Mi5 – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 01 Aug 2025 20:00:30 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Vite brevi ed esemplari delle spie / 3 https://www.carmillaonline.com/2023/08/21/vite-brevi-ed-esemplari-delle-spie-3/ Mon, 21 Aug 2023 20:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78014 di Diego Gabutti

Willy Fisher

1957. Un gruppo di cacciatori di spie dell’FBI fa irruzione in una stanza dell’Hotel Latham, Manhattan, puntando le pistole sull’uomo nudo, sdraiato sul letto, che fuma una sigaretta e contempla le crepe del soffitto. «Lei è in arresto, colonnello! Siamo al corrente delle sue attività spionistiche!» Sono circa le sette del mattino. Ci siamo, pensa lui mentre si mette in piedi. Con una mano si copre la pudenda, con l’altra afferra la dentiera sul comodino e se la caccia in bocca. Con la sigaretta che gli ciondola tra [...]]]> di Diego Gabutti

Willy Fisher

1957. Un gruppo di cacciatori di spie dell’FBI fa irruzione in una stanza dell’Hotel Latham, Manhattan, puntando le pistole sull’uomo nudo, sdraiato sul letto, che fuma una sigaretta e contempla le crepe del soffitto. «Lei è in arresto, colonnello! Siamo al corrente delle sue attività spionistiche!» Sono circa le sette del mattino. Ci siamo, pensa lui mentre si mette in piedi. Con una mano si copre la pudenda, con l’altra afferra la dentiera sul comodino e se la caccia in bocca. Con la sigaretta che gli ciondola tra le labbra, dichiara con voce indignata di chiamarsi Emil Goldfus e protesta contro la violazione dei suoi diritti costituzionali. Pensa (strano pensiero) che da allora in poi dovrà tenere d’occhio Orlov lo Svedese. «Un agente segreto», dirà più tardi al suo avvocato, «si prepara a questo momento per tutta la vita».

«Goldfus», cinque giorni dopo l’arresto, rivela di chiamarsi Rudof Ivanovič Abel, colonnello dei servizi segreti sovietici. Dichiara d’essere stato personalmente istruito da Vjačeslav Michajlovič Molotov (che Stalin chiamava familiarmente «deretano di piombo») durante un’ultima cena al Cremlino, nel 1948, la sera prima di lasciare Mosca per New York. In quanto Abel, agente sovietico confesso, sarà scambiato anni dopo col pilota americano Gary Powers, abbattuto nei cieli dell’Urss durante una ricognizione aerea. Ma il fatto è che Abel non è affatto Abel. È Willy Fischer, nato in Inghilterra nel 1902 da un rivoluzionario di professione bolscevico, nello spionaggio sovietico praticamente fin da bambino.

Il vero Abel è morto l’anno prima a Mosca. Entrambi maestri di guerra segreta, lui e Fischer erano sempre stati inseparabili, come Gianni e Pinotto. Lo racconta Kirtill Chenkin in un memorabile libro di memorie, Il cacciatore capovolto. Il caso Abel, Adelphi 1982, dove spiega che Fischer assume l’identità di Abel, il suo vecchio compagno, per lanciare un segnale alla centrale moscovita: la copertura regge, non sto collaborando, la missione continua.

«Elemento antisovietico», transfuga in Israele dai primi settanta, Chenkin è amico e ammiratore di Fischer, che insieme a Rudolf Abel era stato suo istruttore alla scuola di spionaggio durante la seconda guerra mondiale, quando il Kgb lo aveva reclutato. «Willy», scrive, «mi aveva insegnato a guardare la realtà in modo che ne risalti il lato nascosto. Quando tu hai afferrato l’essenza d’un disegno criptico, non puoi fare a meno di vedere – in mezzo ai rami, o tra le corna d’un cervo – il cacciatore capovolto, non poi tanto abilmente nascosto». Chenkin, che vuole lasciare la scuola di spionaggio perché non gli piace il clima, chiese consiglio a Fischer e questi gli dice, scuotendo la testa, che «una volta spie, si è spie fino alla morte. Ma un ragazzo sveglio», aggiunge poi sottovoce, «può sempre mostrare, volendo, la propria assoluta inettitudine al servizio segreto».

