Mirella Mingardo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Rita Majerotti: maestra, femminista, militante comunista https://www.carmillaonline.com/2024/07/31/rita-majerotti-maestra-femminista-militante-comunista/ Wed, 31 Jul 2024 20:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83648 di Sandro Moiso

Mirella Mingardo, Rita Majerotti. La lunga militanza: dagli esordi all’immediato secondo dopoguerra, Pagine Marxiste, Serie viola Donne proletarie n° 1, Milano 2024, pp. 302, 15 euro.

Credo che si “nasca” socialisti, come si nasce poeti. (Rita Majerotti)

Con il primo fascicolo della «serie viola», dedicata alle biografie e alle storie di donne proletarie, prosegue l’impegno del collettivo politico-editoriale di Pagine Marxiste teso a riportare alla luce le vicende e le vita di tanti militanti comunisti che le sconfitte della Storia e le opportunistiche rimozioni da parte della Sinistra, anche non istituzionale, hanno contribuito a cancellare dalla memoria [...]]]> di Sandro Moiso

Mirella Mingardo, Rita Majerotti. La lunga militanza: dagli esordi all’immediato secondo dopoguerra, Pagine Marxiste, Serie viola Donne proletarie n° 1, Milano 2024, pp. 302, 15 euro.

Credo che si “nasca” socialisti, come si nasce poeti.
(Rita Majerotti)

Con il primo fascicolo della «serie viola», dedicata alle biografie e alle storie di donne proletarie, prosegue l’impegno del collettivo politico-editoriale di Pagine Marxiste teso a riportare alla luce le vicende e le vita di tanti militanti comunisti che le sconfitte della Storia e le opportunistiche rimozioni da parte della Sinistra, anche non istituzionale, hanno contribuito a cancellare dalla memoria di classe.

Il presente volume, ancora una volta è stato curato da Mirella Mingardo, studiosa e militante che in passato ha già pubblicato uno studio su Togliatti guardasigilli (Colibrì 1998), con lo scomparso Arturo Peregalli, mentre sempre per i tipi di Pagine Marxiste ha pubblicato I comunisti italiani e la guerra civile spagnola. La stampa clandestina 1936-1939 (nel 2016) e Cronache rivoluzionarie a Milano 192-1923. Dalla Sinistra socialista alla Sinistra comunista (2022).

La figura posta al centro dell’attenzione , in questo caso, è quella di Rita Majerotti, maestra ed esponente socialista e poi comunista di Castelfranco Veneto, la cui vita ha attraversato i primi sessant’anni del Novecento, sempre schierandosi spontaneamente dalla parte delle donne e della rivolta proletaria, dall’iniziale collaborazione con la stampa socialista alla fondazione del Partito comunista d’Italia fino agli anni oscuri del Fascismo e della controrivoluzione staliniana e alla ripresa politica post-bellica nell’illusione delle promesse togliattiane della democrazia partecipativa e del partito di massa.

Ma, sebbene gli studi su di lei non manchino, il suo nome resta ancora poco noto. Così la ricerca, che segue l’intera sua vita, dalla giovinezza all’età matura, e sul percorso politico – che poggia su indagini precedenti – è stata condotta con l’intento di dare voce a una donna che ha dedicato tutta la sua vita all’insegnamento e alla militanza nel PSI e nel PCd’I. Una militanza che aveva come obiettivo il raggiungimento di una svolta rivoluzionaria, che restituisse finalmente vita e dignità alla grande maggioranza, sfruttata e oppressa, delle donne e degli uomini.

Soprattutto alle donne proletarie, doppiamente sfruttate e oppresse, fuori e dentro casa, che la Majerotti, che aveva personalmente conosciuto, soprattutto durante il disgraziato primo matrimonio, sia lo sfruttamento lavorativo che la violenza, talvolta esplicita e talvolta implicita, connessa ai “doveri coniugali” oltre che la perdita, in tenerissima età, dei primi due figli sui quattro avuti da quel rapporto, richiamava al dovere di avvicinarsi alla politica; un dovere imposto proprio dall’amore, per garantire un diverso futuro alle successive generazioni.

La sua azione politica acquistò un peso rilevante sin dagli anni del primo conflitto mondiale e si svolse dapprima nella Frazione Intransigente del PSI, aderendo all’ala più a sinistra della corrente, e poi nella Frazione comunista Astensionista, collaborando in questo modo alla nascita del PcdI e stringendo rapporti con i suoi maggiori esponenti.

Azione e impegno che si svolsero lungo tre direttrici ben precise: quello del lavoro sindacale e ideale sul tema dell’istruzione popolare e del lavoro delle maestre (e dei maestri); quello della liberazione della donna e della sua sessualità e, last but not least, quello dell’organizzazione politica destinata a trasformarsi in azione rivoluzionaria per la liberazione della classe proletaria dai vincoli imposti dalle leggi dello sfruttamento capitalistico e borghese.

Le sue parole costituirono sempre un fiume incessante, mentre il suo messaggio rimase uguale nel tempo, espressione di una dedizione totale, nonostante l’emarginazione imposta dalla Direzione Centrista del partito – che colpì tutta la Sinistra – e le molteplici traversie che fu costretta a vivere, e a superare. Compresa la perdita del secondo compagno, Filippo D’Agostino fondatore del Partito comunista a Bari, con cui aveva condiviso idee e azione politica oltre che la vita famigliare, ucciso nel corso del 1944 con altri ventun compagni nel campo di concentramento e sterminio nazista in cui era stato trasferito dopo l’arresto avvenuto in Italia.

Ma era stato proprio durante il duro lavoro svolto come maestra, ai tempi della legge Casati, quando l’istruzione popolare costituiva più un obbligo formale che reale per lo Stato, sottoposta com’era al controllo delle amministrazioni locali e, soprattutto, della chiesa e dei suoi rappresentanti in loco, i parroci, che la giovane Rita aveva quasi immediatamente dovuto fare i conti con l’ipocrisia borghese e la mentalità conservatrice e anti-proletaria all’epoca dominante nelle città come nelle campagne.

Era nata a nel 1876 da una famiglia benestante in cui il padre, Eugenio Majerotti, anticlericale e garibaldino, era il direttore delle scuole urbane, mentre la madre, Elvira de Mori, fervente cattolica, vantava origini aristocratiche. Influenzata per lo più dalle idee del padre, dopo aver terminato gli studi magistrali, iniziò a insegnare nelle scuole elementari della campagna trevigiana, dove l posto non le venne rinnovato a causa delle sue idee laiche e per il suo metodo razionale.

Storia che si sarebbe ripetuta ancora altre volte, in un contesto in cui le giovani maestre erano spesso additate come persone dalla dubbia moralità, a causa della giovane età e indipendenza, proprio da quegli amministratori che riducevano drammaticamente e drasticamente i loro compensi, costringendole spesso a vivere in autentici tuguri e in condizioni di povertà, e dai parroci che ne combattevano lo spirito laico e razionale ogni qualvolta si presentasse nel corso dello svolgimento del loro lavoro. Entrambi, parroci e amministratori, alleati nel limitare i danni che una maggiore istruzione delle classi popolari avrebbe potuto arrecare all’ordine clericale e borghese all’epoca dominante.

Condizioni che, come spiega nelle sue pagine Mirella Mingardo, condussero alcune giovani maestre a togliersi la vita, sia per l’iniqua e ingiusta condanna morale ricevuta che per le condizioni di esistenza e lavoro quotidiano, con classi che giunsero all’epoca a sfiorare o superare i settanta allievi. E sarebbe stato proprio sulle pagine dei giornali locali socialisti o di quelli legati ai problemi della scuola che la Majerotti avrebbe avuto il proprio battesimo di scrittura critica dell’esistente su periodici socialisti come «La Fiamma», «Su compagne!», «La Nuova terra» e altri ancora.

Per la Majerotti «l’adesione “inconsapevole” al socialismo risaliva alle lotte contro un costume oppressivo e bigotto che le aveva procurato tanta sofferenza […] Nel Veneto chiuso e conservatore, in cui forte era l’influenza clericale, Rita, maestra rurale, precaria, sola, costretta ad alloggi meiserrimi, riteneva che l’insegnamento nelle scuole primarie fosse un’arma potente contro la “superstizione religiosa”, “la morale militarista della violenza” e il “diritto del più forte”»1.

