mistici cristiani – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 31 Jul 2025 20:00:07 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La coscienza di Gustav (appunti meyrinkiani) 7 https://www.carmillaonline.com/2025/01/25/la-coscienza-di-gustav-appunti-meyrinkiani-7/ Sat, 25 Jan 2025 21:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86372 di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Dov’è Eva? (1916)

Il cap. VII del Volto verde (che merita sgranare con una certa puntualità per decostruire i soliti giudizi grossi e strumentali sull’autore) vede Hauberrisser raggiungere l’amico barone che si stupisce del suo viso assorto. Apprende però che è arrivato – presentandosi come mandato da lui – anche l’imbroglione sedicente conte polacco Ciechonski, risultato molto simpatico a Pfeill. Lo trovano intento a corteggiare una vecchia dama, e il barone conduce Hauberrisser in una camera dedicata al relax e rivestita di sughero. La difficoltà principale nel riassumere questa storia sta [...]]]> di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Dov’è Eva? (1916)

Il cap. VII del Volto verde (che merita sgranare con una certa puntualità per decostruire i soliti giudizi grossi e strumentali sull’autore) vede Hauberrisser raggiungere l’amico barone che si stupisce del suo viso assorto. Apprende però che è arrivato – presentandosi come mandato da lui – anche l’imbroglione sedicente conte polacco Ciechonski, risultato molto simpatico a Pfeill. Lo trovano intento a corteggiare una vecchia dama, e il barone conduce Hauberrisser in una camera dedicata al relax e rivestita di sughero. La difficoltà principale nel riassumere questa storia sta nella quantità di densi dialoghi sui temi alla base del romanzo.

Così, dopo un po’ di scherzi lievi, Pfeill chiede all’amico se non senta

 

che c’è qualcosa nell’aria, qualcosa che forse non è mai stato così forte da quando la terra esiste […] è un compito ingrato profetizzare una fine del mondo, è stata annunciata troppo spesso nel corso dei secoli perché la cosa possa avere ancora una qualche credibilità.

Eppure penso che questa volta la ragione stia dalla parte di chi crede di percepire l’imminenza di un simile evento. Non deve essere necessariamente la distruzione della terra: anche il declino di una vecchia visione del mondo è una fine del mondo.

 

Che si tratti di catastrofi naturali, di epidemie spirituali o d’altro, il quadro sembra questo.

 

Finora gli uomini si sono scannati in nome di certi sospetti esseri invisibili che per precauzione non si chiamano spiriti, bensì “ideali”. Credo che a questo punto sia giunta finalmente l’ora della guerra contro questi esseri invisibili – e non vorrei mancare. Da anni vengo addestrato a essere un combattente in senso spirituale, lo so bene, ma non mi è mai stato chiaro come ora il fatto che si prepara una grande battaglia contro questi spettri maledetti. […] Il contrario di quel che fa la grande massa è già di per sé la cosa giusta.

 

Teorizza perciò uno Stato ideale senza necessità di organizzazioni e di doverlo imporre ad altri. D’altra parte, i “pensieri si propagano anche se non li si esprime. Forse soprattutto se non li si esprime”, dunque è certo che il suo Stato conquisterà il mondo. Anche perché al contrario “certe parole d’ordine […] trasmettono malattie ben più gravi [di virus e batteri], per esempio: odio razziale e odio di classe”, e dunque richiederebbero una sterilizzazione. Ovviamente qui a parlare è un personaggio, non l’autore in quanto tale, però il contesto del romanzo e il suo modo di narrare sembrano richiamare posizioni di Meyrink. Contraddizioni comprese, perché i suoi accesi racconti contro le gerarchie militari, i suoi attacchi alla borghesia e a fasce sociali più alte e moralmente decadute o contro certo populismo, l’intransigenza critica delle sue riflessioni non vanno troppo lontani dall’odio di classe. Se sull’odio razziale non sussistono dubbi interpretativi (con buona pace dei tentativi dei razzisti evoliani di annettersi Meyrink), è probabile che odio di classe qui vada inteso semplicemente come un rifiuto del marxismo: a dispetto delle sue bordate e, come si è detto, con qualche contraddizione nel rapporto con la borghesia, Meyrink resta politicamente un moderato. Quanto al nazionalismo,

 

sembra essere una necessità per la maggior parte delle persone, lo riconosco, ma è giunta l’ora che si formi finalmente uno “Stato” in cui i cittadini non siano tenuti insieme dai confini e da una lingua comune, bensì dal modo di pensare, e dove possano vivere come vogliano.

 

Badiamo che simili affermazioni nel contesto della Prima guerra mondiale, sotto il fuoco di attacchi a Meyrink da parte dell’ultradestra nazionalista, sono molto più forti di quanto sembri a noi: in passato e in altri contesti ha potuto essere più tranchant, ma qui rischia l’incriminazione per scarso patriottismo e dunque usa una formula più “morbida” (“sembra essere una necessità per la maggior parte delle persone, lo riconosco, ma”…).

Il cambiamento radicale anche di una persona sola, argomenta il barone, basterebbe: “la sua opera non può morire – che il mondo ne venga a conoscenza o meno. Costui apre nella realtà una breccia destinata a non richiudersi mai più, non importa se gli altri se ne accorgono subito o dopo un milione di anni”. E l’opposizione del singolo Meyrink al nazionalismo prenazista acquista dunque un valore concreto.

Le grandi catastrofi non sono tanto la causa dei mutamenti di pensiero, quanto un presagio, “il mondo in cui viviamo è un mondo di effetti. Il regno delle vere cause è occulto; se riusciremo a spingerci fin là, potremo fare miracoli”. Tra questo sarebbe eminente il saper diventare realmente padroni dei propri pensieri: e a quel punto l’ingegnere riesce a buttargli lì la domanda se abbia qualche “segnale per affermare che siamo di fronte a una… chiamiamola svolta”. Il barone ammette che sì, ma “(p)iù che altro è una sensazione”. C’entra l’incontro casuale con una certa signorina van Druysen, che gli presenterà tra poco, e il racconto da lei offerto: una “pietra miliare” dello sviluppo interiore si rivela “nella coscienza di tutti coloro che sono maturi per viverla con una uguale esperienza interiore […], la visione di un volto verde”. Che, come detto, questo romanzo flirti con l’esoterismo (e ben più che Il golem), non toglie che occorra riflettere su quale sia l’esoterismo in questione. A partire dall’ottica visionaria, mitica e onirica con cui è giocato il motivo del Volto verde: e il prosieguo della storia permetterà di uscire dal generico.

A quel punto l’ingegnere, stravolto dalla sorpresa, afferra il braccio dell’amico e racconta eccitato cos’abbia vissuto. Molto colpiti, iniziano a parlare fitto e non si accorgono dell’arrivo degli ospiti – in particolare Eva van Druysen e il dottor Sephardi, presto coinvolti nel racconto. Sulla propria esperienza alla “Bottega delle Meraviglie”, Hauberrisser lascia al barone il compito di sintetizzare ed Eva aggiunge solo qualcosa sulla visita a Swammerdam: nessuno dei due è in imbarazzo, ma entrambi faticano a parlare. Il fatto è che c’è stato un inatteso colpo di fulmine: di Hauberrisser che pure di donne ne ha amate tante, e ora travolto da “un sentimento di comunione così sincero e intimo da far impallidire quanto fino ad allora aveva chiamato passione”. Ma anche della giovane, e la reciprocità non sfugge all’occhio acuto di Pfeill. Che coglie anche una sofferenza negli occhi di Sephardi (scopriremo solo più avanti che si era innamorato di Eva, ma già ora possiamo sospettarlo). Quando però paragona la piccola comunità di mistici del calzolaio veggente a un gruppo di sventurati pellegrini ingannati da un miraggio e condotti a morire di sete nel deserto, Eva ribatte che ciò non vale per Swammerdam, “destinato a trovare anche le cose più elevate che sta cercando”. L’ebreo ortodosso Sephardi resta scettico.

Dibattono un po’ sul tema dei messaggi “sovrannaturali”, e Hauberrisser chiede conto della definizione di “uomo primordiale” usata per la fantomatica figura dal volto verde che entra ed esce dalle loro giornate. Preferisce “credere che sia la medesima creatura entrata nelle nostre vite” con un caleidoscopio di manifestazioni, ed Eva si dice d’accordo. Sephardi ipotizza che si tratti di una forza spirituale – forse un essere con una autonomia identitaria – fiorito in epoca remota e che ora voglia ridestarsi, manifestandosi a pochi eletti. Del resto se un uomo diventa immortale, “continua a esistere quale pensiero eterno” in grado di accedere in modo diverso alla mente altrui. Se poi lui, come ebreo, accoglie una religione della debolezza che si basa sull’attesa del Messia, esiste anche una strada della forza – l’importante è che, per coerenza, il debole non scelga la forza o viceversa.

L’ingegnere lo interpella allora sul tema del dominio dei propri pensieri – che non è il semplice autocontrollo, e Sephardi ribatte atterrito che si tratta di “un antichissimo sistema pagano per giungere al vero superomismo”, il cosiddetto “ponte della vita”. Però sia chiaro, non c’entra con Nietzsche: è penetrato in Europa dall’Oriente, e pochi lo conoscono. È bastato a far perdere il senno a chi mirava a quel tipo di magia, “soprattutto inglesi e americani” con ciarlatani che si spacciano per iniziati e schiere di pellegrini in India e Tibet, senza sapere “che lì il segreto si è spento da tempo”. Legittimo domandarsi se Meyrink non stia facendo qui il contropelo al Fa’ quel che vuoi di Crowley, molto attivo nel traghettare a ovest – tra brividi e critiche degli occultisti occidentali, che non amano simili ibridazioni contrarie a una tradizione – una serie di spunti esoterici dall’Oriente.

Sephardi prosegue: questi appassionati di scarsa preparazione confondono con altre tradizioni che portano quel nome, ma i testi antichi sull’argomento restano privi di chiavi interpretative. Del resto un “ponte della vita” è esistito anche nella cultura ebraica, con tracce indietro fino all’XI secolo e un suo antenato, Salomon Gebirol Sephardi, ne ha parlato nei propri scritti finendo ucciso da un arabo. In Oriente una piccola comunità erede di emigrati europei discepoli di antichi Rosacroce, i Paradâ, “coloro che hanno toccato l’altra riva”, custodirebbero ancora il segreto… Beninteso, sarebbe una fortuna per il mondo intero se qualcuno giungesse all’altro capo del “ponte della vita”. Da solo, un uomo non può riuscirci, ha bisogno di una compagna e qui sta il senso più profondo del matrimonio, “che l’umanità ha smarrito da millenni”. Poi si avvicina alla finestra per nascondere il viso e prosegue: “Se un giorno le mie misere conoscenze in questo campo potessero tornare utili a voi due, disponete pure di me liberamente”.

Eva resta colpita. Anche ammettendo che i sintomi di un suo innamoramento per l’ingegnere siano così evidenti, cosa ha spinto Sephardi a un’uscita tanto poco discreta da gaffeur? Tradisce l’eroismo di chi l’ha amata in silenzio? O piuttosto c’entra il discorso sul “ponte della vita” e un improvviso – come diceva Swammerdam – partire al galoppo del destino? in fondo Eva, seguendo il consiglio del mistico, aveva parlato con Dio… a quel punto, cogliendo l’imbarazzo di Hauberrisser, lo tranquillizza: non deve provare disagio, si tratta di parole di un amico e nessuno può sapere ciò che la sorte riserva. L’indomani tornerà ad Anversa e per un po’ non si vedranno. Si congeda affettuosamente anche da Sephardi.

Intanto il barone nota casualmente sul giornale una notizia di cronaca nera, su un assassinio consumatosi nello Zee Dyk. Legge così i punti principali ai presenti: Swammerdam che trova il corpo della piccola Katje, il calzolaio scomparso con la grossa somma che aveva ricevuto, i primi sospetti su un commesso poi rilasciato, il costituirsi dell’assassino – che ha probabilmente ucciso anche il calzolaio. Il cui corpo, buttato probabilmente nel fango del canale, non è stato ritrovato. La confusa testimonianza dell’assassino che avrebbe sottratto il denaro permette di parlare di omicidio a scopo di rapina. Perché a uccidere non sarebbe stato “Quell’orribile negro” (qui in apparenza gli stereotipi si sprecano, ma ci saranno sorprese) come ritiene Eva, bensì “un vecchio ebreo russo di none Eidotter, che gestisce uno spaccio di liquori nello stesso edificio” – quello cioè con il nome rituale di “Simone il crocifero”. La ragazza, che l’ha conosciuto, non crede alla sua colpevolezza, neppure in stato di incoscienza. Circa l’improbabile confessione di lui, Sephardi ipotizza che l’adozione di un nome sacrificale come quello del crocifero, per la forza stessa insita in esso, abbia indotto un soggetto isterico a immolarsi per qualcun altro; mentre per lo stesso motivo la bambina è stata probabilmente uccisa da Klinkherbogk in un attacco di follia religiosa, a imitazione del sacrificio di Isacco, dopo essersi dato da solo, imprudentemente, il nome “Abram”.

