Minneapolis – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 31 Jul 2025 08:49:34 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Classe universale o identitarismo nazionalistico? https://www.carmillaonline.com/2021/12/01/classe-universale-o-identitarismo-nazionalistico/ Wed, 01 Dec 2021 21:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69350 di Sandro Moiso

Calusca City Lights e radiocane.info (a cura di), RIOT! George Floyd Rebellion 2020. Fatti, testimonianze, riflessioni, Edizioni Colibrì, Milano 2021, pp. 256, 17,00 euro

L’ultima fatica saggistica degli infaticabili compagni della Calusca City Light e delle Edizioni Colibrì di Renato Varani tocca, come al solito, un tema non soltanto d’attualità ma anche scottante, soprattutto se si considera l’assoluzione avvenuta, pochi giorni or sono, del diciottenne Kyle Rittenhouse, accusato di aver ucciso con il proprio fucile due manifestanti antirazzisti e averne ferito un terzo, a Kenosha (Wisconsin, USA), durante [...]]]> di Sandro Moiso

Calusca City Lights e radiocane.info (a cura di), RIOT! George Floyd Rebellion 2020. Fatti, testimonianze, riflessioni, Edizioni Colibrì, Milano 2021, pp. 256, 17,00 euro

L’ultima fatica saggistica degli infaticabili compagni della Calusca City Light e delle Edizioni Colibrì di Renato Varani tocca, come al solito, un tema non soltanto d’attualità ma anche scottante, soprattutto se si considera l’assoluzione avvenuta, pochi giorni or sono, del diciottenne Kyle Rittenhouse, accusato di aver ucciso con il proprio fucile due manifestanti antirazzisti e averne ferito un terzo, a Kenosha (Wisconsin, USA), durante le proteste dell’estate del 2020 avvenute a seguito del grave ferimento del giovane afroamericano Jacob Blake, a cui la polizia aveva sparato nella stessa città, e che è ora paralizzato dalla vita in giù.

L’episodio si inserisce infatti nel clima venutosi a creare nell’America, all’epoca ancora trumpiana, infiammata dall’uccisione di George Perry Floyd, avvenuta il 25 maggio 2020 nella città di Minneapolis, in Minnesota, e dall’estendersi dell’epidemia da Covid -19 e dei contraddittori provvedimenti presi all’epoca dal governo in carica. Se, infatti, le proteste, sfociate spesso in vere e proprie rivolte urbane, avevano preso soprattutto avvio dal riproporsi in forme sempre più violente dell’oppressione razziale, è pur sempre vero che altre proteste, quasi sempre armate, si diffusero a partire da una middle class bianca delusa nelle sue aspettative di benessere e continuità dei privilegi economico-sociali cui un lungo trend imperialistico della Land of the Free l’aveva abituata per gran parte della seconda metà del secolo precedente.

Middle class spesso associabile ad una working class bianca che, negli ultimi decenni, ha visto scomparire posti di lavoro, sicurezza economica e la forte riduzione dei livelli salariali precedenti e delle forme di previdenza, per quanto anche quest’ultime legate alle forme dell’assicurazione privata. Una penetrazione finanziaria che ha scosso in profondità le certezze di settori sociali che si ritenevano precedentemente capaci di affrontare, con un certo margine di tranquillità, anche i momenti di difficoltà. E che a partire dalla crisi dei mutui subprime del 2008 ha dovuto fare i conti con scenari assolutamente imprevedibili per quello che a torto o ragione riteneva ancora lo standard dell’American Way of Life (soprattutto bianco).

La raccolta di saggi contenuta in Riot! affronta i problemi posti dalle rivolte americane del 2020 in una prospettiva molto ampia che, pur mantenendolo al centro dell’analisi come è giusto che sia, travalica i limiti discorsivi e politici del fin troppo abusato tema della rivolta razziale o antirazzista.
In quei mesi, negli Stati Uniti, sono venuti alla luce non solo i limiti della “democrazia bianca” statunitense, come il risultato del processo di cui si parlava all’inizio ha dimostrato in questi giorni semmai ce ne fosse ancora bisogno, ma anche i limiti di un’impostazione politica che non cogliendo gli aspetti essenziali del fascismo non riesce nemmeno a cogliere gli evidenti segni del fallimento e/o decadimento dell’ideale democratico borghese, così caro ai più che moderati teorici del politically correct.

Da questo punto di vista appare centrale, almeno per chi qui scrive, il saggio di Paul Mattick Jr., tratto da «The Brooklyn Rail» dell’8 novembre 20081, che, dando per inteso che la vera caratteristica dei regimi fascisti del passato fosse quella di fondarsi su un massiccio intervento statale nell’economia e su una ferrea organizzazione della vita sociale, afferma che:

la presidenza di Donald Trump non ha rappresentato, come molti temevano, l’avvento del fascismo negli Stati Uniti.
Trump non era interessato a costruire uno Stato forte o a preparare l’America a svolgere un ruolo imperialistico dinamico negli affari mondiali, né a mobilitare il patriottismo e il razzismo per schiacciare la classe operaia a beneficio della crescita economica. Lungi dal costituire una forza paramilitare di massa, si è accontentato di ispirare patetiche «milizie» – molto più avvezze alle birrerie che ai golpe […] In effetti, la sua amministrazione si è mossa nella direzione opposta rispetto alla crescita del controllo statale tipica del fascismo […] La stagnazione economica non ha spinto a realizzare investimenti per creare posti di lavoro, ma a effettuare semplici iniezioni di fondi nei circuiti della speculazione finanziaria.
Esultando per il trionfo della democrazia americana, «The New York Times», come tanti altri giornali americani, ha celebrato la promessa di Joe Biden di «ripristinare la normalità politica e uno spirito di unità nazionale per far fronte alle violente crisi sanitarie ed economiche». Non vale la pena di sottolineare che è stata proprio la normalità a produrre queste crisi e che l’unità nazionale può significare soltanto la subordinazione degli interssi di alcune persone a quelli di altre. […] E poiché l’approfondimento della crisi economica, esacerbata dalla pandemia, è soprattutto il prodotto del normale funzionamento del capitalismo come sistema, l’unico rimedio a questa crisi consiste nel deprimere ulteriormente il tenore di vita dei lavoratori di tutto il mondo […] favorendo una ulteriore concentrazione della proprietà del capitale nelle mani di un numero ancora minore di aziende. […]
Un’economia stagnante, con meno risorse da dividere tra quanti fanno parte dell’1% e tutti gli altri, significa che l’auspicata coalizione popolare per la socialdemocrazia è un sogno altrettanto chimerico che quello dei contadini nordamericani, espresso nel loro sostegno a Trump, che l’ininterrotta concentrazione dell’agricoltura, insieme col rapido degrado ambientale, possa essere frenata dai vecchi valori comunitari dei piccoli imprenditori bianchi2.

Fermiamoci qui, per ora, anche se più avanti riprenderemo ancora il saggio di Mattick, soltanto per mettere in evidenza come le proteste dell’estate del 2020, se lasciate sole e indirizzate alle rivendicazioni di maggior democrazia e antirazziste, non potessero portare ad altro che alla vittoria elettorale del candidato democratico. Quel Joe Biden che, riprendendo Mattick, non «intende ridurre le risorse della polizia, che senza alcun ritegno continua a uccidere, picchiare e incarcerare i cittadini. Già campioni dell’incarcerazione di massa, il nuovo presidente e la sua compare ex assistente procuratore sono profondamente consapevoli della necessità che la polizia e le carceri mantengano l’ordine sociale, particolarmente in un momento di crescenti difficoltà economiche»3.

Ecco allora che, tralasciando al momento la disamina dei tanti altri saggi contenuti nel testo curato da Calusca City Lights, sarebbe molto utile affiancare alla lettura degli stessi la visione del film Judas and the Black Messiah, diretto e prodotto da Shaka King che ha anche scritto la sceneggiatura insieme a Will Berson, in cui si parla del tradimento operato nei confronti di Fred Hampton, quando questi era il leader della sezione di Chicago del Black Panther Party, da parte di un altro afro-americano, William O’Neal, all’epoca informatore del Federal Bureau of Investigation, da cui era stato incastrato per il furto di una o più automobili.

Fredrick Allen Hampton (30 agosto 1948 – 4 dicembre 1969), nonostante la giovane età, era anche il vicepresidente della stessa organizzazione in cui rappresentava la componente più apertamente marxista. Proprio per questo motivo, e il film lo chiarisce perfettamente, egli operò per l’unità di tutti gli oppressi, al di là delle caratteristiche etniche e razziali. Cercò, per questo motivo, di creare un collegamento con le organizzazioni portoricane e di altre etnie e giunse anche a frequentare le riunioni dei “poveri bianchi” organizzati intorno ad associazioni di destra e razziste, nel tentativo di chiarire chi fosse il vero nemico contro cui lottare: il capitalismo statunitense ed internazionale.

In un primo tempo, nonostante le difficoltà iniziali, il tentativo riuscì e ciò lo spinse a profetizzare ai suoi compagni che quello sarebbe stato il vero motivo per cui sarebbe stato ucciso dagli agenti delle forze dell’ordine, locali e federali. Profezia fin troppo facile vista la furia con cui fu portata a termine la sua esecuzione, intorno alle 5 del mattino del 4 dicembre 1969.
Fred Hampton fu infatti ucciso con due colpi alla testa sparatigli da un agente, dopo l’irruzione nella casa in cui alloggiava e in cui dormiva acanto alla sua compagna, all’epoca incinta di nove mesi.

Era qui assolutamente necessario ricordare tali avvenimenti, non solo per ricordare ai lettori un film prodotto con la benedizione della famiglia Hampton, premiato al Sundance Film Festival il 1° febbraio 2021 e candidato nello stesso anno a sei premi Oscar, ma soprattutto per riportare alla memoria che se la questione razziale, sia in America che altrove, diventa una pura questione identitaria o di “giustizia”, si rischia di perdere di vista il fatto che questa è, prima di tutto, una questione di classe, e che soltanto in questo ambito potrà essere definitivamente risolta.