Ma era costretta anche a rilevare come, nonostante il coraggio di poche che non temevano di manifestare la propria indipendenza di idee, la maggior parte delle insegnanti si facesse portavoce di valori tradizionali e cattolici. Cosicché non fossero infrequenti il rifiuto da parte delle famiglie di mandare i figli e, soprattutto, le figlie a scuola ed episodi di cacciata della maestra “indipendente” come simbolo del male. Motivo per cui, sulle pagine di «Il Maestro Mantovano», nel 1909, poteva scrivere: «A questo modo la scuola non è che polvere negli occhi, non è che un trucco vero.»

Sempre attenta alla condizione femminile, nel saggio su Sessualità e desiderio amoroso nell’uomo e nella donna, rilevava poi ancora come la formazione scolastica fosse il terreno indispensabile per la liberazione delle donne he avevano bisogno di “educazione e libertà” e di “indipendenza economica”, affinché le questioni morali non subissero un freno a causa di quelle economiche.

Dal 1 settembre 1913 al 6 giugno 1915 pubblicò a puntate su «La Difesa delle lavoratrici» un romanzo autobiografico con il titolo Pagine di vita (in seguito raccolto nel Romanzo di una Maestra), interrompendone la pubblicazione quando, col primo conflitto mondiale alle porte, la linea del giornale subì un cambiamento, su posizioni sempre più interventiste.

Mentre per la Majerotti la guerra avrebbe costituito sempre una questione politica dirimente, soprattutto dal punto di vista delle donne. L’eterno problema contro il quale il popolo femminile era chiamato a battersi, come scriveva nelle pagine del Romanzo di una Maestra, per affermare:

che la guerra è cosa infame e turpe, che il rispetto della vita umana è sacro, che ammazzare è sempre delitto atroce, che giacché tutti inneggiano alla pace, sia davvero la pace, non una grottesca turlupinatura e le armi sian fuse per lavoro industriale e produttivo e il denaro speso pel benessere dei nullatenenti e che ci lascino i nostri fratelli, i nostri sposi, i nostri figli adorati; siamo noi che dobbiamo rifiutarci (italiane, tedesche, inglesi, francesi, spagnole, russe o giapponesi) di darli in pasto alla barbarie di tempi passati2.

Ecco allora che il tema del “libero amore” e dell’indipendenza non soltanto economica delle donne si ricollegava direttamente ad un programma socialista degno di questo nome, mentre all’epoca era ancora visto negativamente dai partiti “di sinistra” anche se rivendicato da militanti rivoluzionarie come Inessa Armand e Aleksandra Kollontaj, nei cui scritti quella formulazione avrebbe trovato una formulazione più compiuta e articolata.

Rita giunse a conoscenza dell’opera della Kollontaj solo successivamente alla stesura sul saggio sulla sessualità e agli Appunti sull’amore e sulla libertà sessuale, in cui avrebbe affermato che i legami matrimoniali sarebbero stati “tanto più indissolubili” quanto più facile e “permesso” fosse stato poterli scioglierli. E aggiunto con linguaggio efficace e diretto: «Non più vittime ignorate d’amore, non più vergini cuori che languono […] non più venali contratti, matrimoni imposti, legami d’inferno che spingono alla pazzia e al delitto – per esclamare poi ancora – Maledizione all’ipocrisia vile che impone codesta società. Io l’accuso mezzana di tutte le bassezze, di tutte le turpitudini»3.

Dunque, più che di influenza diretta della rivoluzionaria russa su quella italiana, è possibile cogliere negli scritti della seconda comuni riferimenti ideali e politici, un’analoga aspirazione a coniugare libertà individuale e relazioni amorose. Per questi motivi avrebbe contribuito in seguito alla costituzione dei gruppi femminili comunisti, diventando, insieme al marito, una delle protagoniste dell’organizzazione del nuovo partito in Puglia. Cosa che, nel giugno 1921, la portò a far parte della delegazione italiana del PCd’I che partecipò al III Congresso dell’Internazionale Comunista.

Al suo rientro in Italia, a seguito di continui pedinamenti, aggressioni, arresti, decise con il marito di lasciare l’Italia e dal 1925 fu attiva nell’organizzazione dei fuorusciti italiani prima in Belgio e poi in Francia. Dopo il 1945 Rita Maierotti riprese brevemente l’attività politica nel Partito Comunista Italiano e partecipò alla fondazione dell’UDI, Unione Donne Italiane, prima di abbandonare definitivamente il sistema e il mondo contro cui aveva tanto lottato nel 1960.

Naturalmente la ricerca della Mingardo aggiunge ancora molti altri momenti, fatti e documenti nel descrivere una vita tutta dedita alla militanza, prima socialista e poi comunista, e alla causa femminista, ma qui importa in chiusura sottolineare come la causa della liberazione della donna sia indissolubilmente legata a quella della liberazione dal giogo capitalista e dalla sua morale, anche quando travestita di liberalismo e femminismo borghese.


  1. M. Mingardo, Rita Majerotti. La lunga militanza: dagli esordi all’immediato secondo dopoguerra, pagine Marxiste, Serie viola Donne proletarie n° 1, Milano 2024, p. 27.  

  2. R. Majerotti, Il romanzo di una maestra, p. 190 ora in M. Mingardo, op. cit., p. 30  

  3. M. Mingardo, op. cit., pp. 34-35.  

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La guerra: una questione divisiva, ma dirimente https://www.carmillaonline.com/2022/07/20/la-guerra-una-questione-divisiva-ma-dirimente/ Wed, 20 Jul 2022 20:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72976 di Sandro Moiso

Mirella Mingardo, Cronache rivoluzionarie a Milano (1912-1923). Dalla Sinistra socialista alla Sinistra comunista, Quaderni di pagine marxiste – serie rossa, 2022, pp. 540, 15 euro

Milano dell’Expo, Milano del Leoncavallo, Milano di “mani pulite”, Milano da bere, Milano dell’Autonomia operaia, Milano “nera”, Milano di via Mancini e dei compagni morti ammazzati nella primavera del 1975, Milano del Cub della Pirelli, Milano della strage di piazza Fontana e dell’assassinio di Giuseppe Pinelli, Milano ultima sede delle trattative prima della caduta di Mussolini… Poi la memoria pubblica e l’immaginario storico-politico sembrano [...]]]> di Sandro Moiso

Mirella Mingardo, Cronache rivoluzionarie a Milano (1912-1923). Dalla Sinistra socialista alla Sinistra comunista, Quaderni di pagine marxiste – serie rossa, 2022, pp. 540, 15 euro

Milano dell’Expo, Milano del Leoncavallo, Milano di “mani pulite”, Milano da bere, Milano dell’Autonomia operaia, Milano “nera”, Milano di via Mancini e dei compagni morti ammazzati nella primavera del 1975, Milano del Cub della Pirelli, Milano della strage di piazza Fontana e dell’assassinio di Giuseppe Pinelli, Milano ultima sede delle trattative prima della caduta di Mussolini…
Poi la memoria pubblica e l’immaginario storico-politico sembrano fermarsi, a meno di non risalire alle cannonate del 1898 e a Bava Beccaris, saltando a piè pari, o quasi, una stagione straordinaria di lotte e contraddizioni di classe e nella classe: quella intercorsa nel secondo decennio del ‘900, tra l’avvento di Mussolini alla direzione dell’«Avanti», la Prima guerra mondiale e la formazione del nucleo giovane e intransigente che avrebbe costituito una delle componenti più radicali della Sinistra socialista.

Bene hanno dunque fatto i compagni di «pagine marxiste» a ripubblicare in un unico volume due testi di Mirella Mingardo già precedentemente apparsi in altra edizione (Mussolini, Turati e Fortichiari. La formazione della sinistra socialista a Milano 1912-1918, edizioni Graphos, 1992 e 1919-1923. Comunisti a Milano. La Sinistra comunista milanese di Bruno Fortichiari e Luigi Repossi dalla formazione del Pcd’I all’ascesa del fascismo, pagine marxiste, 2011) rivolti a sottolineare l’importanza che la componente milanese di sinistra del Partito Socialista ebbe nelle lotte e nelle riflessioni che precedettero e accompagnarono lo sviluppo della frazione rivoluzionaria all’interno dello stesso. Fino e oltre la scissione di Livorno nel 1921 che diede vita al Partito Comunista d’Italia. Entrambi i testi erano da tempo esauriti e vengono oggi riproposti in un’edizione riveduta, ampliata, corretta e corredata da un vasto apparato di note biografiche cui hanno contribuito i redattori dell’Associazione Eguaglianza e Solidarietà.

