mente – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Processi di ibridazione. David Cronenberg: Interviews https://www.carmillaonline.com/2024/12/19/processi-di-ibridazione-david-cronenberg-interviews/ Thu, 19 Dec 2024 21:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85700 di Gioacchino Toni

David Cronenberg, Una storia di violenza, a cura di David Schwartz, traduzione di Pietro Del Vecchio, Wudz Edizioni, Arezzo-Milano, 2024, pp. 428, € 21,00

Sul finire del 2024, la giovane casa editrice Wudz, nel cui ancora ridotto catalogo non mancano proposte interessanti, ha dato alle stampe, con la traduzione di Pietro Del Vecchio, l’edizione italiana del volume David Cronenberg: Interviews (The University Press of Mississippi, 2021): una corposa raccolta, curata da David Schwartz, di interviste e conversazioni con giornalisti e studiosi rilasciate tra il 1983 e il 2015 in cui il regista canadese passa in rassegna la sua [...]]]> di Gioacchino Toni

David Cronenberg, Una storia di violenza, a cura di David Schwartz, traduzione di Pietro Del Vecchio, Wudz Edizioni, Arezzo-Milano, 2024, pp. 428, € 21,00

Sul finire del 2024, la giovane casa editrice Wudz, nel cui ancora ridotto catalogo non mancano proposte interessanti, ha dato alle stampe, con la traduzione di Pietro Del Vecchio, l’edizione italiana del volume David Cronenberg: Interviews (The University Press of Mississippi, 2021): una corposa raccolta, curata da David Schwartz, di interviste e conversazioni con giornalisti e studiosi rilasciate tra il 1983 e il 2015 in cui il regista canadese passa in rassegna la sua produzione ed i pensieri, le inquietudini ed i desideri che l’attraversano.

Fortunatamente all’aneddotica circa l’infanzia e l’adolescenza di Cronenberg viene riservato uno spazio limitato nelle quindici conversazioni contenute nel volume; nelle quattrocento pagine di colloqui il regista si concentra sui film realizzati fino al 2015, sul suo rapporto con la macchina da presa, sul confronto con la letteratura da cui, in diversi casi, ha derivato le sue opere cinematografiche e, soprattutto, sui processi di ibridazione biologici, meccanici e mediatici che investono l’identità ed i confini del corpo e della mente degli individui.

Vittime ed a volte cause al tempo stesso dei processi di ibridazione e degli effetti devastanti che ne derivano, i personaggi sottoposti alla mutazione nei film del regista vengono catapultati in universi oscuri estranei alle leggi che governano la realtà conosciuta. La disintegrazione dell’identità, vero e proprio filo conduttore della poetica cronenberghiana, in un mondo in continua trasformazione, viene spesso fatta derivare dalla mutazione del corpo.

Cronenberg pare cercare nella malattia, negli incidenti spesso derivati dal rapporto con la scienza e le tecnologie, nella corporeizzazione degli incubi e delle tecnologie stesse, i segni di una mutazione che si presenta anche come via di fuga da una realtà vissuta come insufficiente più ancora che opprimente.

Le ibridazioni e le mutazioni a cui si sottopongono, o sono sottoposti, di volta in volta i personaggi cronenberghiani, oscillano continuamente tra coraggiosa e necessaria, quanto pretenziosa, maldestra e inefficace, ricerca di estensione della propria identità psico-fisica ed assoggettamento a nuove forme di oppressione e dipendenza. Subite o cercate come vie di fuga, le mutazioni  si rivelano insostenibili e non è infrequente che sul finale dei film i personaggi cronenberghiani palesino una vera e propria aspirazione alla morte come estrema forma di risoluzione dell’incapacità di governare le nuove identità in cui si vengono a trovare.

Nella lunga conversazione tenutasi con William Beard e Piers Handling a Toronto nel 1983, Cronenberg si sofferma sulla contrapposizione che istituisce nei suoi primi film – soprattutto in Stereo (1969), Crimes of the Future (1970), Shivers. Il demone sotto la pelle (Shivers, 1975), Rabid. Sete di sangue (Rabid, 1977), Brood. La covata malefica (The Brood, 1979) e Scanners (1981) – tra la sensazione di ordine suggerito dalle asettiche geometrie dei complessi architettonici abitati dai personaggi e le angosce e le inquietudini che essi covano nel profondo.

