merci – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 25 Aug 2025 22:01:33 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 L’insopportabile domino delle cose nella noiosa democrazia-mercato https://www.carmillaonline.com/2021/06/08/linsopportabile-domino-delle-cose-nella-democrazia-mercato/ Tue, 08 Jun 2021 21:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66589 di Gioacchino Toni

Gilles Châtelet, Vivere e pensare come porci. L’istigazione all’invidia e alla noia nelle democrazie-mercato, a cura di Mimmo Pichierri, Meltemi, Milano, 2021, pp. 120, € 15,00

Ad oltre due decenni di distanza dalla sua uscita in Francia nel 1998 e dopo una sua prima pubblicazione in Italia nel 2002 per i tipi di Arcana, arriva in questi giorni nelle librerie italiane una nuova edizione di quello che il curatore del volume definisce il punto d’arrivo di quel percorso personale condotto da Gilles Châtelet «all’insegna dell’insofferenza verso il dominio delle cose [...]]]> di Gioacchino Toni

Gilles Châtelet, Vivere e pensare come porci. L’istigazione all’invidia e alla noia nelle democrazie-mercato, a cura di Mimmo Pichierri, Meltemi, Milano, 2021, pp. 120, € 15,00

Ad oltre due decenni di distanza dalla sua uscita in Francia nel 1998 e dopo una sua prima pubblicazione in Italia nel 2002 per i tipi di Arcana, arriva in questi giorni nelle librerie italiane una nuova edizione di quello che il curatore del volume definisce il punto d’arrivo di quel percorso personale condotto da Gilles Châtelet «all’insegna dell’insofferenza verso il dominio delle cose e di una tendenza irrefrenabile alla rivolta, coniugata con un fortissimo spirito di resistenza nei confronti di ogni forma di irreggimentazione, sia che abbia luogo a livello sociale e politico, oppure istituzionale, ma anche a livello filosofico ed epistemologico» (p. 27).

Come sottolinea lo stesso Châtelet, il titolo dell’opera – Vivre et penser comme des porcs – deriva dal luogo comune che vuole nel suino l’esempio per eccellenza dell’ingordigia, del consumo alimentare smodato, senza limiti che è precisamente quello, secondo il francese, che è divenuto il consumatore contemporaneo: un essere in preda ad una foga bulimica priva di remore e confini merceologici ed etici.

Si tratta di un testo indubbiamente ancorato all’universo francese degli anni Ottanta e Novanta e che, in alcuni casi, può risultare non immediatamente comprensibile a chi non ne conosce le specificità e i protagonisti, ma non è difficile cogliere nei bersagli che Châtelet prende di mira qualcosa di più esteso e che ha i suoi corrispettivi anche in altri paesi, Italia compresa, a partire dalla crescente pervasività dell’immaginario veicolato dalle televisioni commerciali che hanno contribuito e non poco ad affievolire la conflittualità dei decenni precedenti ed a tirare la volata della ristrutturazione economico-politica e culturale in atto in Europa. Come sottolinea Pichierri nella prefazione al volume, non è difficile riscontrare analogie tra le modalità con cui tali cambiamenti sono stati portati avanti nella Francia di Mitterrand, nell’Italia di Craxi e nel Regno Unito di Tony Blair.

I protagonisti dell’ultima stagione di partecipazione politica del Novecento sono poi stati anche gli autori della sua normalizzazione e del suo passaggio all’era del mercato globale integrato, che non lascia più alcuno spicchio di esistenza al di fuori della transazione monetaria totale; non è un caso, lo si ricordava prima, che i grandi condottieri europei già citati – Mitterrand, Craxi e Blair – appartengano tutti all’area della cosiddetta sinistra riformista, o autonomista, come si usava dire in Italia per marcare l’orgogliosa indipendenza dalle nefandezze del PCI, ancora sospettato di nostalgie sovietiche, e che, come ricorda Châtelet, si definisce da subito post sinistra; ancora ricordiamo la “Milano da bere”, esempio concreto di fine della storia, in cui una classe dirigente nuova, ipermoderna (postmoderna?) e disinvolta si lanciava in felici collusioni con imprenditori il cui irresistibile successo aveva un’origine quanto meno opaca […], facendosi portatrice del nuovo e del bello, della gioia ludica infinita [supportata] da una potenza di fuoco nel campo dei media che mai in Europa erano stati appannaggio di gruppi privati (pp. 12-13).

Sembra proprio che, come sostenuto da Gianni Agnelli, occorresse rivolgersi alla sinistra per attuare riforme di destra. Così in effetti è stato. Questa post sinistra italiana, francese e inglese (in quest’ultimo caso proseguendo e portando a compimento quanto iniziato dal thatcherismo), si è prestata a quella che Châtelet ha definito la Controriforma liberale, quella «nuova ideologia trionfante del neoliberismo» – scrive Pichierri – «i cui riferimenti colti sono i due massimi esponenti della scuola marginalista austriaca delle scienze sociali: Ludwig von Mises, che ha inventato il termine libertariano, e Friedrich August von Hayek, padre dell’anarco-capitalismo (guarda caso due nobili appartenenti a famiglie di grandissime influenze accademiche, specie il secondo)» (p. 14).