La lettura si rivela immediatamente stimolante non soltanto dal punto di vista storico, ma anche propriamente politico, poiché quelle battaglie e quei fatti, soltanto apparentemente lontani nel tempo, servono ancora a mettere in evidenza carenze, errori e contraddizioni del nostro tempo. Così, anche se in precedenza non sono mancante le opere storiografiche destinate a ricostruire il travaglio politico e i conflitti sociali di quegli anni, i due testi di Mirella Mingardo permettono di ricostruire e collocare gli stessi temi ed avvenimenti in maniera tale da costituire ancora un termine di paragone per quelli attuali.

Prima di procedere nell’analisi dei contenuti, quello che occorre forse sottolineare è che la narrazione dei passaggi che portarono alla scissione del PSI e alla fondazione di un partito comunista rivoluzionario spesso ha privilegiato tre località “forti” per lo sviluppo della corrente più radicale del socialismo italiano di inizio ‘900 mettendo in risalto Torino, Napoli e Milano spesso nell’ordine qui appena esposto.

Se Napoli, descritta fin dall’Ottocento come la “polveriera d’Italia”1 e successivamente come uno dei principali centri di origine del Comunismo e del Fascismo2, aveva visto la presenza determinante di Amadeo Bordiga tra i giovani militanti che avrebbero intrapreso e guidato la lotta per la rivoluzione e il comunismo, curandone in particolare l’impostazione teorica, Torino, definita in un classico della storiografia del movimento operaio italiano come “operaia e socialista”3, ha fondato il suo primato, oltre che sulla combattività della sua classe operaia e del suo proletariato, sulla presenza di Antonio Gramsci, nonostante i tentennamenti che questi ebbe (insieme a Togliatti, all’epoca decisamente “interventista”) nei riguardi dell’opposizione ferma e radicale nei confronti del primo conflitto imperialista.

In entrambi i casi, però, le sezioni locali del partito socialista erano rimaste in mano alle posizioni riformistiche, mentre soltanto a Milano la sezione, fin da prima della guerra era stata diretta dalla frazione di Sinistra dello stesso partito. Il dubbio a cui si perviene, quindi, è che tale spostamento del baricentro della ricostruzione storiografica a favore di Torino sia stato dovuto, in un ambito di ricerca a lungo dominato dalla storiografia e dagli storici legati a doppio filo al PCI, alla necessità di far crescere a dismisura, dopo la sua morte, la figura e il ruolo svolta da Gramsci, e dall’«Ordine Nuovo», nella nascita e nella formazione del Pcd’I: sia per fornire a Togliatti una copertura autorevole per giustificare le sue infinite giravolte e tradimenti all’ombra della (tutt’altro che amichevole) figura di Gramsci4, sia per sminuire, se non proprio denigrare o rimuovere, le figure di Amadeo Bordiga e dell’ancor più odiato, se possibile, Bruno Fortichiari.

Bruno Fortichiari che si rivela essere, nell’ambito della ricerca di Mirella Mingardo, un autentico e intransigente promotore dell’organizzazione non soltanto del lavoro politico della sezione socialista milanese negli anni precedenti la prima guerra mondiale, ma anche dell’opposizione internazionalista alla stessa, una volta scoppiata. Insieme alla sua figura brilla, nell’ambito dell’ organizzazione e dell’agitazione svolta in senso internazionalista e antimilitarista, quella di Abigaille Zanetta (1875-1945), maestra socialista e agitatrice temutissima dalla prefettura milanese e dai vertici moderati e parlamentari socialisti dell’epoca.

Non a caso una donna, in una città e in un’epoca in cui, dall’Italia dei campi e delle fabbriche fino agli scioperi delle giovani operaie di Pietroburgo che diedero inizio alla rivoluzione di febbraio in Russia nel 1917, le donne lavoratrici di ogni età, con o senza famiglia, svilupparono azioni di lotta collettiva che pesarono enormemente sulle politiche dei partiti e le scelte, spesso repressive, degli Stati. Soprattutto prima e durante il primo vero macello imperialista che, oltre tutto, qui in Italia era stato già anticipata dalla guerra di Libia e dall’opposizione che nei confronti di questa si sviluppò in ambito socialista e anarchico.

Se tutta la ricerca sulla Sinistra socialista milanese è profondamente interessante nelle due parti che la compongono, per ragion di brevità, in questo contesto, si è valutato di soffermare maggiormente l’attenzione sulla prima parte, quella che si ferma al 1918 con la fine della guerra.
Periodo burrascoso che vedrà l’ascesa di Benito Mussolini e il suo conseguente allontanamento dal partito, l’affermazione di Fortichiari e dei compagni a lui più vicini alla guida della sezione socialista di Milano e, infine, anche il progressivo attestarsi della componente riformista, guidata da Filippo Turati e Anna Kuliscioff, su posizioni sempre più collaborazioniste con gli interessi del governo e del capitalismo italiano.

Il fatto veramente interessante, nella ricostruzione e analisi di quegli eventi e personaggi, è dato dal fatto che fino a quando la battaglia interna e sulle piazze sarà condotta sul piano della lotta economica e dei diritti dei lavoratori oppure della validità del suffragio universale o, ancora, della corruzione dei quadri parlamentari socialisti più orientati alla collaborazione filo-governativa o la loro appartenenza alla Massoneria, tutte le componenti riusciranno comunque a trovare un equilibrio, per quanto conflittuale, che permetterà alla struttura partito di procedere nel suo cammino. Anche se, come afferma l’autrice:

Sin dai primi mesi del 1912 la divisione già presente nell’ala destra del partito si rivelò insanabile, sia nel convegno nazionale contro la guerra organizzato a Milano dai riformisti di sinistra, che nel dibattito avvenuto alla Camera per ratificare il decreto reale di annessione della Libia. In questa sede i contrapposti interventi di Bissolati (che pur criticando l’impresa libica manteneva il suo appoggio al Ministero Giolitti) e di Turati (che espresse l’opposizione della sinistra alla politica governativa) sancirono pubblicamente la scissione fra i due riformismi5.

Di tale situazione poterono approfittare da una parte la Frazione rivoluzionaria, che nel giro di poco tempo riuscì a conquistare la maggioranza delle sezioni di un certo rilievo, anche se, come si afferma ancora nel testo, «l’ascesa dei rivoluzionari fu soprattutto “il frutto di uno sforzo di carattere organizzativo” che non corrispondeva ad un radicale rinnovamento “di idee e di programmi”»6. Dall’altra lo stesso Mussolini che, dopo esser da poco rientrato nelle fila del partito, al successivo XIII congresso del Partito Socialista, tenutosi a Reggio Emilia il 7 luglio del 1912, riuscì ad ottenere l’espulsione dal partito dei deputati Bissolati, Bonomi, Cabrini e Podrecca, individuati come rappresentanti della destra riformista.

Episodio che, dopo il tentativo fatto da Bonomi di presentare le scelte parlamentari della destra come sforzo di riconciliazione con lo Stato per «imbeverlo della forza operaia e popolare» in attesa di porre fine al «divorzio tra capitale e lavoro», sancì la prima significativa scissione nella storia del Partito Socialista7.
In tale contesto occorre cogliere l’affermazione delle forze più giovani e intransigenti del partito raccolte in buona parte nella federazione giovanile, ma anche «lo sviluppo di nuove forze sociali che la lunga depressione e la guerra libica avevano contribuito a creare»8.

Mentre già il primo conflitto mondiale andava accumulandosi a livello economico, militare e politico, fu possibile un breve periodo in cui le forze radicali interne al Partito socialista, il sindacalismo rivoluzionario e quello della Confederazione Generale del Lavoro poterono convivere, anche se in maniera spesso conflittuale, con l’ala riformistica del partito stesso.
Ma il colpo di pistola di Sarajevo del 28 giugno 1914 avrebbe significato non solo l’avvio di un conflitto tra imperi non più procrastinabile, ma anche il processo che avrebbe dato inizio al disfacimento della Seconda Internazionale e dello stesso partito socialista italiano.

Ed è proprio nel corso dell’anno che separò l’inizio delle ostilità tra le forze della Triplice Alleanza e della Triplice Intesa e l’entrata in guerra dell’Italia a fianco dell’Intesa, che tutti i nodi vennero al pettine, dimostrando come la questione dell’atteggiamento da tenersi nei confronti della guerra imperialista sia sicuramente estremamente divisiva ma, anche, dirimente più di qualsiasi altra sul piano delle politiche riformistiche, nazionaliste oppure rivoluzionarie.

Fa bene la Mingardo a sottolineare come Mussolini, indicato sempre come unico e vero traditore delle posizioni neutraliste del partito italiano, fosse in realtà in buona compagnia sia all’estero, dove i partiti socialisti tedesco e francese furono prontissimi ad approvare i crediti di guerra, sia in Italia dove sia all’interno del Partito che tra le altre forze di opposizione, sindacali e finanche anarchiche, furono tantissime le “conversioni” alla causa della guerra.