Alla fine Eva esce di lì con Hauberrisser: lui domanda se non potrebbe andare qualche volta a trovarla ad Anversa, lei preferisce uno scambio di lettere: “Ho pensato sovente che ci deve essere qualcosa di innaturale nel fatto che un uomo si leghi a una donna. Ho come l’impressione che le ali gli si spezzino”. Lui ribatte che la barriera tra loro è il risultato delle inavvedute parole di Sephardi, dovranno sforzarsi di abbatterla. Ma lei vagheggia un’unione speciale, ben più intensa di un matrimonio “ridotto a un’odiosa istituzione che sottrae all’amore la sua bellezza e costringe l’uomo e la donna a un degradante opportunismo”. A un tratto Eva si stringe a lui, sussurrandogli che lo desidera “come la morte. Sarò la tua amante, lo so, ma quel che la gente chiama matrimonio ci sarà risparmiato”. Lui, stordito dalla gioia, coglie a malapena le parole, ma poi un alito di gelo li avvolge entrambi, come portati via alla gioia eterna dall’angelo della morte. Si riprende poco a poco, mentre una carrozza porta via lei e lui si scopre straziato dall’angoscia di non rivederla mai più.

Accertato che la zia beghina non voglia incontrarla – ha mal di testa, poverina, dopo gli ultimi traumatici fatti… – Eva si appresta a partire per il Belgio. Come trovare l’accesso a quel sentiero regale per la donna citato da Sephardi? Non vuole ridursi a donare all’amato solo la propria bellezza… e farebbe per lui qualunque sacrificio, pur di puntare al di là di quegli orizzonti umani che restano davvero troppo poco. Prega intensamente che qualcuno da oltre il fiume della morte le appaia per indicarle la strada. E dal cielo squarciato ha una visione, una tavola di vegliardi come in attesa: il “loro superiore aveva i lineamenti di una razza straniera, e un segno luminoso fra le sopracciglia; dalle sue tempie partivano due raggi abbaglianti come le corna di Mosè”, ma lei non riesce a formular loro la propria richiesta e lo squarcio nel cielo si sta ormai richiudendo, lei cerca di trattenere l’uomo con il segno fiammeggiante… però all’improvviso vede “una figura su un cavallo bianco sfrecciare al galoppo dalla terra al cielo, e riconobbe Swammerdam”, che smonta, impreca contro il vegliardo, lo afferra e gli indica Eva. La scena le ricorda le parole evangeliche sul fatto che il Regno dei Cieli vada conquistato con la forza. A quel punto lei ordina – come aveva sollecitato il mistico – di essere innalzata

 

verso la meta più sublime che una donna possa attingere – senza pietà, sordo alle sue preghiere se le avesse formulate per debolezza, sempre avanti, più veloce del tempo – attraverso gioie e felicità, senza concederle tregua, senza un attimo di respiro, costasse anche mille volte la vita.

 

(Nel contesto d’epoca può non colpirci un certo angelicato ministero della figura femminile.) Eva capisce di dover morire di fronte alla luce abbagliante del segno sulla fronte dell’uomo che le brucia la mente, ma continuerà a vivere perché ne ha visto il volto. Sente le catene della schiavitù spezzarsi in lei, mentre le sue labbra mormorano lo stesso ordine… Quando recupera il senso della realtà, sa che non tornerà ad Anversa: tutto le sembra piccolo di fronte all’indicibile beatitudine del prossimo futuro, e sta per giungere “l’ora che le donerà la vista – seppur tardi e a prezzo di terribili sofferenze”. Guardandosi allo specchio, i tratti del volto le risultano estranei: non riesce neppure a scrivere una lettera al proprio amato.

Ma avendo accettato di lasciarsi spingere dal Maestro del Destino verso lo scopo più elevato possibile, per poter offrire all’amato un rapporto speciale e non un matrimonio borghese, Eva scatena un meccanismo psichico di recettività, di lasciarsi agire: e in primo momento di questa mistica passività beneficia una forza oscura. Infatti come dal fondo dell’orecchio le perviene un sussurro, che poi diventa una lingua selvaggia e straniera. Deve obbedire a un ordine estraneo, ostile, ed esce; giunta alla piazza della Borsa di Amsterdam è trascinata bruscamente a destra. Sospetta di essere diretta a farsi uccidere ma non vi si oppone – tutto è un passo ulteriore verso la meta. Cammina fino a imbattersi nella casa sghemba – alla Caligari – in cui è stato assassinato il calzolaio. E sul parapetto alla confluenza dei due canali siede l’uomo la cui forza demoniaca l’ha attirata lì: è il terribile Usibepu, e lei atterrita che non riesce a chiamare aiuto, vede se stessa fermarglisi davanti. Lui dorme a palpebre aperte con le pupille rivolte in su, lei – inerte – ne teme il risveglio e subisce la “magica coercizione” del “selvaggio sangue africano” di cui aveva sentito parlare (torniamo a stereotipi razzisti diffusi in tutto l’Occidente):

 

L’abisso in apparenza insormontabile che separava il terrore dall’ebbrezza dei sensi era in realtà solo una sottile parete trasparente, infranta la quale l’animo di una donna si trasformava senza scampo in terreno di istinti bestiali.

 

Come una sonnambula, non vede vie di scampo: lui la afferra e le tappa la bocca, Eva si aggrappa alla striscia di cuoio rosso scuro che lui porta al collo… riesce a chiedere aiuto, Usibepu la trascina nell’ombra della chiesa di San Nicola, ma due marinai cileni li seguono, uno riesce a ferire il nero che però gli sfonda la testa. Messo KO l’altro, Usibepu bracca Eva nel giardinetto della chiesa, lei si nasconde e vorrebbe uccidersi per non cadere nelle sue mani. Poi però si accorge che la propria immagine riflessa è apparsa in mezzo al giardino, Usibepu le parla terrorizzato… quindi ricade nel precedente stato di incoscienza. La forza a cui ha scelto di affidarsi la indirizza verso la salvezza. Eva si arrischia ad abbandonare il nascondiglio e giungono voci dal vicolo: lei grida, gli inseguitori di Usibepu si lanciano su di lui che però riesce a farsi strada e arrampicarsi sul tetto della chiesa (inevitabile pensare alla fuga dell’evaso, impazzito Knock nel Nosferatu, 1922). Eva perde conoscenza e ne perdiamo le tracce: e questa sua scomparsa resterà circonfusa di mistero iniziatico.

Intanto Hauberrisser si intrattiene con Sephardi e il barone: continua a pensare a Eva, ma ad Amsterdam – a parte la compagnia dei due cari amici – si sente solo. Medita dunque di trasferirsi ad Anversa, dove potrebbe incontrare Eva almeno casualmente, ma è angosciato dal cattivo presagio gravante sul loro congedo. Quando poi scopre che è partita dall’albergo ma le valigie non sono state ritirate, si agita e prende a cercarla disperatamente, nella notte, fino allo Zee Dyk – ma lì Swammerdam gli spiega che non è tornata da loro. Comunque lo tranquillizza sul fatto che Eva sia viva, “Perché altrimenti la vedrei”: ma sì, è capitato qualcosa di grosso, la tiene in suo potere “uno di fronte al quale noi due non siamo nulla”. Eva si è incamminata su una strada simile a quella percorsa da Klinkherbogk, per cui lui pure aveva pregato tanto, però le preghiere risvegliano “con violenza forze in noi sopite”. E il senso di quanto accade nella sfera esteriore è di spingere avanti: poi tutto avviene “nel momento giusto e nel modo migliore” – così, non si preoccupi, sarà per Eva.

 

Il difficile sta nell’invocare lo spirito che deve guidare il nostro destino; Egli ascolta solo la voce di chi è maturo, ma il grido deve nascere dall’amore, e per amore di un altro, altrimenti non facciamo che risvegliare in noi le forze delle tenebre.

Gli ebrei della cabbala dicono: “Le creature del buio regno di Ob raccolgono le preghiere che non hanno ali”, e con ciò intendono non i demoni che sono fuori di noi, perché da questi ci difende la muraglia del nostro corpo, ma certi magici veleni dentro di noi che, risvegliati, scindono il nostro Io.

 

Alla preoccupazione di Hauberrisser che Eva sia andata incontro a una triste sorte come quella del calzolaio, il mistico lo rassicura: se l’ha consigliata a una certa ricerca interiore, era perché in quel momento era vicino Colui di fronte al quale loro non sono nulla. Invita piuttosto l’ingegnere a rivolgersi ai marinai della taverna con un’offerta in denaro, perché la trovino. Nel locale giace il corpo del marinaio cileno ucciso da Usibepu, ma il taverniere ne copre la responsabilità.

Eva viene cercata da tutto il quartiere, e la cameriera Antje è molto commossa per Hauberrisser. Alla fine Swammerdam lo esorta ad andare a dormire: provvederà lui a denunciare la scomparsa alla polizia. Il mistico gli racconta un episodio della propria giovinezza: turbato e deluso, considerava il destino un carnefice spietato. Poi aveva visto un purosangue che stavano allenando: continuava a correre in tondo sotto le frustate per non accettare di saltare un ostacolo che lo avrebbe portato a far chiudere la prova – e Swammerdam aveva capito di assomigliargli… Fino a quel punto aveva visto le sventure come punizione, ora la durezza della sorte aveva acquistato un nuovo significato. L’unico consiglio che arriva a dargli è di cercare

 

quella magica forza che in avvenire sarà in grado di evitare altre disgrazie alla sua fidanzata. Altrimenti potrebbe accaderle di trovarla per poi perderla di nuovo, come gli uomini sulla terra si incontrano per poi venire separati dalla morte.

Lei deve ritrovarla non come si trova un oggetto perduto, bensì in un modo nuovo e duplice. […] Non ha detto lei stesso che Eva aveva paura del matrimonio? Proprio per preservarvi da questo il destino vi ha uniti così all’improvviso, e subito dopo vi ha separati. In una qualunque altra epoca che non fosse quella attuale, in cui quasi l’intera umanità si trova di fronte a un terribile vuoto, quel che le è accaduto avrebbe potuto essere solo una smorfia della vita, ma oggi questo mi sembra da escludere.

 

Quanto al misterioso manoscritto pervenuto all’ingegnere, lasciando che gli eventi esteriori seguano il loro corso, è sensato cercare in quelle pagine ciò che è giusto per lui. Ora è nel punto giusto per poterlo fare, “(p)erchè ora agisce per amore, e può impossessarsi senza pericolo delle forze terribili che altrimenti la porterebbero inesorabilmente alla follia”.

Chiaramente Meyrink presenta Swammerdam con simpatia e rispetto: un mistico dal profilo ben più sofferto e in fondo umano dello splendido ma distante Hillel del Golem. E con altrettanta chiarezza il filo importante del Volto verde rappresentato dal mondo di Swammerdam è quello della mistica cristiana di Jacob Böhme (1575-1624) e di altri testimoni avanzati sulla linea tedesca già di Meister Eckhart, passata a innervare il pensiero rosicruciano ma più in generale il pensiero mistico romantico. Quindi la spendita per questa parte fondamentale della categoria dell’esoterico, non impropria per il romanzo in termini assoluti, richiede almeno di essere meglio chiarita.

Tanto più ricordando il rapporto complesso dell’autore con gli esoteristi dell’epoca. In alcuni abbozzi di Il volto verde figurava una figura di ciarlatano poi in gran parte eliminata nella versione definitiva, e modellato su Rudolf Steiner. Se questi in una conferenza a Monaco rende omaggio ai pensieri di Meyrink sulla mistica, Gustav non è altrettanto amichevole nei suoi confronti, stroncando la teosofia come religiosità di gente incolta. Non parliamo poi degli spiritisti, ai quali riserverà nel Volto verde parole durissime.

Va detto che la critica al sistema di Steiner è in parte parallela a quella nei confronti di Mann. Così come in tema di esoterismo Meyrink non si riconosce seguace di una peculiare tendenza, ciò vale anche per il fronte della letteratura. Ma fa parte del carattere di Meyrink una conflittualità ispida, con giudizi tranciati in modo tale da suggerire una certa incomprensione della letteratura del suo tempo (impressione in realtà non fondata, a giudicare dalla sua corrispondenza, in particolare con l’editore Kurt Wolff). Diciamo che, a proposito di Meyrink, qualunque semplificazione classificatoria – a partire da quella di chi cerca di annetterselo – è destinata a scontrarsi con un impianto di pensiero liberissimo, molto originale e ben poco schematizzabile.

Intanto Sephardi si è recato dallo psichiatra legale Debrouwer – considerato da tutti un superficiale – per sapere qualcosa di più sul caso del vecchio correligionario Lazarus Eidotter e intercedere per lui. Sospetta sia un chassidim cabbalista e la sua sorte gli sta a cuore. Anche l’ottuso Debrouwer esclude che il vecchio abbia ucciso (è stato il calzolaio a uccidere la nipote, prima di essere assassinato da qualcun altro e gettato dalla finestra); ma Eidotter conosce troppo bene i fatti e descrive l’uccisione del calzolaio nel dettaglio come avrebbe potuto fare il vero assassino. Oltretutto, alla notizia del delitto, il vecchio è stato ritrovato privo di sensi, “Fingeva, naturalmente”: e se pretende di aver ucciso anche la piccola è solo “per confondere la polizia”. Insomma, un complotto: ecco di nuovo il Meyrink che non ha fiducia nella giustizia dei tribunali, nelle valutazioni di medici spocchiosi e in generale in un sistema. Dal canto suo, Sephardi si rende conto che la sua prima idea di un condizionamento di Eidotter a causa del nome rituale “Simone il crocifero” non regge: vagheggia ora un caso di chiaroveggenza inconscia.