Ecco dunque quel passaggio dall’ottimismo libertario al cinismo libertariano che Châtelet non esita a definire come vero e proprio processo di putrefazione che conduce, nuovamente, alla cieca fede nella capacità del mercato di autoregolarsi sacrificando, se necessario, la vita di milioni di persone.

Si è così realizzata davvero un’autoregolazione del controllo sociale che non ha quasi più bisogno neppure della forza pubblica per reprimere il dissenso, il quale viene invece soppresso nella culla delle famiglie nucleari; in questo modo, afferma Châtelet, si è riusciti ad addomesticare l’uomo ordinario trasformandolo “in una creatura statistica”, ossia l’uomo medio che fa parlare i sondaggi, con il risultato ulteriore che un dato oggettivo viene ad assumere forza normativa, nel senso che il cittadino-campione, atomo produttore-consumatore di beni e servizi socio-politici, diventa il modello a cui tendere, il riferimento da imitare a tutti i costi, senza più nemmeno la parvenza di un’alternativa di vita. In questo passaggio si registra comunque un progresso, sottolinea con amara ironia Châtelet: all’alba della società di massa, i figli delle classi lavoratrici erano considerati carne da cannone, buoni solo per essere mandati dalle trincee allo sbaraglio contro le linee di fuoco del nemico […], mentre alla fine del secolo la mutazione conduce a (e consente di) trattarli come carne da consenso, vera e propria pasta da informare, dove il verbo informare è da intendersi nella sua doppia accezione, ossia nel senso di riempire di informazioni ma anche, e complementarmente, nel senso di dare forma, di plasmare, come si fa con la plastilina o con l’impasto per il pane. Comincia così a prendere forma il miracolo: la materia prima dell’impasto consensuale viene abilmente manipolata fino a trasformarsi quasi naturalmente in unanimità populista delle maggioranze silenziose. La sinergia tra il populismo classico e l’ondata yuppie ha quindi generato il tecno-populismo, addirittura anni luce prima dell’avvento dei social network, vero protagonista della voracità postmoderna, dedita senza sosta alla ricerca del best of dei beni e servizi di tutto il pianeta per ingozzarcisi fino a scoppiare, e allo stesso tempo altera e spocchiosa nel riempire i social della sua acredine ignorante che tutto giudica e tutto valuta, nell’era dell’uno vale uno, dove ogni imbecille si permette di assumere le pose ieratiche di un Savonarola prêt-à-porter (pp. 16-17).

Nel prendere in esame le modalità con cui negli anni Ottanta e Novanta è stata fomentata ostilità nei confronti di ogni benché minima visione critica nei confronti delle imperanti dinamiche economico-politiche, Châtelet tratteggia quello che diverrà il tecno-populismo espresso e diffuso dalle tastiere dei social e dai politici più intraprendenti del nuovo millennio. «L’intimazione è chiara», sintetizza Pichierri nella prefazione al volume: «bisogna rifiutare come la peste ogni rimasuglio di tensione utopica e bandire qualunque riferimento a Marx e alle contraddizioni genocide del capitalismo, al punto che nel settembre del 2020, nel pieno di una pandemia mondiale, il dipartimento per l’Istruzione del Regno Unito ha ritenuto prioritario inserire nelle proprie linee guida, rivolte a insegnanti e dirigenti scolastici, un indirizzo che bandisce nella scuola ogni riferimento all’anticapitalismo, classificato come “posizione politica estrema” al pari dell’antisemitismo, dei nemici della libertà di espressione e di chi promuove attività illegali!» (p. 20).

Dietro all’insistenza con cui si indica ai rancorosi da tastiera il nemico di turno – “chiudere i porti!”, “serrate i confini”, sono i mantra ripetuti – l’obiettivo, sottolinea Pichierri, pare essere quello di

trasformare i popoli occidentali in funzioni-auditel servili e provinciali, con buona pace delle loro élite intellettuali ormai ridotte a vile manovalanza della Mano Invisibile, che anima queste fucine di facilità mentale che sono diventate le democrazie-mercato. La loro funzione è ormai solo quella di costruire centinaia di milioni di psicologie di consumatori-campione, mentre li vediamo divorati dall’invidia e dalla brama – anche loro, ma oserei dire soprattutto loro, così frustrati dalla primazia della gente di spettacolo – di accaparrarsi ai prezzi più bassi tutti quei graziosi giocattolini che gravitano sul mercato mondiale. “dovete ottimizzare, massimizzare così come respirate!”: è questo lo slogan della classe media mondiale, che vede ormai a portata di mano il prodotto più maturo della Fine della Storia: la realizzazione di una yogurtiera per la produzione di classe media, che gestisce i più infimi fermenti mentali ed affettivi dei nostri protozoi sociali, proprio mentre si spaccia questo volgare capolinea della storia come il completo trionfo dell’individuo. Ma si tratta purtroppo di una caricatura fraudolenta dell’individuo, effetto di un’illusione ottica che spaccia la coazione all’invidia e al conformismo per libertà e autonomia, e che assomiglia più allo spettatore passivo intossicato dai reality show che ad una effettiva autoposizione in un mondo che funziona sulla produzione in serie, di qualunque cosa, fosse anche la commozione per fatti banali ma che riguardano persone che in qualche modo sono al centro dei riflettori (p. 22-23)