Se è vero infatti, e i saggi contenuti in Riot! lo dimostrano, che nelle proteste americane dell’estate di Floyd si son visti uniti giovani bianchi e afroamericani, latinos e di altre etnie, è anche vero che, soprattutto oggi nell’era post-Obamiana, non saper cogliere il fatto che il semplice identitarismo “del colore”, in un contesto in cui una parte, anche se piccola, di afro-americani fa ormai parte dell’establishment e della medio-alta borghesia statunitense, potrebbe rivelarsi un errore politico-ideologico utile soltanto a dividere ancor più un proletariato già sufficientemente frammentato e ancora troppo spesso nemico di se stesso al proprio interno.
Una replica, ancor più drammatica per le sue conseguenze sociali e conflittuali, di ciò che il movimento hollywoodiano Me Too ha effettivamente rappresentato nel voler conglobare intorno ad un unico fattore la questione femminile, dimenticando oppure volontariamente rimuovendo le enormi contraddizioni di classe che pure sussistono al suo interno.

L’assurdità di un’impostazione puramente identitaria e nazionalistica si manifestò pienamente, anche se questo travalica i limiti cronologici dei saggi contenuti nel testo, nel 1928 quando, nel corso del VI congresso di un’Internazionale Comunista in via di definitiva stalinizzazione, furono adottate le tesi proposte da Haywood e Charles Nasanov, del PCUSA, che sostenevano che i neri negli Stati Uniti erano un gruppo nazionale separato e che gli agricoltori neri nel sud erano una forza rivoluzionaria incipiente, a causa del loro essere oppressi dal sottosviluppo economico e dalla segregazione.

Nonostante questa teoria dividesse il partito americano, compresi i comunisti afroamericani – notevoli oppositori includevano il fratello di Haywood, Otto Hall, che riteneva che in tal modo si ignorassero le differenze di classe nella comunità nera e non che tale risoluzione non fosse appropriato per le condizioni americane, e James W. Ford, che credeva che il dibattito teorico sul fatto che i neri costituissero una nazione distinta era una distrazione dalla costruzione dell’appartenenza nera – il Comintern ordinò al partito di insistere sulla richiesta di una nazione separata per i neri all’interno di una fascia di contee con una popolazione a maggioranza nera che si estendeva dalla Virginia orientale e dalle Carolinas attraverso la Georgia centrale, l’Alabama, le regioni del delta del Mississippi e della Louisiana e di alcune zone del Texas. Questa linea politica, però, non trovò mai ampio sostegno tra gli stessi afroamericani, né nel nord urbano né nel sud, poiché avevano problemi più immediati e urgenti e il PCUSA aveva pochi punti d’appoggio tra gli stessi e in quelle aree.

Quella linea sostanzialmente ancora ghettizzante, ovvero quella dell’autodeterminazione nazionale degli afroamericani da delimitare in rigidi confini geografici, non ebbe mai molto peso ed oggi riposa come un relitto sul fondo del mare delle lotte che si sarebbero sviluppate in seguito, sia livello di diritti civili che di lotta di classe. Mentre furono invece le rivolte dei ghetti e delle città degli anni ’60 a risolvere parzialmente, ma in maniera dialetticamente efficace, la questione. Proprio a queste esperienze e ai giudizi che su di esse ebbe modo di dare gran parte della sinistra rivoluzionaria e antistalinista dell’epoca è dedicata la terza ed ultima parte della ricerca, intitolata Lo sguardo telescopico sul movimento del proletariato nero statunitense negli anni ’60. Una scelta di testi che rende ancor più indispensabile la lettura di un testo collettaneo già di per sé sicuramente utile e stimolante.

Lo dimostra, a solo titolo di esempio, un articolo tratto dalla prima pagina di «il programma comunista», n. 15 del 10 settembre 1965, riferito alla rivolta di Watts, avvenuta tra l’11 e il 16 agosto di quello stesso anno:

Prima che, passata la buriana della «rivolta negra» in California, il conformismo internazionale seppellisse il fatto «increscioso» sotto una spessa coltre di silenzio; quando ancora i borghesi «illuminati» cercavano ansiosamente di scoprire le «misteriose» cause che avevano inceppato laggiù il «pacifico e regolare» funzionamento del meccanismo democratico, qualche osservatore delle due sponde dell’Atlantico si consolò ricordando che, dopo t utto, le esplosioni di violenza collettiva degli uomini «di colore» non sono una novità in America, e che, per esempio, una altrettanto grave si verificò – senza seguito – a Detroit nel 1943.
Ma qualcosa di profondamente nuovo c’è stato, in questo fiammeggiante episodio di collera non solo vagamente popolare, ma proletaria, per chi l’abbia seguita non con fredda obiettività, ma con passione e speranza.
[…] La novità – per la storia delle lotte di emancipazione dei salariati e dei sottosalariati negri, non certo per la storia delle lotte di classe in generale – è la quasi puntuale coincidenza fra la pomposa e retorica promulgazione presidenziale dei diritti politici e civili, e lo scoppio di un’anonima collettiva, «incivile» furia sovvertitrice da parte dei «beneficati» dal «magnanimo» gesto; fra l’ennesimo tentativo di allettare lo schiavo martoriato con una misera carota, che non costava nulla, e l’istintivo, immediato rifiuto di questo schiavo di lasciarsi bendare gli occhi e curvare nuovamente la schiena.
Rudemente, non istruiti da nessuno -non dai loro leader […]; non dal «comunismo» di marca URSS che, come si è fatta premura di ricordare subito «l’Unità», respinge e condanna le violenze -, ma ammaestrati dalla dura lezione dei fatti della vita sociale, i negri di California hanno gridato al mondo, senza averne coscienza teorica, senza aver bisogna di esprimerla in un linguaggio articolato, ma dichiarandola col braccio e nell’azione, la semplice terribile verità che l’uguaglianza civile e politica non è nulla, finché vige la disuguaglianza economica, e che da questa si esce non attraverso leggi, decreti, prediche ed omelie, ma rovesciando con la forza le basi di una società divisa in classi. E’ questa brutale lacerazione del tessuto di finzioni giuridiche ed ipocrisie democratiche che ha sconcertato e non poteva non sconcertare i borghesi; è essa che ha riempito e non poteva non riempire di entusiasmo noi marxisti; è essa che deve far meditare i proletari assopiti nella falsa bambagia delle metropoli del capitalismo storicamente nato in pelle bianca4.

Come sottolineano in nota i curatori, Amadeo Bordiga, autore dell’articolo, non avrebbe più ripreso esplicitamente questa intuizione, che sarebbe stata completamente abbandonata in seguito dalle organizzazioni richiamantesi alla Sinistra Italiana, ma che, in compenso, la rivolta di Detroit del 1967 avrebbe invece pienamente confermato (qui e qui). Sarebbe poi stato Jacques Camatte, uscito dal Partito Comunista Internazionale – Programma Comunista nel 1966, a riprendere e approfondire la questione posta dall’articolo di Bordiga.

Affermando, a proposito del movimento del Maggio francese del 1968, che questo era «indietro rispetto al movimento proletario nero negli USA. In seno a quest’ultimo certuni elementi hanno compreso la necessità di respingere una volta per sempre la democrazia»5. Ancora nello stesso testo Camatte aveva affermato:

negli Stati Uniti dopo il 1963 si sviluppa un potente movimento nero che dichiara, attualmente, che il fine del movimento non è l’emancipazione del nero, ma quella dell’Uomo, che la società che esso desidera si “avvicina” a quella che Marx descrive sotto il nome di società senza classi. Per questo il movimento del Maggio-Giugno 1968 rappresenta lo straripare di un fenomeno dapprima limitato agli Stati Uniti dove il movimento ha già raggiunto un livello teorico che lo colloca in primo piano e che farà sì che sarà un elemento determinante della riunificazione della classe su scala mondiale6.

Mentre in un altro testo successivo può concludere che: «Il dato immediatamente più importante era che si aveva a che fare con un movimento rivoluzionario che non poneva una determinazione classista, che quindi esprimeva bene l’esigenza indicata in Origine e funzione della forma partito (qui): una rivoluzione a titolo umano»7. E poi a proposito delle lotte di liberazione nazionale avvenute in Africa nel corso degli anni ’60 e delle loro conseguenze politiche:

fummo portati a riconoscere che la lotta delle razze si rivelava talvolta molto più rivoluzionaria della lotta delle classi […] Inoltre non era possibile restare insensibili all’aspetto puramente umano della cosa: la fine di un assoggettamento; l’affermazione di una dignità umana acquisita grazie all’indipendenza e alla scoperta di un’umanità che era stata schernita, negata per secoli. […] Il movimento di liberazione fu molto importante per i neri che nel 1960 acquistarono l’indipendenza; certamente si trattò dell’emancipazione del nero e non dell’uomo, ma ciò ebbe notevoli conseguenze per esempio sul movimento rivoluzionario dei neri statunitensi […] L’essenziale è però che gli algerini, i neri, ecc. non siano più ridotti ad uno stadio peggiore di quello delle bestie8.

Ancora nel suo scritto Il KAPD e il movimento proletario (1971), Camatte sarebbe tornato a sottolineare il tema della «classe universale»: «La dissoluzione della società è ormai in atto negli Stati Uniti. L’unità del proletariato come classe universale non può rendersi manifesta che attraverso una lotta tenace, decisa, senza compromessi, contro il capitale e in un certo senso attraverso una lotta in seno alla classe universale stessa. Non si tratta di rivendicare la ristrutturazione del proletariato nella sua classica figura il che equivarrebbe a voler restaurare il passato come hanno compreso certi rivoluzionari neri americani (Boggs9 per esempio)»10. Questione già ribadita, in qualche modo, in un altro scritto del 1969:

Nelle azioni del proletariato nero degli USA possiamo vedere all’opera questa comunità d’azione non precostituita, spontaneamente strutturata sulla base di un vitale bisogno di superamento e di festa, e sulla immediata consapevolezza dell’identità di obbiettivi: l’unificazione , in una parola, del movimento reale della classe. Assistiamo, cioè, al prodursi di quelle condizioni che già Marx, all’epoca del formarsi della Prima Internazionale, aveva colto come momenti cruciali nella formazione del partito comunista mondiale, prodotto storico necessario delle contraddizioni della società del capitale. Il momento più importante di questa manifestazione del comunismo nella prassi è costituito dal superamento della democrazia, vale a dire dal rifiuto del proletariato – quando esso giunge a porre in primo piano le proprie necessità reali – di accettare una qualunque divisione fra decisione e azione, […] su cui si è fondato il meccanismo di rappresentanza democratico-dispotica nell’ambito della vecchia arte di organizzare la società, cioè della politica. […] Questa è l’essenza non stravolgibile di tutto cò che la rivoluzione ha affermato, a partire dalle metropoli del «capitalismo più avanzato»11.