Comunque lo psichiatra concede a Sephardi con sussiegosa benevolenza di parlare al vecchio ebreo russo. Lo trova in condizioni mentali confuse, ripete le parole che lui dice e pare privo di emozioni, benché i tratti rivelino straordinaria forza spirituale. Continua a ripetere di essere colpevole e di aver ucciso per sottrarre i soldi: ma quando Sephardi gli spiega che non avrebbe potuto arrampicarsi sulla catena (come sostiene) per giungere alla stanza del calzolaio, riflette e constata – senza sollievo – che ha senso. La prospettiva che possa essere giustiziato non lo turba, nella vita gli sono “capitate cose più terribili”. Ma curiosamente, a uno stato come privo di vita, il vecchio alterna momenti di profonda comprensione. Sephardi cerca di farlo parlare della famiglia.

 

Si ricordò che fra i chassidim circolava una leggenda secondo la quale, nella comunità, alcuni davano l’impressione di essere folli ma non lo erano affatto: di tanto in tanto, deposto il proprio Io, essi provavano gioie e dolori altrui come se ne fossero toccati in prima persona. L’aveva sempre considerata una favola:

 

sarebbe quello il primo caso che gli tocca vedere. Chiede invano se altre volte abbia creduto di aver commesso qualcosa perpetrato invece da altri. Però qualche giorno prima si comportava diversamente, incalza Sephardi, parlava di cabbala: e a quel punto il vecchio commenta che sì, l’ha studiata a lungo, anche il Talmud babilonese e quello gerosolimitano. Ma, sostiene, ciò che la cabbala dice di Dio è falso, “Nella vita è tutto diverso”. Visto poi che in Vaticano ha dovuto tradurre il Talmud, i greci ortodossi di Odessa credevano fosse “una spia in contatto con i goyim romani”: e a un certo punto, guarda caso, un incendio aveva devastato casa sua. Senza però che ci fossero vittime, grazie al profeta Elia, che più tardi è venuto a sedersi alla loro tavola dopo la festa dei tabernacoli – ma la moglie sosteneva si chiamasse piuttosto Chidher Grün – e a quel nome, dopo i dialoghi con Pfeill, Sephardi sobbalza.

Comunque, continua Eidotter, nella sua comunità dicevano che lui era pazzo, senza sapere che Elia gli “insegnava la doppia legge tramandata da Mosè a Giosuè”. Poi moglie e bambini gli erano stati orribilmente uccisi in un pogrom… Lui narra sorridendo senza emozioni, pare cosciente ma ormai senza dolore: quindi – prosegue – non era più riuscito a studiare la cabbala, “perché i lumi dei makifim erano stati spostati”. Sephardi con delicatezza domanda se intenda che il dolore gli abbia ottenebrato la mente, ma lui spiega che no, è stato come aver bevuto quel filtro degli egizi che porta l’oblio. “Come sarei potuto sopravvivere altrimenti? Per lungo tempo non seppi chi ero”, e al ritorno della memoria gli manca quanto occorre per piangere e parecchio di quanto occorre per pensare. Sa che è accaduto qualcosa che dovrebbe farlo soffrire, ma non prova nulla perché il cuore è salito alla testa, mentre il pensiero è sceso al cuore – quanto all’attività del suo negozio, non serve gran cervello e il suo corpo procede in automatico… Ecco spiegato qualcosa della sua stramba confessione.

Certo con le proprie forze nessuno è in grado di far qualcosa di simile, occorre si muova “uno dell’altro mondo” per spostare i lumi – nel suo caso il profeta Elia. Prima che entrasse nella stanza l’aveva riconosciuto, e il suo arrivo era stato normalissimo come l’ingresso di qualunque altro ebreo – e si rende conto che “non era trascorsa neppure una notte della mia vita in cui non lo avessi visto in sogno”. Tornando poi indietro con la memoria a cercare il loro primo incontro, gli era passata davanti la sua intera giovinezza e poi una vita precedente e così via: e l’aspetto di Elia era sempre lo stesso, di un ospite straniero seduto alla sua tavola, e a un certo punto ha scambiato di posto i due candelieri sul tavolo – cioè li ha spostati in lui. Ma sua moglie sosteneva che l’ospite in persona avesse detto di chiamarsi Chidher Grün…

Elia è rimasto sempre con lui, anche se non può vederlo: e Sephardi capisce che tra sé e il vecchio c’è “un abisso spirituale che non si poteva colmare”. Lui che viveva nel lusso, in solitudine e studio, si è forse perso le cose più importanti. Ha creduto di attendere la venuta di Elia, e leggendo ha capito “che per risvegliare la vita interiore era necessario desiderarla”: ma ora che ha davanti uno che ha appagato il proprio desiderio spirituale, si scopre a dire che non vorrebbe essere al suo posto. Il movimento spirituale non è quello che lui credeva. Quando però spiega a Eidotter che non sarà difficile convincere lo psichiatra che la sua confessione non c’entra col delitto, il vecchio gli chiede di promettergli che invece non dirà niente: non vuole che l’assassino sia arrestato, e detto fra loro è un nero. Sephardi chiede come lo sappia e lui spiega che quando rientra dagli incontri con Elia, ha la sensazione di esser stato parte di eventi nel frattempo avvenuti: se però vi ritorna con pensiero vede la verità. Stavolta, tornando mentalmente ad arrampicarsi per la catena, si è guardato… era un nero vestito di blu, con una cinghia di cuoio rosso attorno al collo. Ma ricorda a Sephardi di tacere, a causa di Elia non dev’essere versato sangue, e poi l’assassino è uno dei nostri, cioè un uomo di fede – selvaggia ma viva. E gli proibisce di parlare: “Se devo morire per lui, lei vorrebbe togliermi un simile dono?”. È evidente che il povero Eidotter ha conosciuto attraverso la frequentazione del misterioso visitatore il più alto grado di iniziazione: e Sephardi torna a casa sconvolto.

Questo dialogo bellissimo e il ruolo perplesso dell’occidentalizzato Sephardi aprono a un filone in qualche modo contiguo a quello menzionato della mistica cristiana. In questione è qui il pensiero di un certo mondo ebraico della diaspora, con tradizioni certamente peculiari tra Balcani, Polonia e Russia: si pensi alla mistica sincretista o non allineata di maestri più o meno eretici come Sabbatai Zevi, 1626-1676, Jacob Frank, 1726-1791 (protagonista del recente I libri di Jakub di Olga Tokarczuk, pubblicato in polacco nel 2014), e soprattutto Baʻal Shem Tov, 1698-1760, fondatore di quel chassidismo cui Eidotter sembra aderire. Dove di nuovo, pur dicendo qualcosa di un certo simbolismo un po’ criptico, la chiave dell’esoterismo tout court sembra impoverente e imprecisa. In questo romanzo c’è molta mistica, che va riconosciuta per tale: l’insistenza rozza sulla chiave esoterica – senz’altre specificazioni – sembra soprattutto frutto di accostamenti superficiali al testo e, a monte, dei soliti tentativi ideologici di annettere Meyrink all’orizzonte degli amanti dell’esoterismo eredi del Gruppo di Ur. Ma tra le riflessioni trombone, sussiegose ed equivoche connotanti un certo sottomondo esoterico di privilegiati lamentosi, tutelatissimi perché contigui a poteri sempre vivi, e la sofferta profondità esistenziale di grandi perdenti come Eidotter corre un enorme divario che va colto: un orizzonte febbricitante e vivido di sincretismi mistici cristiani ed ebraici nel calderone delle fedi tra Mitteleuropa e Oriente che parla di percorsi personali alla fede, di scelte esistenziali sofferte, di violenze patite da chi è (davvero) marginalizzato. Ovviamente la mistica cristiana di Swammerdam e la mistica ebraica di Eidotter non esauriscono il contenuto del Volto verde e il tema del suo esoterismo, ma certamente l’enfasi sul medesimo viene notevolmente ridotta.

Le settimane passano e di Eva non ci sono tracce. Invano il barone e Sephardi cercano di aiutare Hauberrisser nella ricerca, per cui viene offerta una lauta ricompensa. Si mobilitano anche pazzi con lettere anonime, veggenti più o meno improvvisati, in una corsa alla bassezza. Unico balsamo per l’ingegnere sono le visite quotidiane di Swammerdam, che un giorno non riesce più a trattenersi: “una schiera di pensieri estranei si sta avventando ostile su di lei per privarla della ragione” e a quel punto l’ingegnere si ritira in se stesso, facendo circolare la voce d’essere partito.

Cerca di costringersi a leggere il rotolo misterioso, ne accoglie il “tu” come rivolto a sé e si accorge che la voce sembra essere a tratti quella di Pfeill, o di Sephardi, o di Swammerdam, tutti animati dal medesimo spirito per aiutarlo a crescere. E questa del manoscritto è forse la voce più genuinamente esoterica del romanzo.

Vi si annuncia che è l’ultima ora sull’orologio del mondo. Dunque non si faccia sorprendere dal sonno, “restare svegli è tutto”: esiste un equinozio dello spirito, e “la legge interiore è identica a quella esterna, solo di un’ottava più alta”. Chi sogna cogliendo soltanto scorci ingannevoli non sono poeti e sognatori, ma i diligenti uomini del fare, che vivono il loro sogno indipendente dalla volontà. Certo esistono i grandi veggenti che sanno di sognare e si spingono “fino ai bastioni dietro cui si cela l’Io eternamente sveglio”, come Goethe, Schopenhauer e Kant, ma non possono espugnarne la fortezza né svegliare i dormienti. Mentre occorre raccogliere le forze e cercare di svegliarsi – permettendo di respingere i pensieri tormentosi. Trasmettendo al corpo questa veglia, i dolori cadranno di dosso come foglie morte: e le pratiche ascetiche delle diverse religioni mirano a questo, l’occulta dottrina della veglia come la scala celeste del Giacobbe che lotta con l’angelo. Il primo piolo si chiama genio: come andrebbero chiamati i livelli più alti?

Il primo ostacolo sarà costituito dal corpo, ma alla fine sarà debellato e l’universo si troverà ai piedi del vegliante. Non si faccia scoraggiare dal timore di non poter raggiungere la meta in questa vita: le nascite successive saranno sempre più avanzate. Vedrà immagini – persone morte, figure di luce – emanate dal suo corpo: e un giorno, se lo seppelliranno, nella bara non ci sarà alcun cadavere. E solo allora riuscirà a distinguere il reale dall’apparente, e capire se è l’essere più disgraziato o più fortunato della terra. Ma nessuno viene abbandonato dalle proprie guide.

Il manoscritto offre poi una serie di caveat sul tema delle apparizioni, per smascherare predatori d’anima e pensieri divenuti visibili, e non cadere in pii equivoci (una condanna nettissima dello spiritismo, le cui manifestazioni avevano peraltro recato a Meyrink penosi contraccolpi interiori). E prosegue con una catechesi sapienziale per cui non ci sarebbe un paradiso dei buoni e una punizione dei cattivi perché non ci sono Male e Bene ma Falso e Vero; vegliare non significherebbe pregare (come da lettura cristiana) ma risvegliare l’Io immortale; il corpo non andrebbe trascurato in quanto peccaminoso, ma far sì che sublimi in spirito; la solitudine andrebbe sperimentata dallo spirito per trasfigurare il corpo. Posizioni insomma vagamente superomistiche a base di “loro credono, noi sappiamo”, in fondo non particolarmente originali a inizio Novecento, e idealmente collocabili tra Nietzsche e le teo/antroposofie di successo. L’anima esoterica, o se si preferisce mitica, del Volto verde – come in fondo del Golem – sta qui, con le polemiche dell’autore verso devozionismi confessionistici e gnosi d’epoca: dove il sogno dell’immortalità depone i panni romantici del secolo prima per tentare nuove sintesi. E pazienza se il risultato, come spiegava il barone Pfeill, informerà solo lo “Stato” dell’autore attraverso un’opera narrativa.