Nel corso dell’incontro, tenutosi presso The Academy of Canadian Cinema di Toronto, il regista si sofferma, inoltre, su come in Crimes of the Future di inizio anni Settanta, ricorrendo ad una situazione distopica che vede la scomparsa delle donne, abbia voluto indagare come gli uomini «vengano a patti con la parte femminile della loro sensibilità», su come in Shivers, al pari di Rabid e Brood, abbia tentato di «mostrare ciò che non poteva essere mostrato, di dire ciò che non poteva essere detto» mettendo in scena come il caos interiore dei personaggi nasca in ambito privato, individuale, salvo poi espandersi all’esterno dei singoli individui generando, inevitabilmente, una conflittualità più estesa.

Nella conversazione con Beard e Handling, Cronenberg affronta anche Videodrome (1983) evidenziando come il reale sempre più tenda a coincidere con la percezione che si ha di esso, palesando così il suo debito nei confronti di Ballard, e come l’individuo sembri ormai aver perso il controllo della tecnologia e dei media.

Trattando di Videodrome, non poteva che emergere la questione della “nuova carne” a cui, secondo il regista, non si dovrebbe guardare riducendola a perversa macchinazione del potere, bensì come invito a prendere atto di quanto il corpo umano sia nei fatti mutato rispetto a come lo si continua ad immaginare. «Siamo fisicamente diversi dai nostri antenati, in parte a causa di ciò che introduciamo nel nostro corpo e in parte per cose come gli occhiali, la chirurgia e via dicendo». Ecco perché, secondo il regista, per ragionare sull’identità occorre innanzitutto fare i conti con il corpo.

Nel corso dell’intervista rilasciata nel 1989 a George Hickenlooper per la rivista “Cinéaste”, dopo aver spiegato come l’interesse per le energie e le angosce primordiali lo abbia inevitabilmente condotto a scegliere l’horror per la capacità del genere di «rimuovere tutto il materiale estraneo e andare dritto al nocciolo», Cronenberg torna sulla questione dell’identità che attraversa tutti i suoi film. «In cosa consiste un’identità? La personalità è in qualche modo immutabile? Esiste una forma assoluta del sé dall’inizio alla fine della vita di una persona? È un dato mentale o fisico? Se il nostro fisico cambia radicalmente e di conseguenza ci trasformiamo anche da un punto di vista mentale, siamo comunque la stessa persona? Abbiamo la sensazione di esserlo, ma è solo un’illusione?». È da tali interrogativi che deriva un film come Inseparabili (Dead Ringers, 1988).

Se nella conversazione del 1991 con Gary Indiana per la rivista “The Village Voice” il regista si sofferma su Il pasto nudo (Naked Lunch, 1991), argomentando il complesso rapporto con l’opera di Burroughs, nell’incontro tenuto l’anno successivo con David Breskin, poi entrato a far parte del volume curato da quest’ultimo Inner Views: Filmmakers in Conversation (Faber & Faber, 1992), dopo essere stato pubblicato in versione ridotta su “Rolling Stone”, Cronenberg sottolinea come la sua intenzione fosse quella di «mettere in discussione il libro, piuttosto che tentare di rappresentarlo».

Conversando con Breskin il regista si sofferma anche sulle critiche ricevute da critici di sinistra che lo hanno  accusato di conservatorismo in quanto le trasformazioni dell’esistente nei suoi film conducono ad esiti negativi, argomentando che a suo avviso ciò che rende sovversive le sue opere è il loro suggerire altre realtà rispetto a quelle normalmente accettate, il presentare questi altri stati della mente come altrettanto reali.