Nonostante non si possano citare tutti gli altri saggi, attuali e passati, presenti nel testo edito da Colibrì, val la pena di citare ancora un breve passaggio, tratto da uno scritto di Guy Debord:

Gli abbozzi di nazionalismo nero, separatista o filo-africano, sono solo sogni incapaci di risponder all’oppressione reale. I neri americani non hanno patria, sono in America a casa propria e alienati, come gli altri americani, ma sanno di esserlo. Così non sono il settore arretrato della società americana, ma il suo settore più avanzato. Sono il negativo dell’opera. «E’ il lato cattivo a produrre il movimento che fa la storia determinando la lotta» (Karl Marx, Miseria della filosofia)12

E’ evidente la distanza, oggi assolutamente incolmabile, tra queste chiarissime riflessioni e ipotesi rivoluzionarie e la trappola democratica e politcally correct che con qualche usurato diritto e la rimozione di alcune statue e titoli di film o romanzi vorrebbe accontentare una fame di comunità e uguaglianza reale che, invece, rimarrà insaziabile fino a quando non saranno abbattute le basi della società capitalista divisa in classi. Così come sembra volerci ricordare Paul Mattick Jr. a conclusione dell’articolo già precedentemente citato:

La reazione collettiva all’assassinio di George Floyd ha dimostrato che a volte il vaso è troppo pieno, che basta un’altra goccia per farlo traboccare. Avendo visto che questa reazione potente e magnifica aveva prodotto poco più che un aumento nella rappresentazione dei neri nella pubblicità, la gente si è comprensibilmente stancata degli scontri quotidiani con la polizia; e in molti hanno sperato che un paio di politici facessero qualcosa di significativo per tutti noi. Di fronte a questo ulteriore fallimento, saremo costretti ancora una volta ad affrontare il vero problema: non un temporaneo allontanamento dalla norma americana, da correggere con un ritorno a qualche passato immaginario, ma la natura sociale della nostra stessa realtà sociale presente13.

Soltanto due cose sono ancora da segnalare, prima di chiudere la recensione di un testo vulcanico e profondo. La prima è la ricchezza di dati e di immagini che accompagna tutto il testo con schede e ampie cronologie degli avvenimenti. La seconda è l’uso della parola «negro» in tanti testi, anche del movimento anarchico, degli anni ’60. Forse, verrebbe da dire, meglio l’uso di quel termine che indica il nemico dell’ordine esistente e delle sue leggi e della sua morale che il tentativo di addolcire il presente, oltre che la storia, e suoi frutti, nel tentativo di addormentare la coscienza profonda di chi, comunque, è costretto a portarne le stimmate sulla propria pelle, attraverso la semplice rimozione di un aggettivo.


  1. Paul Mattick Jr., Happy Days ora in: Riot! (a cura di Calusca City Lights e radiocane.info), Edizioni Colibrì, Milano 2021, pp. 137-141  

  2. P. Mattick Jr., op. cit., pp. 137-139  

  3. Ibidem, p. 140  

  4. La collera «negra» ha fatto tremare i fradici pilastri della «civiltà» borghese e democratica, «il programma comunista», n. 15 del 10 settembre 1965, p.1, ora in Riot!, op. cit., pp.187-188  

  5. J. Camatte, Maggio-Giugno 1968: teoria e azione (1968) ora in J. Camatte, Verso la comunità umana. Scritti dal 1968 al 1977, (a cura di Pier Paolo Poggio), Cooperativa Edizioni Jaca Book, Milano 1978, pp. 109-116. cit. in Riot!, op. cit. p.242  

  6. J. Camatte, op.cit., ora in Riot!, pp. 241-242  

  7. J. Camatte, Verso la comunità umana (1976), ora in J. Camatte, Verso la comunità umana, op.cit., pp. 1-41, cit.in Riot!, p.241  

  8. J. Camatte, Verso la comunità umana, op. cit., ora in Riot!, p.242  

  9. James Boggs (1919-1993) operaio della Ford e attivista politico, è stato autore del prezioso Pagine dal block-notes di un lavoratore negro. La rivoluzione americana, edito in Italia da Jaca Book nel 1968  

  10. J. Camatte, Il KAPD e il movimento proletario (1971) ora in J. Camatte, Verso la comunità umana, op. cit., pp. 239-309, cit. in Riot!, p. 243  

  11. J. Camatte, Transizione (1969) cit. in Riot!, p. 243  

  12. Guy Debord, Il declino e la caduta dell’economia spettacolar-mercantile, «internationale situationniste», n. 10, marzo 1966, pp. 3-11, ora cit. in Riot!, p. 201  

  13. P. Mattick Jr., op.cit., in Riot!, p.141  

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Per una critica della società dell’Apocalisse permanente https://www.carmillaonline.com/2021/09/22/per-una-critica-della-societa-dellapocalisse-permanente/ Wed, 22 Sep 2021 20:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68263 di Sandro Moiso

Francesco “Kukki” Santini, Apocalisse e sopravvivenza. Considerazioni sul libro «Critica dell’utopia capitale» di Giorgio Cesarano e sull’esperienza della corrente comunista radicale in Italia (nuova edizione riveduta e accresciuta), Edizioni Colibrì, Milano 2021, pp. 176, 15,00 euro

Costoro sono nati per una vita che resta da inventare; nella misura in cui hanno vissuto, è per questa speranza che hanno finito con l’uccidersi (Raoul Vaneigem, Banalità di base)

Tornato per un momento dall’esilio sull’isola di Patmos e costretto a posare i piedi nella realtà attuale, l’evangelista Giovanni si stupirebbe certamente nel [...]]]> di Sandro Moiso

Francesco “Kukki” Santini, Apocalisse e sopravvivenza. Considerazioni sul libro «Critica dell’utopia capitale» di Giorgio Cesarano e sull’esperienza della corrente comunista radicale in Italia (nuova edizione riveduta e accresciuta), Edizioni Colibrì, Milano 2021, pp. 176, 15,00 euro

Costoro sono nati per una vita che resta da inventare; nella misura in cui hanno vissuto, è per questa speranza che hanno finito con l’uccidersi (Raoul Vaneigem, Banalità di base)

Tornato per un momento dall’esilio sull’isola di Patmos e costretto a posare i piedi nella realtà attuale, l’evangelista Giovanni si stupirebbe certamente nel constatare come l’umanità contemporanea si sia assuefatta a vivere, anche se sarebbe forse meglio dire sopravvivere, in una apocalisse continua: climatica, economica, politica, militare, sanitaria, sociale e ambientale.
Un autentico inferno che, colui che è ancora rappresentato nell’iconografia cristiana come l’aquila, per la sua lungimiranza e profonda capacità visionaria, non avrebbe saputo anticipare nemmeno nei suoi incubi più terribili.

Questa Apocalisse terrena, che non si è ancora sviluppata in alcuna lotta definitiva tra il Bene e il Male, anche se nel corso dei secoli milioni di persona sono morte a causa di crociate politico-militari e religiose che promettevano, da vari e contrastanti punti di vista, il trionfo del primo sul secondo, ha avuto, però e fin dai primi anni Settanta del ‘900, un suo anticipatore, seguito da un ristretto numero di seguaci, in Giorgio Cesarano.

Come afferma Francesco “Kukki” Santini nel riassumerne l’opera di Giorgio Cesarano (1928-1975) intitolata, appunto, Apocalisse e Rivoluzione (con Gianni Collu, come attestava il frontespizio del manoscritto, Dedalo, Bari 1973):

Secondo Cesarano, i tempi delle contraddizioni capitalistiche si stanno facendo stretti, ed è necessario che la dialettica rivoluzionaria incalzi il processo catastrofico in cui il capitale si scontra con i limiti termodinamici della biosfera, preparando esiti apocalittici.
Tutte le contraddizioni storiche si assommano per disegnare la prospettiva dello scontro ultimativo che oppone il capitale – giunto a colonizzare non solo l’estensione fisica del Pianeta ma la stessa interiorità dei suoi schiavi – alla specie umana. Stiamo vivendo le prime fasi della “rivoluzione biologica”, risposta della corporeità vivente contro il pericolo di annichilamento e superamento dei limiti di tutte le rivoluzioni “storiche”.
Nel suo movimento, il capitale realizza il processo di reificazione inaugurato, fin dalla remota origine della specie, dal combinarsi subalterno del corpo biologico – debole e indifeso di fronte alla natura terrifica e ostile – con l’utensile-protesi. Da questa primaria alienazione in poi, l’utensile-protesi ha continuato a svilupparsi a scapito della corporeità e della sensibilità della specie, divenendo l’UT che subordina a sé tutto lo sviluppo “storico”. L’antica alienazione del “senso” della vita, di cui tendono ad appropriarsi le caste dominanti religiose e militari, genera l’accumulazione di segni e simboli che formano la lingua, separata dal corpo della specie e dalle sue necessità di comunicazione. La lingua sequestrata produce a sua volta l’Ego separato dall’inconscio, dal rimosso, dal desiderio “istintuale”, come rappresentante del dover-essere e della normativa sociale, propri di un vissuto storico collettivo fondato sul lavoro e sulla sofferenza1.