Mangiata la foglia, Chenkin comincia a infastidire i superiori con proposte bislacche. Suggerisce d’istituire strette di mano segrete per riconoscersi tra agenti sul campo. Telefona ai colleghi per informarsi se la ricezione dei messaggi in codice è stata abbastanza chiara. Finché un bel giorno non gli dicono che per il momento la sua collaborazione non è necessaria (non ci richiami, richiamiamo noi). Fischer, insomma, era nel suo mestiere un’autorità indiscussa.

E veniamo allo Svedese, che al momento dell’arresto occupa tutti i pensieri del «colonnello». Aleksandr Michajlovič Orlov, altrimenti detto «lo Svedese» oppure «Nikolskij», è un vecchio bolscevico, capo dello spionaggio sovietico in Europa fino al 1938, epoca di purghe sanguinose, quando declina l’invito di tornare a Mosca da Parigi per conferire con i grandi capi e s’invola dalla capitale francese dopo aver svuotato la cassaforte dell’ufficio. Ormai da vent’anni Orlov vive negli Stati Uniti, vezzeggiato dalla CIA, per conto della quale istruisce le reclute sui metodi e le magie del Kgb. Orlov e Fischer sono vecchi amici.

Perché lo Svedese non smaschera il falso Abel rivelando che il suo vero nome è Fisher? E Willy, ulteriore mistero, che cosa sta esattamente spiando a New York? Segreti atomici americani non ce ne sono mai stati, non per i russi, ai quali fior di scienziati occidentali passano sottobanco tutte le informazioni utili. Ma nessuno di questi informatori, neppure Ethel e Julius Rosemberg, finiti sulla sedia elettrica per spionaggio atomico, passa attraverso la rete di Fischer. Altra stranezza: i Rosenberg morirono sempre negando d’essere spie, mentre lui lo ammise subito, senza essere per questo trattato da traditore e anzi guadagnandosi uno sproposito di medaglie al suo ritorno in Urss, dopo lo scambio con Gary Powers sul «ponte delle spie» di Berlino.

Come fu scoperto? Fu tradito da un maramaldissimo: il tenente colonnello «Heihannen», tra i migliori elementi del Kgb, braccio destro di Willy a Brooklyn. Strana spia, questo Heihannen. Gli agenti segreti praticano l’arte dell’invisibilità affinchè nessuno li noti, mentre lui è sempre ubriaco, picchia la moglie in pubblico, litiga con i vicini di casa, ruba, insulta i poliziotti e si fa arrestare. Una spia che non ha niente da spiare, un disertore da decenni al servizio della Cia che lo può smascherare ma non lo fa, un braccio destro che fa di tutto per farsi notare. Che storia è? Chenkin non ha dubbi: da qualche parte, in questo disegno, c’è un cacciatore capovolto. È possibile, secondo Chelkin, che una falsa rete di spie sia stata offerta a Cia e Fbi per coprire la rete vera, rimasta ignota. È possibile, certo, ma non si saprà mai.

Willy, dice ancora Chenkin, era un fan di Dashiell Hammett, l’autore del Falcone maltese, comunista ed ex detective dell’Agenzia Pinkerton. Negli anni quaranta, alla scuola di spionaggio, Fisher amava raccontare ai suoi allievi la parabola hammettiana di quell’uomo che abbandona tutto per farsi una nuova vita, stanco della moglie chiacchierona e dei figli urlanti, dell’automobile da quattro soldi, del lavoro malpagato e della squalllida villetta di periferia dove abita ormai da troppo tempo, finché non viene ripescato anni dopo alla guida di un’automobile scassata, diretto a una squallida villetta di periferia, dove lo aspettano una moglie chiacchierona e un paio di figli urlanti (vedi Dashiell Hammett, Continental Op. Tutti i racconti, Mondadori 2021). Era la copertura perfetta, il perfetto cacciatore capovolto.