Comunque il manoscritto invita chi legge a decidere in piena libertà la propria posizione. E una pagina successiva fa pensare che il destinatario abbia effettivamente abbracciato “la via pagana del dominio dei pensieri”: suo mentore sarà dunque qualcun altro che sulla terra resta invisibile, “infinitamente lontano […] e tuttavia vicinissimo”. Il loro simbolo è la Fenice emblema di eterna giovinezza: e i suoi primi passi comporteranno che si separi dal corpo – come le streghe che se ne disgiungono lasciando a casa il corpo rigido e privo di sensi per raggiungere (potremmo dire in astrale, Meyrink non usa questa definizione) il sabba. Ma a domare il corpo nell’immobilità non basta la volontà, occorre lo stato di veglia superiore che deve raggiungere da solo, passando per l’incontro con spettri terribili: però saranno solo pensieri in forma visibile, indicatori di uno stadio di sviluppo spirituale. A quel punto potrà o meno entrare nel regno della pace eterna, ma potrebbe anche conseguire poteri per ben amministrarli, l’umanità ne avrebbe bisogno. E potrebbe riceverli proprio il giorno del “grande equinozio”: “Uno di coloro che detengono le chiavi dei segreti della magia è rimasto sulla terra per cercare e radunare gli eletti”, identificato da alcuni come l’Ebreo errante, da altri Elia, per gli gnostici Giovanni Evangelista. Può manifestarsi in forme varie, figura e volto non sono che immagini, ma potrebbe apparirgli come un essere di colore verde, oppure “com’è realmente – un segno geometrico, un sigillo nel cielo che soltanto tu riesci a vedere”, e a quel punto sappia che sarà chiamato a compiere azioni miracolose. Il narratore delle pagine misteriose ricorda di averlo incontrato in forma umana e ha “potuto mettere la mano nel suo costato”: si chiamava Chidher Grün.

Siamo al cap. XII, quello che si rivelerà il più importante. È passato del tempo, ad Amsterdam il nome di Eva è dimenticato e la considerano morta, solo Hauberrisser pensa ancora a lei – spera ancora, sempre più, ma non osa parlarne, neppure a Swammerdam cui pure lascia intuire qualcosa. Terminata la lettura del manoscritto, ha anche eseguito l’esercizio di immobilità (lì descritto) con curiosità scettica e poi quotidianamente per diletto – e scopre via via che di quell’esercizio ha bisogno. Possiamo vedere in queste scene le pratiche a cui Meyrink per lunghi anni – e, per certi versi, per tutta la vita – si costringe, portatrici ora di alcuni problemi fisici che lui ammetterà onestamente, ora di benessere e di salute. Sia come sia, la dimensione dello yoga mostra nel Volto verde un rilievo autonomo, quasi come la Kabbalah nel Golem.

Certo, la perdita dell’amata porta ad Hauberrisser ancora crisi violente di dolore, e sceglie di non contrastarle con gli esercizi per non sottrarsi al bisogno di lei: ma un giorno che il dolore lo conduce quasi al suicidio, prova a costringersi a uno stato di veglia superiore. Inaspettatamente vi riesce subito, e gli giunge la certezza che Eva sia viva e non corra rischi, anzi lo stia pensando. Quella via tra il dolore e una pace che fa sbiadire il ricordo gli permette di sentire Eva vicina. Comprende così meglio i miracoli della vita interiore, e prende a interrogare quella fonte di verità. Per esempio la sensazione, a un certo punto, di aver dimenticato come dominare il moto dei pensieri corrisponde alla fase dell’incenerimento da cui la Fenice – il simbolo qui più importante dopo il Volto verde – risorge ringiovanita: effimero il metodo, importante la conoscenza sottostante. Migliora così costantemente nella pratica di controllo dei pensieri, che prima lo depredavano e ora lo arricchiscono: e trova queste sensazioni evocate nel manoscritto, in pagine incollate dall’umidità che finalmente il calore del sole ha separato.

 

Negli ultimi anni, prima e durante la guerra, spesso aveva letto o sentito parlare della cosiddetta mistica, raggruppando d’istinto sotto l’etichetta “oscuro” tutto ciò che la riguardava, poiché qualsiasi cosa venisse a sapere sull’argomento aveva sempre un’impronta di vaghezza, come le visioni dei fumatori d’oppio. Non si era sbagliato nel suo giudizio, poiché quanto comunemente si intendeva per mistica altro non era, in realtà, che un brancolare nella nebbia. Ora però si avvide che esisteva anche uno stato mistico autentico – difficile da scoprire e ancor più da raggiungere – il quale non solo teneva il passo con la realtà dell’esperienza quotidiana, ma la superava di gran lunga in vitalità.

In esso niente ricordava le estasi sospette dei “mistici”: nessun umile piagnisteo volto a un’egoistica “redenzione” che, per brillare, ha bisogno del sanguinoso sfondo di empi condannati a eterne pene infernali; grazie a esso anche la rumorosa sazietà di una moltitudine bovina, che solo perché digerisce ruttando crede di trovarsi sul terreno della realtà, era scomparsa come un sogno ripugnante.

 

Meyrink non le manda a dire, anche nell’ambito di quel mondo di spiritualismi – allineati o meno a tradizioni religiose o filosofiche consolidate – che pure ha imparato a conoscere bene. Va ribadito d’altronde che possono ben definirsi mistiche le correnti cristiana ed ebraica che in questa storia idealmente omaggia.

Alla scrivania, Hauberrisser sente che Eva gli è vicina anche se non riesce a vederla. Nei giorni precedenti ha “creduto di essere sulla via giusta per ricongiungersi a lei in una nuova forma spirituale”, però non vuol cadere nell’errore delle allucinazioni streghesche. Più cresce il potere di trasformare i desideri in immagini, più c’è il rischio di perdersi dietro a fantasmi. Tuttavia in qualche momento Eva gli è apparsa come in carne e ossa, e ha dovuto costringersi a evitare di riprodurre l’immagine. Però non riesce a decidersi di andare a letto: ci dev’essere un mezzo, medita, per richiamare Eva in forma viva e reale… Lancia dunque domande, liberando i propri pensieri, ma le idee che pervengono non lo convincono. E intuisce che non basti stimolare la coscienza, ma anche il corpo, dove giacciono sopiti i poteri magici: sono questi da risvegliare, per agire sul mondo materiale. Colto da un’ispirazione, si pone nella posizione delle statue degli dei egizi (già il narrante di Le piante del dottor Cinderella imitava la postura di una statuetta egizia) e costringe il corpo a una quiete assoluta: e poco dopo sente “scatenarsi dentro una tempesta di indicibile violenza”. Voci umane, versi animali e colpi di gong si scatenano in lui, ma anche all’esterno nella stanza esplode un putiferio e la pelle gli brucia, mentre continua a invocare Eva. Non presta ascolto alla flebile voce interiore che consiglia di non giocare con forze di cui ignora la potenza, e che non sa dominare – e neanche quando la voce si fa più forte, gridando di tornare indietro. Se lo scatenare di cieche forze degli inferi, ventila la voce, facesse arrivare lì Eva prima del compimento dell’evoluzione spirituale, ne causerebbe la morte portando a lui un intollerabile dolore… ma non l’ascolta e va avanti. Nonostante la motivazione razionale che se Eva avesse potuto si sarebbe fatta viva, ma continua egualmente a inviargli pensieri d’amore, il desiderio di lui è tale da privarlo della ragione.

All’improvviso il fragore cessa, la stanza s’illumina a giorno e come sorto dal pavimento un palo sormontato da una traversa – come una croce decapitata – raggiunge quasi il soffitto: ne pende la testa di un grande serpente dal verde brillante, la fronte avvolta da un cencio nero e l’aspetto simile a un volto umano mummificato – e ricorda il viso di Chidher Grün. Terrorizzato da quell’epifania, Hauberrisser si sente chiedere in tono sibilante “Che c-os-a vu-oi da me?”. Inevitabile ricordare il demone-cammello che nella scena dell’evocazione di Le Diable amoureux di Jacques Cazotte chiede al protagonista “Che vuoi?”: qui l’animale è diverso, ma sembra possibile un richiamo. Tanto più che l’albero con il serpente presenta un’allusione edenica, così come il nome di Eva: il Nehushtan, serpente sul bastone fatto innalzare in rame da Mosè nel deserto per curare gli Israeliti morsi dai serpenti – e quello terapeutico di Asclepio del mondo greco – si muta nell’iconografia tarda, specialmente ermetica, in un serpente sulla croce, come qui evocato in sincretismo con culti africani.

Paralizzato dall’orrore, sentendo la morte in agguato, Hauberrisser crede “di vedere un disgustoso ragno nero scivolare sulla superficie lucida del tavolo… poi il suo cuore gridò il nome di Eva”. Allora la stanza rimpiomba nell’oscurità, il Nostro raggiunge a tastoni la porta e accende la luce, la croce decapitata e il serpente sono scomparsi… cerca di tranquillizzarsi pensando a un attacco di febbre, ma senza successo, ed è angosciato che il suo esperimento magico abbia posto Eva in pericolo di vita. Cerca di tranquillizzarsi con l’idea che si sia trattato di un’illusione e quando va alla finestra si accorge di scrutare in distanza se Eva non stia arrivando. Nota però che nel punto del pavimento dove è sorta la croce decapitata con il serpente il legno delle assi è marcito; e a un tratto ode bussare al portone, colpi impazienti.

Apre, tirando la corda del saliscendi, non echeggiano rumori per le scale: ma poi si spalanca la porta e compare Usibepu, che, incosciente come un sonnambulo, sembra non vederlo e annusa in giro. Alla fine individua il punto del legno marcito e poi solleva il volto come guardando la croce decapitata della visione e lo stesso serpente (associabile, ricordiamo, a quello del suo culto africano). Sul volto del nero, che pare mormorare, si alternano emozioni, fino a un furore incontenibile: ma poi si accovaccia sul pavimento, impallidendo, con gli occhi rivoltati sotto le palpebre spalancate – e intanto anche l’ingegnere è colto da un’inspiegabile stanchezza. E solo dopo parecchie ore vede Usibepu alzarsi in trance e andarsene.

Hauberrisser sta per tornare indietro dal portone spalancato, quando all’improvviso dalla bruma compare Eva. Sconvolto dalla gioia, la stringe tra le braccia, pare esausta: la conduce a una poltrona e restano abbracciati a lungo, lui in ginocchio e lei intenta a baciarlo. Non è tempo di porle domande, le chiede di non lasciarlo mai più, e lei lo tranquillizza, resterà con lui “anche da morta” – e intanto le mani le sono diventate gelide. Non può più lasciarlo, “L’amore è più forte della morte”: gliel’ha detto lui (scopriremo tra poco di chi si tratti), lei era morta e lui l’ha rianimata e lo farà ancora. Per intere settimane è stata fuori di sé, “sospesa fra il cielo e la terra, aggrappata alla cinghia rossa che la morte porta al collo. Lui le ha strappato il collare! Da allora sono libera! Non sentivi che ti ero sempre accanto? […] Fammi… fammi essere tua! Quando ritornerò da te voglio essere madre”. Si stringono in un impeto d’amore, e quando lui la richiama Eva è morta.

Sconvolto, Hauberrisser vorrebbe uccidersi, ma gli appare Chidher Grün: “Vuoi forse andare nel regno dei morti per cercare i vivi?”. Sappia chi non imparerà a vedere sulla terra non imparerà neppure dall’altra parte… Pensa che Eva non possa resuscitare? “Lei è viva, sei tu che sei ancora morto”. Poi sposta i due lumi: come ora è certo che lui possa mettere la mano nel costato del visitatore, così è certo che si unirà materialmente con lei quando avrà raggiunto la nuova vita spirituale. Il protagonista ha invocato l’amore effimero – Chidher Grün passa il piede sulla traccia di marcio, che scompare – e lui gliel’ha portato: è rimasto sulla terra non per prendere ma per dare… “Nella bottega delle meraviglie del mondo hai desiderato nuovi occhi per vedere le cose della terra in una luce nuova, ricordi? Non ti dissi che prima di avere nuovi occhi avresti dovuto consumare di lacrime i vecchi?”: per questo gli ha fatto pervenire il diario di uno dei suoi discepoli…

 

Eva voleva l’amore eterno: e io gliel’ho dato… e per amor suo lo darò anche a te. L’amore effimero è un amore spettrale.

Quando sulla terra vedo germogliare un amore che va al di là di quello fra spettri, vi stendo sopra le mani come uno scudo di rami per proteggerlo dalla morte che è ghiotta di frutti, poiché io non sono solo il fantasma dal volto verde, io sono anche Chidher: l’albero eternamente verde.

 

La governante al mattino trova il corpo di Eva disteso sul letto e Hauberrisser in ginocchio accanto. Chiama subito Pfeill e Sephardi che lo credono svenuto ma arretrano “spaventati davanti all’espressione sorridente del suo volto e alla lucentezza dei suoi occhi”. Come per Eidotter, l’inversione delle luci l’ha condotto al dominio dei dolori psichici.