La macchina critica messa a punto da Châtelet, contraddistinta da rigore analitico e polemica incendiaria, lontana mille miglia dal pensiero debole che ha infestato gli anni Ottanta e Novanta, mira dritta al cuore della «stanca consensualità del pensiero contemporaneo». La lettura di Vivere e pensare come porci rappresenta una boccata di ossigeno utile nell’asfissia caratterizzante l’attualità dei coprifuoco, del distanziamento sociale e della chiamata all’unità nei confronti di nemici costruiti e propagati da immaginari tossici.

]]>
Corpi, merci, identità. Arte nordamericana e sfera pubblica commercializzata https://www.carmillaonline.com/2021/05/29/corpi-merci-identita-arte-nordamericana-e-sfera-pubblica-commercializzata/ Sat, 29 May 2021 21:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66441 di Gioacchino Toni

«Di fatto, dalla seconda guerra mondiale in poi la storia dell’arte americana può essere descritta come una successione di strategie volte ad ampliare [la] sfera pubblica commercializzata, sia moltiplicando i tipi di manifestazioni visive realizzabili al suo interno che diversificando i soggetti che sono autorizzati a realizzarle» David Joselit

Negli anni Quaranta del Novecento gli approcci artistici di ordine concettuale sembrano rivelarsi inadatti ad un momento storico segnato non solo dagli orrori della guerra, dal ricorso all’atomica e dai campi di sterminio, ma anche da una percezione del futuro nel [...]]]> di Gioacchino Toni

«Di fatto, dalla seconda guerra mondiale in poi la storia dell’arte americana può essere descritta come una successione di strategie volte ad ampliare [la] sfera pubblica commercializzata, sia moltiplicando i tipi di manifestazioni visive realizzabili al suo interno che diversificando i soggetti che sono autorizzati a realizzarle» David Joselit

Negli anni Quaranta del Novecento gli approcci artistici di ordine concettuale sembrano rivelarsi inadatti ad un momento storico segnato non solo dagli orrori della guerra, dal ricorso all’atomica e dai campi di sterminio, ma anche da una percezione del futuro nel segno dell’incertezza in un panorama avviatosi al clima paralizzante e da caccia alle streghe della guerra fredda.

«Noi percepivamo la crisi morale di un mondo che era un campo di battaglia, di un mondo che era devastato dalla tremenda distruzione di una guerra mondiale incombente […] Era impossibile disegnare come prima – fiori, nudi sdraiati, suonatori di violoncello». Così l’artista nordamericano Barnett Newman ha sintetizzato il clima dell’immediato dopoguerra e non solo negli Stati Uniti.

All’interno di tale contesto è innegabile che vi siano state alcune poetiche artistiche che, più di altre, hanno saputo cogliere ed esprimere la sensazione diffusa di angoscia e lo hanno fatto concentrandosi sul rapporto tra individuo, spazio e materia, dunque riproponendo, in ultima analisi, la questione dell’identità dell’essere umano, ora vissuta però come problema di relazione con il cosmo nel suo essere spazio e materia. Si sta parlando di quella stagione “Informale”, per ricorrere al termine con cui viene solitamente indicata in ambito europeo, caratterizzante la scena internazionale a partire dagli anni Quaranta pur nelle inevitabile e profonde differenze locali.

Si tratta di una stagione che abbraccia l’arco temporale di un ventennio a cavallo della metà del Novecento che prende il via con le esperienze di artisti come Jean Fautrier, Jean Dubuffet, Arshile Gorky, Jackson Pollock, Alberto Burri, Lucio Fontana e che ha il suo corrispettivo nipponico nel Gruppo Gutai composto da Jiro Yoshihara, Sadamasa Motonaga, Kazuo Shiraga, Shozo Shimamoto e Atsuko Tanaka. Una stagione che giunge, tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, a divenire un vero e proprio fenomeno di moda perdendo parte del potenziale espresso ai suoi albori.