Willy è un Eroe dell’Unione Sovietica quando muore di tumore nel 1971. Istruttore fino all’ultimo del Kgb, il suo migliore amico è il giovane Chenkin, un dissidente. Crede nel socialismo come in una catastrofe inevitabile, dice Chenkin. Ma non molla, e continua a spiare. «Il radioso futuro si è definitivamente rovesciato in notte dei tempi? Che ci vuoi fare? Il mestiere è mestiere».

Bruno Maksimovic Pontecorvo

Fisico delle particelle e storico della scienza, Frank Close ha scritto libri sull’antimateria, sull’epopea della fisica moderna fino alla scoperta del Bosone di Higgs e sulla caccia al neutrino. Proprio il neutrino è la particella a lungo sfuggente di cui segue la pista, tra gli altri, anche il fisico italiano Bruno Pontecorvo, uno dei «ragazzi di Via Panisperna», più tardi noto nella sua seconda patria, l’Urss, come «Bruno Maksimovič Pontekorvo».

Pontecorvo (ma anche un po’ Pontekorvo, il cittadino sovietico membro del Pcus) è l’idolo di Close, che in Vita divisa (Einaudi, 2016) ne racconta la biografia politica e scientifica. Due i Pontecorvo, come due erano anche i Fuchs: il fisico teorico e il comunista. Come scienziato, Pontecorvo fu certamente ammirevole, un pioniere della fisica sperimentale, uno studioso brillante e originale, ma come uomo del suo tempo, devoto per (quasi) tutta la vita alla più grottesca ideologia del secolo breve, fu un disastro.

Nel 1950 fugge con moglie e figli piccoli in Urss, dove per anni non gli è consentito neppure di scrivere ai suoi fratelli (tra cui Gillo, il regista di film comunisti) e ai suoi genitori; dove non lo lasciano mai nemmeno avvicinarsi a un acceleratore di particelle; dove gli tocca vivere per una vita intera in una città che non può lasciare nemmeno per fare un giro a Mosca o a Leningrado; dove non riceve mai una visita dagli scienziati suoi vicini di casa e dove due poliziotti lo scortano ogni giorno da casa al lavoro e dal lavoro a casa.

Intorno alla città segreta e ultrasorvegliata in cui vive da galeotto di lusso, i lavori pesanti sono affidati a prigionieri, gente vestita di stracci, la testa rasata, tutti magri come acciughe, puro Gulag, e «Pontekorvo» pensa che siano lavoratori volontari, giusto un po’ male in arnese (be’, dice di pensarlo, anche se naturalmente non sono pensieri degni del suo QI). Miriam Mafai, nel 1982, intervista lo scienziato ormai ottantenne per un libro-intervista nostalgico e sospiroso; quando Close, molti anni dopo, chiede alla giornalista italiana perché Pontecorvo, secondo lei, ha lasciato la libera Inghilterra per trasferirsi all’inferno, lei risponde con tipica (e ridicola) alterigia togliattiana che «ci sono cose che puoi capire solo se sei comunista».

Pontecorvo aveva un’altra risposta (stavolta degna del suo QI): «Sono stato un cretino». È quel che dice dopo la caduta del comunismo, un’era geologica troppo tardi, «parlando con un giornalista inglese», a beneficio del quale «giudica con franchezza e senza mezzi termini le sue convinzioni del passato». Dice anche di più: «Per molti anni ho creduto che il comunismo fosse una scienza; mi accorgo ora che non è una scienza, ma una religione».

È Kim Philby, a mettere in allarme Pontecorvo, lo scienziato, e Pontekorvo, l’agente segreto, dopo che altre spie atomiche sono state smascherate dall’FBI e una pista di briciole di pane porta fino a lui. Pontecorvo, a quel punto, può soltanto fuggire in Urss, dove da perfetto trinariciuto porta con sé anche i tre figli bambini e una moglie che soffre di crisi depressive. A organizzare la fuga è Emilio Sereni, cugino dello scienziato e pezzo grosso del Partito comunista italiano. Pontekorvo crede nei Processi di Mosca, nel materialismo storico e dialettico; crede persino nel complotto dei medici ebrei (col quale Stalin si gingilla prima di morire). Pontekorvo si beve tutto, ogni sciocchezza, ogni superstizione. È il secolo breve. Alegher.