La prime contraddizioni inizieranno a manifestarsi proprio durante la cosiddetta “settimana rossa”, quando nel giugno del 1914, preceduta dagli scioperi dei ferrovieri e delle sigaraie, si sviluppò a partire da Ancora un movimento insurrezionale, che si estese in breve tempo ad altre regioni e che metteva insieme l’antimilitarismo con la protesta sociale per le condizioni salariali e di vita. Come annota la Mingardo:

Gli scontri sanguinosi della città marchigiana e la protesta spontanea che a macchia d’olio si estese in tutta la penisola non furono soltanto la reazione alla lunga serie di eccidi che distinsero l’Italia post-unitaria, ma rappresentarono nuovamente l’esplosione di una latente e disordinata carica rivoluzionaria delle forze proletarie.
Se sorprendente è l’assenza del partito, colto alla sprovvista dalla vastità del moto, ancor più sorprendente è l’assenza di Mussolini […] Il paese si rivolge al partito e al giornale, invoca una parola d’ordine, più volte preannunciata, “ma dietro la carta stampata dell’«Avanti!» non c’è niente”9

Citando Bozzetti, autore di Mussolini direttore dell’«Avanti!», aggiunge poi ancora: «Dopo aver predicato per anni la guerra, dopo aver identificato nel militarismo il nemico numero uno, dopo aver seminato l’odio contro le istituzioni militari […] quando scocca l’ora X Mussolini non è al suo posto»10.
L’ex-rodomonte socialista iniziava così a mostrare di che pasta fossero fatte le sue “radicali” affermazioni e a scivolare lungo il pendio che ben presto lo avrebbe portato tra le braccia dell’interventismo, del nazionalismo patriottardo e del militarismo stesso.

Il contesto in cui finirono col confrontarsi le differenti e irriducibili posizioni sulla guerra si rivela, attraverso le pagine del libro, non molto diverso da quello odierno, soprattutto per quanto riguarda il malessere che ben presto iniziò ad esplodere tra le classi popolari oltre che per il lento scivolamento verso la stessa proprio di quelle posizioni che pur volendosi “neutraliste” iniziarono a manifestare un atteggiamento decisamente anti-teutonico, pur dichiarandosi ancora non favorevoli ad un’entrata in guerra. Insomma un neutralismo che manifestava, nella sostanza una particolare avversione per uno dei contendenti del conflitto: quello austro-ungarico.

Posizione che iniziò a rivelare come le dichiarazioni indipendentiste e patriottiche di irredentisti come Cesare Battisti spingevano, inequivocabilmente, alla guerra nei confronti degli usurpatori delle “terre italiane”. Come afferma in un suo testo Luigi Cortesi, citato dall’autrice:

Questi atteggiamenti (anti-teutonici-NdR) ridimensionano qualitativamente la tradizionale leggenda di un PSI su posizioni coerentemente internazionalistiche. Il PSI – al di là del rigorismo formale di facciata – agì invece sul governo per evitare un possibile intervento a fianco degli Imperi Centrali e fin dall’inizio – esplicitamente o implicitamente – lasciò aperta la possibilità di un orientamento filio-intesista, differenziando in ogni caso subito le due parti belligeranti11

Mussolini nel frattempo, infiammando l’«Avanti!» con titoli come L’orda teutonica scatenata in tutta Europa, spingeva nella stessa direzione, oltre tutto rendendo ancora più evidente la sua tendenziosità nella cronaca bellica in cui, nonostante l’agosto del 1914 si fosse rivelato un mese di disfatte per gli eserciti dell’Intesa, i titoli del giornale socialista davano l’impressione che in realtà stessero vincendo. L’antitriplicismo però non era patrimonio del solo Mussolini poiché

da destra a sinistra il disorientamento percorreva il partito. Accanto alle dichiarazioni di alcuni riformisti (quali Treves12, Turati, Mondolfo, Graziadei) favorevoli alla “neutralità relativa”, emergevano le conversioni dei sindacalisti Alceste De Ambris, Filippo Corridoni, Decio Becchi, Livio Ciardi; dell’anarchica Maria Rygier13.

Mentre i partiti della cosiddetta sinistra finivano con lo schierarsi per un aiuto reale alle democrazie occidentali, l’unica voce a levarsi chiaramente contro la guerra fu quella di Amadeo Bordiga che, in un articolo pubblicato sull’«Avanti!»14, denunciava «le simpatie di “molti compagni” verso l’Intesa e demoliva le artificiose distinzioni tra guerra di offesa e guerra di difesa. La borghesia di tutti i paesi era la vera responsabile del conflitto o, meglio, lo era “il sistema capitalistico, che per le sue esigenze di espansione economica” aveva “ingenerato il sistema dei grandi armamenti”»15.

Bruno Fortichiari, collocandosi su altrettanto chiare posizioni intransigentemente antimilitariste e anti-imperialiste, poneva sullo stesso piano i blocchi contendenti, poiché l’Italia non doveva assolutamente lasciarsi «sedurre dalle sirene della Duplice Alleanza e della Triplice Intesa che indubbiamente prevedeva e attendeva l’aggressione per soffocare la Germania militarista e imperialista sì, ma anche forte concorrente nel campo industriale e coloniale»16.

Ma il testo edito da «pagine marxiste» ci rinvia al presente non soltanto dal punto di vista delle contrapposizioni ideologiche e politiche.

I paesi del vecchio continente non poterono sfuggire alla crisi generale che investì l’Europa allo scoppio della grande guerra. Sin dall’estate del 1914 l’economia italiana si trovò a fare i conti con il blocco navale inglese che impediva l’accesso nel Mediterraneo alla flotta della Triplice. Il provvedimento comportò l’aumento vertiginoso dei noli marittimi e “l’interruzione totale del traffico via mare da e per la Germania e l’Austria-Ungheria, e la più stretta dipendenza dall’Inghilterra per i rifornimenti”.
La mancanza di materie prime o il rallentamento nella loro fornitura, i provvedimenti governativi sulle restrizioni del credito e del commercio con l’estero, ebbero un’immediata ripercussione nell’economia: alle gravi carenze del mercato corrisposero il rialzo del costo della vita e l’aumento preoccupante della disoccupazione […] A peggiorare le condizioni di vita della sempre più numerosa popolazione disoccupata, contribuì la lievitazione del prezzo del pane. L’aumento incontrollato dell’alimento base fece scoppiare ovunque il grido di rivolta17.

Tumulti si ebbero a Bari, Caltanisetta, Napoli, Palermo, Catania, Pisa, Molfetta, Bitonto, Faenza con una forte presenza femminile all’interno delle stesse, spesso violente, manifestazioni affrontate con violenza superiore da parte dello Stato e con la dichiarazione dello stato d’assedio in alcune città coinvolte. Mentre, allo stesso tempo, il Governo e le forze di polizia permettevano e giustificavano le manifestazioni interventiste, spesso gonfiate artificialmente nei numeri ad uso della propaganda a favore della guerra.

Milano sia nel 1914 che nell’opposizione alle “radiose giornate di maggio” del 1915 fu spesso in prima linea con i suoi proletari, le lavoratrici e anche le donne della campagna circostante che protestavano sia per il peggioramento delle condizioni di vita che per il fatto che mariti e figli fossero stati richiamati o chiamati per la prima volta alle armi, aggravando così le già difficili condizioni economiche famigliari.

Di fronte all’inevitabile, la direzione del partito indirizzò al proletariato l’ultimo e drammatico manifesto inteso a separare le proprie responsabilità da quella delle correnti che avevano voluto la guerra. La lotta veniva rimandata al dopo, alla fine del conflitto. Il partito intanto si poneva “in disparte” – come scrisse l’«Avanti!» del 24 maggio 1915 – lasciando che la borghesia facesse la sua guerra18.

Fingendo una patina di nobiltà morale, la dirigenza socialista nazionale abbandonava definitivamente al suo destino un proletariato ancora combattivo che, però, avrebbe potuto essere indirizzato soltanto da un’organizzazione totalmente dedita al rovesciamento rivoluzionario dell’esistente, cosa che, certamente, il PSI non era e non voleva essere nella maggioranza della sua rappresentanza parlamentare e intellettuale.