Fermiamoci per un momento, soltanto per svolgere alcune osservazioni su quanto è stato qui appena citato.
Quello che sarebbe diventato uno dei manifesti della critica radicale italiana2, accompagnato dal successivo Manuale di sopravvivenza (Dedalo, Bari 1974 e Bollati Boringhieri, Torino 2000), raccoglieva già al suo interno vari stimoli provenienti dall’opera di Jacques Camatte sulla specie-gemenweisen e il capitale totale, dall’idea del linguaggio come virus tratta dall’opera di William Burroughs e dalle catastrofiche previsioni contenute nel rapporto commissionato dal Club di Roma al MIT e pubblicato nel 1972 con il titolo I limiti dello sviluppo.

Senza farsi imprigionare dal pensiero contenuto nell’opera dei due autori oppure dei ricercatori americani autori del Rapporto, Cesarano provocava e apriva la riflessione in direzione di vie ancora inesplorate dal pensiero rivoluzionario tradizionale. Così è possibile cogliere oggi, in quelle poche righe, le radici delle successive elaborazioni del primitivismo di John Zerzan oppure le elaborazioni che si sarebbero succedute in seguito sul passaggio di consegne dalla classe operaia alla specie umana nel suo complesso dei compiti della lotta contro il capitale e il suo pestifero e mortifero sviluppo.

Anticipando però, già allora, una critica al catastrofismo di stampo capitalistico che, eludendo il problema dello scontro di classe, ineliminabile dai rapporti di produzione e dalle scelte di utilizzo delle risorse, sarebbe poi giunto, ai nostri giorni, alla riproposizione del green capitalism e del recupero del nucleare come energia “pulita”.
In fin dei conti, proprio nel corso degli ultimi giorni, la denuncia del ministro alla Transizione Ecologica del possibile aumento del 40% dei costi dell’energia elettrica non ha fatto altro che prolungare l’allarmismo securitario cui si sono affidati da anni, in un autentico susseguirsi epidemico di emergenze continue, i governi per mantenere, con la paura, il proprio potere sui governati, senza mai dover mettere in discussione il modo di produzione che causa davvero disastri e sprechi insostenibili per la specie e il pianeta. Anzi, semmai colpevolizzando la specie nel suo complesso attraverso le formulazione della teoria dell’Antropocene, evitando invece di parlare, più correttamente, di Capitalocene3.

La rivoluzione, come tradizionalmente l’alta magia e la religione, affronta il nemico esterno per mezzo della vera guerra. Questa non può prescindere dallo scontro con tutte le immagini del Sé, che lo riproducono a somiglianza del capitale come quantità di valore in processo, simbolo, ruolo, funzione della vita assente, inserito nella società in cui circola e si realizza (o si devalorizza) come merce immateriale e veicolo della lingua.
Il capitale, invece, condivide con la religione i contenuti della penitenza e del millenarismo: da un lato minaccia l’apocalisse, dall’altro chiama a sé a specie come gregge della sopravvivenza, inquadrato dalle nuove ideologie neocristiane del dubbio, del problema, dell’autocritica.
La produzione di persone di nuovo tipo è parte integrante del progetto planetario della carestia: trasferimento del grosso della produzione di merci materiali alla periferia del mondo capitalista e sua sostituzione con la colonizzazione dell’interiorità e la creazione di nuove merci corrispondenti (ruoli sociali, farmaci, comunità terapeutiche, servizi)4.

Santini scriveva decenni or sono di un libro apparso nel 1973, ma basterebbe aggiungere all’elenco i social media, che oggi hanno letteralmente colonizzato la mente e l’immaginario della specie, per avere un quadro completo dell’Apocalisse in atto e della necessità di superare la mera sopravvivenza con una svolta rivoluzionaria. Anche se, per ora, lontana dal venire.

All’epoca, la stessa scelta “armata” sembrava proiettare ancora i militanti all’interno del mondo della Carestia5, poiché in tal modo la vera guerra veniva sostituita con l’autovalorizzazione per mezzo del sacrificio sanguinoso e dell’eroismo ritualistico, ma, sempre secondo Cesarano, la prospettiva del capitale di assoggettare definitivamente la specie, facendola parlare con la propria stessa voce, stava per fallire.

Il movimento della rivoluzione, pur col ritardo necessario ma non inevitabile degli infortuni della passione, pur con le perdite causate dalla disperazione e dalla solitudine dovute all’esigenza di inverarsi immediatisticamente e di non recede dai livelli di radicalità raggiunti, si appresta a disvelare la menzogna del mondo fittizio in cui ogni corpo è strappato all’essere e abolito, e, trapassando tutte le ideologie e i travestimenti dell’inorganico fattosi uomo, si avvicina allo scontro ultimativo e alla vittoria6.

Il dramma che sorge dalla lettura dell’antologia di testi di Francesco Santini, proposta dalle sempre stimolanti e attente Edizioni Colibrì, sorge però dal fatto che a fronte di tanta determinazione critica e politica i principali protagonisti di quella stagione (Eddy Ginosa nel 1971, Giorgio Cesarano nel 1975 e lo stesso Santini nel 1996) decisero tutti, in maniera decisamente ultimativa, di non piegarsi alla mediocrità del momento, esattamente come Guy Debord, uno dei loro principali ispiratori, avrebbe fatto nel 1994.

Il Je mange pas de ce pain-la di Benjamin Péret, diventava un imperativo assoluto, tale da far sì che la spasmodica attesa dell’evento rivoluzione finisse, a causa della sua prolungata assenza, col coincidere con la stoica decisione di rinunciare a una non-vita, il cui unico valore, per chi la viveva consciamente, poteva essere costituito soltanto dalla depressione e dal senso di impotenza. Non resa dunque, ma estrema affermazione di alterità nei confronti di un mondo ancora non pronto a recepire la radicalità di un messaggio che, in compenso, la borghesia dell’epoca aveva già percepito e represso attraverso arresti e accuse di coinvolgimento nelle sue trame più oscure, proprio nei confronti degli ambienti anarchici e proletari in cui la critica radicale, pur rivendicandosi comunista, aveva trovato maggior ascolto e accoglienza.

Tra i testi ripubblicati, oltre a quello già contenuto nella Cronologia della vita e delle opere che introduceva il terzo volume delle opere complete di Giorgio Cesarano, pubblicato con il titolo Critica dell’Utopia Capitale per conto dell’associazione culturale «Centro d’iniziativa Luca Rossi», sono compresi vari contributi di Santini apparsi sulla rivista «Insurrezione» e in altri contesti. Tra questi il più importante è proprio quello che dà il titolo al libro e in cui l’autore, prendendo le mosse dal suicidio di Cesarano, traccia una storia delle origini e degli sviluppi della critica radicale italiana, indicandone le radici nel movimento ’68, nell’Internazionale Situazionista e nelle correnti più lucide del pensiero comunista, consigliare e anarchico, anche se, a ben vedere, la critica radicale si differenziò da tutte queste.

Non soltanto storia, però, ma anche necessario bilancio critico di un’esperienza che perso in gran parte l’appuntamento decisivo con quello che avrebbe potuto costituire l’affermazione materiale delle sua anticipazioni, ovvero il movimento del ’77, finì, secondo Santini, troppo spesso col rinchiudersi su se stessa, inaridendosi. Come scrive ancora:

Verso la fine del’76, mentre i piccoli nuclei di «radicali» presenti in varie città d’Italia tendevano a prendere un atteggiamento di vuota superiorità che li avrebbe resi incapaci di realizzare qualsivoglia intervento efficace, esistevano occasioni di incontro con i Circoli del Proletariato Giovanile e l’incipiente Autonomia.
[…] A partire dalla fine del ’76, con l’esperienza dei Circoli del Proletariato Giovanile, preannunciata dagli scontri della primavera del ’75,la situazione italiana si riaprì rapidamente tornando a offrire ai rivoluzionari ricche occasioni di comunicazione col sociale.
La comparsa sul palcoscenico della politica dell’Autonomia Operaia non costituì in sé una novità. Infatti l’Autonomia può essere giustamente considerata nient’altro che una forma di militantismo di sinistra conseguente. La spiegazione del successo dell’Autonomia sta essenzialmente nella chiara scelta da parte sua della pratica dell’illegalità e della violenza. Lo scompiglio provocato nel quadro politico dai gruppi autonomi aprì un varco entro cui poterono irrompere i selvaggi delle metropoli.
[…] I grandi movimenti di Roma e Bologna nei primi mesi del ’77 realizzavano il sogno delle grandi rivolte armate fuori e contro i racket politico-sindacali covato dai radicali per tanti anni. Il ’77 non ebbe la portata, la profondità sociale e la durata del movimento precedente del ’67-’69; tuttavia determinò una situazione ancora più favorevole per il comunismo radicale.
Intanto, questa volta la politica militante dei gruppettari – che per tanti anni aveva costituito un freno e un blocco con cui, volenti o nolenti, i rivoluzionari avevano dovuto fare i conti – fu investita subito dalla critica feroce e irridente di un movimento che esprimeva come proprio presupposto l’esigenza di lottare per sé, per la vita di ciascuno, contro il sacrificio, la noia, il lavoro, per cambiare immediatamente se stessi, affrontando nel contempo a viso aperto l’assedio del mondo delle merci. Inoltre, stavolta, il blocco staliniano PCI-CGIL venne identificato come il nemico; si schierò subito apertamente contro il movimento e,per la prima volta, perse completamente il controllo della piazza7.

Per Francesco Santini, così come lo era stata per la critica radicale prima e per la rivista «Insurrezione» sul finire degli anni Settanta, l’ago magnetico della bussola politica rivoluzionaria doveva essere sempre rivolto in direzione degli episodi insurrezionali, di violenza e illegalità (come confermano ulteriormente gli scritti sul comontismo), che si caratterizzavano per il proprio essere di massa e spesso spontanei, quasi sempre con il proletariato giovanile metropolitano nei panni del principale attore protagonista.

Una concezione che vedeva nel rivoluzionario colui che sapeva cogliere e seguire con attenzione (se impossibilitato alla partecipazione diretta) tutte le possibili anticipazioni della Rivoluzione a venire, per momentanee e caduche che fossero, al fine di stilare un autentico atlante delle città insorte e del cammino verso la liberazione della specie dall’attuale modo di produzione dominante. Fatto che, come ci insegnano i nostri giorni, potrebbe rendersi ancora necessario nel nostro immediato futuro, in ogni angolo del mondo e in ogni frangente riconducibile allo scontro tra specie e capitale.