Nel corso della conversazione il regista spiega anche come abbia voluto andare oltre i canoni degli “horror situazionali” tradizionali, incentrati magari su «l’uomo nel seminterrato con il coltello», preferendovi qualcosa di più complesso e torna sul fatto che molte sue opere terminano sostanzialmente con i protagonisti che desiderano porre fine alla loro esistenza in quanto «unico modo per dare un significato alla nostra morte. Perché altrimenti è completamente arbitraria. È dovuta a un piccolo malfunzionamento del corpo o a un incidente», insomma nell’aspirazione al suicidio dei protagonisti è ravvisabile un ultimo, per quanto disperato, tentativo di riconquistare il controllo su sé stessi. «In tutti i miei film c’è una qualche discussione, subliminale o diretta, sul libero arbitrio e sulla predestinazione. Che si tratti di predestinazione religiosa o genetica non ha molta importanza. È che la sensazione del libero arbitrio è così palpabile e tangibile, eppure le prove contro la sua reale esistenza sono piuttosto convincenti».

Carrie Rickey, che nell’incontro del 1993 con il regista per la rivista “Philadelphia Inquirer” definisce efficacemente le sue opere come «film di guerra in cui il territorio conteso è costituito dal corpo umano», ricostruisce insieme al regista la logica con cui è stato realizzato il film M. Butterfly (1993) riprendendo la pièce di David Henry Hwang ispirata a quello che è passato alla storia come affaire Boursicot, un caso in cui una relazione sentimentale si è trasformato in una questione di politica internazionale che ha fatto clamore a metà degli anni Ottanta. Per quanto M. Butterfly tenda ad essere considerato un film anomalo rispetto agli altri realizzati da Cronenberg, il regista dichiara che in realtà, almeno dal punto di vista tematico, è coerente con le altre sue opere in quanto anche in questo sono presenti quelli che indica come i suoi “tre grandi” interessi. «Ci sono dentro, uno, la mia teoria sul fatto che la sessualità è un’invenzione umana; due, delle persone che inventano la propria realtà, un chiaro atto di volontà immaginativa; e tre, delle persone che scrivono l’opera della loro vita».

A come il regista abbia derivato la sua personale trasposizione cinematografica del romanzo di Ballard nel film Crash (1996) è invece dedicata buona parte della conversazione tenuta nel 1997 con Gavin Smith, per la rivista “Film Comment”. «Quando ho iniziato a leggere Crash», dichiara il regista nel corso dell’incontro, «pensavo a Ballard come a uno scrittore di fantascienza e il libro possiede una sorta di tono fantascientifico. Queste persone sono diverse da noi. Forse noi siamo i loro antenati. L’elemento fantascientifico del libro, che è così difficile da definire, è proprio questo: la psicologia e forse anche la fisiologia, in qualche modo sottile, non sono ciò che consideriamo normale, e possono essere viste come il punto verso cui ci stiamo dirigendo».

A proposito delle reazioni scomposte che hanno accompagnato l’uscita del film, commenta Cronenberg: «Credo che in Crash tutti siano dei fuorilegge. Credo che quello che disturba molte persone sia ciò che succede quando un’intera società diventa fuorilegge». Tranne Veloci di mestiere (Fast Company, 1979), fino a La mosca (The Fly, 1986) tutti i film di Cronenberg, scrive Smith, «si basano essenzialmente su un vaso di Pandora alla cui rottura la ricerca scientifica e le nuove tecnologie minacciano allo stesso tempo l’ordine sociale e l’integrità fisica e psicologica dei suoi personaggi. Da Inseparabili in poi, però, si trasformano in narrazioni ermetiche e spaesate in cui i personaggi scendono all’interno della propria psiche, innescando fratture e deviazioni che rappresentano pure proiezioni della mente».

