democrazia? Diffondere la cultura della tolleranza? Cantare inni per la pace o firmare petizioni on-line per approvare misure contro l’odio?1 Ottimo. Tanto quanto spararsi nelle ginocchia prima di competere alla maratona di New York.
Svegliamoci da quest’illusione della democrazia buona minacciata dal fascista cattivo!
È questa democrazia che produce i suoi mostri. O, per caso, questi sovranisti vincono le elezioni a forza di colpi di stato?

La democrazia rappresentativa, i suoi registri, le sue funzioni, di fronte all’incedere del mercato onnipotente, si fanno sempre più obsoleti, serve un Leviatano adesso, un sovrano che sappia tenere ordine col pugno di ferro nel guanto di velluto. La cultura della tolleranza e dei diritti umani non è stata, per due decenni, l’ipocrita scusa della socialdemocrazia per legittimare quella globalizzazione mortifera di cui oggi vediamo gli effetti? Non è possibile prendere un vecchio e liso canovaccio e pensare di utilizzarlo come bandiera solo perché il nemico ne usa uno diametralmente opposto. E si può chiedere allo Stato di approntare dispositivi verso il nostro nemico pretendendo che essi non colpiscano, di riflesso, pure noi? Se proprio si vuole demandare il conflitto, allora ci si ricordi della lezione del vecchio Hobbes: a parità di diritto vince la forza.

Tagliamo la questione senza ulteriori tentennamenti. Fascismo e democrazia non sono che forme politiche, contingenti e mutevoli, volte al medesimo scopo: la conservazione dell’esistente, la garanzia del soggetto dominante di continuare il suo processo di accumulazione, sfruttamento e dominio senza tanti intoppi. Il contrario di fascismo non è democrazia, ma Rivoluzione.
E se c’è da imparare qualcosa, oltre che le forme del nemico ovviamente, è che se si vuole vincere non basta l’analisi fine, il calcolo millesimale delle possibilità della fase e certo non serve la grande piazza, né la grande alleanza. È l’universo simbolico che dobbiamo interrogare, dobbiamo scomodare il mito affinché ci assista nel produrre la narrazione soggettivante che crea il popolo, quello degli oppressi sul piede di guerra, che taglia il mondo in due tra chi è amico e chi no. Non possiamo limitarci alla pura estetica del conflitto ma nemmeno accontentarci di una fredda scienza che parla solo agli addetti ai lavori e che, per di più, spesso nemmeno conosciamo. È nei simboli e nel linguaggio che un grande progetto può fiorire, replicarsi e generare la forza comune che permette di muovere l’assalto.
Offrire un mondo a chi ha perso ogni certezza, costruire soggettività dove ora vi è il deserto. Elaborare un piano e trovare le forme più deflagranti con cui farlo salire sul palco della storia. Questo è il battito profondo dell’epoca, per chi sa ascoltare.


  1. Magari attraverso la proposta, degna della peggior censura totalitaria, di un’identità digitale obbligatoria per chi frequenta social e web e relativo provvedimento di espulsione (DASPO) “per chi non rispetta le regole della convivenza civile in rete” come proposto dal leader della nuova maggioranza silenziosa Mattia Sartori. https://www.repubblica.it/politica/2020/01/18/news/sardine_daspo_social_polemiche-246080730/?ref=search  

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Marxismo e dimensione simbolica secondo De Martino https://www.carmillaonline.com/2019/12/03/marxismo-e-dimensione-simbolica-secondo-de-martino/ Mon, 02 Dec 2019 23:02:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=56313 di Fabio Ciabatti

Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi 2019, pp. 612, € 28,90 – Nuova edizione a cura di G. Charuty, D. Fabre e M. Massenzio.

Da molti anni assistiamo a quella che sembra la scomparsa della cultura del movimento operaio. Si potrebbe parlare di una vera e propria apocalisse culturale e anche per questo può essere utile tornare all’opera di Ernesto De Martino che a questo tema ha dedicato un’opera uscita postuma e in forma largamente incompiuta nel 1977, da poco disponibile in una [...]]]> di Fabio Ciabatti

Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi 2019, pp. 612, € 28,90 – Nuova edizione a cura di G. Charuty, D. Fabre e M. Massenzio.