L’Italia di Roma e Bologna del ’77 si aggiungeva, come nuovo laboratorio insurrezionale, a Detroit, Stettino, Danzica, Belfast, Oakland, la Torino di corso Traiano, Parigi del maggio e tante altre città in rivolta, così come oggi Minneapolis, Beirut, Santiago del Cile, Barcellona, Hong Kong, le città francesi invase dai gilets jaunes e dai giovani delle banlieues, e altrettante ancora segnano e segneranno puntualmente il cammino sull’atlante stradale della rivoluzione. Che non potrà essere, per forza di cose e sempre di più, che anonima e tremenda.

Anche soltanto per questo il testo qui proposto dovrebbe essere letto da chiunque si voglia porre sul lato giusto delle barricate di oggi e domani. Nella certezza che soltanto la promessa di sviluppo infinito del capitalismo costituisce in sé un’illusoria utopia, al contrario di quanto molti servitori della sua causa hanno sempre voluto far credere al fine di segare le gambe all’immaginario e alla materialità della concretezza rivoluzionaria.


  1. Francesco “Kukki” Santini, Esposizione sintetica degli scritti teorici e d’intervento di Giorgio Cesarano, Appendice 1 a F. “Kukki” Santini, Apocalisse e sopravvivenza, Edizioni Colibrì, Milano 2021, pp. 90-91  

  2. Della quale si è parlato già qui su Carmilla  

  3. Come suggerisce invece Jason W. Moore in Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nell’era della crisi planetaria, Ombre Corte, Verona 2017  

  4. F. “Kukki” Santini, op. cit. pp.91-92  

  5. Sulla critica radicale all’esperienza della lotta armata si veda ancora Parafulmini e controfigure, numero speciale della rivista «Insurrezione», maggio 1979 qui oppure l’intero opuscolo, contenente estratti da Terrorismo o rivoluzione di Raoul Vaneigem (1972) e da Apocalisse e Rivoluzione (1973), ripubblicato con lo stesso titolo dalle Edizioni Anarchismo nella collana «Opuscoli provvisori» con il n° 28 e giunto alla sua terza edizione nel novembre 2013  

  6. F. K. Santini, Esposizione sintetica degli scritti teorici e d’intervento di Giorgio Cesarano, Appendice 1, op.cit., p. 92  

  7. Francesco “Kukki” Santini, La grande occasione del’77, in Apocalisse e sopravvivenza, op.cit., pp. 73-74  

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I don’t live today: scene dalla guerra di classe in America (e non solo) https://www.carmillaonline.com/2020/06/24/i-dont-live-today-scene-dalla-guerra-di-classe-in-america-e-non-solo/ Wed, 24 Jun 2020 21:01:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60919 di Sandro Moiso

Will I live tomorrow? Well I just can’t say But I know for sure I don’t live today (I don’t live today – Jimi Hendrix, 1967)

“Certo che c’è la guerra di classe, ma è la mia classe, la classe dei ricchi, che la sta facendo e la stiamo vincendo.” (Warren Buffett, 2006)

Gli eventi delle ultime settimane negli Stati Uniti hanno sicuramente costituito un severo monito, soprattutto per chi, come il finanziere Warren Buffett, uno dei tre uomini più ricchi del mondo, poteva crogiolarsi in un illusoria [...]]]> di Sandro Moiso

Will I live tomorrow?
Well I just can’t say
But I know for sure
I don’t live today

(I don’t live today – Jimi Hendrix, 1967)

“Certo che c’è la guerra di classe, ma è la mia classe, la classe dei ricchi, che la sta facendo e la stiamo vincendo.” (Warren Buffett, 2006)

Gli eventi delle ultime settimane negli Stati Uniti hanno sicuramente costituito un severo monito, soprattutto per chi, come il finanziere Warren Buffett, uno dei tre uomini più ricchi del mondo, poteva crogiolarsi in un illusoria vittoria definitiva della propria classe su quella degli oppressi.
Le notizie di tali eventi hanno fatto rapidamente il giro del mondo e, esattamente come le lotte contro la guerra in Vietnam degli anni Sessanta, hanno infiammato le piazze dei paesi occidentali e di altri continenti.

La forza delle manifestazioni, il timore suscitato dal loro rapido diffondersi, la capacità di risposta politica dimostrata dai manifestanti (in grado di utilizzare tanto la violenza quanto l’abilità di influenzare mediaticamente e politicamente l’opinione pubblica nazionale e internazionale), la strategia messa in atto collettivamente nelle strade e nelle piazze hanno costituito una brutta sorpresa per un potere politico e finanziario che da anni si pensava ormai vincitore nel confronto con i subordinati di ogni colore e credo.

La richiesta improvvisa e radicale dello scioglimento delle forze di polizia o almeno di un loro radicale ridimensionamento e di una sostanziale revisione dell’uso della forza ad esse consentito è stato un passo di portata storica, non soltanto per i movimenti americani ma anche per quelli che in ogni angolo del mondo si oppongono ormai da anni alle violenze poliziesche e, più in generale, dello Stato nei confronti di chi difende, sul fronte opposto, gli interessi di classe, ambientali, di genere e appartenenza culturale e etnica. Defund the police è diventato uno slogan politico che potrebbe avere, anche qui da noi, una funzione niente affatto secondaria per rilanciare il dibattito pubblico sul ruolo attivo delle forze dell’ordine nella repressione sociale e nella creazione di autentici casi giudiziari, come ad esempio in Val di Susa nei confronti del movimento NoTav.

La sorpresa con cui è stata accolta la richiesta da diverse amministrazioni locali statunitensi, la confusione in cui sono rimasti intrappolati i vertici militari e politici manifestano non soltanto un vacuo ‘pentimento’ per le violenze subite da secoli dalla comunità afro-americana, ma anche la crisi sociale, politica ed economica in cui si dibatte ormai da tempo la maggior potenza imperialista dell’Occidente. Una crisi di cui abbiamo parlato già più volte su Carmilla, destinata inevitabilmente a sfociare in un nuovo conflitto globale per il contollo dell’economia planetaria oppure in una nuova guerra civile di cui da tempo si parla negli ambienti politici e culturali statunitensi. Guerra civile che già da anni ispira, anche soltanto metaforicamente, molte trame della produzione letteraria, cinematografica e fumettistica statunitense.

Guerra civile a venire (o forse già in atto) che ha prodotto un immaginario che già la “comprende” e che, a sua volta, spinge, nemmeno più troppo inconsciamente, verso una sua concreta deflagrazione.
Guerra civile che, proprio in quanto tale, non può essere animata e agita da due soli attori, come la concezione tradizionale dello scontro di classe vorrebbe. Le guerre civili infatti decidono di come le società e le economie dovranno essere ristrutturate una volta concluse e una volta emerso il vincitore.

Così fu per la guerra civile americana, durante la quale il presidente repubblicano Abramo Lincoln guidò la costruzione di un’America industriale sulle ceneri di un’altra America agricola, schiavista e dipendente dalle esportazioni verso l’impero britannico. In cui la questione della schiavitù e dell’oppressione divenne dirimente soltanto a partire dal 1863, con il proclama con cui il presidente del Nord abolì la stessa nella speranza che la rivolta degli schiavi mettesse in crisi il Sud, fino ad allora vincente nello scontro militare. Vittoria finale del Nord cui la classe operaia dello stesso, anche sotto l’invito dei socialisti ispirati da Karl Marx e Friedrich Engels, aveva dato un significativo contributo in termini di arruolamento e partecipazione, non tanto per la liberazione degli schiavi afro-americani, quanto piuttosto a favore di uno sviluppo industriale nazionale che permettesse e favorisse lo sviluppo della stessa classe e il miglioramento delle sue condizioni di vita e di partecipazione democratica alla vita politica nazionale.

Ecco, proprio quella guerra civile ci permette di cogliere l’essenza di tutte le guerre civili: più attori in lotta sullo stesso campo, divisi oppure uniti da interessi che talvolta coincidono e ancor più spesso divergono.
Capitalisti industriali del Nord, banchieri, grandi proprietari terrieri del Sud, piccoli proprietari terrieri degli Stati confederati, schiavisti, abolizionisti, afro-americani schiavi oppure liberi nelle principali città del Nord, operai industriali, socialisti, repubblicani, democratici (questi ultimi all’epoca rappresentanti della proprietà terriera del Sud) furono infatti gli attori principali di quel dramma.

La vittoria dei primi dell’elenco delineò il destino di grande potenza degli Stati Uniti, gli schieramenti politici successivi, gli allineamenti di classe rispetto agli interessi nazionali, odii e conflitti mai rimarginati ma, soprattutto, non risolse il problema della sottomissione degli afro-americani al potere bianco che, comunque, da quella guerra non fu minimamente scalfito o indebolito, ma piuttosto rafforzato da alleanze (ad esempio quello tra gli interessi economici del gran capitale e quelli dell’aristocrazia operaia del Nord) semplicemente impensabili prima di allora.

No sun comin’ through my windows
Feel like I’m livin’ at the bottom of a grave

(I don’t live today – Jimi Hendrix, 1967)

Anche la Grande Crisi degli anni Trenta non contribuì ad un ravvicinamento tra gli interessi dei lavoratori, dei piccoli contadini bianchi impoveriti e quelli della comunità afro-americana. Troppo vicine risultavano, soprattutto al Sud, le ferite lasciate ancora aperte dalla guerra civile; troppo nazionalista risultava ancora la politica di una sinistra americana che incoraggiava gli operai bianchi a partecipare allo sforzo collettivo in vista dello scontro militare con le potenze del male, rappresentate all’epoca da Germania, Italia e Giappone (anche se ai vertici dell’establishment economico e politico statunitense non poche erano le simpatie per quei regimi politici) mentre lo stalinismo spingeva i ‘neri’ alla creazione di un proprio stato autonomo nel Sud degli Stati Uniti, basato unicamente sul presupposto della maggior presenza di discendenti degli schiavi, in stati come l’Alabama, la Georgia e il Mississippi, rispetto alla popolazione ‘bianca’.