Ma a gettare ancora benzina sul fuoco mai spento delle braci insurrezionali e rivoluzionarie giunsero nel 1917 le notizie provenienti dalla Russia e dalla rivoluzione che si era andata sviluppando colà. Fu così che nel maggio dello steso anno a Milano e poi ad agosto a Torino tornarono a svilupparsi violente azioni di massa contro la guerra, in cui la classe operaia, ancor prima dei militanti del partito fu in prima linea e sulle barricate.

E proprio a Milano, durante quelle manifestazioni portate avanti in maniera estremamente dura proprio dalle donne, Turati ebbe modo di osservare quaanta fosse la distanza che ormai separava l’ala riformista dalle masse che pretendeva di rappresentare in parlamento.
«Vogliono far la pelle ai signori – scrisse infatti ad Anna Kuliscioff – fra i quali, beninteso, siamo anche noi»19.

Prima della spesso e oggi fin troppo bistratta scissione del 1921 a Livorno, a rompere con il riformismo del PSI fu prima di tutto il proletariato delle grandi città industriali oppure trasferito al fronte e in divisa nel 1917.
Poi, nel novembre dello stesso anno, arrivò anche la risposta di migliaia di soldati italiani che autonomamente, e ancora una volta lasciati soli e privi di qualsiasi indicazione politica, abbandonarono il fronte e le trincee a Caporetto. Mettendo in pratica, senza magari neppure conoscerla, la parola d’ordine che era corsa lungo i fronti di guerra a partire dalla Francia: Facciamo come in Russia!

Ma la direzione nazionale del partito e Turati in particolare avrebbero continuato a procedere sulla linea di una sempre più stretta collaborazione col Governo in carica, sventolando la bandiera della “necessaria solidarietà” nei confronti dei profughi in fuga dal territorio profondo 70 chilometri in cui erano penetrate le truppe della Duplice, occupandolo. Un vero record nello sfondamento delle linee, visto che all’epoca la guerra permetteva di avanzare al massimo di qualche centinaio di metri al giorno.

La mobilitazione governativa e poliziesca affinché lo scontento interno non raggiungesse i soldati delle trincee si era già manifestata precedentemente, mentre i ferrovieri trasportavano verso le truppe al fronte i volantini inneggianti alla protesta e alla rivolta che la Sinistra intransigente cercava di diffondere a tutti i livelli. Nelle fabbriche, d’altra parte, il clima era diventato irrespirabile per le maestranze, poiché anche i lavoratori dovevano ormai rispondere ad un’autentica mobilitazione e militarizzazione del lavoro, in cui anche gli scioperi avrebbero potuto esser trattati come tradimento e diserzione.

Michele Fatica, citato dalla Mingardo, ha scritto in proposito:

Niente poteva essere più ben accetto alla borghesia industriale quanto la riduzione dell’operaio salariato alla condizione di lavoratore forzato. I dipendenti delle aziende dichiarate ausiliarie passano sotto la giurisdizione militare, quindi gli scioperi e le assenze ingiustificate vengono configurati come reati di ammutinamento o di diserzione20.

Dopo Caporetto alla vigilanza poliziesca e militare si aggiunse l’appello dei riformisti e di Turati alla collaborazione per un “governo di unità nazionale” per superare il ”difficile momento”. In antitesi con le affermazioni di Abigaille Zanetta, che aveva sostenuto che i socialisti dovevano «guardare a tutto ciò che si agita e si muove nelle masse, col proposito di assisterle, solidarizzare con esse, per averle collaboratrici al raggiungimento dei nostri ideali», Turati aveva già precedentemente affermato che «”solo l’isterismo e l’impulsività” potevano consigliare movimenti di folle, mentre l’azione del partito socialista doveva esser guidata “dalla riflessione e dalla ragione”»21.

Nell’estate precedente Caporetto, Lazzari (segretario del PSI dal 1912 al 1919) aveva rivendicato al partito “una tradizione di miglioramento sociale e di bontà” che non permetteva di contestare “il naturale sentimento di preferenza e di amore per il paese natio”, mentre dal fronte della futura frazione comunista la Zanetta

si soffermò sull’annoso dibattito riguardante il rapporto tra socialismo e patria e, negando a quest’ultima la propria “essenza”, sostenne “la necessità di demolirla”. L’oratrice inoltre affermò che la pace non doveva essere il fine ultimo del partito, anzi, a guerra conclusa, questo doveva “approfittare dei momenti di debolezza della classe capitalista per abbatterla” e facilitare l’avvento del socialismo22.

Bordiga già in precedenza aveva negato che compito del partito fosse quello di risolvere i problemi creati dal capitalismo stesso e che questo era impossibilitato, per proprie dinamiche, a risolvere.
Tutte queste affermazioni dimostrano che l’opposizione di sinistra era ormai passata ad una «matura scelta di classe che la guerra aveva contribuito a far emergere»23.

Lo spazio concesso da un articolo e da una recensione impediscono di approfondire maggiormente l’analisi di un testo che si rende indispensabile per chiunque voglia non solo approfondire la storia del movimento operaio e della Sinistra Comunista, ma anche per tutti coloro che, nella confusione oggi imperante sul tema della guerra, vogliano trovare un modello comportamentale e di analisi che superi con un subitaneo colpo d’ala tutte le inutili discussioni su guerra di aggressione o di difesa “dei patri confini”, diritti “umani” e tutte le altre infingardaggini liberal-democratiche che offuscano la reale funzione della guerra nella stagione, non ancora finita, degli imperialismi che già avevano infiammato i fronti europei di inizio ‘900, ottenendo però allora una ben diversa risposta politica e di classe. A Zimmerwald, Kienthal, Pietrogrado, Milano e Caporetto.

Poiché oggi come allora, la guerra tra stati e imperi, a differenza di quanto troppo spesso si afferma o si crede, non costituisce affatto un’eccezionalità in regime capitalistico, l’azione contro la stessa non può essere guidata ad un’impossibile unità di intenti tra forze agite da interessi diversi tra di loro, ma soltanto da una chiara visione del suo divenire e del necessario superamento delle contraddizioni insite nel modo di produzione che l’ha generata come inevitabile conseguenza della sua sfrenata ricerca di controllo delle ricchezze, dei mercati e delle risorse disponibili a livello planetario (lavoro umano compreso).


  1. Si veda: Giulio De Martino, Vincenza Simeoli, La polveriera d’Italia. Le origini del socialismo anarchico nel Regno di Napoli (1799-1877), Liguori Editore, Napoli 2004  

  2. Si veda ancora: Michele Fatica, Origini del fascismo e del comunismo a Napoli (1911-1915), La Nuova Italia Editrice, Firenze 1971  

  3. Paolo Spriano, Storia di Torino operaia e socialista. Da De Amicis a Gramsci, Einaudi, Torino 1958  

  4. Si vedano: Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca. Il carteggio del 1926, (a cura di Chiara Daniele), Einaudi, Torino 1999 e Giancarlo Lehner, La famiglia Gramsci in Russia, Mondadori, 2008  

  5. M. Mingardo, Cronache rivoluzionarie a Milano (1912-1923). Dalla Sinistra socialista alla Sinistra comunista, Quaderni di pagine marxiste – serie rossa, 2022, pp. 25-26  

  6. M. Mingardo, op. cit., p. 26  

  7. op. cit., p. 27  

  8. Ibidem, p. 26  

  9. Ibid., p.99  

  10. G. Bozzetti, Mussolini direttore dell’«Avanti!», Feltrinelli 1979, pp. 160-163 cit. in Mingardo, op.cit., p. 99  

  11. L. Cortesi, Le origini del PCI. Vol. I Il PSI dalla guerra di Libia alla scissione di Livorno, Laterza 1977, pp. 86-87, cit. in Mingardo, op. cit., p. 108  

  12. Che avrebbe dichiarato che la neutralità non era “un dogma, un imperativo categorico” e che “il vantaggio che oggi si conclama domani può non ravvisarsi più”. Non neutralità “passiva” dunque, ma “attiva ed energica” in La nostra neutralità, «Critica Sociale» (rivista teorica del partito diretta da Filippo Turati), 15-31 agosto 1914  

  13. M. Mingardo,op. Cit., p.109  

  14. A Bordiga, In tema di neutralità. Al nostro posto!, «Avanti!», 13 agosto 1914  

  15. M. Mingardo, op. cit., p. 111  

  16. B. Fortichiari, Abbasso la guerra!, «La Battaglia Socialista», 12 settembre 1914 cit. in Mingardo, op. cit., p.115  

  17. ibidem, pp140-141  

  18. ibid., p. 166  

  19. F. Turati-a. Kuliscioff, Carteggio, vol.IV. 1915-1918. La grande guerra e la rivoluzione, p. 501, lettera del 3 maggio 1917, cit. in Mingardo, op.cit., p. 206  