È a partire dalle peculiarità specifiche dell’Espressionismo astratto nordamericano che lo studioso David Joselit nel suo American Art Since 1945, uscito in lingua inglese la prima volta nel 2003, propone un’analisi della scena artistica statunitense che dal primo dopoguerra giunge fino ai giorni nostri. Nel volume, recentemente tradotto in italiano da Maria Antonella Bergamin – David Joselit, Arte Americana dal 1945 (Postmedia books 2021) –, lo studioso, non accontentandosi delle letture più convenzionali del contesto artistico nordamericano, tendenti forse eccessivamente ad insistere sul ruolo esercitato dalle avanguardie storiche europee sulle neoavanguardie americane, ha inteso concentrarsi piuttosto sulle trasformazioni sociali ed estetiche che hanno caratterizzato il dopoguerra statunitense, trasformazioni che si paleseranno compiutamente nel corso degli anni Sessanta.

Tre sono le dinamiche interrelate su cui Joselit si è concentra: «il consolidamento di una sfera pubblica radicata nel consumo e nei mass media come la televisione e Internet; la manifestazione dell’identità personale come piattaforma prioritaria per la formulazione di rivendicazioni politiche negli Stati Uniti; e il passaggio degli oggetti artistici dai media tradizionali come la pittura e la scultura ai media “informativi” come il testo, la fotografia, gli oggetti ready-made e il video» (p. 9).

Secondo lo studioso l’arte nordamericana del dopoguerra dovrebbe essere vista come derivazione e rappresentazione delle nuove esperienze del pubblico prodotte dalla presenza pervasiva dei mass media visivi, dal mezzo televisivo degli anni Quaranta a Internet degli anni Novanta. «Date queste condizioni, l’identità – una questione presumibilmente privata – ha acquisito la forza politica in passato attribuita a identificazioni collettive come la classe e la nazione. Nell’era del dopoguerra, le esperienze del “pubblico” si verificano sempre più spesso in solitudine o in piccoli gruppi di fronte a uno schermo televisivo o a un computer» (p. 14).

Sarebbe proprio nella confluenza tra le nuove sfere mediatiche pubbliche e l’esperienza politicizzata dell’identità sviluppatasi in concomitanza con queste, che prende piede l’arte nordamericana del dopoguerra. Se tale combinazione è solitamente associata ai movimenti di liberazione degli anni Sessanta – riassumibile nello slogan “il personale è politico” – , secondo Joselit, l’associazione tra il personale e il pubblico (se non il politico) è però già ravvisabile nell’astrazione apparentemente apolitica dell’esperienza del cosiddetto Espressionismo astratto della New York School di artisti come Jackson Pollock, Willem de Kooning, Barnett Newman, Mark Rothko, Clyfford Still e Adolph Gottlieb.

Se l’individualismo può suggerire un’astensione dalla vita pubblica, l’individualità aveva un significato politico potente nell’epoca dell’immediato dopoguerra. Per molti americani durante la Guerra Fredda, l’individualismo – in quanto contrapposto ai modelli di governo associati al fascismo o all’Unione Sovietica stalinista – costituiva una reazione morale e politica adeguata alle nuove realtà globali […] lo sviluppo di uno “stile di vita” privato poteva assumere il significato di un atto pubblico. Se l’individualismo era adottato come una manifestazione politica dei valori americani, esso promuoveva anche lo sviluppo della società dei consumi evidenziando le capacità di valutazione e di analisi dei consumatori a fronte alla sbalorditiva varietà dell’offerta di prodotti nell’opulenta America del dopoguerra (pp. 14-15).

Nell’esperienza della New York School, sostiene lo studioso, il tipo di individualità privilegiato aveva a che fare con l’emozione eroica e la sofferenza di uomini eterosessuali bianchi, considerati all’epoca come rappresentanti “naturali” dell’intera umanità. Già in tale esperienza negli Stati Uniti la questione dell’identità viene posta come categoria pubblica, dunque politica.

Se da un lato le poetiche dell’Espressionismo astratto fanno coincidere la specificità di maschi eterosessuali bianchi con l’essere umano nella sua totalità, tale nozione astratta di comunità consolida e rappresenta una sfera pubblica ben precisa: quella degli Stati Uniti del dopoguerra e, nonostante «l’enfasi apparentemente apolitica degli artisti sull’autonomia, l’individualità e la trascendenza, la loro arte finì per essere associata a valori specificatamente americani» (p. 27).

Con l’esperienza Pop americana le azioni individuali e le ideologie collettive risultano filtrate dal mondo dei mass media. Gli artisti che si rifanno a tale poetica se da una parte tracciano «una mappa della commercializzazione dello spazio pubblico» (p. 61), dall’altra dimostrano come le merci finiscono per assumere «un ruolo di icone pubbliche cariche di valori ideologici al di là delle loro funzioni manifeste» (p. 61). Per questi artisti lo spazio pubblico degli anni Sessanta diviene una funzione della rappresentazione al pari di uno spazio fisico. Nelle opere Pop «la superficie pittorica delle merci – la loro “autorappresentazione” nella pubblicità e nel packaging – viene astratta e riformulata. Le icone che ne derivano tendono a oscurare la funzione utile dell’oggetto commerciale a favore delle sue associazioni ideologiche» (p. 89).