In realtà la crisi della segregazione razziale ebbe inizio soltanto un secolo dopo, negli anni Sessanta del ‘900, a seguito di una crisi di coscienza politica sviluppatasi tra gli anni della Nuova Frontiera di kennedyana memoria e la critica del macello imperialista in Vietnam, che vide comunque protagonisti, oltre agli afro-americani, gli studenti, gli intellettuali e una parte dei reduci di quella guerra più che i lavoratori della classe operaia o della classe media bianca. Ancor aggrappati, questi ultimi, ad un sogno americano che per gli altri andava rapidamente disfacendosi nella repressione poliziesca dei movimenti giovanili, nei ghetti delle metropoli e nelle paludi del Sud-est asiatico. Soltanto là dove la componente afro-americana era predominante, come nel caso di Detroit, la classe operaia bianca si unì ai neri nella lotta, che ebbe comunque sempre al suo centro rivendicazioni inerenti l’autonomia di classe, il lavoro e le sue condizioni salariali ancor più che i diritti civili1.

La vera novità di queste ultime settimane, invece, è data dal fatto che le proteste hanno coinvolto soggetti diversi, sia dal punto di vista etnico-culturale che di classe, vedendo uniti nelle protesta la comunità afroamericana (che rappresenta circa il 12% della popolazione statunitense) insieme a quella ispanica, nativa americana, asiatica e almeno ad una parte di quella bianca. Un fatto sicuramente inedito per le proporzioni che ha raggiunto nella partecipazione alle proteste.

D’altra parte l’omicidio del quarantaseienne George Floyd, seguito a distanza di pochi giorni da quello del ventisettenne Rayshard Brooks da parte della polizia di Atlanta sono stati non soltanto gli ultimi casi di una catena di violenze e prevaricazioni di cui la comunità afroamericana e vittima da sempre, ma anche le classiche gocce che hanno fatto traboccare un vaso già colmo.

La crescita abnorme delle disuguaglianze sociali nel corso dell’ultimo decennio ha cancellato molte certezze su presente e futuro di singoli e famiglie. La precarizzazione delle vite dei lavoratori e l’impoverimento della middle class sono state ulteriormente aggravate dall’epidemia di Covid-19 che ha colpito in maniera sproporzionata la popolazione nera e, in genere tutte le fasce più deboli della popolazione. Creando le condizioni per una tempesta perfetta.

Al 21 giugno gli Stati Uniti risultano essere infatti il paese maggiormente colpito dall’epidemia con con 2.255.119 casi e 119.719 decessi. In un contesto in cui il settore dell’assistenza sanitaria costituisce:

il più grosso fallimento del sistema economico americano. Un disastro che, oltre a provocare un numero infinito di drammi individuali, lacera pericolosamente il tessuto sociale mettendo con le spalle al muro un ex ceto medio già molto impoverito e accentua ulteriormente le disuguaglianze estreme dell’America del Ventunesimo secolo. E quando le disuguaglianze si misurano non con gli squilibri di reddito ma con la differenza tra vivere e morire, le cose, evidentemente, cambiano.[…] I racconti commoventi o che suscitano rabbia sono infiniti: Pazienti in lotta con il cancro che si sono visti negare la chemioterapia per via di una polizza sanitaria che copriva solo il primo ciclo; malati terminali costretti, tra mille sofferenze, a combatter con i call center della propria assicurazione per negoziare qualche rimborso; migliaia di famiglie andate in bancarotta perché non in grado di pagare il prezzo esorbitante dei trattamenti medici erogati dal pronto soccorso. Il motivo è che in America, oltre alle aziende, possono dichiarare fallimeto anche i singoli individui: l’impossibilità di far fronte alle spese mediche è la prima causa di bancarotta2

Immaginiamo come tutto questo si sia incrociato con la pandemia e aggiungiamo il video di nove minuti girato da una ragazza di 17 anni che in poche ore ha fatto il giro del mondo con un effetto dirompente e, circa 48 ore dopo, il fuoco che ha distrutto il terzo distretto di polizia a Minneapolis, che ha invece prodotto l’immaginario della protesta contro le ingiustizie e il razzismo.

“Col passare dei giorni e delle settimane, la narrazione della vera natura della rivolta continuerà a essere discussa” scrive un cronista che ha seguito da vicino la prima settimana a Minneapolis. “[…] Non puoi fare un censimento durante una rivolta, ma il mio resoconto personale è che i giovani in prima linea sono stati sproporzionatamente neri e marroni, per lo più non affiliati a un’organizzazione ufficiale.“
Ma la vera importante novità sono le seconde linee: li’ trovi anche ispanici, latinos, bianchi, asiatici, nativi americani, donne e persone anche anziane3.

A tutto ciò va poi ancora aggiunto che:

Tra il 1998 e il 2015 gli stabilimenti manifatturieri negli Stati Uniti sono passati da 366.249 a 292.825; soprattutto, il numero delle fabbriche con più di 1000 dipendenti si è quasi dimezzato
(da 1504 a 863) e quello delle fabbriche con 500-999 dipendenti si è ridotto di un terzo (da 3322 a 2072). A sua volta il numero dei posti di lavoro nel settore manifatturiero è passato da 18.640.000 alla fine del 1980 a 17.449.000 nel dicembre 1998, a 12.809.000 nel dicembre 2018, mentre la popolazione passava da poco più di 227 milioni nel 1980 a quasi 276 milioni nel 1998 e a 327 milioni nel 20183.
La seconda rivoluzione industriale aveva creato le grandi città statunitensi, la terza le ha distrutte.
[…] Tra il 1975 e il 2017 il PIL reale degli Stati Uniti è passato da quasi 5500 miliardi a poco più di 17.000 miliardi e la produttività è cresciuta di circa il 60%, ma i salari orari reali di gran parte dei lavoratori sono rimasti invariati o si sono addirittura abbassati. In altre parole, «per quasi quattro decenni una minuscola élite si è accaparrata quasi tutti i guadagni derivanti dalla crescita economica». Il che testimonia, tra l’altro, che i partiti che si sono alternati al potere negli ultimi decenni – «la politica», con poche eccezioni individuali – hanno avuto la non volontà di legiferare a protezione degli strati mediobassi, cioè della maggioranza della popolazione, e hanno mostrato subalternità agli interessi della piccola minoranza dei potentati economici e finanziari.

L’impressionante aumento di ricchezza dei ricchi[…](ha) cancellato molte certezze su presente e futuro di singoli e famiglie. E l’insicurezza prolungata ha prodotto a sua volta estraniamento, isolamento e disperazione. I suicidi sono aumentati del 24% tra il 1999 e il 2014; nello stesso arco di tempo, il tasso di suicidi è cresciuto del 63% per le donne tra i 45 e i 64 anni e del 43% per gli uomini della stessa età. Il loro numero è passato da 29.199 del 1999, a 42.773 del 2014, a 47.173 nel 2017 (quando le morti per alcol e droghe sono state più di 100.000). Infine, il fatto che l’arricchimento dei ricchi sia continuato durante la cosiddetta Grande recessione iniziata nel 2008, ha generato nuove frustrazioni, suscitato risentimenti e minato i pilastri della stessa tradizionale fiducia degli statunitensi nella loro democrazia in quanto prassi sociale informale e condivisa, prima ancora che impalcatura istituzionale.4

A questo punto è facile comprendere come le proteste e i riot che sono seguiti al brutale omicidio di George Floyd in quasi tutti gli stati della federazione, vanno ben oltre la pur fondamentale lotta contro la discriminazione razziale e pongono, invece e in maniera lampante, una questione socio-politica che, forse per la prima volta nella storia americana, potrebbe unificare le differenti componenti etniche in unico, autentico melting pot di classe.

Naturalmente, si è cercato fin da subito di vedere nelle rivolte un complotto dei suprematisti bianchi (tornando all’inveterata tradizione degli opposti estremismi che serve sempre a dipingere come fascista o populista qualsiasi forma di lotta non immediatamente inquadrabile nelle maglie istituzionali)5, ma è indubbio che la pressione sociale negli USA è salita a livelli critici a causa della crisi economica da Covid-19, che ha prodotto nel giro di poche settimane un aumento vertiginoso di richieste di nuovi sussidi di disoccupazione, aumentate di circa 40 milioni.

Anche se la maggioranza dei nuovi disoccupati è probabilmente da ricercare nei settori lavorativi contraddistinti dal precariato e vedono coinvolti soprattutto lavoratori e lavoratrici appartenenti alle minoranze etniche e ai millennial bianchi (i quali ultimi hanno visto ridursi del 16% le loro possibilità occupazionali soltanto tra marzo e aprile6), è altrettanto indubbio che tale situazione ha aperto un ulteriore baratro di fronte agli occhi di quella classe media bianca, operaia e non, che già dal 2008 ha imparato cosa significhi perdere rapidamente non solo il posto di lavoro, ma anche la casa e qualsiasi altro tipo di garanzia sociale ed economica (risparmi e investimenti nei fondi pensionistici privati in primis).

Ecco allora che se nel Michigan lavoratori e miliziani bianchi armati avevano occupato il parlamento dello Stato armi alla mano, nei giorni successivi alcuni gruppi di boogaloo boys (militanti di formazioni armate di varia natura e non sempre apparteneti soltanto alla destra bianca) hanno manifestato solidarietà con la morte di George Floyd, in nome di una comune lotta (boogaloo è, né più né meno, che un sinonimo gergale per guerra civile) contro lo Stato federale, le sue leggi, i suoi apparati di sicurezza e la sua volontà di controllare la diffusione delle armi a discapito del secondo emendamento della Costituzione americana7.