Prima di passare alla parte finale, è inevitabile tentare parallelismi tra Il volto verde e il precedente Il golem, letterariamente più solido (e anche più agevolmente avvicinabile per un lettore). Athanasius (“Immortale”) Pernath e Fortunat (“Fortunato”) Hauberrisser presentano punti di contatto in quanto antieroi modernisti, uomini in crisi nella risacca epocale che dovranno conoscere una spiazzante iniziazione per trovare un posto nel mondo. Mirjam ed Eva sono figure omologhe, donne amate e dolcissime di grande profondità interiore: di entrambe si teme siano rimaste vittime di violenza sessuale e verranno recuperate dal protagonista dopo un qualche tipo di morte (anche solo simbolica). Degli iniziatori Hillel e Swammerdam qualcosa si è detto, mentre Zwakh & Charousek e Pfeill & Sephardi strutturano costellazioni amicali che per l’uomo Meyrink hanno evidentemente un ruolo importante. In forme diverse Wassertrum e Usibepu risultano figure dell’Ombra in realtà temperata da scorci di umanità, laddove il pur colpevole Laponder e l’innocente Eidotter mettono alla prova le categorie di giustizia degli uomini. E ancora, con una marcata differenza simbolica, il golem e Chidher Grün ricoprono il ruolo del visitatore soprannaturale che traghetta a un qualche tipo di immortalità. In un caso e nell’altro, a partire dai quartieri ebraici (di Praga e di Amsterdam) che conservano tradizioni e memorie dei viandanti per antonomasia della cultura occidentale: non a caso in entrambi i testi emerge il mito dell’Ebreo errante, portatore di una qualche immortalità fino ai giorni escatologici del Giudizio. Il tutto espresso secondo gli stilemi di un espressionismo che offre maschere e topoi alle crisi del Novecento, ma suscettibile di parlare ancora al secolo successivo, di colpirci e di emozionarci coi suoi appelli a memoria e profezia.

(7-continua)

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La coscienza di Gustav (appunti meyrinkiani) 6 https://www.carmillaonline.com/2025/01/04/la-coscienza-di-gustav-appunti-meyrinkiani-6/ Sat, 04 Jan 2025 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86017 di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Pipistrelli, succhiatempo e volti verdi (1916)

Non esiste – spiega Meyrink – un unico modo per ricercare la conoscenza: e  tutta la vita non è altro che “domande formate” ogni volta diverse e risposte che ognuno comprende in modo differente, per poter seguire la strada del proprio cuore. A fronte di un alfabeto ebraico di sole consonanti, ognuno deve trovare le vocali segrete, che schiudono un senso destinato a lui solo – altrimenti la parola viva si sclerotizzerebbe in un dogma morto.

Nessuna sorpresa dunque se la produzione di Meyrink guarderà [...]]]> di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Pipistrelli, succhiatempo e volti verdi (1916)

Non esiste – spiega Meyrink – un unico modo per ricercare la conoscenza: e  tutta la vita non è altro che “domande formate” ogni volta diverse e risposte che ognuno comprende in modo differente, per poter seguire la strada del proprio cuore. A fronte di un alfabeto ebraico di sole consonanti, ognuno deve trovare le vocali segrete, che schiudono un senso destinato a lui solo – altrimenti la parola viva si sclerotizzerebbe in un dogma morto.

Nessuna sorpresa dunque se la produzione di Meyrink guarderà ad agenzie sapienziali diverse e in modo molto libero: lo stesso sincretismo in fondo molto sfumato che nel Golem ammanta l’affannosa ricerca di un sé superiore, recupera con misura gli antichi spunti – tanto vivi a inizio Novecento in un intero orizzonte di riflessioni teo/antroposofiche – su una sophia perennis di universale verità al di là delle singole tradizioni religiose, e che pervaderà le opere successive. Grazie a una perizia narrativa non comune in questo genere di opere, e che riconduce a coerenza impianti simbolici estremamente variegati e senza cesure tra Occidente e Oriente, Meyrink si colloca così nella stessa tradizione dell’amico Kubin, su una lunga tradizione di poeti visionari (da Dante a Jakob Böhme, a William Blake, a Hoffmann…): e la sua scrittura offre una strana vita propria, un’esistenza vibrante a cose altrimenti morte e rigide – come il golem, in fondo.

Tale contenuto del suo primo grande lavoro finirà con il trovare seguito nella successiva produzione di racconti – in realtà sempre meno – e soprattutto di romanzi di Meyrink.

Per quanto riguarda i racconti, va ricordata la raccolta Pipistrelli, più precisamente Fledermäuse. Sieben Geschichten (Kurt Wolff, Lipsia 1916), che incontrerà l’attenzione di Jung e accorpa ad alcuni testi dal “Simplicissimus” altri nuovi. Dalla rivista viene in particolare La visita di Johann Hermann Obereit nel Paese delle Succhiatempo (J. H. Obereits Besuch bei den Zeit-Egeln, “Simplicissimus”, 47, 1916): vi scopriamo come i desideri vani degli uomini popolino la realtà di larve vampiresche, e solo chi riesca a estirparli conosce una rinascita spirituale e può porre l’epitaffio “Vivo” sulla propria tomba (come in effetti Meyrink farà).

Mentre, per i testi nuovi inseriti nella raccolta, la straniante novelette Meister Leonhard (Meister Leonhard), rielabora l’elemento autobiografico del difficile rapporto con la madre – descritta come oppressiva, agitata e superficiale, con “un irrequieto volo a zig zag da pipistrello” –, uccisa accidentalmente dal figlio, che lei ha interrotto mentre sta consumando un atto carnale con la serva Sabine poi risultata sua sorella. Da confidenza dolente gravida di colpa (lo scrittore non ha ucciso sua madre, ma forse qui spurga simili vaghe fantasie) e di rincrescimento (la mancanza di dialogo col padre, di cui pure intuisce il valore), il testo diventa così altro. La lotta contro l’insensatezza nel segno di quella sorta di svastica templare che è la croce di Satana – “quattro gambe umane in corsa, piegate ad angolo retto all’altezza delle ginocchia” – racconta dunque la storia tortuosa di un percorso verso una coscienza superiore, tra richiami ai Templari e al Bafometto, a un satanismo/luciferismo d’antan e a Meister Eckart.

Sempre nella raccolta, un’altra novelette nuova dai toni apocalittici congrui all’epoca, I quattro fratelli della luna (Die vier Mondbrüder: Eine Urkunde), ripropone in chiave onirica, tra incubo e grottesco, il tema della fine del genere umano, richiamando tra l’altro l’amicizia e la stima per Alfred Kubin di Meyrink – come peraltro qui si chiama il narrante stesso, cameriere personale del conte di Chazal, poi del magister Peter Wirtzigh. Interessante l’apparire nella storia, fitta di richiami alla luna e alle macchine, di una maschera espressionista alla Hoffmann poi presente anche in altre opere meyrinkiane, il cadaverico dottor Sacrobosco Haselmayer, ospite del conte il 21 luglio di ogni anno. La chiave allucinatoria dell’insieme fa esplodere ogni certezza identitaria sul narrante.

Per i romanzi, dello stesso anno di Pipistrelli è Il volto verde (Das grüne Gesicht. Ein Roman, Kurt Wolff, Lipsia 1916; attingo qui all’edizione Adelphi, 2012), che inizialmente avrebbe dovuto intitolarsi L’Ebreo errante. Un romanzo strano, chiaramente espressionistico che interesserà Jung; un romanzo molto più esoterico del Golem, anche se si tratta di intendersi sull’aggettivo. Di nuovo, troviamo una riflessione sull’interiorità e l’urgenza di recuperare un senso vero alla vita, quindi soprattutto filosofico e mistico in una Storia giunta alla crisi. Certo rispetto al romanzo precedente l’approccio per il lettore è meno agevole e fluido, come a forzarlo a uno sforzo di comprensione su una materia ostica. Anzi, la dimensione esoterica finisce col riguardare anzitutto la forma: in tutta la prima parte il lettore vaga alle prese con strani incontri, eventi bizzarri, maschere grottesche e veggenti più o meno improbabili. Poi lentamente i fili si stringono e la storia prende forma. Sembra esoterica anche la struttura, quattordici capitoli (sette e poi sette, numero simbolicamente rilevante per rosacroce e cabalisti, e divisi da una profonda cesura) con una visione finale.

 

Nel momento in cui, verso il 1915, Meyrink è alla ricerca di un nuovo orientamento, e si rivolge deliberatamente alle dottrine esoteriche orientali, è chiaro che gli elementi grotteschi debbono a poco a poco scomparire dalle sue opere letterarie.

Certo, nei suoi romanzi degli Anni Venti, Das grüne Gesicht e Walpurgisnacht, troviamo dei personaggi, dei motivi e persino una sorta di intermezzi grotteschi che ostacolano lo svolgersi dell’azione e irritano o divertono il lettore […] [Helga Abret-Brauner, Grottesco e fantastico nei racconti di Meyrink, in AA. VV., Meyrink scrittore e iniziato, Basaia, Roma 1983],

 

mentre nell’ultima parte della sua produzione il grottesco scomparirà.

Sul piano letterario Il volto verde è una creazione curiosa (viene persino da domandarsi se alcuni personaggi e magari episodi non siano recuperati dal primo impianto del Golem, con il proliferare di bozzetti poi stralciati per migliorare struttura e coesione), ma i bassifondi di Amsterdam – in particolare della zona ebraica – sono evocati in modo molto felice e i personaggi efficacemente descritti. L’azione non vi ha troppa importanza, ed è portata avanti non tanto da meccanismi di trama quanto dalle dinamiche tra personaggi.

 

Creando personaggi doppi e personaggi complementari, che spesso simboleggiano contemporaneamente il successo o la sconfitta, i diversi stadi sulla via dello sviluppo esoterico, crea un vasto scenario, colorito e plastico, in cui si stacca con tanto maggior chiarezza l’evoluzione dell’ “eroe” Fortunat Hauberrisser. [Joseph Strelka, “La faccia verde”, in AA. VV., Meyrink scrittore e iniziato, cit.]

 

E per seguire il filo dei simboli occorrerà sgranare episodio dopo episodio. Prepariamoci a un vagare febbrile, a tratti ciondolante.

Come detto, stavolta la storia si ambienta non a Prega ma ad Amsterdam, dove uno straniero visita in Jodenbreestraat – la “via larga ebraica” insediamento di molti transfughi ebrei dalla penisola iberica, e dove visse anche Spinoza – la “Bottega delle Meraviglie” di tal Chidher Grün. Un negozio pieno di oggetti bizzarri, sostanzialmente di accessori per prestidigitazione: teschi di cartapesta che sputano cartigli con profezie, cartoline erotiche, icone di suocere con labbra chiuse da lucchetti, manette, libri dei sogni egizi, scarafaggi finti, garanzie di qualche successo sociale come “‘il terrore dello scompartimento’ (un sistema infallibile per allacciare relazioni stabili durante i viaggi in treno, a uso dei commessi viaggiatori) consistente in zanne di lupo da fissarsi sotto i baffi”… e molto altro.

Nel locale, l’elegante viaggiatore austriaco nota un figuro dai tratti balcanici intento a leggere un giornale, ma anche una commessa propria connazionale, una graziosa signorina bionda. Questa riesce a vendergli il gioco di prestigio chiamato “I turaccioli volanti” e tenta di spiegargli il trucco, ma vengono interrotti dall’irrompere di “un gigantesco zulù dalla barba nera e crespa e le labbra tumide” con un chiassoso impermeabile a scacchi e una lancia in mano. Introdotto costui – che apprenderemo chiamarsi Usibepu, lavora al circo Carrè e al suo paese è uno stregone – e buttato fuori un tipo che lo segue lanciando sputi, la spiegazione sui turaccioli riprende, ma il visitatore dubita di riuscire a imparare e ripetere la manipolazione. Emerge invece che Usibepu conta di tornare in patria con una buona quantità di trucchi nuovi per far colpo sui compatrioti, e il figuro dall’aria balcanica – il signor Zitter Arpád di Bratislava – gli sta appunto insegnando una serie di giochi di prestigio alquanto macabri.

Insomma trucchi, e non solo:  in uno scaffale il visitatore nota una serie di volumi dal taglio dorato siglati da titoli come Storia della società corale accademica di Bonn e La cura delle emorroidi nell’antichità classica, ma che all’interno racchiudono la birichina “Biblioteca di Sodoma e Gomorra, Raccolta di scritti per scapoli impenitenti”. Mentre un vecchio ebreo in caffettano appare intento a scrivere nel retro, da un orologio a muro spunta al posto del cucù un busto femminile discinto che canta una canzonetta sconcia…

Stranito da quell’ Hellzapoppin’, lo straniero se ne andrebbe se non si sentisse oppresso da una tale astenia da piombare a sedere, meditando sull’insensatezza delle cose: ecco di nuovo come Pernath un antieroe modernista, con una dimensione interiore difficile, demotivato a vivere e un po’ depresso. Sospetta anzi che esista qualche patologia causata da “quel senso di morte che spira da tutte le cose create dall’uomo, siano esse belle o brutte”: il suo amico barone Pfeill sostiene che questo sia l’effetto tossico dei quadri appesi – ciò che spiegherebbe lo stato di sofferta tristezza tradito dalle immagini dei santi cristiani a fronte della serenità delle statue del Buddha. Lo straniero ha una posizione profondamente scettica verso le proposte di società e civiltà, e oltretutto nella “Bottega” il bisbiglio tra il figuro balcanico e Usibepu sta cullandolo facendolo assopire. Anche se poi si risveglia con “la sensazione di aver ricevuto una sconvolgente quantità di rivelazioni”, di cui trattiene come precipitato un’unica frase:

 

Raggiungere il sorriso eterno è più difficile che scovare fra le migliaia di tombe su questa terra il teschio portato sulle spalle in una precedente vita; l’uomo dovrà aver pianto tutte le sue vecchie lacrime prima di poter osservare il mondo con occhi nuovi, sorridendo.