Se il Pop tende a concentrarsi sul “nuovo” e “patinato”, l’Assemblage ricorre invece al «versante più povero della società dei consumi» (p. 91). Si tratta di operazioni bene diverse, sottolinea lo studioso: nel primo caso un oggetto di consumo nuovo subisce un’operazione di traslazione in un diverso contesto (sull’onda del ready-made duchampiano), nel secondo si scorge invece un’operazione di dissenso sociale nel suo associare sovente oggetti di scarto ad esistenze anch’esse di scarto.

Soffermandosi poi sull’esperienza Minimal, lo studioso evidenzia come spesso si sia visto in essa una ridefinizione dell’arte come «relazione tra pubblico, spazi e cose più che come oggetto specifico e autosufficiente» (p. 103). Se tale ambito metteva in relazione «incontri scultorei» tra oggetti e spettatori al fine di evidenziare i meccanismi visivi e psicologici della percezione, nel corso degli anni Sessanta altre poetiche, come Fluxus, hanno invece sviluppato forme interattive di produzione artistica denominate “eventi”.

A metà tra performance e scultura, l’evento si fonda su un numero limitato di azioni collegate alla vita quotidiana che potevano passare quasi inosservate, differenziandosi in ciò dall’happening. Nonostante l’insistenza sul rifiuto di relazioni mercificate, indubbiamente Fluxus non manca di adottare, per quanto ironicamente, modalità desunte dal marketing aziendale in cui gli oggetti vengono riformulati come eventi e le reti di diffusione incorporate nell’opera d’arte.

Assemblage, Minimal e Fluxus, pur in modalità differenti, sostiene lo studioso, hanno esplorato «il posto occupato dalle merci nel mondo e in relazione ai singoli spettatori» (p. 114) ed è proprio attraverso la manipolazione degli oggetti commerciali che hanno inteso «comunicare attraverso il linguaggio pubblico condiviso della società dei consumi» (p. 127).

Nel corso della sua disamina, Joselit sottolinea come l’arte nordamericana degli anni Settanta si sia mossa verso una ridefinizione dell’arte come «puro atto di comunicazione» disinteressato alle «cose materiali», che invece erano parte integrante delle poetiche precedenti. «L’avvento dell’economia dell’informazione basata su tecnologie informatiche allora emergenti, combinato con la diffusione ormai generalizzata dei media elettronici come la televisione, trasformava l’informazione in una sostanza tanto “reale” e soggetta allo scambio dei mercati finanziari quanto qualunque altra merce solida» (p. 117).

La trasformazione dell’opera d’arte in flussi di informazione presupponeva una trasformazione in coloro che operavano in ambito artistico. Se tra i primi artisti concettuali, in prevalenza maschi bianchi, è ancora individuabile una retorica universalizzante, nel corso degli anni Settanta hanno teso ad evidenziare «le esperienze e condizioni di identità particolari basate su genere, razza e sessualità» (p. 145.)

Circa l’arte concettuale, in disaccordo con chi ha individuato la dematerializzazione dell’oggetto artistico, lo studioso vi coglie invece un nuovo tipo di materialità, consono a documentare le «proprietà intellettuali e fisiche dell’artista». (p. 145)

La nozione di arte come sequenza di proposte filosofiche ha […] una doppia implicazione. Mentre, da un lato, suggerisce un’universalità scientifica o logica nella quale la voce individuale dell’artista viene eclissata da autorità sociali senza volto […], dall’altro canto essa riporta nuovamente lo spettatore alla persona intellettuale e fisica dell’artista. Gran parte dell’arte concettuale può essere, quindi, intesa come un tentativo di mappare i confini dell’individuo come entità logica, sociologica o legale […] La cosiddetta dematerializzazione dell’arte prevede […] due tipi di dislocazione. In primo luogo, le opere d’arte venivano reinventate come estensioni della proprietà intellettuale e fisica dell’artista, e in secondo luogo l’enfasi conseguente sulle proposte o sulla body art richiedevano un passaggio da pratiche tradizionali come la pittura e la scultura a nuovi media basati sull’informazione come fotografia, video e testo (pp. 150 e 155).

Se inizialmente gli artisti concettuali tendevano a vedere le loro opere e la loro stessa presenza fisica come “proprietà privata”, nel corso degli anni Sessanta e Settanta spetterà al movimento delle donne evidenziare quanto il privilegio di “possedere” il proprio corpo dipenda dal genere. Dal punto di vista razziale si deve soprattutto alla comunità afroamericana la denuncia delle pretese egemoniche e totalizzanti dell’America anglosassone in ambito valoriale ed estetico.

Se nel corso degli anni Sessanta e Settanta la critica nei confronti dell’estetica tradizionale è spesso portata attraverso il testo e la fotografia, successivamente è la stessa idea di neutralità di tali mezzi informativi ad essere messa in discussione. Anziché porsi nell’ordine di idee di evitare il mercato, diversi artisti degli anni Ottanta e Novanta preferiscono considerarlo «come una sfera pubblica e i linguaggi commerciali come modalità del discorso pubblico» (p. 188). Le questioni del potere di “identificare” o di “identificarsi” sono state centrali negli ultimi decenni del vecchio millennio.