  20. M. Fatica, Origini del fascismo e del comunismo a Napoli (1911-1915), La Nuova Italia Editrice, Firenze 1971, p.428 cit. in Mingardo, op. cit, p.210  

  21. Mingardo, op. cit., p.213  

  22. ibidem, p.225  

  23. ibid., p.226  

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Il nuovo disordine mondiale / 14: Per disertare i due fronti, una riflessione https://www.carmillaonline.com/2022/05/12/il-nuovo-disordine-mondiale-14-una-riflessione-per-disertare-i-due-fronti/ Thu, 12 May 2022 20:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71871 di Sandro Moiso

In tempi cupi di guerra, in cui i paragoni e i paralleli tra guerra in Ucraina, Resistenza e guerra civile spagnola si sprecano e mentre le tentazioni da tifoseria calcistica si infiammano tra quegli stessi militanti che semplicemente alla guerra dovrebbero opporsi senza voler a tutti costi prender parte allineandosi a uno dei due fronti in lotta, potrebbe essere utile la lettura di una ricerca condotta alcuni anni or sono da Mirella Mingardo sul dibattito, e le conseguenti scelte politiche, che si svolse tra le fila dei militanti comunisti [...]]]> di Sandro Moiso

In tempi cupi di guerra, in cui i paragoni e i paralleli tra guerra in Ucraina, Resistenza e guerra civile spagnola si sprecano e mentre le tentazioni da tifoseria calcistica si infiammano tra quegli stessi militanti che semplicemente alla guerra dovrebbero opporsi senza voler a tutti costi prender parte allineandosi a uno dei due fronti in lotta, potrebbe essere utile la lettura di una ricerca condotta alcuni anni or sono da Mirella Mingardo sul dibattito, e le conseguenti scelte politiche, che si svolse tra le fila dei militanti comunisti italiani al deflagrare della guerra di Spagna.

In particolare la parte dedicata all’analisi che la Sinistra comunista italiana svolse in diretta sull’evoluzione dei fatti che avevano preceduto e accompagnato i primi momenti di quella guerra sulle pagine delle due riviste che la frazione italiana redigeva all’estero: «Prometeo» e «Bilan»1.

La Sinistra comunista, l’organizzazione che si richiamava al Partito comunista d’Italia negli anni della sua fondazione, prima che le imposizioni di Mosca ne cambiassero la natura, si poneva a sinistra del PCI. Quest’area, definita genericamente bordighista, con la scissione avvenuta al suo interno, nel luglio 1927, aveva visto una separazione tra il gruppo facente capo a Michelangelo Pappalardi – che si richiamava alle posizioni critiche di Rosa Luxemburg nei confronti del potere bolscevico – e la maggioranza facente capo a Ottorino Perrone, detto Vercesi, che per sfuggire alle persecuzioni fasciste riparò a Parigi nel 1926, divenendo il punto di riferimento dei compagni. Il gruppo di maggioranza, che si richiamava a Perrone, nel 1928 a Pantin, nelle vicinanze di Parigi, si costituì in frazione, e si definì “Frazione di sinistra del Partito comunista d’Italia”.

Il sollevamento degli operai spagnoli contro la rivolta militare che, nelle giornate di luglio del 1936, aveva dato inizio alla guerra civile, fu motivo di dibattito nella Frazione. Mentre una parte vedeva nell’insurrezione spontanea un inizio di rivoluzione, l’altra, al contrario, la riteneva un tumulto sanguinoso, impossibilitato a tramutarsi in una lotta rivoluzionaria. Tra i due gruppi prevalse quest’ultima corrente che, minoritaria da principio, divenne maggioritaria e faceva riferimento, oltre che a Perrone, a Virgilio Verdaro, che aveva partecipato alla fondazione del Pcd’I.

La maggioranza considerava la Spagna un paese capitalistico che, in quanto tale, avrebbe dovuto proiettarsi verso una rivoluzione comunista, ma mancava di un elemento essenziale: il partito rivoluzionario. Essa riteneva infatti che né il POUM né la CNT potevano dirsi forze realmente rivoluzionarie. Riteneva inoltre che il dirottamento delle masse proletarie, in rivolta contro la sollevazione nazionalista, nell’alveo del Fronte popolare e l’intervento dei paesi stranieri, Germania e Italia da una parte e URSS dall’altra, avevano ormai trasformato la guerra civile in guerra imperialista. Nel conflitto non vi erano due classi che si scontravano, ma due fazioni all’interno della stessa borghesia spagnola, con il sostegno dei due opposti blocchi imperialisti. Mentre Franco attaccava militarmente, le forze borghesi, che guidavano la Repubblica, manovravano e usavano i lavoratori, e li disarmavano ideologicamente.

In questo gioco il POUM e la CNT assumevano un ruolo importante nell’arruolamento degli operai per il fronte. Le due organizzazioni divenivano pertanto delle «pedine» nelle manovre del capitalismo che, per loro tramite, faceva «credere» al proletariato che si combatteva per il socialismo o l’anarchia. “Bilan”, il mensile della Frazione, pubblicato a Bruxelles dal 1933, metteva in luce come alla fine di luglio l’esercito repubblicano si fosse di fatto «dissolto», e come, invece, grazie al POUM, agli anarchici e al PSUC stalinista, il Partito socialista unificato della Catalogna, esso si fosse «ricostituito gradualmente con le colonne dei miliziani», il cui stato maggiore restava nettamente borghese.

Un motivo che, secondo la maggioranza della Frazione, induceva a sopravvalutare la sollevazione spagnola era dato soprattutto dagli esempi di collettivizzazione delle fabbriche e delle terre; in realtà questi episodi non potevano contribuire ad un rivolgimento sociale, in quanto non erano supportati da una rivoluzione politica per la conquista del potere sotto la guida del proletariato. «La socializzazione di un’impresa – ammoniva “Bilan” –, che lasci intatto l’apparato statale, costituisce l’anello di una catena che blocca il proletariato dietro il proprio nemico». Infine, le violenze e le distruzioni perpetrate contro i detentori di capitali, i preti, i proprietari fondiari, non avevano nulla di rivoluzionario: «La distruzione del capitalismo non è la distruzione fisica, anche se violenta delle persone che incarnano il regime, ma la distruzione del regime stesso».

In un momento in cui arruolarsi in difesa della libertà e contro il fascismo erano le parole d’ordine, il gruppo maggioritario contrapponeva, all’adesione al fronte repubblicano, la diserzione degli eserciti e invocava la fraternizzazione dei soldati, chiedendo di non andare ad offrire il proprio tributo nelle colonne internazionali e nelle milizie; raccomandava quindi di intraprendere la sola lotta possibile: la lotta contro la borghesia, favorendo l’insurrezione degli operai e la paralisi degli eserciti. «A chi ci dice che dobbiamo essere dove i proletari si battono, noi rispondiamo che combatteremo per ritirare fino all’ultimo operaio da queste armate di Unione Sacra, che lavorando accanitamente in Spagna e negli altri paesi, noi combattiamo per distruggere la macchina capitalista dell’oppressione, quella da cui sgorga fascismo ed antifascismo, per battere la borghesia, per cacciarla dalla comoda finestra che essa occupa attualmente e dove può fregarsi esultante le mani contemplando la carneficina del proletariato spagnolo ed internazionale.»

Un certo numero di militanti della Frazione, quelli che si ritrovavano nelle scelte della minoranza (sorta nel luglio del 1936 in occasione del dibattito sulla guerra in corso in Spagna, e facente riferimento ai napoletani Enrico Russo e a Mario De Leone, rifugiato a Marsiglia), partì invece per Barcellona dove fondò la Federazione Barcellonese della Frazione italiana della sinistra comunista e prese contatti con il POUM e con la CNT.

Giunto in Spagna, Enrico Russo, che era stato capitano durante la prima guerra mondiale, raccolse una cinquantina di compagni (circa venti trotskisti e una trentina di bordighisti italiani residenti in Belgio e in Francia), formando la “Colonna Internazionale Lenin” aderente al POUM, ne assunse il comando, andando a combattere sul fronte di Huesca. In agosto partì anche Mario De Leone, incaricato dalla Federazione marsigliese di recarsi in Catalogna come osservatore.