L’intervista del 1999 di Richard Porton per la rivista “Cinéaste” in occasione dell’uscita di eXistenZ (1999), permette al regista di chiarire la sua posizione nei confronti della scienza e della tecnologia. «Non sono mai stato pessimista nei confronti della tecnologia, è una percezione sbagliata. Probabilmente intercetto le paure del pubblico, ma credo di guardare la situazione in modo abbastanza distaccato, cioè neutrale. Voglio dire: facciamo cose estreme, ma siamo costretti a farle. Creare tecnologia fa parte dell’essenza dell’umanità, è uno dei principali atti creativi. Non ci siamo mai accontentati del mondo così com’è, lo abbiamo manipolato fin dall’inizio. La maggior parte della tecnologia può essere vista come un’estensione del corpo umano, in un modo o nell’altro: nel film lo mostro nel vero senso della parola attraverso i riferimenti alle bioporte. Penso che in questa tecnologia ci siano aspetti positivi ed eccitanti quanto pericolosi e negativi. È un punto di vista molto imparziale su tutta la nostra tecnologia: è qualcosa con cui abbiamo a che fare ogni giorno».

Con eXistenZ, il cui tema principale, come sostiene il regista, riguarda la creazione della realtà, Cronenberg sostiene di aver voluto mostrare come l’essere umano abbia preso il controllo della sua evoluzione naturale. «Non ci evolviamo più secondo le vecchie modalità darwiniane. Altre specie possono farlo, ma noi no. Ci siamo impadroniti del controllo della nostra evoluzione. Nessuno dei vecchi meccanismi che portavano alla sopravvivenza del più adatto è ancora in grado di funzionare. Ne abbiamo solo una vaga consapevolezza, anche se al riguardo si è scritto abbastanza. In termini di evoluzione fisica della specie, tutto è cambiato negli ultimi duecento anni, dopo la Rivoluzione industriale».

Nell’intervista rilasciata a Porton, il regista torna sui motivi per cui i suoi film sono essenzialmente incentrati sul corpo. «Per me, il dato più importante dell’esistenza umana è il corpo e più ci allontaniamo dal corpo umano, meno le cose diventano reali e dobbiamo inventarle. Forse il corpo è l’unico dato dell’esistenza umana a cui possiamo aggrapparci. Eppure il cinema sembra ignorarlo, anche se forse non è così nell’arte in generale. Pensi ad artisti performativi e a pittori insoliti e interessanti come Francis Bacon. Ma nel cinema, in un certo senso, sembra esserci ancora una sorta di fuga dal corpo».

Nel 2003, nell’ambito dei Museum of the Moving Image Pinewood Dialogues, David Schwartz invita Cronenberg a parlare del film Spider (2002), trasposizione cinematografica del romanzo di Patrick McGrath incentrato su un individuo schizofrenico la cui tenue presa sulla realtà è minacciata dai ricordi frammentati di un trauma infantile, mentre A History of Violence (2005) è al centro tanto dell’intervista rilasciata dal regista a Dennis Lim per la rivista “The Village Voice”, che della conversazione tenuta nel 2006 con Nicolas Rapold per “Stop Smiling”, in cui il giornalista sostiene che a risultare inquietanti nei film del canadese «non sono le teste che esplodono o il sesso dopo un incidente stradale oppure ancora il videoregistratore infilato nello stomaco di James Woods. No, il terrore ci coglie quando ci rendiamo conto che queste cose riguardano tutti noi… il modo in cui i nostri corpi determinano le nostre identità e viceversa».

La promessa dell’assassino (Eastern Promises, 2007) è al centro dell’incontro con l’autore nell’ambito dei Museum of the Moving Image Pinewood Dialogues del 2007 organizzato da David Schwartz alla presenza di Steven Knight, l’autore del romanzo da cui il film è stato tratto. In tale occasione Cronenberg approfondisce alcuni dei temi chiave dell’opera, tra cui la rinascita e la reinvenzione.

Nel 2011 la critica cinematografica Amy Taubin, per “Film Comment”, conversa invece con il regista soprattutto a proposito di A Dangerous Method (2001), film in cui Cronenberg, concentrandosi sulla figura di Sabina Spielrein, racconta del serrato confronto tra Jung e Freud agli albori della psicoanalisi. Parlando di quest’ultimo, Cronenberg sostiene che parte del suo genio «risiedeva nel fatto di insistere sull’idea che il corpo umano non fosse separato dalla psiche, che le cose che accadono al corpo si manifestano nella mente e viceversa. Quindi la sua “terapia basata sul dialogo” non consiste soltanto nel parlare. Si rivolge anche al corpo, perché la parola è corpo. È una cosa che Freud aveva capito e che noi usiamo nel film».