H.A.R. Philby, in arte «Kim»

Sua moglie, Eleanor Philby: «Lo ricordo come un marito affettuoso, intelligente e sentimentale. Credo che possegga ancora qualcuna di queste qualità. Ha tradito molte persone, me tra le altre. Non gli piace la musica pop, ma qualche tempo fa gli ho spedito un disco dei Beatles, Help».
 
«Non sono un patito dello spionaggio. Della vita di Kim Philby conosco solo i dati basilari. Non ho mai letto una sua biografia, in inglese o in russo, né prevedo che ne leggerò mai una. Tra le alternative che si offrono a un essere umano egli scelse la più aberrante: tradire un gruppo di persone a favore d’un altro», scrive il poeta russo Iosif Brodskij in Un cimelio, un saggio memorabile che trovate in Profilo di Clio, Adelphi 2003.
 
Lui stesso, Philby, fatuo e snob, nella sua autobiografia: «Come, perché e quando sono diventato membro del servizio segreto sovietico è una questione che riguarda solo me e i miei compagni. Dirò solo che, quando mi venne fatta questa proposta, non esitai. Non si discute l’offerta di far parte d’una forza d’élite».
 
Gelido, dopo aver dedicato i suoi libri migliori (perdoniamogli i peggiori, e sono stati tanti) allo studio d’una sorta di metafisica del tradimento, John le Carré si chiedeva, nel 1968, «come passerà Philby il resto dei suoi giorni? Bevendo? Aspettando l’olocausto dell’Inghilterra? Oggi si trincera in una sdegnosa solitudine. Tra dieci anni fermerà i turisti inglesi per le strade di Mosca. Immaginate quell’occhio lacrimoso e quella voce arrochita dal whisky, quel suo charme insinuante. “L’Inghilterra è un paese fascista” dirà. “non potevo non farlo”».

«Ma siamo proprio sicuri che lo fece?» si chiede il logico statunitense Daniel C. Dennett. Figlio del residente Cia a Beirut negli anni cinquanta, studioso degli stati di coscienza, padre della teoria dei «memi», Dennett spiega che «quando Philby si presentò a Mosca per la prima volta, egli era (apparentemente) sospettato dal Kgb d’essere un infiltrato britannico – un triplo agente, se preferite. Per anni è circolata una storia nei circoli dell’intelligence, che sosteneva questa tesi. L’idea è che quando il SIS “esonerò” Philby nel 1951, fu trovato un modo brillante di sistemare il delicato problema della fiducia. “Congratulazioni, Kim, vecchio mio. Abbiamo sempre saputo che eri leale. E come prossimo incarico vogliamo che tu finga di rassegnare le dimissioni dal SIS e che ti trasferisca a Beirut, dove la tua copertura sarà quella di giornalista in esilio”. […] Una volta che il SIS ebbe dato a Philby questo nuovo incarico, le sue preoccupazioni svanirono. Non aveva nessuna importanza se Kim fosse davvero un patriota britannico leale che fingeva d’essere un agente scontento o se fosse veramente un agente sovietico leale che fingeva d’essere un agente britannico leale. Si sarebbe comportato nello stesso modo in entrambi i casi; le sue attività sarebbero state interpretabili e prevedibili da entrambe le prospettive intenzionali speculari».
 
«La smania di presentare Andropov [generalissimo, ex capo del Kgb] come un occidentale in tutto e per tutto non conosce limiti», scrive Kirill Chenkin nel suo pamphlet del 1983 su Jurij Vladimirovič Andropov, che all’epoca era appena salito sul trono di tutte le Russie. «I dettagli più pittoreschi che finora si conoscono sulla vita e le abitudini del nuovo Segretario Generale del Pcus li ha forniti alla stampa, per la maggior parte, un giovane diplomatico sovietico passato in Occidente nel luglio del 1971, Vladimir Sacharov.