La minoranza di Russo e De Leone riteneva che le conquiste rivoluzionarie, economiche e sociali, delle giornate di luglio, fossero tali da imporre a ogni militante il dovere di battersi accanto al proletariato spagnolo contro il fascismo; poi la lotta sarebbe proseguita contro la democrazia e i suoi rappresentanti. Nella prima fase, scriveva un militante che si firmava Il Maremmano, «lotta armata contro la reazione che attacca e distrugge esistenze e organizzazioni, lotta politica contro la democrazia di fronte popolare e antifascismo denunziando al proletariato il ruolo che essa giuoca per salvaguardare le istituzioni borghesi ed i suoi privilegi, solo nella seconda fase quando il proletariato si sarà liberato della reazione di destra passare all’attacco frontale della democrazia che vorrà certamente opporsi alla distruzione completa delle istituzioni borghesi.»

Da principio, dinanzi a questa precisa scelta, non fu presa da parte della maggioranza, alcuna misura di espulsione. La minoranza, costituitasi in “Comitato di Coordinazione”, in un suo comunicato, approvava l’atteggiamento dei compagni che si erano recati in Spagna a difendere anche con le armi la rivoluzione, considerava già poste le condizioni per una scissione e rinviava la soluzione delle divergenze a un prossimo congresso. Ma in ottobre, con la militarizzazione delle milizie, i membri della minoranza che erano presenti in Spagna decisero di sciogliersi e, in seguito, la maggior parte di loro tornò in Francia2.

Quest’ultima parte è approfondita in un altro testo, di Augustín Guillamón Iborra, a cura del Centro Studi Pietro Tresso3, ma ciò che va qui sottolineato è che nel momento stesso in cui l’intervento dell’Internazionale Comunista stalinizzata e dell’URSS nella guerra spagnola iniziava a costruire strutture militari più rigide e autoritarie, mirando a inquadrare le formazioni militari “rivoluzionarie” all’interno di un esercito maggiormente controllato dalla borghesia spagnola e dagli inviati di Mosca, per i compagni che pur erano accorsi tra i primi a fianco dei proletari e contadini spagnoli apparve evidente il rintocco della campana a morto per tutta quella esperienza.

Campana a morto che risuonò tragicamente prima con le giornate di Barcellona durante le quali gli stalinisti imprigionarono e massacrarono i militanti del POUM e anarchici e, successivamente, nell’abbandono dei lavoratori spagnoli al loro destino dopo la sconfitta della Repubblica ad opera delle forze franchiste e la firma del trattato di non aggressione decennale Ribbentrop – Molotov, tra URSS e Germania nazista, il 23 agosto 1939.

Se in un primo momento il dibattito sviluppatosi all’interno della Frazione, i cui militanti dissidenti furono tra i primi a giungere in Spagna per combattere contro il fascismo di Franco, aveva dimostrato la complessità delle valutazioni di carattere tattico e strategico in un contesto in cui una guerra di carattere nazionalista e, successivamente, imperialista aveva contribuito alla sollevazione in armi degli operai e all’istituzione di consigli di fabbrica e comuni contadine che ridistribuivano le terre ai campesinos, la valutazione dell’abbandono del campo di battaglia da parte di coloro che pur avevano rotto con la Frazione agli albori della guerra dimostrò l’evidenza dell’inutilità della partecipazione ad una guerra che si era sviluppata a partire da esigenze borghesi o nazionaliste, in un contesto in cui i proletari e rivoluzionari, pur coraggiosissimi, avrebbero funzionato soltanto come carne da cannone.

Se tutto ciò è possibile dire oggi, ed era già possibile dire allora, in una situazione in cui l’attività e iniziativa proletaria e rivoluzionaria avevano per un periodo contribuito a determinare gli avvenimenti e ad accendere le speranze del proletariato europeo e internazionale, come si può pensare adesso, anche solo lontanamente, che lo stesso sacrificio possa essere messo in pratica da militanti, che si ritengono rivoluzionari, sia sul fronte del Donbass che su quello della “resistenza” ucraina, entrambi determinati da ben precisi interessi ed iniziativa di carattere imperiale, come l’altolà dato dal segretario generale della NATO Stoltemberg a Zelensky sulla possibilità di intavolare negoziati con la Russia ha confermato? Oppure si vuol ancora credere che nelle repubbliche indipendentiste sia in atto una nuova Comune, autonoma dalle scelte putiniane che hanno visto invece inquadrare nelle proprie operazioni militari le milizie di quelle due regioni?

Oltre tutto, l’unico parallelo che è oggi possibile tracciare con la guerra di Spagna è dato dal fatto che, esattamente come in quella, nell’attuale guerra si stanno sperimentando le tecniche, anche di comunicazione, e le armi destinate a contraddistinguere i futuri scenari di guerra europea e mondiale. Mettendo a confronto una tattica militare di carattere ancora novecentesco, come quella messa in atto dalle forze armate russe, con una più avanzata che gli Stati Uniti e i loro alleati più stretti hanno messo fino ad ora in atto soltanto su scala ridotta4, ma ora utilizzata su scala allargata nei confronti di un esercito regolare “tradizionale”.

Allora, meglio meno ma meglio per un movimento che voglia dirsi ancora antagonista e che, per rimanere effettivamente tale, dovrà affidarsi al buon vecchio antimilitarismo di classe. Quello che incita alla diserzione e all’affratellamento dei militari degli eserciti contrapposti e alla successiva o contemporanea rivolta sociale contro i rispettivi governi, di cui alcuni episodi avvenuti sul campo e la fuga di migliaia di giovani sia dalla Russia che dall’Ucraina per sfuggire alla chiamata di leva, sempre meno pubblicizzati, tenderebbero già a dimostrare una seppur remota possibilità5.

Di che reggimento siete
fratelli?
Parola tremante
nella notte
Foglia appena nata
Nell’aria spasimante
involontaria rivolta
dell’uomo presente alla sua
fragilità
Fratelli.

(Giuseppe Ungaretti – Mariano, 15 luglio 1916)

(14 – continua)


  1. Mirella Mingardo, I comunisti italiani e la guerra civile spagnola. La stampa clandestina (1936 – 1939), Quaderni di pagine marxiste – serie bianca, Milano 2016, pp. 246 – qui anche la sua versione disponibile on line  

  2. Sintesi delle pp. 99 – 104 del testo di Mirella Mingardo  

  3. Augustín Guillamón Iborra, I bordighisti nella guerra civile spagnola, in “Quaderni del Centro studi Pietro Tresso, Serie: Studi e ricerche, n. 27, 1993  

  4. Ad esempio l’uso su larga scala degli omicidi mirati tramite missili e droni, utilizzata precedentemente nei confronti di leader e comandanti militari iraniani, libanesi e palestinesi, ma oggi adottata nei confronti dei vertici militari russi  

  5. Si veda, a titolo di esempio, Daniele Raineri, Quei soldati ucraini allo sbando nel bosco. “Morale a pezzi, vogliamo andare a casa”, «la Repubblica» 30 aprile 2022 oppure i vari episodi riguardanti i militari russi che si rifiuterebbero di combattere sabotando i propri mezzi e disobbedendo agli ordini impartiti dall’alto o, ancora, il sabotaggio degli uffici di reclutamento in Russia – qui  

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L’anno degli anniversari /1921 – 2021 : Nascita del PCd’I https://www.carmillaonline.com/2021/09/01/lanno-degli-anniversari-1-1921-2021/ Wed, 01 Sep 2021 21:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67842 di Sandro Moiso

AA.VV. (a cura della Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria), Livorno Ventuno. A cent’anni dalla scissione di Livorno. La nascita del Partito Comunista d’Italia, Milano, aprile 2021, pp. 270, 10 euro

Giangiacomo Cavicchioli, Emilio Gianni (a cura di), PCd’I 1921. 100 anni. 100 militanti del Partito Comunista d’Italia, edizioni Lotta Comunista, Milano, dicembre 2020, pp. 304, 10 euro

Degli anniversari che sono giunti a scadenza nel corso del 2021 quello del centenario della fondazione del Partito Comunista d’Italia, avvenuta a Livorno il 21 gennaio 1921, è stato forse uno dei meno ricordati [...]]]> di Sandro Moiso

AA.VV. (a cura della Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria), Livorno Ventuno. A cent’anni dalla scissione di Livorno. La nascita del Partito Comunista d’Italia, Milano, aprile 2021, pp. 270, 10 euro

Giangiacomo Cavicchioli, Emilio Gianni (a cura di), PCd’I 1921. 100 anni. 100 militanti del Partito Comunista d’Italia, edizioni Lotta Comunista, Milano, dicembre 2020, pp. 304, 10 euro