Certo in tale manifestazione di “solidarietà” sono rintracciabili elementi di opportunismo e di provocazione, forse solo un autentico bluff, ma non dimentichiamo mai che, soprattutto tra le frange impoverite dei piccoli farmers tali posizioni estreme, di destra e armate, hanno preso piede da decenni8 proprio a partire dal venir meno di qualsiasi speranza in un ulteriore miglioramento delle proprie condizioni economiche a seguito di un sempre maggior indebitamento nei confronti delle banche, oggi accompagnato spesso dai danni causati in molti territori, ancora utilizzati per l’agricoltura e l’allevamento, dalla pratica del fracking, ovvero della fratturazione idraulica del sottosuolo per la ricerca e l’estrazione del petrolio e dello shale gas.

E’ una geografia politica, mentale e spaziale estremamente frantumata quella degli Stati Uniti attuali.
Un mosaico impressionista di emozioni, rivendicazioni, miseria e rabbia che spesso assume i contorni della dichiarazione di zone liberate. Dalla attuale Zona Autonoma di Capitol Hill a Seattle alla ciclica dichiarazione di indipendenza di zone rurali, caratterizzate dalla rivolta contro il prelievo fiscale e l’austerity di stampo governativo, che hanno contraddistinto la storia della federazione americana dalla Shay’s Rebellion del 3 febbraio 1787 fino ai giorni nostri9.

Stiamo attenti, molto attenti, la creazione di un fronte comune tra bianchi impoveriti, armati e arrabbiati e movimenti afro-americani, ispanici o altri ancora è altamente improbabile, ma come scriveva l’ultimo maestro dello haiku: Eppure, eppure10.
La situazione negli USA è altamente esplosiva e sicuramente i vertici politici, finanziari e militari del paese non possono escludere alcuna possibilità di sollevamento e rivolta sociale. Non a caso gli stessi vertici sembrano aver formalmente “abbandonato “ Trump per concedere ai movimenti ben più di quanto il presidente avrebbe voluto (ovvero nulla o quasi), mentre continua ad abbaiare il suo slogan di Law and Order e le sue minacce di dieci anni di galere per chi imbratta o abbatte le statue del passato colonialista e schiavista.

Lo stesso presidente, però, è ben conscio della situazione altamente instabile con cui ha a che fare e, dal chiuso del suo bunker assediato non solo metaforicamente, non smette di soffiare sull’unica risorsa che gli rimane, almeno apparentemente, per vincere le prossime elezioni: ovvero quello del razzismo e dell’odio viscerale che molti lavoratori, piccoli proprietari agricoli e membri impoveriti di una classe media un tempo fiorente, nutrono nei confronti delle banche, dello Stato federale e di una upper class di cui lo stesso Trump è, in fin dei conti, il più agguerrito rappresentante.

L’elastico delle contraddizioni sociali è ormai teso allo spasmo e qualsiasi errore tattico da parte della classe al potere e dei suoi apparati militari e repressivi potrebbe tracimare in uno scontro il cui finale sarebbe ancora tutto da scrivere. Non a caso Obama, sotto la cui presidenza gli omicidi di afro-americani non sono certo diminuiti, e tutto l’apparato del Partito Democratico spingono per cercare di racchiudere la protesta in un ambito puramente elettorale, in cui la questione dei diritti civili sia l’unica componente unificante.

Fin dalla seconda metà dell’Ottocento, a proposito dei lavoratori irlandesi sfruttati dai padroni e maltrattati dagli operai inglesi, Marx aveva ammonito i secondi, affermando che chi non è in grado di difendere i diritti altrui non è neppure in grado di difendere poi i propri. E tale monito deve continuare a splendere come una stella polare per chiunque abbia a cuore la trasformazione e il superamento del modo di produzione vigente, ma allo stesso tempo occorre che chi vuole lottare efficacemente contro lo stesso tenga presenti tutte le contraddizioni e i bisogni che lo stesso suscita tra segmenti diversi di classe e/o di classi sociali differenti.

Per fare uno scomodo esempio, riferibile all’attuale situazione italiana, sia durante l’epidemia da Covid, con l’obbligo di lavorare per i dipendenti di migliaia di imprese che non si sono mai fermate, che dopo, è qui utile ricordare quanto affermato Sergio Bologna in una recente intervista:

Bisogna inquadrare il problema nella crisi generale della middle class, il richiamo al binomio catena di montaggio/rifiuto del lavoro non serve. I giochi sono cambiati, la classe operaia industriale, si tratti di Rust Belt americana o di Bergamo e Brescia, è uno dei terreni di coltura del populismo trumpista o leghista. Qualcuno pensa di evangelizzarli predicando l’amore cristiano per i migranti, ma bisogna proprio avere la mentalità da Esercito della Salvezza per essere così imbecilli. Lì si tratta di riaprire il conflitto industriale, il tema della salute riproposto dal coronavirus può essere il perno su cui far leva.11

Ecco: il conflitto, industriale e/o sociale, può essere il terreno di coltura di una nuova e allargata strategia di classe che veda finalmente riuniti i differenti temi che agitano le rivolte di ogni tipo in nome di un superamento dell’esistente e non del suo mantenimento in vita in chiave green o pseudo-democratica e liberal. A costo di riprendere l’unico illuminista in grado di proiettarsi oltre l’Illuminismo, Jean Jacques Rousseau, occorre ancora ricordare che l’unica vera disuguaglianza tra gli uomini è quella economica, tra chi ha e chi non ha12. E che da questa, fondamentale a partire dall’invenzione della proprietà privata della terra e dei mezzi di produzione, derivano tutte le altre.

Superare la prima significherà travolgere le altre, anche se secoli di abitudini sedimentate e di incrostazioni ideologiche e religiose avranno bisogno di un certo tempo per essere cancellate del tutto. Cercare di farlo significa però, in maniera tutt’altro che utopistica, cercare di riunificare ciò che il capitale e lo Stato tendono continuamente a dividere per distogliere la rabbia dal conflitto reale e volgerla ad uno più utilmente sfruttabile ai fini del mantenimento dei rapporti di forza attuali tra le classi.

Come ha recentemente affermato Angela Davis:

“Dal mio punto di vista la cosa più importante è cominciare a esprimere idee su come far evolvere il movimento”. Naturalmente si tratta di un aspetto difficile da analizzare nel fervore di una protesta che si sta diffondendo in tutto il mondo. Tuttavia, per Davis è importante capire che l’incendio di un commissariato a Minneapolis o la rimozione della statua di Edward Colston a Bristol non sono la risposta definitiva. “A prescindere da quello che pensano le persone, questi gesti non porteranno un cambiamento reale”, spiega riferendosi alla rimozione della statua. “Ciò che conta è l’organizzazione, il lavoro. Bisogna continuare a lavorare, a organizzarsi per combattere il razzismo, a trovare nuovi modi per trasformare le nostre società. Solo così si può fare la differenza”.[…] Di recente Nancy Pelosi, presidente della camera dei deputati, e alcuni suoi importanti colleghi di partito hanno indossato indumenti di kente, un tessuto tipico ghaneano che gli era stato regalato dai rappresentanti afroamericani del congresso. Il loro obiettivo era mandare un messaggio ai cittadini neri, una base elettorale decisiva su cui il candidato democratico alla presidenza Joe Biden non riesce a far presa. “Lo hanno fatto solo perché vogliono stare dalla parte giusta della storia, ma non è detto che vogliano anche fare la cosa giusta”, risponde Davis con un certo distacco13.

Sia Trump che i democratici stanno soffiando su un fuoco che, però, non è soltanto elettorale, visto che chiunque dei due vinca alle prossime elezioni, avrà grosse difficoltà nel mantenere le promesse fatte e in ogni caso dovrà fare i conti con una rabbia sempre meno celata e sempre meno rimovibile dalle coscienze.

Abbiamo, come già affermato, qui su Carmilla nella serie di articoli sull’Epidemia delle emergenze14, una grande possibilità da cogliere oggi, in America e non solo, a patto di non ridurre il tutto ad una serie di sardineschi inchini e saper invece affrontare la catastrofe che già è in corso, di qua e di là dell’Atlantico.
Perché l’impossiblità di vivere oggi, per la maggior parte della specie umana, è anche la vera ragione della nostra insopprimibile forza.

I don’t, live today
Maybe tomorrow, I just can say
But a, I don’t live today
It’s such a shame to waste
your time away like this
Existing


  1. Sull’eperienza del DRUM (Dodge Revolutionary Union Movement) si veda qui  

  2. M. Gaggi, Crack America. La verità sulla crisi degli Stati Uniti, RCS Media Group, Milano 2020, pp. 57-59  

  3. https://www.infoaut.org/conflitti-globali/dollari-e-no-gli-stati-uniti-dopo-la-fine-del-secolo-americano-intervista-a-bruno-cartosio  

  4. B. Cartosio, Dollari e no. Gli Stati Uniti dopo la fine del «secolo americano», DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 6 – 23  

  5. Come ha affermato il governatore del Minnesota in un articolo di R.J. Armstrong, Minneapolis senza pace: dietro la rivolta, la mano dei suprematisti, la Repubblica, 30 maggio 2020  

  6. F. Rampini, “Generazione sfortunata”. E i Millenial bianchi si saldano alla rivolta, la Repubblica, 9 giugno 2020  

  7. Si veda R. Menichini, Camicie hawaiane e mitra: la destra dei “Boogaloo Bois” in piazza per Floyd (e per la seconda guerra civile), la Repubblica, 16 giugno 2020 oppure anche https://www.bellingcat.com/news/2020/05/27/the-boogaloo-movement-is-not-what-you-think/  

  8. Si pensi soltanto al bellissimo film Betrayed (Tradita), diretto da Costa-Gavras, autore tutt’altro che di destra, nel 1988. Si consultino, inoltre: J. Dyer, Raccolti di rabbia. La minaccia neonazista nell’America rurale, Fazi Editore, Roma 2002 e J. Bageant, La Bibbia e il fucile. Cronache dall’America profonda, Bruno Mondadori, Milano 2010. Infine, per un autentico ed importante case study sulla trasformazione dal punto di vista sociale e politico di un territorio un tempo caratterizzato da una grande tradizione di lotta di classe, si veda A. Portelli, America profonda. Due secoli raccontati da Harlan County, Kentucky, Donzelli Editore, Roma 2011  