Rivendicando una piattaforma politica sulla base d uno “stile di vita” particolare, gli artisti, come gli attivisti, finiscono per maneggiare gli stessi stereotipi che vorrebbero disinnescare. Non è un caso che gran parte dell’arte più rilevante degli anni Ottanta e Novanta riconosca questo dilemma soffermandosi meno sulle categorie prestabilite dell’identità e più sulle intersezioni e le trasgressioni dei confini tra le stesse. Queste pratiche sono state etichettate di volta in volta come post-etniche, cyborg o post-umane dai teorici di punta degli anni Novanta. In modi diversi, ciascuna di queste categorie critiche auspica modalità di individualità basate sull’azione volontaria o sull’associazione più che su tratti biologici essenziali o su stereotipi culturali (p. 205).

L’emergere sin dal primo dopoguerra americano di una particolare forma di sfera pubblica massmediatizzata e consumista «ha evocato una politica dell’identità nella quale gli individui sono rappresentati attraverso stili di vita e attributi stereotipati intensamente mercificati» (p. 215). Diversi artisti degli anni Novanta intrecciando sociale e biologico hanno tratteggiato un nuovo mondo post-umano ove il corpo è concepito come sfera pubblica. A David Joselit, in chiusura della sua trattazione, non resta che auspicare che l’allentamento delle rigide differenze tra appartenenze di genere, sessuali ed etniche possa «offrire un’alternativa a un mondo ormai totalmente soffocato dalla commercializzazione di ogni gesto, pensiero ed emozione» (p. 215).

]]>
La vita al tempo della peste https://www.carmillaonline.com/2021/01/27/la-vita-al-tempo-della-peste/ Wed, 27 Jan 2021 22:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64673 di Sandro Moiso

Maria Paola Zanoboni, La vita al tempo della peste. Misure restrittive, quarantena, crisi economica, Editoriale Jouvence, Milano 2020, pp. 218, 18,00 euro

«Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre a ogn’altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza». La prima testimonianza scritta dell’incontro tra le prime forme di società capitalistica ed epidemie gravi ha una data compresa tra il 1349, anno in cui Giovanni Boccaccio diede piglio alla penna per ambientare all’interno [...]]]> di Sandro Moiso

Maria Paola Zanoboni, La vita al tempo della peste. Misure restrittive, quarantena, crisi economica, Editoriale Jouvence, Milano 2020, pp. 218, 18,00 euro

«Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre a ogn’altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza». La prima testimonianza scritta dell’incontro tra le prime forme di società capitalistica ed epidemie gravi ha una data compresa tra il 1349, anno in cui Giovanni Boccaccio diede piglio alla penna per ambientare all’interno del panorama delineato dalla diffusione della peste della metà del XIV secolo il Decameron, e il 1351, anno in cui ne terminò la stesura.

E’ necessario cogliere questo collegamento tra albori del capitalismo bancario e mercantile ed epidemie poiché è proprio da quel momento che prende le mosse il testo di Maria Paola Zanoboni pubblicato da Jouvence. Infatti, anche se il capitalismo ha progressivamente spostato le sue radici e le sue origini, e la sua forza politica ed economica, sempre più a Nord e verso Occidente, in realtà le sue forme primitive si manifestarono proprio nei territori delle repubbliche marinare, per i commerci e la cantieristica navale, e di Firenze e di alcune altre città toscane in cui si svilupparono, invece, le prime attività legate al credito e alla manifattura tessile su una scala più ampia rispetto a quella dell’epoca precedente.

Sono infatti poche le pagine iniziali dedicate alle epidemie di peste nell’Antichità, tutte riferite alle testimonianze di Tucidide e Lucrezio, mentre il corpo principale della ricerca si occupa del periodo compreso tra il XIV e il XVII secolo, con una breve puntata nel XVIII per parlare dell’ultima epidemia di peste avutasi in Europa: quella del 1720 a Marsiglia, rapidamente debellata.
In questo periodo di tempo si situa quello che per molti studiosi è considerato come il vero inizio dell’Antropocene1 o, ancor meglio, Capitalocene ovvero quella trasformazione del rapporto uomo-ambiente basato su una progressiva devastazione degli equilibri ambientali e climatici causata dall’estrattivismo, dallo sfruttamento accelerato del suolo e delle risorse naturali oltre che dall’occupazione di una percentuale sempre maggiore di suoli precedentemente “liberi” dalla presenza dell’uomo e delle sue opere. Processo determinato da una ricerca di profitti e accumulo di ricchezze destinate al reinvestimento sempre più esosa, rapida e diffusa.