Degli anniversari che sono giunti a scadenza nel corso del 2021 quello del centenario della fondazione del Partito Comunista d’Italia, avvenuta a Livorno il 21 gennaio 1921, è stato forse uno dei meno ricordati e/o pubblicizzati, in un contesto in cui sempre più memoria e retorica pubblicitaria, ancor più che pubblica, sembrano coincidere, soprattutto tra i confini politico-culturali di un’italietta semper giolittiana. Così, come affermano i curatori di uno dei due testi dedicati all’argomento che si vogliono qui proporre all’attenzione dei lettori:

Il centenario della nascita del PCd’I, nonostante i “de profundis” sul comunismo cantati a più riprese da destra e da “sinistra”, ha comunque sollecitato sul tema iniziative editoriali ed articoli di vario genere.
“Il Fatto Quotidiano”, sponsor di una nuova “alleanza progressista” tra PD e M5S, ha colto l’occasione di riallacciarsi a quell’evento per incanalarlo subdolamente nel filone (interrotto) di un PCI “nazionale” e genuinamente “riformista”, che con la sua nascita avrebbe riscattato un riformismo socialista storicamente privo di “passione” e della “centralità delle masse”. Gli articoli di Giovanni De Luna (8/01/2021) e di Gad Lerner (15/01/2021) vanno esattamente in questa direzione. Livorno 1921 costituirebbe insomma una tappa fondamentale della opposizione coerente al fascismo, e la base della Resistenza armata ad esso; nonché la lontana fonte della Costituzione repubblicana (da difendere anche oggi) in nome dei diritti delle classi più povere. Su tale “patrimonio” si vorrebbe “rivitalizzare” qui in Italia un “nuovo riformismo” (senza riforme), adatto alla “gestione equa” di questa crisi epocale del capitalismo. E’ un togliattismo di “ritorno”, ad uso e consumo di politiche borghesi lontane mille miglia dai propositi dei comunisti del ’21; nonostante gli articolisti sopra citati si peritino di non cadere nelle infami “vulgate” secondo cui –ad esempio- la scissione comunista avrebbe “aperto la strada alla vittoria del fascismo”…
Non potendo in questa sede occuparci di una critica più dettagliata di queste ed altre “rivisitazioni” della nascita del PCDI, ci preme solo mettere in evidenza come la “fede rivoluzionaria che animò i fondatori” del partito –DI QUEL PARTITO, E NON DI QUELLO DI TOGLIATTI- fede che Gad Lerner dichiara di apprezzare, non diventerà mai un accessorio del riformismo (vecchio e nuovo).
Essa è un patrimonio esclusivo dei comunisti perché è legata alla lotta per rivoluzionare l’attuale sistema sociale. Su ciò le distanze tra riformisti e rivoluzionari rimangono incolmabili. Esattamente come a Livorno nel 19211.

Oggi, infatti, ricordare quell’evento non significa soltanto celebrare la nascita di un vecchio arnese partitico ormai morto, da molti anni a questa parte, a causa di un male incurabile. Significa piuttosto marcare la distanza che separò, e ancora separa, i giovani rivoluzionari internazionalisti che diedero vita alla scissione di Livorno2 da coloro che, tradendone origini e prospettive, riportarono quel giovane partito, tra le altre cose nato astensionista, sui binari del nazionalismo, del politicantismo elettoralistico e del riformismo borghese travestito da “comunismo”. Soprattutto significa ricordare quale autentico disastro abbiano rappresentato le successive svolte e giravolte della Terza Internazionale stalinizzata.

Il frutto delle rivoluzioni sorte dalla tradizione più avanzata del movimento operaio e del marxismo più genuino, oltre che delle feroci lotte di classe sviluppatesi prima, durante e subito dopo il primo grande macello imperialista, nell’arco di poco meno di un decennio, sostanzialmente tra il 1926 (Congresso di Lione, per quanto riguarda il PCd’I) e il 1936 (anno di inizio dei grandi processi di epurazione moscoviti), sarebbe stato soffocato e sottoposto ad una brutale e mostruosa trasformazione politica ed economica, repressiva e mortale per coloro che osarono coraggiosamente contrapporvisi, che avrebbe partorito, prima, l’allineamento di tutti i partiti comunisti alle direttive di Stalin e della burocrazia bolscevica e, dopo, la separazione nazionalistica di partiti non più “fratelli”, ma divenuti ormai espressione dei singoli interessi nazionali e borghesi.

Così la blasfema teoria del “socialismo in un solo paese” riuscì a spacciare lo sviluppo industriale ed economico di stampo capitalistico e, susseguentemente, imperialistico come socialismo, se non addirittura per comunismo, mentre i suoi tentacoli avvelenati si sono protesi fino ai nostri giorni, viste le numerose cantonate che vengono ancora prese, anche in ambienti non sospetti, nei confronti della Cina, del suo Partito dominate e della sua economia.

Un effetto mortifero che ha contribuito più di ogni altra reazione o controrivoluzione fascista alla sconfitta o, per lo meno, ad un radicale ridimensionamento dell’originale ideale comunista.
Nelle analisi contenute nei due testi è possibile ricostruire quelle lontane origini del partito che avrebbe dovuto essere della Rivoluzione e che, grazie alle svolte “tattiche” qui appena accennate, si sarebbe invece trasformato in uno dei principali strumenti della Reazione e della Controrivoluzione.

Entrambi i testi ricostruiscono, con ricchezza di dati e documenti (per questi soprattutto quello curato dai compagni della Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria), i percorsi collettivi, individuali e di classe (soprattutto) che portarono alla scissione di Livorno, ma quello che colpisce di più, in tutti e due, è la ricca raccolta di biografie di militanti, spesso sconosciuti o dimenticati, che diedero vita, forza e ragioni a quella esperienza.

Nei due testi è infatti possibile seguire le vicende personali e politiche di circa duecento militanti (soltanto le storie di 22 di essi coincidono tra le due ricerche) che alla causa dedicarono, e spesso sacrificarono, la propria vita. Vite spesso rapite dalle malattie, dal carcere, dalla miseria, dai fascisti, ma ancor di più dalla brutale repressione ed eliminazione fisica degli stessi operata dagli agenti dello stalinismo, sia in Russia (per quelli che lì avevano sperato di trovare rifugio contro la barbarie fascista o nazista) sia all’estero (per quelli che avevano magari preferito riparare in Francia e/o andare a combattere nelle fila dei militanti rivoluzionari in Spagna).

Militanti che il testo edito da Lotta Comunista trae da un campione più ampio, utilizzato per una dettagliata analisi della composizione sociale e di classe del partito originario, con tabelle che riguardano la provenienza regionale, le leve anagrafiche (età), lo stato sociale delle famiglie di provenienza, la scolarizzazione (scarsa), la professione, l’attività politica o sindacale svolta al 1921 e poi dal 1926 al 1945, l’emigrazione e la partecipazione alla guerra di Spagna e alla Resistenza e per finire l’attività politica svolta ancora dopo il 1945. Oltre che una drammatica ultima tabella in cui vengono elencati i numeri degli uccisi dal fascismo, dal nazismo, dal franchismo e dallo stalinismo.

Se il testo edito da Lotta Comunista è più attento al dettaglio sociologico e a sottolineare la giovane età dei protagonisti della scissione, ma più lineare nella ricostruzione e difesa di quella seminale esperienza, il testo edito nella collana collegata ai Quaderni di Pagine Marxiste, è un po’ più interessante dal punto di vista della riflessione politica attuale, contenendo apporti diversi (non secondario quello di Mirella Mingardo, tratto dal suo 1919-1921 Comunisti a Milano, dedicato alla Sinistra milanese di Bruno Fortichiari e Luigi Repossi) che focalizzano l’attenzione sulle principali esperienze che diedero vita al Partito, in primo luogo quella di Amadeo Bordiga e del gruppo collegato al giornale «Il Soviet» di Napoli. Non mancando di svolgere un’attenta riflessione su quanto ci sia ancora da valorizzare oppure ripensare dell’attività pratica e teorica svolta dal Pcd’I e dai suoi militanti in quell’epoca.

Due testi in qualche modo complementari che, anche per il costo contenuto, possono tranquillamente affiancarsi nella biblioteca di tutti quei militanti, soprattutto giovani, che non si vogliano accontentare della ripartenza da zero ad ogni occasione di cronaca o di dibattito e azione politica. Entrambi vivamente raccomandati da chi ha scritto queste note.


  1. Comunisti del ventuno, Introduzione a AA.VV. (a cura della Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria), Livorno Ventuno. A cent’anni dalla scissione di Livorno. La nascita del Partito Comunista d’Italia, Milano, aprile 2021, p. 23  

  2. Sul tema si veda anche qui  

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