Da molti anni assistiamo a quella che sembra la scomparsa della cultura del movimento operaio. Si potrebbe parlare di una vera e propria apocalisse culturale e anche per questo può essere utile tornare all’opera di Ernesto De Martino che a questo tema ha dedicato un’opera uscita postuma e in forma largamente incompiuta nel 1977, da poco disponibile in una nuova edizione che presenta significative differenze rispetto alla precedente versione. Con La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali De Martino si propone di fare luce su quella che gli appare come una crisi della civiltà occidentale talmente profonda da avviarla verso un assai probabile declino. Per raggiungere questo obiettivo l’autore tratta la figura teologica e antropologica dell’apocalisse analizzando le apocalissi psicopatologiche (anche attraverso le loro espressioni letterarie), il dramma dell’apocalisse cristiana e il rapporto tra apocalisse e decolonizzazione. Al rapporto tra antropologia e marxismo è inoltre dedicato un apposito capitolo che, rispetto alla precedente edizione, è stato ampliato spostando materiali precedentemente pubblicati in altre sezioni.1

E proprio su quest’ultimo tema ci soffermeremo notando, in prima istanza, che il pensiero di De Martino si iscrive nella tradizione marxista e gramsciana in modo molto originale tanto che, nel testo in questione, si fa ampio utilizzo di categorie di provenienza heiddegeriana ed esistenzialista. L’autore, riprendendo Merleau-Ponty, sostiene che il marxismo carica l’uomo di un’immensa responsabilità. Ed è a causa dello “sforzo estremo che il marxismo richiede alla praxis e al suo ethos, che l’antica metafisica della necessità e del materialismo volgare travaglia la storia dello stesso marxismo, e che, per altro verso, tanta parte dell’umanità si abbraccia disperatamente al vecchio Dio con l’agonia del quale sembra non già crescere l’uomo ma rovinare il mondo”.2 In generale, rispetto al tema della funzione della religione nei rapporti sociali, l’antropologo italiano attribuisce una certa ambivalenza al pensiero di Marx: le sue intuizioni sono profonde ma nel contesto fortemente polemico in cui sono espresse possono dare adito ad un’interpretazione piattamente positivistica, come è poi effettivamente accaduto nel marxismo, anche attraverso la mediazione di Engels.
“La critica ha spogliato la catena dei fiori immaginari che la ricoprivano non perché l’uomo porti catene senza fantasia, disperate, ma perché esso respinga la catena e colga i fiori viventi”. Questa brano di Marx, secondo De Martino che lo cita, segnala i limiti di ogni critica che non sia anche critica rivoluzionaria della realtà che genera le religioni. “Se la critica lascia intatti i tratti ierogonici dell’esistenza sociale, le catene rimangono senza ‘speranza’ scatenando angosce senza orizzonte che preparano inautentiche restaurazioni sospingendo verso miserabili surrogati della religione”.3
Ma questa moderna degenerazione del sacro non ci deve fuorviare. Da una parte abbiamo la tesi del “valore eterno” della religione e, dall’altra, quella opposta della religione come illusione, stupidità, stravaganza, riflesso ecc. che spesso è stata adottata dal marxismo la cui storiografia religiosa, secondo l’antropologo, è “innegabilmente infantile”.  Tra i due estremi sta la concezione della religione come istituto storico che in date condizioni assolve una funzione positiva di reintegrazione e di mediazione dei valori culturali. Se è vero che nella società borghese la religione tende a perdere la sua funzione rappresentando un fattore di ritardo (“una via indiretta e allungata” per il riconoscimento dell’uomo, per dirla con Marx), ciò non significa che sia lecito proiettare questo giudizio sulle società passate in cui, attraverso la religione, è stata percorsa l’inevitabile strada verso il riconoscimento parziale dell’uomo.
Secondo l’autore, infatti, la condizione umana è caratterizzata da una ineliminabile tensione dialettica tra il divenire della storia e il perdurare dei valori che strutturano la società o, per meglio dire, è contraddistinta dal tentativo continuo di riassorbire ciò che diviene nella permanenza di ciò che vale. Questa rapporto dialettico può andare perduto (per esempio con l’apocalisse culturale) ma non può mai essere oltrepassato come pretendono magia e religione. Ogni esperienza di una situazione nuova è potenzialmente critica perché pone in essere per la coscienza la distanza tra l’accadere in senso naturale (che è o può essere contrario all’uomo) e il far accadere in senso culturale (che tende a decidere le situazioni secondo valori sociali nell’ambito dell’operare intrinsecamente umano).
La religione è dunque una tecnica per destorificare il passaggio critico, reintegrare nella società le realtà psichiche alienate e ritornare alla storicità dell’esistere. Destorificazione, in particolare, significa occultare la storicità del passaggio critico mediante il ritualismo dell’agire: si ripete ciò che gli dei hanno già fatto in un’epoca mitica e fondativa, assimilando le vicende storiche in cui si è immersi a un identico metastorico che si ripete. La vita religiosa, in sintesi, è la mediazione che protegge dal rischio di “passare con ciò che passa”, apparendo così storicamente necessaria nelle condizioni in cui questo rischio è imponente e le potenze culturali dell’operare mondano sono a vario titolo anguste, non ancora mature per l’autocoscienza della loro origine e destinazione umana.