Nel 1971 Sacharov aveva appena 26 anni. Qualche mese fa, tredici anni dopo la sua fuga all’ovest, Sacharov, in una intervista a Penthouse, ha aggiunto un altro particolare piccante al ritratto di Andropov. Pare, sostiene Sacharov, che Andropov sia debitore del suo successo, in gran parte, a Kim Philby, ex collaboratore dei servizi di spionaggio inglesi e, per più di vent’anni, spia sovietica, fuggito via Beirut in Urss nel 1963. Stando a Sacharov, Philby, divenuto uno stretto collaboratore di Andropov, avrebbe trasformato il Kgb da una “banda di straccioni” in una organizzazione di altissima efficienza copiata esattamente sull’Intelligence Service britannico.

Il nocciolo della storia, ahimè, è un altro. È difficile, forse, trovare un servizio di spionaggio e controspionaggio che sia stato tanto infiltrato, per decenni, da agenti sovietici come quello britannico. Lo stesso Philby occupava un posto di rilievo nel MI5. E persino il capo da anni dell’intero controspionaggio inglese, sir Roger Hollis, sembra sia stato un agente sovietico, anche se le accuse non furono mai provate. Su sir Roger rimane qualche incertezza. Ma per altri collaboratori dei servizi inglesi, e tutti di rango piuttosto alto, come George Blake, Maclean, Anthony Blunt, i fatti addebitati loro sono stati confermati e ammessi. Eppure tutti si facevano fare gli abiti a Londra. In che senso allora avrebbe potuto prestare i lumi della sua esperienza un Kim Philby alla riorganizzazione del Kgb? Non è chiaro. Sbaglio, o lavorava anche lui per l’organizzazione quand’era ancora una “banda di straccioni”?».

«[Il lavoro di Graham Greene] si svolge a stretto contatto con Kim Philby», scrive Paolo Bertinetti nella cronologia in apertura di Romanzi 1936-1955, il primo volume delle opere di Greene. Con Philby «si instaura un rapporto di reciproca stima durato tutta la vita (negli anni Ottanta Greene s’incontrerà ancora con Philby in Urss). […] Nel maggio 1944, poco dopo una promozione accordata a Philby, che a sua volta gli offriva una promozione, Greene dà le dimissioni dal servizio, per trasferirsi presso un altro organismo, in qualche modo sempre connesso con l’intelligence, che si occupa di propaganda. Perché Greene si sia dimesso in un momento cruciale della guerra, poco prima dello sbarco in Normandia, rimane misterioso e le sue spiegazioni per nulla convincenti, benché sia stata avanzata l’ipotesi che Greene avesse avuto il sospetto che Philby facesse il doppio gioco e che questo fosse il motivo delle dimissioni».

(Fine)

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Vite brevi ed esemplari delle spie / 2 https://www.carmillaonline.com/2023/08/14/vite-brevi-ed-esemplari-delle-spie-2/ Mon, 14 Aug 2023 20:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78009 di Diego Gabutti

Donald Maclean, quarta storia

Inglese di rango, sapendo d’aver perduto un Impero, Donald Maclean non trova di meglio che sostituirlo con la più nobile delle cause: l’imperialcomunismo. Verso i vent’anni, con una mascherina sul viso e il conforto di pochi compagni e di molte bottiglie di whisky, comincia a battersi nell’ombra in favore del Soviet supremo. Troncata da un tumore nel 1983 a Mosca, dove fugge nel 1951 insieme al suo amico Guy Burgess, la sua carriera spionistica è cominciata a Cambridge alla fine anni venti.