L’anno successivo Taubin dialoga nuovamente con il canadese, in questo caso a proposito di Cosmopolis (2012), derivato dall’omonimo romanzo del 2003 di Don DeLillo, sottolineando come questo film, al pari di Videodrome, sia «un film sullo spirito del tempo in cui una nuova tecnologia fa nascere una “nuova carne”»; nel caso di Cosmopolis, scrive Taubin, si tratta di un mondo di cybercapitali che ci conduce nella cyberpsiche di un giovane miliardario trafficante di valute che, in preda alla noia e ad una marcata pulsione di morte, all’interno della sua limousine attraversa una Manhattan paralizzata, come lui, «mentre il suo impero finanziario crolla, forse trascinando con sé l’economia mondiale».

A concludere il volume sono il confronto per il blog inglese “4th Estate” tra la scrittrice Candice McCarty-Williams e Cronenberg circa la sua prova narrativa Divorati (Consumed, 2014) a ridosso dell’uscita in libreria – romanzo edito in Italia da Bompiani con la traduzione Carlo Prosperi –, in cui il canadese pone l’accento su come la scrittura per un romanzo risulti per lui estremamente più intima rispetto alla stesura di una sceneggiatura per un film, e l’intervista rilasciata nel 2015 a Graham Fuller per “Film Comment” incentrata sul film Maps to the Stars (2014) in cui, dietro ad una evidente critica nei confronti di Hollywood, il regista non manca di inserire un’inquietante storia di fantasmi.

Concludendo, il merito di David Schwartz è sicuramente quello di aver saputo raccogliere in questo corposo volume interviste e conversazioni contenendo l’aneddotica sull’autore e le semplici curiosità relative ai film ed alle mostruosità messe in scena in favore di considerazioni e riflessioni del regista canadese sulla sua opera e sul suo immaginario. Una storia di violenza può dirsi un libro rivolto tanto al fandom quanto agli  studiosi dell’opera cronenberghiana.

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Processi di ibridazione. L’identità (è) instabile https://www.carmillaonline.com/2020/10/06/processi-di-ibridazione-lidentita-e-instabile/ Tue, 06 Oct 2020 21:03:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62298 di Gioacchino Toni

Se i film d’esordio Stereo (Id., 1969) e Crimes of the Future (Id., 1970) manifestano già i germi delle ossessioni del cinema cronenberghiano, è con i successivi Shivers – Il demone sotto la pelle (Shivers, 1975) e Rabid – Sete di sangue (Rabid, 1977) che l’autore inizia a focalizzarsi sul contagio e sulla mutazione accentuando, soprattutto nell’ultima opera citata, il coinvolgimento emotivo dello spettatore messo di fronte alla tragica condizione vissuta da chi, una volta mutato, si trova nell’impossibilità di condurre una vita relazionale e sociale tanto dal dover cercare [...]]]> di Gioacchino Toni

Se i film d’esordio Stereo (Id., 1969) e Crimes of the Future (Id., 1970) manifestano già i germi delle ossessioni del cinema cronenberghiano, è con i successivi Shivers – Il demone sotto la pelle (Shivers, 1975) e Rabid – Sete di sangue (Rabid, 1977) che l’autore inizia a focalizzarsi sul contagio e sulla mutazione accentuando, soprattutto nell’ultima opera citata, il coinvolgimento emotivo dello spettatore messo di fronte alla tragica condizione vissuta da chi, una volta mutato, si trova nell’impossibilità di condurre una vita relazionale e sociale tanto dal dover cercare nella morte una via di fuga dalla sua opprimente condizione.