Questa discussione non ha un valore meramente storico-religioso per De Martino. Il simbolismo mitico-rituale non è una condizione eterna delle società umane, ma sottovalutare la sua importanza significa non comprendere che la vita simbolica, indipendentemente dalle sue declinazioni religiose, ha una funzione permanente nella società, impossibile da sostituire con le scienze della natura o della società. Questo perché l’ordine simbolico non ha solo una valore conoscitivo, ma “include, in un quadro intuitivo e altamente emozionale, origine e prospettiva”4 di una civiltà. Nel caso dell’ordine simbolico mitico-rituale questa inclusione si ammanta di significati assoluti, metastorici. Il problema che si pone De Martino è invece quello di un simbolismo che accetti il fatto che gli uomini fanno la loro storia e ne portano interamente la responsabilità.
La trasformazione socialista della società è per l’antropologo una condizione fondamentale per il deperimento del simbolismo mitico-rituale. Ma cercando la leva per questa trasformazione il materialismo storico, secondo l’autore, incorre nel limite di ridurre l’attività dell’uomo alla soggettività economica. Ciò non significa sottovalutare l’importanza della sfera economica poiché essa, per De Martino, segna il limite entro il quale possono aver luogo gli altri comportamenti culturalmente significativi, in quanto inaugurale distacco dell’umano dal naturale, dalla mera soddisfazione del bisogno. L’economico è l’orizzonte del domestico, della “datità utilizzabile” secondo un progetto comunitario in cui  “tradizione e iniziativa, memorie e scelte si compongono in una viva dialettica”.5 L’economicità è già un valore intersoggettivo che presuppone una volontà di storia, un trascendere la mera individualità per stare con gli altri nel mondo. Ma si tratta comunque di una distinta potenza del fare alla cui base c’è un’energia, un impulso propriamente umano a trasformare le situazioni date secondo un progetto intersoggettivo culturalmente significativo. E’ ciò che De Martino chiama “ethos del trascendimento”.
Nessuna trasformazione, tanto meno quella che porta al socialismo, sarebbe possibile senza questa “energia morale di trasformazione” che, sebbene possibile solo nella concretezza delle contraddizioni materiali di una data società, è alla base di tutti i regimi economici e di tutte le altre forme di coerenza culturale. La maturazione delle forze economico-sociali costituisce una possibilità concreta di cui l’ethos, se maturato, potrà profittare. Lo stesso Marx, anche se implicitamente, fa riferimento a temi etici. Il marxismo diventa dunque comprensibile solo come questo dover essere “mascherato a se stesso”, “vergognoso di sé”, per ragioni polemiche nei confronti dei “dover essere” astratti del suo tempo. 

A dire il vero c’è almeno un punto nell’opera marxiana in cui qualcosa di molto simile all’ethos del trascendimento prorompe in modo tutt’altro che timido. Il filosofo tedesco, infatti, si chiede nei Grundrisse: cos’è la ricchezza, una volta cancellata la sua limitata forma borghese, se non 

“l’estrinsecazione assoluta” delle doti creative dell’uomo “senza altro presupposto che il precedente sviluppo storico, che rende fine a se stessa questa totalità dello sviluppo, cioè dello sviluppo di tutte le forze umane come tali, non misurate su di un metro già dato? Nella quale l’uomo non si riproduce in una dimensione determinata, ma produce la propria totalità? Dove non cerca di rimanere qualcosa di divenuto, ma è nel movimento assoluto del divenire”?

E non è tutto volendo proseguire nei rimandi tra il pensiero del filosofo tedesco e quello dell’antropologo italiano. Marx, infatti, conclude il brano citato sostenendo che nel mondo borghese 

“questa completa estrinsecazione della natura interna dell’uomo si presenta come un completo svuotamento, questa universale oggettivazione come alienazione totale, e la eliminazione di tutti gli scopi determinati unilaterali come sacrificio dello scopo autonomo a uno scopo completamente esterno”. Perciò, se paragonato con il mondo antico, “il mondo moderno lascia insoddisfatti, o, dove esso appare soddisfatto di se stesso, è volgare”.6