 

Ancora nel sonno – ma convinto di essere sveglio – vagheggia così di costringere le cose a rivelargli il loro vero significato; ritiene di aver scoperto che “tutto si morde la coda, come dice il [suo] amico Pfeill” e in assenza di insegnamenti più saggi fantastica di ritirarsi nel deserto come il Battista a nutrirsi di cavallette e miele selvatico. Ma una voce (plausibilmente sempre nel sogno) lo irride: fa tante fantasie e poi è così scemo da pagare in argento uno stupido giochino come quello dei turaccioli? Non distingue una bottega delle meraviglie dal mondo reale e non intuisce “che nei libri della vita c’è qualcosa di diverso da ciò che è stampato sul dorso? Lei dovrebbe chiamarsi Grün, non io” (nel senso di Grün come “verde” ma anche come “ancora inesperto, immaturo”). A parlargli è il vecchio ebreo proprietario del negozio, con una benda nera sulla fronte, occhi profondissimi e un colore del volto tendente al verde oliva e con riflessi bronzei: “così doveva essere la pelle degli uomini preistorici, che si diceva avesse il colore dell’oro verde scuro”. E infatti gli confida di essere sulla terra dai giorni dell’apparire della luna: ha visto uomini che erano scimmie, e in fondo lo sono ancora e guardano in basso. Continuano a scoprire ulteriori dimensioni dell’infinitamente piccolo, ma così si può continuare indefinitamente senza risultati.

 

Io sono colui che affissa lo sguardo al basso e all’alto; il pianto l’ho scordato, ma non ho ancora imparato a sorridere. Il diluvio universale ha inumidito i miei piedi, ma non ho mai conosciuto nessuno che avesse motivo di sorridere; può anche darsi che non l’abbia notato, e che passandogli accanto abbia tirato dritto.

Ora è un mare di sangue a lambirmi i piedi, e proprio adesso dovrebbe presentarsi uno a cui è dato sorridere? Non credo proprio. È più probabile che dal fuoco sgorghi l’acqua.

 

Comunque quel volto gli toglie il respiro, e tornerà come un’ossessione lungo tutto il romanzo.

Lo straniero acquista ancora un teschio di cartapesta che sputa dalle mandibole rotolini di carta con profezie, e se lo fa spedire a casa, prima di uscire frastornato. Apprendiamo qui che si chiama Fortunat Hauberrisser ed è un ingegnere (Fortunat è il nome – purtroppo beffardo, a fronte della triste vicenda che lo attende – del figlio di Gustav).

Ripensiamo al discorso di questa sorta di Ebreo errante. Quando il romanzo appare l’Europa è in guerra, e lui ha raccontato “Ora è un mare di sangue a lambirmi i piedi”; ma nel secondo capitolo che adesso inizia veniamo informati che la guerra è finita “generando conflitti politici interni sempre più aspri”. In sostanza si tratta di un’ucronia, con un’ideale fenditura tra il conflitto reale che pesa sulla vicenda, cioè la Prima Guerra mondiale, e la pace virtuale di un affannato, immaginario dopoguerra, che comunque conduce lì stranieri di ogni nazionalità, per permetterne un insediamento duraturo o anche solo transitorio. L’esodo riguarda però più i benestanti, afflitti dalla pressione fiscale nei propri paesi, che gli strati poveri della popolazione: le entrate di uno spazzacamino o di un macellaio sono in questa situazione molto superiori allo stipendio di un professore universitario, portando gli intellettuali alla dispersione e riempiendo i vecchi alberghi olandesi in un clima di totale incertezza. Come vedremo, a dispetto delle sferzate ai borghesi preoccupati dal soldo, Meyrink talora vi si avvicina pericolosamente.

Nel caffè “De vergulde Turk”, labirintico e fumoso, una signora attende stizzita il barone Pfeill senza rendersi conto che è già arrivato in un altro angolo del locale, assieme all’amico ingegner Hauberrisser: la signora intende vendergli biglietti per una festa in maschera e il barone prende la faccenda – e l’agitazione di lei – con ironia lieve. No, gli bastano quattro biglietti, non cinque: e la dama (la classica professionista della carità ferma in superficie) se ne va innervosita.

Senza notare che è arrivata una bambina, nipote del calzolaio Klinkherbogk, portando una busta e avvertendo il barone che si è sbagliato e ha pagato mille fiorini invece di dieci: Pfeill le lascia benevolo la cifra in più e la congeda nella commozione del calzolaio. Non volendo toccare l’episodio per delicatezza, Hauberrisser gli chiede se conosca la leggenda dell’Ebreo errante, il leggendario calzolaio di Gerusalemme che avendo impedito il riposo a Gesù diretto al Golgota, si trova costretto a vagare fino al suo ritorno. Pfeill riferisce all’amico varie storie sul tema (compresa la tradizione che lo chiama Chidher, il Verde, guarda caso come il proprietario della “Bottega delle Meraviglie”), commentando la stranezza che subito prima gli fosse tornato alla memoria un certo ritratto visto a Leida molto tempo addietro. E descrive un volto di carnagione olivastra che l’ha perseguitato a lungo, persino nei sogni: un volto che ora inquieta l’amico perché pare descrivere proprio l’uomo dalla faccia verde incontrato. L’amico gli chiede cosa pensi degli ebrei, e il barone risponde che

 

“[…] Per lo più sono corvi senza penne […] Ma di tanto in tanto fra loro compaiono delle aquile, questo è certo. Per esempio Spinoza”.

“Dunque non sei antisemita”.

“Neanche per sogno. Se non altro perché non ho alcuna stima dei cristiani. […]”.

 

Gli ebrei esagerano troppo, i cristiani sono troppo superficiali – almeno secondo il barone. Lo scambio è particolarmente interessante a fronte delle accuse a Meyrink dei nazionalisti antisemiti.

Allontanatosi il barone, Hauberrisser tenta di darsi ragione delle strane coincidenze inanellatesi, ma la spiegazione telepatica non basta. Può trattarsi di coincidenze, e del resto, “se gli uomini che si somigliano avessero anche un destino simile?”, legato a forma del corpo e lineamenti del viso, come la vita pare confermargli. Anche l’astrologia non basta a spiegare, deve trattarsi di ben altri “pianeti che circolano nel sangue, intorno al cuore”… ma solo ora Hauberrisser nota un certo tipo vestito di bianco, con panama e monocolo. E riconosce il “professor” Zitter Arpád della “Bottega delle Meraviglie”, ora senza baffi e con capelli diversamente acconciati per chissà quali loschi traffici. Hauberrisser finge dunque di non averlo riconosciuto, neanche quando il tipo gli si presenta improbabilmente come un conte polacco, simula antichi rapporti con la famiglia di lui e racconta una serie di clamorose panzane – alle quali l’ingegnere non abbocca, mostrando scarso interesse. Poi il tipo affetta disprezzo verso gruppi di ebrei chassidim, inizia a pontificare sull’esplosione dell’isteria religiosa e di idee messianiche persino in Africa, dove sarebbe comparso un “Elia nero” operatore di miracoli… e a Mosca ha conosciuto anche un capo zulù che opera la magia grazie a un feticcio. Ora ha saputo che si trova in Olanda e lavora in un circo… ma l’ingegnere lo molla e se ne va.

In realtà Hauberrisser è stato preso da una violenta agitazione. Camminando, si imbatte nel circo cui è aggregato Usibepu (ovviamente è lui il presunto operatore di magie del conte polacco), ma rinuncia a fermarvisi.

 

C’era nell’aria qualcosa di imponderabile, di informe, che sferzava i suoi nervi – quella stessa ansia enigmatica e velenosa che in alcuni momenti, ancor prima di partire per l’Olanda, lo aveva oppresso con forza tale da spingerlo suo malgrado ad accarezzare il pensiero del suicidio [come Pernath, ricordiamo].

Quale poteva essere l’origine di questa ricaduta?

 

E finisce con l’associarla all’inquietudine dei fanatici religiosi, per avendo motivazioni diverse. L’aveva avvertita già molto prima della guerra, ma era riuscito a reprimerla con lavoro e svaghi. Più tardi l’aveva interpretata come un presentimento del sanguinoso conflitto. Ma ora torna quasi come disperazione – e un po’ tutti gli parlano di simili emozioni. Abbastanza impressionante leggere oggi queste pagine, in paesi psicologicamente depressi come il nostro e nel confronto tra demotivazione sociale e agenzie predatorie (di cui il trasformista cialtrone Arpád è una buona rilettura letteraria). Non è neppure troppo strano che al termine della guerra la pace interiore non sia affatto tornata.

 

La causa era molto più profonda.

Spettri – giganteschi, informi e riconoscibili solo dalle terrificanti devastazioni che producevano –, spettri evocati all’apposito tavolo da vecchi avidi e ambiziosi durante riunioni segrete, avevano fatto milioni di vittime acquietandosi poi per qualche tempo, almeno in apparenza. Ma ora il più terribile di tutti i fantasmi, da lungo ormai in attesa, risvegliato dai miasmi di una civiltà finta, in decomposizione, sollevava appieno il suo capo di Medusa dall’abisso, e scherniva l’umanità dicendole che era stata soltanto una ruota della tortura quella che essa aveva fatto girare – e avrebbe continuato a far girare per sempre, pur conoscendone le conseguenze – nella speranza illusoria di ottenere la libertà per le generazioni a venire.

 

Torniamo così idealmente all’immaginario del racconto Il gioco dei grilli e in realtà di parecchi testi anche non meyrinkiani sui presunti influssi occulti dietro la prima guerra mondiale. Ma idealmente si prepara anche il clima del successivo romanzo La notte di Valpurga.

Nelle ultime settimane Hauberrisser pareva aver superato il disgusto nei confronti della vita vagheggiandone una da eremita urbano, ma ora riaffiora il vecchio disagio. Le facce intorno non sono quelle di chi vuole divertirsi e rilassarsi, ma presentano solchi e rughe con segni di sradicamento, come i volti nelle raffigurazioni di sfrenate danze di appestati medioevali o stormi d’uccelli in preda al panico, in un abbrutimento eccitato e degradante. Mentre ruggiti e odori acri dal circo gli ricordano l’antica immagine di un’orsa incatenata in un serraglio ambulante, che ancora si pente di non aver riscattato. Forse a gridare vendetta fino al Giudizio Universale saranno gli spettri degli infiniti animali torturati dagli uomini. Ma in fondo, si domanda, lui ha mai compiuto un’azione di qualche rilevanza? Ha studiato e costruito macchine poi arrugginite (qui si può pensare al tema della macchina in I quattro fratelli della luna), dando il proprio contenuto alla generale inutilità…

È il tramonto, e l’ingegnere si fa condurre fuori Amsterdam con una vettura fin troppo lenta: arriva a vedere la campagna, i canali, mulini e pascoli, lasciando che l’inquietudine trascolori in malinconia. Mentre calano le ombre, ha la sensazione che la sua testa sia una prigione in cui è rinchiuso lui stesso: poi torna agli abitati, si fa lasciare dalla vettura e prosegue a piedi verso il suo appartamento, lungo canali maleodoranti fitti di chiatte immobili, tra gente che si raccoglie per la sera e porte che odorano di pesce e sudore, nell’opprimente desolazione dei porti olandesi (grande la suggestione pittorica di queste pagine). Per un attimo desidera di abbandonare quell’Amsterdam tanto cupa e triste per tornare a città più luminose a lui familiari, ma il senso tossico di decadenza e degrado di quelle soffoca la nostalgia.

Imbocca poi vie eleganti dove prostitute e protettori si sono ora insediati, e portieri in livrea al piano terra, mentre finestre aperte a rimorchiare clienti nei piani alti lasciano un sapore di squallore e di morte. Entra infine in un locale a metà tra il varietà volgare e il ristorante, popolato da canzonettisti e comici grotteschi e da un pubblico spiacevole. Trovando posto a un tavolo con quattro madame borghesi piuttosto stagionate: si sente additato dalla gente intorno e non capisce, tanto stordito dagli assurdi numeri dello spettacolo da ritrovarsi alla fine quasi solo nella sala. Dove fervono il traffico degli inservienti per cambiare l’aria nello spazio chiuso – con un enorme ventilatore e spruzzi di profumo – e i preparativi per l’arrivo di un altro pubblico molto più elegante, che ora riempie tutto il locale.