«Nelle parti orientali incominciata, quelle d’inumerabile quantità de’ viventi avendo private, senza ristare d’un luogo in uno altro continuandosi, verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata»2. Non a caso la peste medievale di cui fu testimone il Boccaccio e intorno a cui si articola buona parte della ricerca, iniziò a diffondersi in Europa seguendo le rotte commerciali tra Oriente e Occidente. In particolare sulle rotte seguite dai genovesi tra i loro magazzini sul Mar Nero e il Mediterraneo.

Mentre sussistevano dubbi sulla contagiosità degli esseri umani, vivi o morti, e degli animali (tra i quali erano però ritenuti pericolosi quelli dotati di pelo o piume), già dal’400 furono infatti individuati nelle merci i veicoli principali dell’infezione:

A Ragusa alla fine del ‘500 le autorità sanitarie consideravano altamente pericolosi la lana e i tessuti di lana, per cui le imbarcazioni cariche di questi articoli e materie prime provenienti da luoghi sospetti non venivano accolte […] verso la metà del ‘600,in ogni caso, sussisteva la perfetta consapevolezza della trasmissione del contagio anche attraverso le merci infette, e di quali oggetti o materiali lo propagassero più di altri. Un documento emanato dalle autorità sanitarie genovesi all’epoca della grande epidemia del 1656/57 elenca minuziosamente i prodotti in cui non si annidava il morbo, quelli in cui si annidava e quelli su cui si era incerti […] la maggior parte del legno, se ruvido e pieno di crepe era tra i principali veicoli di contagio, tanto che fin dal ‘400, nella costruzione dei lazzaretti, erano banditi i soffitti in legno e utilizzato esclusivamente il laterizio3.

«Dico che di tanta efficacia fu la qualità della pestilenzia narrata nello appiccarsi da uno a altro, che non solamente l’uomo all’uomo, ma questo, che è molto più, assai volte visibilmente fece, cioè che la cosa dell’uomo infermo stato, o morto di tale infermità, tocca da un altro animale fuori della spezie dell’uomo, non solamente della infermità il contaminasse ma quello infra brevissimo spazio uccidesse»4. Il ripresentarsi nel XIV secolo della peste, assente fin dall’VIII secolo sul territorio europeo, da un lato colse la società impreparata ad affrontarla e successivamente spinse le autorità a prendere provvedimenti di quarantena e divieto di spostamento non troppo dissimili da quelli attuali. L’autrice ne fa un lungo elenco, pur ricordando che nonostante questo la peste rimase a lungo endemica nel Vecchio Continente: «ripresentandosi ovunque con cadenza decennale, e divenendo parte integrante del normale ritmo di vita, per cui, soprattutto nei centri urbani, la popolazione fu costretta suo malgrado ad adeguarvisi»5. Tutto ciò fa svolgere alla Zanoboni, alcune ulteriori riflessioni:

Comprese in un arco cronologico esteso dall’antichità greca e romana ai primi decenni del XVIII secolo, le epidemie di peste coinvolsero in ogni epoca tutti i possibili aspetti della vita economica, politica, sociale, pubblica e privata, dando ampia materia di discussione a svariate discipline. La storia della medicina e quella sanitaria, la psicologia, la letteratura, la demografia, la storia economica e quella politica, hanno affrontato nel corso dei secoli questo tema affascinante e terribile, mettendo in evidenza impressionanti analogie.
E’ incredibile soprattutto constatare come, nonostante i progressi straordinari delle discipline mediche, gli strumenti a disposizione ai nostri giorni per la prevenzione delle epidemie siano ancora quelli elaborati nel ‘300 a partire dal Nord della Penisola (Milano, Firenze, Venezia, Genova, Lucca), recepiti tardi dal resto dell’Europa (tardissimo dall’Inghilterra), e adottai con successo fino al 17206.

Anche se oggi, infatti, si pone perentoriamente l’accento sui vaccini, occorre qui sottolineare che due scienziate e ricercatrici del King’s College di Londra e dell’università di Bristol, in Gran Bretagna, specializzate in storia della medicina e della scienza, Caitjan Gainty ed Agnes Arnold Forster, spiegano che la speranza che vi stiamo riponendo, almeno sotto l’aspetto di sanità pubblica su scala globale, è esagerata7.
Inoltre, anche Richard Horton, direttore della celebre rivista scientifica “The Lancet”, tra le cinque più autorevoli al mondo, ha voluto sottolineare come