L’ossessione cronenberghiana del mostrare il non-filmabile, materializzandolo, dandogli un corpo, come scrive Gianni Canova nella sua monografia dedicata al regista – David Cronenberg (Editrice Il Castoro, 2007)1 –, fa invece la sua comparsa con Brood – La covata malefica (The Brood, 1979). In tale film viene presentato un mad doctor del tutto particolare in quanto anziché creare in laboratorio l’elemento malefico, lo estrinseca dalla paziente stessa al fine di curarla da una patologia preesistente: la terapia adottata intende liberare i soggetti dalle nevrosi facendo sì che i disturbi psichici vengano somatizzati sotto forma di carne. È così che una vittima di violenze infantili, nel dare forma alla propria rabbia, si trova a partorire bambini mostruosi, asessuati e omicidi: la mente prende corpo, si trasmuta in carne. La malattia in questo caso ha origine nella famiglia della paziente e i bambini da lei partoriti sono la proiezione mostruosa di quanto patito in tale contesto, sono figli dell’odio.

Nella diegesi del film, i “deformi” partoriti da Nola anticipano in un certo senso quell’estensione mass-mediale del corpo a cui i protagonisti di Scanners arriveranno con la telepatia e che il [protagonista] di La zona morta raggiungerà grazie alla sua “seconda vista”. La differenza sta nella centralità assunta in Brood dal tema della maternità: giacché i “deformi” sono propaggini del corpo materno nello spazio, sono appendici ed estensioni fisiche del sistema nervoso che arrivano anche là dove il corpo della madre non può arrivare. Nola partorisce l’orrore: lo espelle da sé, lo fa altro, lo rende autonomo. E lo scarica su coloro (i padri simbolici) che l’hanno generato. […] Ma se l’orrore è una “creatura”, anche l’immagine è tale. E Cronenberg la “partorisce” allo stesso modo in cui Nola dà vita ai suoi deformi nanetti. Che possono essere visti, ancora una volta, proprio come una “corporeizzazione (e una metafora) del cinema: come un film le “creature” di Nola sono asessuate, non vedono che in bianco e nero (l’infanzia del cinema) e “durano poco”. Servono a scaricare impulsi aggressivi, danno corpo ai sogni: anche quando questi sono malsani e dannosi.2

L’ambito famigliare come fonte di malessere è un elemento ricorrente in più opere cronenberghiane; lo si trova in Maps to the Stars (2014) e in Scanners (Id., 1981). In quest’ultimo caso sotto forma di colpe del padre che ricadono sui figli: questi ultimi, costretti a distruggersi a vicenda, sono infatti vittime di un esperimento del genitore non andato a buon fine.

Scanners riprende l’ambito della telepatia, caro alla fantascienza degli anni Cinquanta, piegandolo alla lotta per il possesso della mente. La psiche in Cronenberg però, avverte Riccardo Sasso nel suo volume L’immagine mutante. Il cinema di David Cronenberg (Edizioni Falsopiano, 2018), è tutt’altro che un’entità astratta, capace com’è di generare e di distruggere: «è un’appendice del corpo che ne ha preso (e potenziato) le funzioni, un organo capace di penetrare senza il contatto fisico, è un’estensione (à la McLuhan) del corpo che spinge a riconsiderare il ruolo e i rapporti fra gli altri organi»3.

Scanners è un film che mostra le estreme conseguenze della mutazione; nella celebre sequenza finale, nel corso di una battaglia all’ultimo sangue tra le menti dei due fratelli, uno dei due assorbe l’altro, «si transustanzia in lui, liberandosi del proprio corpo e assumendo le sembianze del fratello»4. Il parto di questa lotta tra i due è un essere mutato, un ibrido con la voce di uno e le sembianze dell’altro, condannato però a non poter essere né l’uno né l’altro. Il confine tra Bene e Male, che in quest’opera sembrava più netto del solito, vacilla nelle sequenze finali, a riprova della sostanziale amoralità della poetica cronenberghiana.