Hauberrisser si trova di nuovo al tavolo con quattro signore, ora un’anziana e tre giovani e belle russe. Intorno è il tipo di pubblico raffinato, né fatuo né profondo, che i filistei di ogni nazionalità invidiano e odiano: e a un tratto sul palco, illuminata da minuscole lampadine, appare la scritta “La Force d’Imagination!”. Uno spettacolo straniante non descritto, ma lasciato alluso, sconvolge il Nostro, che esce dal locale con un senso di orrore, “l’indistinta, soffocante paura dell’ignoto a lui da tempo familiare: l’improvvisa consapevolezza dell’inarrestabile degrado dell’umanità” (cosa ha fatto l’intrattenitore, davanti a tutti?). La scena che contrappone ai filistei un pubblico più raffinato e in fondo putrido può leggersi come sintomatica di un’avversione che conduce Meyrink più vicino allo spirito borghese da lui tanto sferzato, in una contraddizione almeno apparente ma comprensibile conoscendo la sua vita e i suoi tormenti interiori. Anche certi suoi commenti aciduli verso Thomas Mann, pure diviso tra arte e valori borghesi – e con cui dunque, in teoria, una maggiore sintonia sarebbe stata possibile – dà conto di contraddizioni mai composte, probabilmente per le amarezze di un’esistenza. Mentre – si è osservato – la visione apocalittica del Volto verde potrebbe in fondo proiettarsi nello scenario de La montagna incantata.

Ma quando il Nostro gira un angolo si trova davanti alla serranda abbassata della “Bottega delle Meraviglie”, in un edificio che pare un enorme teschio umano. Torna a casa domandandosi se la visione dell’uomo dal volto verde sia stata un sogno – tanto più che nel ricordo ricostruisce elementi paradossali, come il fatto che il vecchio ebreo sembrasse non posare i piedi per terra e risultare trasparente. Comincia a dubitare dei propri sensi, e vagheggia che nello spazio “ogni avvenimento che si sia verificato una volta esiste in eterno come immagine conservata nella luce”. Insomma ci sarebbe la possibilità di far rivivere il passato… e prende ad avere l’impressione che lo spettro del vecchio ebreo gli cammini accanto.

Raggiunge casa, dove è arrivato il pacchetto con il teschio di cartapesta e si corica, ma viene destato da un rumore che finisce con l’imputare a quel giochino nella scatola. Gli è caduto sul viso un rotolo “di carta fitto di caratteri sbiaditi”. Si riaddormenta, rivedendo in sogno le figure grottesche che ha incontrato negli ultimi giorni.

Intanto il barone va a visitare nella sua casa sontuosa l’amico ebreo dottor Sephardi (il cognome parlante richiama i sefarditi, gli ebrei della penisola iberica che, come Spinoza, avrebbero avuto un ruolo importante ad Amsterdam). Non lo vede da anni, e vorrebbe confrontare con lui alcuni ricordi sul quadro dell’Ebreo errante di cui ha parlato con Hauberrisser. Scopre allora che stranamente, dopo anni, Sephardi l’aveva cercato proprio quel giorno: e lo trova in compagnia della bellissima signorina Eva van Druysen, figlia di un amico del padre. Ancora più surrealmente, la signorina è giunta lì da Anversa per confrontarsi con Sephardi proprio sul dipinto in questione, presuntamente esposto a Leida nella collezione Oudheden: peccato che, andando sul posto, abbiano appreso che quel quadro non c’era mai stato… Perché le interessa tanto? Il fatto è che il defunto padre era ossessionato da un’apparizione che gli occupava la mente, era convinto che fosse “vicino il tempo in cui all’umanità sarebbero stati strappati gli ultimi punti d’appoggio, e una tempesta spirituale avrebbe spazzato via qualsiasi cosa che mano d’uomo avesse mai costruito”. Si salverà solo – diceva – chi avesse visto “dentro di sé il volto verde bronzeo del Precursore, dell’Uomo primordiale, di colui che mai assaporerà la morte”. Che non è uno spettro, ma anche se si presentasse così, in realtà è l’unico uomo sulla terra che non può essere definito tale. La sua benda nera in fronte nasconderebbe il simbolo della vita eterna, invece che mostrarlo come Caino: “Non posso dirti se sia Dio; non lo capiresti”. Passati gli anni, allo scoppiare della guerra la giovane aveva pensato che la tempesta spirituale evocata dal padre si riferisse a quell’evento: no, spiega Sephardi, la guerra ha solo diviso l’umanità in due fronti che non possono più capirsi, chi ha visto l’inferno e chi la riduce a inchiostro da stampa – e il dottore ammette di trovarsi tra questi ultimi. In effetti la giovane pensa che il padre si riferisse al non-poter-vivere-e-non-poter-morire che affligge ora il mondo (una suggestione, per inciso, che pare emergere in tutte le epoche di forte ridefinizione della realtà: si pensi solo alla Ballata del vecchio marinaio di Coleridge, 1798, con la sinistra partita a dadi tra Morte e Vita-in-Morte).

Parlando col dottore è dunque emerso il discorso del famoso ritratto che pare non esistere, a dispetto della memoria del barone – che per questo è venuto dal dottore, davvero gliel’aveva descritto anni prima? Veniva forse da un suo sogno? un tempo quell’immagine lo perseguitava… il dottore sospetta che il volto fosse emerso a Pfeill in stato ipnotico, a rivelargli quella “seconda vita, eterna” vissuta solo nel sonno profondo e dimenticata da svegli. La “rinascita” di cui parlano i mistici cristiani gli pare un risveglio dell’Io in un regno indipendente dai sensi esterni.

Si noti che il volto verde richiamato ossessivamente nel romanzo vi risulta un simbolo esoterico

 

straordinariamente diversificato: essa possiede un aspetto positivo ed un aspetto negativo che è esaminato, compreso e spiegato in modi estremamente differenti dai diversi personaggi del romanzo in funzione della loro origine e del loro grado di evoluzione interiore, senza che, tuttavia, tali spiegazioni si escludano l’una con l’altra. Piuttosto, a volte si completano, ed altre testimoniano anche della tendenza sincretica di un atteggiamento esoterico.

[…] la faccia non appare soltanto ad Hauberrisser. Essa agisce piuttosto come un campione di valore supremo, infallibile, la cui apparizione (e non-apparizione), mutevole per stile ed intensità, può fornire al lettore chiavi sicure sullo stato e la natura dello sviluppo interiore di tutti i personaggi. [Joseph Strelka, “La faccia verde”, cit.]

 

Classico del resto dell’esoterismo non è solo un atteggiamento di tipo sincretico ma un procedere per aggregazione astorica di dati, fattispecie “simili” eccetera. D’altronde occorrerebbe considerare l’ipotesi che l’accumulo di significati differenti del simbolo usato da Meyrink rispondesse anche a una logica narrativa, letteraria, di suggestione ricorrente e appunto ossessiva, ipnotica: l’enfasi sul romanzo esoterico qui non è senza basi, ma occorre non dimenticare che comunque si tratta di un romanzo.

A proposito di mistici cristiani, Sephardi annuncia che lui e la signorina quella sera andranno a una riunione di un gruppo confessionista, nello Zee Dyk (ora non più quartiere di malavita ma di tranquilli artigiani: c’è solo una bettola malfamata, la “Prins van Oranje”, e dovremo entrarvi). L’invito arriva da un vecchio eccentrico collezionista di farfalle, tale Jan Swammerdam, che crede di essere il re Salomone (il nome si ispira a quello di un famoso naturalista di Amsterdam). La zia della ragazza, signorina de Bourignon, dama di carità del convento delle beghine – l’ennesima beghina ridicola della produzione di Meyrink –, va da lui tutti i giorni. Pfeill si stupisce che Swammerdam sia ancora vivo, racconta di averlo frequentato da ragazzino quando catturava rettili, anfibi e insetti – guadagnandosi l’ingresso in una società entomologica – e il poverissimo Swammerdam era più abile di lui nella caccia. Il vecchio aveva la fissazione di poter catturare un certo tipo di scarabeo stercorario verde, e i ragazzini si divertivano a seminare falsi indizi con sterco di pecora: ma un giorno, il falso non aveva impedito che lui trovasse davvero l’insetto. La moglie morta gli era apparsa nel sonno assicurandogli che l’avrebbe trovato… e alla commozione di lui, i monelli si erano sentiti in colpa.

La scena successiva vede il dottor Sephardi ed Eva van Druysen raggiungere la “nuova Gerusalemme” dei devoti, dove la zia di lei li saluta come re Baldassarre ed Eva. Ci sono Jan Swammerdam (“re Salomone”) e la sorella (“Sulamith”), il vicino di casa Lazarus Eidotter (“Simone il crocifero”, un vecchio ebreo russo), la signorina Mary Faatz dell’Esercito della Salvezza (“Maria Maddalena”), un giovane commesso butterato della drogheria di sotto (“Ezechiele”) – mentre la zia si presenta come “Gabriella, la forma femminile dell’arcangelo Gabriele”. Relativizzando le amenità devote della consorella, Swammerdam racconta che in quella casa c’è un vero profeta, il calzolaio Anselm Klinkherbogk (detto a sua volta, scopriremo più tardi, “Abram”); rimarca che non sono spiritisti – le cui idee Meyrink disprezza –, ma assorbono la forza dei nomi spirituali che recano, e presentano (tutti, meno Lazarus Eidotter) sorta di stimmate che la signorina van Druysen richiama all’isteria, ma lui spiega come di tipo non patologico. Poi Swammerdam presenta il caso di Klinkherbogk, e come un evento mistico gli abbia donato la “Parola Interiore” (che palesa la verità in una lingua misteriosa): Sephardi è scettico su simili profezie del subconscio, ma poi ripensa alla storia dell’insetto verde e tace. Nel clima sovraeccitato emergono notizie e siparietti improbabili – Eidotter resuscitato da “Abram”, ma forse aveva solo perso i sensi; “Ezechiele” che cade in trance profetizzando per il Logos, ma in realtà sembrano crisi di abbrutimento per la vita che conduce… ed Eva si rende conto della fatica di un’anima nell’ambito di una classe sociale non privilegiata. Come osserva la zia, “Melchiorre” è il barone Pfeill che aveva mandato soldi tramite la nipotina del calzolaio, e il re dei Mori “Gaspare” (che si rivelerà Usibepu) non è lontano; ma la nipotina ora annuncia che devono andare di sopra, dove “il nonno sta vivendo la seconda nascita”.

Segue un dialogo mistico molto profondo di Eva con Swammerdam, che la invita a interpellare il proprio spirito, l’intervento altrui è fuorviante. La meta è vedere se stessi con gli occhi di Dio, liberi da logiche di prove e punizioni, in vista di un progetto di guarigione interiore. Ma per giungere più rapidamente alla grande meta, occorre ordinare alla propria più intima essenza di guidare senza soste per la via più breve. Eva chiede cosa succederebbe se lei volesse a un certo punto tornare indietro da quel percorso mistico, e lui la esorta a non far troppi giuramenti, a non prendersi troppi impegni solenni. Del resto i voti, spiega lui, possono essere stati presi in una vita precedente o persino nel sonno profondo. Ed Eva medita che “Ogni lamentela riguardo alla presunta ingiustizia del destino doveva ammutolire di fronte al pensiero che ciascuno percorreva soltanto la strada che si era scelto”.

Swammerdam la invita comunque a non preoccuparsi se non trovasse alcun senso nelle attività del loro gruppo: a volte un sentiero scende verso il basso ma è la via più breve per salire, a volte “la febbre della guarigione spirituale assume l’aspetto di una diabolica putrefazione”. E anche il mischione di Antico e Nuovo Testamento  dei loro nomi spirituali non è senza senso, in quanto cammino da Adamo a Cristo… Per capire queste scene, va detto che Meyrink considera il fanatismo religioso come parallelo al materialismo, e paragona le due posizioni a Scilla e Cariddi; ma mantiene la cifra della complessità lasciando il problematico, sensibile e profondo Swammerdam in compagnia di figuri ridicoli o tragici (come il veggente Klinkherbogk, un Laponder meno profondo e sopra le righe alla deriva di trance pericolose, dove Meyrink critica esperienze pneumatiche d’epoca). Nei fatti, i nomi spirituali proclamati con troppa disinvoltura dalla zia di Eva, finiranno con il rivelare una propria mistica fatalità… A quanto pare, per questo gruppo surreale Meyrink si ispira al circolo mistico di Darmstadt ispirato dall’opera del calzolaio Jacob Böhme (1575-1624) e del cantante lirico, direttore d’orchestra massone Johann Baptist Krebs (noto con gli pseudonimi Johann Baptist Kerning e JM Gneiding, 1774-1851), il cui esercizi di yoga praticati da Meyrink per anni gli avrebbero alla fine recato danni fisici.

Davanti alla porta della soffitta la caricaturale signorina de Bourignon si bea del sorgere nel padre “Adam” dell’uomo spirituale proprio in quel solstizio d’estate: il calzolaio ha infatti sentito piangere dentro di sé, sintomo di “seconda nascita”. Klinkherbogk siede al tavolo da lavoro, davanti alla boccia di vetro da artigiano, e le persone affluite – compresi Eva e Sephardi – lo osservano: il profeta fissa il globo di vetro, poi cita alcune parole bibliche dall’episodio di Sodoma e infine emette una profezia calamitosa, triste anche verso se stesso, prima di ricadere in estasi.