De Martino, dal canto suo, afferma che “La quotidianità non è necessariamente volgare, ma lo diventa se norme, atmosfere domestiche e familiari, abitudini vengono perdendo la segreta carica affettiva di fedeltà a concrete valorizzazioni del mondo comunitariamente raggiunte e trasmesse nel corso di generazioni”.7 Quando questo insieme di “memorie culturali dilegua, è il mondo che sprofonda” con la conseguente “catastrofe dell’esistenza e dell’esistente”.8 Di qui il rischio di non essere più in grado di rielaborare il passato restando esposti  al suo ritorno gravido di paralizzante nostalgia; il pericolo di “perdere la prospettiva del futuro arretrando sgomenti davanti al possibile, di rifiutare il divenire come campo del progettabile e il fare come potenza progettante … invertendo il movimento dal privato al pubblico in quello opposto di una indefinita privatizzazione che recide ogni legame con la vita sociale” e dunque con la storia e la cultura.9 fronte di questo annichilimento, continua, “si configura il sospetto, la mostruosità … e in genere una intenzionalità rovesciata carica di estraneità distruttiva … sotto la specie dell’essere-agito, della trama occulta, della allusività sospetta, e infine della mostruosità figurativa”.10

Sembrano parole scritte per descrivere l’atmosfera politico-culturale dei nostri giorni. L’apocalisse della civiltà occidentale su cui si interrogava De Martino, dopo una crisi economica devastante non ancora superata, ha assunto la forma della strana non-morte del neoliberalismo (per dirla con Colin Crouch) perché nessuna vera alternativa è lontanamente pensabile, data la catastrofe delle culture subalterne: è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. Ammettere come dato naturale e immodificabile l’ordine cosiddetto neoliberale e più in generale il capitalismo significa oggi per le classi subalterne accettare definitivamente la perdita di quella che De Martino chiamava la domesticità del mondo, vale a dire quell’orizzonte di condivisione intersoggettiva che “riprende il passato e si dischiude al futuro”.11
Al punto in cui siamo, per scongiurare questa catastrofica perdita occorre niente di meno che tornare a pensare, insieme a Marx, un progetto in cui 

“l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguano il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. Ma – prosegue Marx smentendo una sua presunta propensione ad appiattire l’essere umano sulla sua dimensione produttiva –  questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa”.12

Per quanto lontano possa sembrare un simile orizzonte, solo in questo modo si può recuperare oggi una domesticità del mondo e ripensare ordine simbolico integralmente umano. E allora, tanto per cominciare, occorrerebbe riprendere in mano la bandiera della riduzione della giornata lavorativa. Potrebbe sembrare una conclusione banale, visto che abbiamo qui evocato questioni che rimandano ai significati ultimi del vivere sociale. Ma in realtà tali implicazioni sono già presenti nelle intenzioni di De Martino:

“Non si entra nel ‘circolo’ della vita ‘spirituale’ indifferentemente attraverso qualsiasi punto del circolo stesso. Un’idea simile poteva nascere soltanto nel pensiero di filosofi ‘padroni’ per i quali la cultura era sempre un otium … Poteva nascere solo … in chi aveva cancellato in sé ogni memoria viva della fatica contadina, e trovando il pane sulla propria mensa ne mangiava lasciando nell’inconsapevolezza la storia umana che si celava dietro quel ‘nome’ che indicava un ‘cibo sicuro’”.13


  1. Il libro si compone, occorre ricordarlo, di un insieme di materiali preparatori, che nella nuova edizione sono pubblicati seguendo una scansione tematica più che cronologica. Inoltre, rispetto alla precedente edizione, pubblicata sempre da Einaudi, alcuni materiali sono stati omessi, mentre altri sono aggiunti. E’ infine presente un nuovo apparato introduttivo formato dai contributi dei nuovi curatori. Il risultato è un volume di minore lunghezza e più facilmente leggibile. 

  2. Ernesto De Martino, La fine del mondo, Einaudi 2019, edizione Kindle, pos. 8183. 

  3. Ivi, pos. 7733

  4. Ivi, pos. 2465. 

  5. Ivi, pos. 3729. 

  6. Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia, La Nuova Italia, 1978, Vol. II, pp. 112-113. 

  7. Ernesto De Martino, La fine del mondo, pos. 6320. 

  8. Ivi, pos. 6752. 

  9. Ivi, pos. 9225. 

  10. Ivi, pos. 6824. 

  11. Ivi, pos. 9219. 

  12. Karl Marx, Il Capitale, Libro III, Editori riuniti, 1972, pp. 231-232. 

  13. Ernesto De Martino, La fine del mondo, Einaudi 1977, pag. 642. Citiamo dalla vecchia edizione perché si tratta di uno dei brani omessi nella nuova . 

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