È a [...]]]> di Diego Gabutti

Donald Maclean, quarta storia

Inglese di rango, sapendo d’aver perduto un Impero, Donald Maclean non trova di meglio che sostituirlo con la più nobile delle cause: l’imperialcomunismo. Verso i vent’anni, con una mascherina sul viso e il conforto di pochi compagni e di molte bottiglie di whisky, comincia a battersi nell’ombra in favore del Soviet supremo. Troncata da un tumore nel 1983 a Mosca, dove fugge nel 1951 insieme al suo amico Guy Burgess, la sua carriera spionistica è cominciata a Cambridge alla fine anni venti.

È a Cambridge, prestigiosa fucina della classe dirigente britannica, che Mclean e i suoi amici (Burgess, Philby, il consigliere artistico della Regina Sir Anthony Blunt) vengono reclutati da un misterioso arruolatore sovietico. È costui il vero eroe della storia: ingaggia esclusivamente gentlemen, la grande aristocrazia del tradimento, e semina talpe che potranno raccogliere informazioni utili, sempre che la fortuna e il talento li assistano, soltanto molti anni più tardi. Costui insinua un gruppo di sabotatori, tra cui Maclean, nel cuore stesso del sistema nemico, poi rientra nell’ombra.

Figlio d’un baronetto scozzese, morto nel 1932, che ha dedicato tutta la vita alla comunità presbiteriana e al partito liberale, la futura spia cresce in un ambiente nutrito di puritanesimo e buone maniere. Vive la sua omosessualità con vergogna e senso di colpa, a differenza di Guy Burgess, che invece l’ostenta, e buona parte del suo odio contro l’Occidente è forse dovuto al fatto che i suoi compagni di college, tra i quali gli omosessuali suicidi erano stati parecchi, lo chiamavano «Lady Maclean», cosa effettivamente poco simpatica.

Il gruppo dei marxisti segreti di Cambridge, dopo l’università, si separa con una strizzatina d’occhi e, ciascuno secondo la propria vocazione, comincia ad aprirsi una strada verso le casseforti che custodiscono i segreti della nazione. Kim Philby passa al Times e si guadagna un’onorificenza franchista come corrispondente durante la guerra civile spagnola, Anthony Blunt si rende indispensabile presso i curatori delle collezioni d’arte della Real Casa e Guy Burgess infiltra per primo l’Intelligence grazie alle sue entrature omosex con alcuni politici francesi.

Maclean, che tutti giudicano un perfetto tipo fisico da Foreign Office per via dei capelli biondi e dei gelidi occhi azzurri, abbraccia la carriera diplomatica a Parigi dove si segnala, in breve tempo, come una delle speranze diplomatiche del Regno. Il Grande Gioco è cominciato: gli assi truccati sono stati introdotti nel mazzo. Gli anni della guerra, per Maclean, sono operosi e silenziosi. Si sposa (un diplomatico dev’essere sposato, specie se la gente mormora). Come un alpinista che punta alla cima del monte, scala le pareti del Foreign Office fino a raggiungere la suprema vetta del Dipartimento di Stato americano a Washington: esattamente dove i russi pregano di poter infiltrare un loro uomo. Di lassù il suo sguardo spazia tranquillo sulla valle misteriosa della ricerca atomica americana.

Ma è un alcolista, soffre di depressione, e gli cedono d’un tratto i nervi. Maltratta la moglie in pubblico, fa aperta professione d’antiamericanismo senza lacrime per la sua copertura e passa le giornate a sbronzarsi. Washington è irritata dal suo comportamento e la Cia comincia a tenerlo d’occhio. Alla fine, il Foreign Office lo trasferisce al Cairo affinché smaltisca la sbornia e si curi le paturnie. Al Cairo Maclean s’immerge in un’atmosfera di scandalo e una volta tenta persino di strozzare la moglie durante una gita sul Nilo. Sa il cielo perché, in queste condizioni, abbia ancora accesso alle carte segrete.