  9. Di cui uno dei casi più drammatici è rappresentato dalla violenta repressione della comunità “indipendente” di Waco nel Texas avvenuta nel 1993, sotto la presidenza di Bill Clinton. In tale occasione 76 persone, tra cui molte donne e bambini, bruciarono vive nel rogo che seguì all’assalto delle forze federali alla comunità, dopo un assedio durato 51 giorni. Si veda in proposito C. Stagnaro, Waco, una strage di stato americana, Stampa Alternativa, 2001  

  10. «è di rugiada / è un mondo di rugiada / eppure, eppure» scriveva Kobayashi Issa (1763-1827), dopo aver perso il figlio  

  11. S. Bologna, «E’ giunta l’ora di invocare il diritto di resistenza», il Manifesto, 25 maggio 2020  

  12. J.J. Rousseau, Origine della disuguaglianza (1754), Feltrinelli, Milano 1997  

  13. https://www.infoaut.org/approfondimenti/angela-davis-it-s-about-revolution  

  14. Oggi raccolti in Jack Orlando e Sandro Moiso (a cura di), L’epidemia delle emergenze. Contagio, immaginario, conflitto. Testi e riflessioni di Maurice Chevalier, Fabio Ciabatti, Giovanni Iozzoli, Sandro Moiso, Jack Orlando e Gioacchino Toni, Il Galeone Editore, Roma 2020  

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“Non respiro”: paralipomeni della democrazia ‘made in USA’ https://www.carmillaonline.com/2020/06/17/non-respiro-indagine-sulla-democrazia-made-in-usa/ Wed, 17 Jun 2020 20:20:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60653 di Sandro Moiso

Bruno Cartosio, Dollari e no. Gli Stati Uniti dopo la fine del secolo americano, DeriveApprodi 2020, 220 pp., 18,00 euro

Mentre sono ancora troppi coloro che, soprattutto a sinistra, ritengono inutile e fuorviante qualsiasi tipo di attenzione rivolta alla società statunitense e alla sua cultura, a meno che non si tratti di condannarne l’azione e le scelte imperialiste su scala mondiale, e alle contraddizioni che la segnano fin dalla sua nascita, i fatti delle ultime settimane, sulla scia della brutale uccisione di George Floyd da parte di alcuni agenti [...]]]> di Sandro Moiso

Bruno Cartosio, Dollari e no. Gli Stati Uniti dopo la fine del secolo americano, DeriveApprodi 2020, 220 pp., 18,00 euro

Mentre sono ancora troppi coloro che, soprattutto a sinistra, ritengono inutile e fuorviante qualsiasi tipo di attenzione rivolta alla società statunitense e alla sua cultura, a meno che non si tratti di condannarne l’azione e le scelte imperialiste su scala mondiale, e alle contraddizioni che la segnano fin dalla sua nascita, i fatti delle ultime settimane, sulla scia della brutale uccisione di George Floyd da parte di alcuni agenti della polizia di Minneapolis, dimostrano invece come proprio “nel ventre della bestia” sia possibile rintracciare elementi importanti non solo per l’analisi e l’anticipazione di ciò che l’evoluzione dei rapporti sociali e della crisi economica è destinata inevitabilmente a portare alla ribalta qui da noi nel prossimo futuro, ma anche, e forse soprattutto, per la comprensione e la critica del capitalismo attuale e dell’evoluzione (o involuzione) delle sue strutture statuali, giuridiche e socio-economiche.

Questo non soltanto perché, come già Karl Marx affermava nel Capitale, “il paese industrialmente più sviluppato non fa che mostrare a quello meno sviluppato l’immagine del suo avvenire”, ma soprattutto perché nel corso del XX secolo il modello americano di capitalismo (prima industriale e poi finanziario) ha talmente permeato della propria immagine ogni aspetto delle società occidentali da finire col riflettere non soltanto le proprie contraddizioni, ma anche quelle dell’intero modo di produzione capitalistico nel suo insieme. Sia sul piano economico, sociale e politico, sia su quello dell’immaginario che ne è allo stesso tempo il prodotto e l’elemento fondativo.

Non è quindi un caso che, proprio a partire dagli anni Sessanta, come scriveva trent’anni fa l’autore del presente testo in una premessa ad un’antologia di suoi scritti sul mondo del lavoro americano:

Fu il presente ricco di contraddizioni, di antagonismi sociali e politici, di fermenti culturali degli anni Sessanta a sollecitare una generazione di studenti universitari a porsi domande sugli Stati Uniti e a cercare risposte. […] Fu questo, in buona misura, il caso di chi si avventurò nella ricerca delle radici storiche della rivolta nera e, ancora di più, nello studio della storia del movimento operaio statunitense. Si trattava di sentieri pochissimo battuti, in Italia, eppure erano quelli da percorrere per sapere da dove veniva quel radicalismo che ci aveva attratti: la solidarietà antirazzista e l’egualitarismo dei giovani che lottavano contro l’ingiustizia sociale, l’abnegazione e l’eroismo della gente comune nera nella rivendicazione dei propri diritti civili e umani, l’opposizione attiva contro la guerra del Vietnam, le rivolta dei ghetti. Trovammo che la domanda di trasformazione sociale profonda aveva radici a loro volta profonde e ramificate. Mettemmo a fuoco quella varietà delle componenti culturali che avevamo già intuito dietro alla grande letteratura. Comprendemmo che le forme della politica, da quella istituzionale a quella della protesta, erano tanto diverse dalle nostre.[…] E non fu un fatto solo nostro: quella che si definì fu una «frequenza» su cui avremmo trovato presto sintonizzati anche tanti altri studiosi europei.1

Bruno Cartosio che può essere oggi considerato a pieno titolo, e forse soltanto con Alessandro Portelli, uno dei principali americanisti e studiosi della Storia e della vita politica, sindacale e culturale degli Stati Uniti, nel suo ultimo libro, pubblicato da DeriveApprodi, cerca di cogliere come tale cultura politica, sia sul piano istituzionale che sociale, si sia trasformata negli anni intercorsi, grosso modo, dalla presidenza di Ronald Reagan ai giorni oscuri attuali, contrassegnati dalla presidenza di Donald Trump.

Sono gli anni che, non solo nel pensiero dell’autore, segnano la fine del secolo americano. Anni contraddistinti da convulsioni di carattere economico, politico, sanitario, sociale e militare che manifestano tutte le crepe della crisi di un impero economico, politico e culturale giunto alla fine della sua parabola. Anni che, guarda caso, hanno visto il declino generale dell’influenza del capitalismo occidentale sul pianeta, pur senza far sì che a tale declino di influenza politica ed economica corrispondesse un altrettanto significativo declino della concentrazione delle ricchezze accumulate nelle sue mani. O, almeno, nelle poche mani bianche che ancora ne detengono una significativa porzione.

Per fare questo l’ex-redattore di «Primo Maggio» e docente di Storia dell’America del Nord presso l’Università di Bergamo, deve spingere il suo sguardo ben oltre il periodo storico compreso tra gli anni Ottanta del XX secolo e i Venti di quello attuale, per andare alle radici di quel modello istituzionale di regolamentazione dei rapporti sociali e dei conflitti che ne conseguono che passa sotto il nome di democrazia occidentale o americana.
Regolamentazione e normazione basati sul modello di una carta costituzionale che, proprio nei nascenti Stati Uniti del XVIII secolo, vide la sua prima conferma e affermazione. Vero atto di nascita di quella democrazia occidentale di cui tanto si parla ancora oggi, soprattutto a giustificazione del permanere di un dominio e di un intervento neo-coloniale occidentale in ogni angolo del pianeta, neppure più sostenuto da reali rapporti di forza economico-militari.

Democrazia che dall’irrisolto nodo originario della schiavitù, salariale e non, alla differenziazione di genere, razza e classe si trascina ancora nella promessa di una mai raggiunta eguaglianza dei cittadini davanti allo Stato e alle sue leggi, fatte apposta per conservare tale divaricazione all’ombra di un frondoso e contorto albero i cui rami gemmano di continuo nuove disuguaglianze, mentre le sue radici continuano a sprofondare nelle logiche del dominio e del controllo sociale.

Albero che soltanto, e talvolta, le lotte di classe, sociali, di genere e delle minoranze etniche riescono a sfoltire dei rami morti e decrepiti e a potare per dare spazio ad altri più consoni agli interessi generali, ma che soltanto il lavoro di accetta della rivoluzione potrà far adeguatamente respirare in nome della produzione di altri frutti e di altri interessi, non coincidenti con quelli della produzione, del profitto e della proprietà privata dei suoli, delle risorse naturali e dei mezzi di produzione.

E’ una lunga cavalcata, dalle origini a Trump, che Bruno Cartosio ci offre attraverso le pagine del suo nuovo libro, che ancora una volta prende corpo dalla rielaborazione di testi già redatti o editi per altre occasioni. Un percorso che i lettori potranno seguire dall’eredità culturale e religiosa dei Padri Pellegrini alle politiche repressive e autoritarie varate da George Bush Jr. e dall’idea mitica della Land of the Free (oggi ribattezzata da qualche giornale come Land of the spree – strage o carneficina) a Facebook e al suo implacabile controllo politico e securitario, passando per le reaganomics e le “guerre sporche” di cui i governi americani si sono serviti per il mantenimento del loro dominio su scala mondiale. Un cammino che conduce comunque inesorabilmente a quel ginocchio posto sul collo di uomini, donne, classi sociali e non appartenenti alla “razza” bianca che possono sempre e soltanto dire “Non respiro” oppure rivoltarsi per tornare a farlo. Liberamente. Negli Stati Uniti e in ogni altro angolo del mondo.

The end of an Empire is messy at best
And this Empire is ending
Like all the rest
Like the Spanish Armada adrift on the sea
We’re adrift in the land of the brave and the home of the free
Goodbye
Goodbye
Goodbye

(A Few Words in Defense of Our Country – Randy Newman, 2008)


  1. B. Cartosio, Lavoratori negli Stati Uniti. Storia e culture politiche dalla schiavitù all’I.W.W., Arcipelago Edizioni, Milano 1989, pp. 9-10  

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