Intanto nella losca osteria “Prins van Oranje”, dove sta la sformata cameriera Antje, detta (in onta a ogni preoccupazione di body shaming) la “scrofa del porto”, cinque figuri si sono riuniti a un tavolo. C’è il padrone, ex-timoniere; lo zulù Usibepu; un agente di varietà “gobbo e con dita simili a zampe di ragno, lunghe e orribili”; il losco professor Zitter Arpád, con abiti adatti al locale; un “indiano” in smoking bianco, figlio di un proprietario terriero dalle colonie, che vive lì ed è sveglio solo di notte per giocare e bere, perdendo sempre di più. Fino a mezzanotte sono costretti dalle dinamiche tra loro a giocare onestamente (del resto l’“indiano” è troppo ingenuo per barare, e lo zulù conosce troppo poco i segreti della magia bianca), ma a quel punto l’attenzione cala e i due extraeuropei vengono rapidamente depredati.

Ma Arpád vuole soprattutto carpire a Usibepu il segreto della camminata sui carboni ardenti, oltre a guardare con interesse la notizia che il calzolaio Klinkherbogk si sia fatto cambiare all’osteria un biglietto da mille fiorini. Reso euforico dall’alcool, dalla cena e dalla presenza della cameriera, Usibepu rischia d’essere accoltellato dai marinai gelosi di Antje. Circa i carboni ardenti, sfidato dal professore, dà prova delle proprie capacità: scivola in una grottesca trance, si mette nudo a danzare, poi impallidisce e si piazza immobile sui tizzoni – da cui alla fine esce illeso.

A quel punto “Maria Maddalena” viene a convocare l’africano per la riunione del gruppo religioso dal calzolaio. Zitter Arpád allunga le orecchie (è il tipo dei mille fiorini) e cerca di porre domande a Usibepu, affettando conoscenze di cultura africana che tuttavia quello demolisce. Lui non è iniziato alla magia Obeah T’changa, spiega, ma è un grande stregone Vidû T’changa, “serpente verde velenoso Vidû”, che non è un serpente animale: “serpente verde degli spiriti con volto di uomo. Serpente Vidû è un Souquiant. Suo nome Zombi”. Zitter Arpád non capisce più niente e chiede lumi. Usibepu spiega:

 

Souquiant è un uomo che può cambiare pelle. Vive in eterno. Uno spirito. Invisibile. Può fare ogni magia. Zombi era il padre dei neri. Gli zulù suoi figli prediletti. Discesi dal suo lombo sinistro. […] Ogni re zulù conosce nome segreto di Zombi. Quando lo invoca Zombi appare come grande serpente velenoso Vidû con volto verde di uomo e sacro segno su fronte. Se zulù vede Zombi per la prima volta e Zombi ha faccia velata, allora zulù deve morire; ma se Zombi appare con segno su fronte coperto e volto verde scoperto, allora zulù vive ed è Vidû T’changa, grande stregone e signore del fuoco. Io, Usibepu, Vidû T’changa.

 

Ai fini del romanzo, non è così importante entrare nello specifico del discorso. Meyrink attinge ai dati antropologici delle ricerche d’epoca, e può non essere immediato riportare i dati a quanto troviamo oggi documentato (si pensi solo all’uso del termine Zombi, qui non un cadavere vivente come oggi di solito inteso). Più utile rifarsi a testi di riviste occultistiche d’epoca, come l’articolo Obeah Wanga, in “Light. Journal of Psychical, Occult and Mystical Research”, 9 novembre 1895: Obeah (“che uccide”, in sostanza uno stregone) indica pratiche magiche e religiose originarie dell’Africa centrale e occidentale, ricollegabili dunque ai sincretismi d’oltre Atlantico, e implicanti rapporti con tre tipi di entità, cioè revenant, zombi (intesi però spesso come spiriti), e Souquinant, spiriti separati dai corpi di appartenenza. L’Obeah vede in azione una sola persona, “mentre T’changa richiede i poteri uniti di un uomo e una donna, che agiscono in presenza di un Totem o Feticcio, nella forma di un Serpente Sacro” (ibidem). Quanto a Souquiant, sembra accedere alla costellazione onomastica di Soucouyant, Soucouyans, Soucriant, Sukuyâ eccetera, di assonanza francese e in uso specialmente nel folklore sincretico caraibico per un mutaforma. In sostanza Usibepu si sente offeso dall’essere etichettato come Obeah T’changa, stregone cattivo, mentre richiama i suoi poteri al più nobile Vidû, “attratto” nella simbolica del Volto verde.

Zitter Arpád non sa che farsi di quelle spiegazioni, ma si offre a “Maria Maddalena” come interprete con l’africano: lei però non è interessata, riesce a farsi capire egualmente da Usibepu e lo conduce all’alloggio del calzolaio. Questi ricade in stato di sonnambulismo: ed è in tale momento sospeso, quando Eva ha “l’impressione che un angelo sterminatore stesse emergendo tastoni dalla terra” che all’aprirsi lento della porta compare l’immagine del nero. Ma il calzolaio scatta in piedi rantolando che è lì di nuovo “il Terribile, con la maschera verde sul volto, colui che mi ha dato il nome di Abram e il libro da ingoiare” (si pensi al libro inghiottito in Apocalisse 10, 8-10) e ricade a sedere. Usibepu commenta allora che “Il Souquiant è dietro di lui” – poi il silenzio cala. Eva è terrorizzata, ha “la sensazione che un essere invisibile stesse attraversando la stanza con orrenda lentezza”. L’apparizione della gazza parlante Jakob non migliora la situazione… ma alla fine lasciano lì il calzolaio in trance con la nipotina addormentata, spingendo fuori anche Usibepu che ha adocchiato i soldi del veggente. Chiudono la porta a chiave.

Klinkherbogk sta sognando di traversare il deserto in groppa a un asino, con la piccola Katje (“Isacco”) al fianco e preceduto da un uomo dal volto velato. Nel sogno sacrifica la bambina come Abramo sta per fare con Isacco, e a quel punto l’uomo che li guidava svela il proprio volto: lo fa perché lui abbia la vita eterna, ma insieme cancella dalla propria fronte il simbolo della vita perché quella vista non consumi più la mente del calzolaio. “Poiché la mia fronte è la tua fronte e il mio volto è il tuo volto. In questo, sappilo, consiste la ‘seconda nascita’: tu sarai con me una cosa sola e riconoscerai che la tua guida verso l’albero della vita sei stato tu stesso”. Molti hanno visto il suo volto ma ignorano che quella sia la “seconda nascita”. Certo, la morte verrà a lui ancora una volta prima del passaggio della porta stretta, ma poi entrerà nel regno: e a quel punto “Abram” vede che il volto dell’interlocutore è di oro verde e riempie l’intero cielo (inevitabile ricordare, sia pure con diversi sottotesti simbolici, il finale de Il gioco dei grilli). Ma, allo sparire dell’uomo, lentamente torna in sé, trovandosi in mano la lesina insanguinata del suo lavoro, e nella penombra il corpo della nipotina che in stato sonnambulico ha ucciso con un colpo mortale. In preda all’angoscia vorrebbe farla finita e trova la porta chiusa dall’esterno; ma dalla catena che pende dalla parete esterna Usibepu, attratto dal denaro, si arrampica e balza nella stanza. Il veggente, alla deriva del ricordo del sogno, stende le braccia verso l’uomo che ha fatto irruzione: questo, terrorizzato, si avventa su di lui e gli spazza il collo. Poi si riempie le tasche dell’oro del calzolaio, e ne getta il corpo nel canale sottostante. L’immagine negativa del nero (ne ritroveremo un’eco ne La notte di Valpurga) risponde a stereotipi diffusi tra Otto e Novecento, da Poe a Verne a Stoker a tanti altri, e non stupisce – di certo non è in sé un marcatore ideologico che rimandi alle speculazioni razziali tanto care a certa destra italiota. D’altra parte, come vedremo, anche su Usibepu, Meyrink ci riserverà delle grosse sorprese.

Lontano dal teatro di tanta atrocità, Hauberrisser si sveglia, e scopre che il rotolo di carta cadutogli sul viso nella notte era stato lasciato in un ripiano sopra il letto da un precedente inquilino. Presenta un testo quasi illeggibile per inchiostro sbiadito e muffe da umido. Quel che resta pare tuttavia l’abbozzo di un lavoro letterario, senza nome né data: e sembra emergervi a un certo punto il nome fatale di Chidher Grün, per cui l’ingegnere resta terrorizzato. Diffidando di se stesso, dalla governante signora Ohms apprende che il precedente inquilino era un uomo molto ricco e strambo, poi la casa è rimasta vuota per parecchio tempo. Da quanto si legge nel manoscritto, la storia è quella di un uomo che lotta contro la sfortuna, pessimista come l’ingegnere: ma pur considerando una generale mancanza di progresso dell’umanità – che a grandi numeri gira in tondo – l’ignoto autore deve ammettere come alcuni individui abbiano invece saputo fare passi avanti. Purtroppo l’impossibilità di leggere lo scritto nella sua totalità rende impossibile capire come c’entri Chidher Grün: ma al pensiero di recarsi alla “Bottega” e interpellare il vecchio ebreo, Hauberrisser si domanda che colpa ne abbia costui, se il suo nome lo “perseguita come un coboldo”. Si chiede anzi se davvero gli importi della faccenda, e il disgusto della vita si riaffaccia in lui: così chiude a chiave il misterioso manoscritto, meno una pagina su cui legge il nome Chidher Grün, e che infila nel portafogli. Ma a quel punto arriva un telegramma dell’amico Pfeill che lo invita a un tè purtroppo fin troppo frequentato (e dove sospetta s’infilerà anche il finto conte polacco).

Da una carrozza si fa condurre nella Jodenbreetstraat, e insomma attraverso la Judenbuurt del ghetto – di cui viene offerta una vivida descrizione – giunge infine alla “Bottega delle Meraviglie”. Alla sua richiesta di parlare col principale, la commessa comunica che “il professore è partito ieri per un periodo di tempo indeterminato” ma Hauberrisser non stava chiedendole del ciarlatano balcanico: vorrebbe parlare qualche minuto con il vecchio signore ebreo dietro lo scrittoio. Lei ribatte che quella è una ditta cristiana, “gli ebrei non sono ammessi” e non ce n’era nessuno. Lui domanda allora chi sia il Chidher Grün citato nell’insegna, la ragazza ribatte allibita che il nome riportato è Zitter Arpád: e, uscito a controllare, Hauberrisser deve ammettere che è proprio così, la commessa ha ragione…

Confuso al punto da dimenticare lì il bastone da passeggio, l’ingegnere esce e si perde nei vicoli, tra edifici storti (pensiamo a quelle del Caligari), botteghe, cortili deserti dove “Tutto era come morto”. A un tratto si siede a riflettere domandandosi come sia possibile che lui, in fondo abbastanza giovane, ragioni come un vecchio. Fin oltre i trent’anni era stato schiavo delle passioni, ma forse la riflessività gli è cresciuta dentro in modo nascosto. Recupera dunque la pagina del manoscritto dal portafogli, e che trova singolare corrispondenza con le proprie meditazioni. La voce narrante considerava la propria ignoranza di essere stata padrona del proprio destino senza saperlo, per aver “sottovalutato la magica potenza dei pensieri”, considerando “l’azione un gigante e il pensiero una chimera. Ora, chi impara a muovere la luce può manovrare le ombre, e con loro il destino; chi cerca di ottenere ciò tramite le azioni è soltanto un’ombra che combatte inutilmente con le ombre”. Ma tutto questo viene generalmente poco capito: “È l’ambiguità della lingua che ci separa. […] noi osserviamo i precetti quando dovremmo infrangerli e li infrangiamo quando dovremmo osservarli”. Gli uomini troppo spesso sono “accecati da una falsa umiltà, che li fa indietreggiare terrorizzati e barcollanti come bambini dinanzi alla propria immagine riflessa, e temono di essere folli quando giunge l’ora… e il suo volto li guarda”.

Le frasi recano sollievo al Nostro. E in fondo, riflette, gli strani eventi legati al nome di Chidher Grün fanno di lui un fortunato. Pregusta le lettura del manoscritto ma ora deve correre al tè dell’amico. E succede qualcosa di curioso: non lontano dalla panchina gli appare, con la sua tuta, quel che risulterà l’apicultore del convento, “Lo sciame gli era scappato ma ora ha ripreso la regina”.

La storia proseguirà ancora a lungo, ma già è chiara sul piano stilistico l’enfasi espressionistica sul grottesco, i personaggi “caricati”, le visioni fantastiche, il tessuto di allegorie, metafore e simboli, con una serie di temi come la città mostruosa. Si è osservato come il primo capitolo, alla “Bottega delle Meraviglie”, costituisca in fondo una grande metafora del mondo, e i primi capitoli evocano il sapore di calamità che grava su tutto un orizzonte d’epoca.

L’ingegnere si avvia, giunge a una piazza e si fa condurre da un’auto a casa dell’amico. Tra le mille immagini sfreccianti lungo il percorso una sola gli resta fissa negli occhi, quella dello sciame recuperato attorno alla regina. Un simbolo: così in fondo, pensa, il suo corpo è uno sciame di cellule attorno a un nucleo nascosto. Se riuscirà a vedere sotto una luce nuova le cose rese mute dall’abitudine, si dice, il mondo risorgerà davanti ai suoi occhi.

(6-continua)

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