la gestione dell’emergenza, basata solo su sicurezza ed epidemiologia, non raggiunge l’obbiettivo di tutelare la salute e prevenire i morti. Covid-19 non è la peste nera né una livella: è una malattia che uccide quasi sempre persone svantaggiate, perché con redditi bassi e socialmente escluse oppure perché affette da malattie croniche, dovute a fenomeni eliminabili se si rinnovassero le politiche pubbliche su ambiente, salute e istruzione. Senza riconoscere le cause e senza intervenire sulle condizioni in cui il virus diventa letale, nessuna misura sarà efficace. Nemmeno un vaccino.
[…] la sindemia implica una relazione tra più malattie e condizioni ambientali o socio-economiche. L’interagire tra queste patologie e situazioni rafforza e aggrava ciascuna di esse. Questo nuovo approccio alla salute pubblica è stato elaborato da Merril Singer nel 1990 e fatto proprio da molti scienziati negli ultimi anni. Consente di studiare al meglio l’evoluzione e il diffondersi di malattie lungo un contesto sociale, politico e storico, in modo di evitare l’analisi di una malattia senza considerare il contesto in cui si diffonde. Per intenderci, chi vive in una zona a basso reddito o altamente inquinata, corre un maggior rischio di contrarre tumori, diabete, obesità o un’altra malattia cronica. Allo stesso tempo, la maggiore probabilità di contrarre infermità fa salire anche le possibilità di non raggiungere redditi o condizioni di lavoro che garantiscano uno stile di vita adeguato, e così via, in un circolo vizioso.
La sindemia è quel fenomeno, osservato a livello globale, per cui le fasce svantaggiate della popolazione risultano sempre più esposte alle malattie croniche e allo stesso tempo sempre più povere8.

Infine può rivelarsi utile ricordare come già David Quammen, autore del fondamentale Spillover (Adelphi, Milano 2012), abbia suggerito, in largo anticipo, che:

Le ragioni per cui assisteremo ad altre crisi come questa nel futuro sono che 1) i nostri diversi ecosistemi naturali sono pieni di molte specie di animali, piante e altre creature, ognuna delle quali contiene in sé virus unici; 2) molti di questi virus, specialmente quelli presenti nei mammiferi selvatici, possono contagiare gli esseri umani; 3) stiamo invadendo e alterando questi ecosistemi con più decisione che mai, esponendoci dunque ai nuovi virus e 4) quando un virus effettua uno “spillover”, un salto di specie da un portatore animale non-umano agli esseri umani, e si adatta alla trasmissione uomo-uomo, beh, quel virus ha vinto la lotteria: ora ha una popolazione di 7.7 miliardi di individui che vivono in alte densità demografiche, viaggiando in lungo e in largo, attraverso cui può diffondersi […] Più distruggiamo gli ecosistemi, più smuoviamo i virus dai loro ospiti naturali e ci offriamo come un ospite alternativo […] consumiamo risorse in modo troppo affamato, a volte troppo avido, il che ci rende una specie di buco nero al centro della galassia: tutto è attirato verso di noi. Compresi i virus.
Una soluzione? Dobbiamo ridurre velocemente il grado delle nostre alterazioni dell’ambiente, e ridimensionare gradualmente la dimensione della nostra popolazione e la nostra domanda di risorse.
Siamo davvero una specie animale, legata in modo indissolubile alle altre, nelle nostre origini, nella nostra evoluzione, in salute e in malattia9.

Quindi, potenzialmente, la scienza attuale parrebbe aver fatto degli importanti passi in una direzione impensabile nei secoli analizzati dal libro della Zanoboni, mentre al contempo la società umana non è ancora uscita dal modo di produzione che proprio in quel periodo si sviluppava e rafforzava, fino a diventare dominante. Per questo, in attesa di abolirlo insieme a tutte le sue nefaste conseguenze, la lettura e lo studio del testo edito da Jouvence può rivelarsi davvero utile. Tenendo conto del fatto che l’attenzione dell’autrice per le contraddizioni sociale ed economiche e le caratteristiche politiche di una società capitalistica ai suoi albori non è affatto casuale ed è particolarmente presente anche in un altro suo bel libro, edito sempre da Jouvence: Scioperi e rivolte nel Medioevo. Le città italiane ed europee nei secoli XIII -XV (Milano 2015).


  1. E’ grosso modo in questo periodo, intorno alla fine del XVI secolo, che gli storici inglesi Simon Lewis e Mark Maslino situano quell’accelerazione delle trasformazioni destinate a modificare la posizione dell’Uomo sul pianeta e l’affermazione dell’idea di poter dominare la Natura a proprio vantaggio. Simon L. Lewis – MarkA. Maslin, Il pianeta umano. Come abbiamo creato l’Antropocene, Giulio Einaudi editore, Torino 2019  

  2. Giovanni Boccaccio, Decameron, Prima giornata  

  3. Maria Paola Zanoboni, La vita al tempo della peste, Editoriale Jouvence, Milano 2020, p. 41  

  4. G. Boccaccio, op. cit.  

  5. M. P. Zanoboni, op. cit. p. 47  

  6. Ibidem, p. 13  

  7. Simone Cosimi, Perché non bastano i vaccini per sconfiggere un virus, e varrà anche per il Covid-19, “Esquire”, gennaio 2021  

  8. Si veda Edmondo Peralta, “Covid-19 is not a pandemic”: non una pandemia, ma una “sindemia” (qui mentre qui è reperibile l’originale )  

  9. Si veda qui  

]]>