È proprio allora, quando sbraita e ulula al Cairo, che Maclean prende visione del foglio ultrariservato, da tenersi a tutti i costi lontano da occhi indiscreti, col quale gli americani comunicano agli alleati la loro decisione di non allargare il conflitto coreano neppure in caso di sconfinamento delle truppe cinesi. Proprio l’idea che il conflitto potesse essere allargato ha tenuto a freno, fino a quel momento, l’esercito maoista. Maclean rifischia il documento al suo controllo sovietico e, non appena i cinesi sono informati, subito si lanciano al salvataggio dei fratelli coreani. Tutta l’Asia, ahinoi, sta ancora piangendo lacrime di sangue.

Alla fine, inevitabilmente, c’è il punto di rottura. Ubriaco fradicio, reduce da una rissa, senza scarpe e con gli abiti stracciati, Maclean viene arrestato dalla polizia egiziana. Un paio di giorni più tardi, appena scarcerato, lo caricano su un aereo per Londra. Melinda, sua moglie, s’invola con un principe egiziano e lui, sotto inchiesta da parte dell’Intelligence, si mette in cura da una psicoanalista che, dopo averlo ascoltato per una mezz’ora, gli consiglia d’accettare la sua omosessualità senza scalmanarsi tanto. Dice a tutti di lavorare per Baffone e i più ormai gli credono senz’altro. Melinda, finito l’idillio col bel principe, lo raggiunge in Inghilterra mentre il cerchio degli inquisitori gli si stringe intorno.

A quel punto, ridotto com’è, anche se le prove a suo carico sono solo indiziarie, Maclean sta mettendo a rischio l’intera rete sovietica in Inghilterra. Così deve sparire. Non si capisce bene perché anche Guy Burgess, la cui copertura regge ancora, decide di espatriare con lui. I mastini del Mi5, per ragioni sindacali, smantellano le guardie durante i week end e le due talpe, la sera del 25 maggio 1951, prendono il volo da Southampton per ricomparire a Mosca tre giorni dopo. Philby ammette d’aver messo sull’avviso Maclean «perché, maledizione, dopotutto siamo stati compagni d’università». Poco ci manca che la sua correttezza venga premiata con una medaglia.

A Mosca Maclean è nominato redattore capo d’una rivista scientifica e ogni tanto, in compagnia di Burgess, tiene qualche conferenza stampa per le gazzette occidentali. Melinda lo raggiunse a Mosca: dal che si deduce che l’utopia sovietica ha contagiato anche lei. Philby la scampa fino al 1963 e Anthony Blunt viene individuato solo nel 1979 (ma può darsi che sia stato smascherato insieme a Philby e che in seguito l’Mi5 lo abbia usato come agente doppio). Maclean muore a settant’anni, trenta dei quali trascorsi in un appartamento del centro di Mosca, lontano dai clubs eleganti di Regent’s Park, a un’infinita distanza da Berkeley Square e dal bel mondo londinese.

Trent’anni così, trascorsi a fissare dalla finestra le cupole del Cremlino, senza un amico al mondo. Burgess era morto di cirrosi epatica verso il 1960. Quanto a Philby, col quale avrebbe almeno potuto commentare i risultati del cricket vuotando una bottiglia ogni tanto, gli aveva soffiato la moglie non appena era giunto a Mosca nel 1963, anche lui braccato dagli antichi colleghi, e così non erano più molto amici.

Wystam Hugh Auden

C’era probabilmente un quinto uomo nella banda dei «Cambridge Four», i quattro agenti segreti usciti dalla prestigiosa università inglese, che negli anni Cinquanta fuggirono in Unione Sovietica dopo avere fatto a lungo il «doppio gioco» per Mosca. Come complice o perlomeno «compagno di strada» ebbero uno dei più grandi poeti del Regno Unito: Wystan Hugh Auden, caposcuola di una generazione di scrittori accomunati dall’ impegno politico e dall’interesse per le dottrine di Marx.

Documenti resi noti per la prima volta dagli Archivi di Stato di Kew Gardens, a Londra, rivelano i frequenti contatti che Auden ebbe con Guy Burgess e Donald McLean, due dei «quattro di Cambridge», in particolare nei giorni precedenti la loro defezione in Urss; e descrivono i febbrili tentativi dell’ MI5, il servizio di controspionaggio britannico, e dell’Fbi, suo equivalente americano, per pedinare, intercettare, interrogare il poeta. È un thriller che si conclude senza una soluzione chiara: alla fine il caso viene chiuso, senza che Auden riveli nulla e che i sospetti nei suoi confronti vengano suffragati da fatti.

Ma il dossier ora reso pubblico aggiunge un’altra pagina al romanzo della «Guerra Fredda». Una pagina, va precisato, più nello stile ironico dei libri di Evelyn Waugh che in quello dei thriller di Graham Greene o Le Carrè. Lo interpretano, certo, alcuni dei protagonisti del conflitto a colpi di spionaggio tra Occidente e blocco comunista: Kim Philby, Anthony Blunt e gli altri succitati membri dei «Cambridge Four». Ma sullo sfondo c’è il jet set degli artisti e degli intellettuali di sinistra: salotti letterari, circoli accademici, fino alla villa che Auden aveva a Ischia, dove a un certo punto il poeta va in vacanza, per ritrovarsi assediato dai giornalisti e seguito dalla polizia, anche quella italiana, che lo interroga, alla fine di giugno del 1951, apparentemente su richiesta di Londra.

Un colpo di scena lascia intravedere una sorta di «tradimento», volontario o involontario, da parte di un altro scrittore, Stephen Spender, grande amico di Auden: sarebbe stato proprio Spender a confidare a un giornalista le telefonate intercorse tra Auden e Burgess, uno dei «quattro di Cambridge», pochi giorni prima della defezione in Urss. Omosessuale dichiarato ma sposato con la figlia di Thomas Mann, volontario con le forze repubblicane nella guerra civile spagnola, Auden si trasferì poi negli Stati Uniti e prese la cittadinanza americana. Con Philby e gli altri non si rivide più. «Un intellettuale comunista fortemente idealista», lo descriveva un dispaccio dello spionaggio britannico. Morì a Vienna nel 1973. (Enrico Franceschini, la Repubblica, 2007).

Sentimentalismo progressista

Si potrebbe scrivere un pezzo interessante sul mutamento delle mode e sull’autenticità del sentimentalismo progressista della classe media. Negli anni Trenta abbiamo avuto Mister W.H. Auden, l’idolo dei giovani, che inneggiava alla gloria dei lavoratori per rovesciare il capitalismo con la forza. […] Nonostante il colore politico dominante nelle opere di Spender, Auden e Cecil Day Lewis, va detto che non vi era alcuna profondità politica in esse. Perfino in un lavoro relativamente banale come The Dog Beneath the Skin di Auden e Christopher Isherwood il contenuto politico effettivo, perfino il significato antifascista, è risibile. Il desiderio di fondo di Auden & Co. pare quello di denunciare e ridicolizzare la borghesia di Flaubert più che quella di Marx, dal cui vocabolario si limitano a mimare qualche termine, qualche vago concetto. In un certo senso, questi scrittori conducono in pubblico una vendetta personale contro i propri genitori – vedi The Ascent of F6 [da noi L’ascesa dell’F6, Tararà 2004] del duo Auden-Isherwood ­– o contro le autorità che stanno loro antipatiche. Questa nozione di scrittura politica, dunque, è una specie di terapia per superare alcune difficoltà personali più che un contributo alla riforma della società: una chiave importante per capire l’intero approccio intellettuale alla politica, non solo negli anni Trenta. In effetti, a volte penso che l’intero ceto medio britannico prediliga la politica per una questione, diciamo così, di temperamento. Chi ama la consuetudine e la regola è attratto a destra; chi la odia opta per la sinistra. Lo stesso accade con la famiglia: ad alcuni pare un caldo nido, ad altri, come Isherwood, «l’enorme pipistrello sulla casa», qualcosa da cui fuggire. (Kingsley Amis, Socialism and the Intellectuals).

(Fine seconda partecontinua)

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