La mosca (The Fly, 1986) è probabilmente uno dei film in cui la questione della mutazione è affrontata più direttamente e di questa, secondo Sasso, si possono cogliere tre momenti principali nel corso del film. Una prima fase, coincidente con l’arrivo della giornalista nella vita del protagonista che determina in esso una mutazione psicologica e comportamentale. Una seconda fase è dettata da quello che lo scienziato percepisce come come “tradimento” da parte della donna: la pubblicazione a sua insaputa sul giornale di un articolo relativo alle sue ricerche determina la decisione di procedere con l’esperimento su se stesso dando luogo a un processo di mutazione che momentaneamente ne aumenta le prestazioni. Il rifiuto della donna di essere a sua volta coinvolta nell’esperimento conduce il protagonista ad allontanarla e a “tradirla” con una donna abbordata in un bar. É da tale tradimento che, secondo Sasso, prende il via la terza fase della mutazione che conduce alla repentina trasformazione dello scienziato in mosca. Come per tutti i mutanti di Cronenberg, ancora una volta al protagonista non resta che cercare nella morte l’unico sollievo possibile alle sofferenze patite.

La mosca estremizza anche quella componente melò ravvisabile, come sottolinea Canova, in buona parte dell’intera opera cronenberghiana: frequentemente a essere messe in scena sono infatti storie di amori impossibili conclusi tragicamente con la morte. Nel film è la mutazione di uno dei due amanti a rendere impossibile la storia d’amore «Com’è possibile continuare ad amare un “io” che diventa un “altro”? Come amare quell’io anche nella sua “alterità”?»5.

Così come La mosca rappresenta il film in cui il regista canadese tratta più direttamente la tematica della mutazione, Inseparabili (Dead Ringers, 1988) è l’opera in cui la questione del doppio viene affrontata più esplicitamente e, proprio come La mosca, anche Inseparabili mette in scena un amore impossibile, inoltre, nuovamente, a far da catalizzatore agli eventi è la comparsa sulla scena di una figura femminile. Ancora una volta i personaggi cronenberghiani sono costretti a cercare nella morte un sollievo alla lancinante impossibilità di godere di una relazione.

Il tema del doppio torna anche ne Il pasto nudo (Naked Lunch, 1991), una pellicola stilisticamente lontana da Inseparabili: «Non più fratelli doppi che muoiono […] per l’impossibilità di separarsi […], ma mogli doppie la cui morte è l’unica soluzione per approdare al mondo salvifico della scrittura, e addirittura intere realtà doppie»6. Ciò conduce a quell’interzona che è «la proiezione mutante della mente allucinata del protagonista, il posto in cui albergano i deliri mentali fatti carne da uno scrittore con troppa fantasia e troppe droghe a disposizione»7. Interzona, dunque, continua Sasso, come spazio oscuro della psiche ove diviene possibile per il protagonista liberarsi delle costrizioni, esorcizzare le ossessioni, luogo popolato dalle forme devianti della sua realtà […] e soprattutto è il luogo di sviluppo del bildungsroman che ridarà senso alla sua vita stanca e monotona: Il pasto nudo»8.

Seppure pellicola anomala nell’ambito della produzione cronenberghiana, M. Butterfly (Id., 1993) contiene diverse ossessioni ricorrenti nella cinematografia del canadese: la mutazione, la sessualità, l’identità, il doppio e il ruolo giocato dall’innamoramento. Attraverso le modalità del melodramma, anche quest’opera mette in scena un’allucinazione, una fantasia in quanto, come sintetizza Canova, si tratta di un film «sull’origine “mentale” del desiderio e sulla genesi “cerebrale” della sessualità. Come se Cronenberg volesse dire che non ci si innamora mai di un altro (o un’altra), quanto dell’idea che ci si è fatti di lei (o di lui)»9.

M. Butterfly racconta di un amore reso impossibile non da una mutazione in atto (La mosca) né da un’incapacità a cambiare rispetto a ciò che si è (Inseparabili), «ma dal rifiuto di prendere atto della distanza che separa la propria idea dell’Altro da ciò che l’Altro effettivamente è»10.

Il ruolo sempre più importante e invadente della tecnologia nella società contemporanea, tanto da renderne dipendente l’essere umano, è al centro di Crash (Id., 1996), film del tutto privo di sviluppo narrativo in cui scene e azioni si susseguono per accumulo e giustapposizione prive di progressione diegetica. «Chiusi nella stanchezza di una routine sessuale che per quanto si accanisca nel moltiplicare i partner e i rapporti è condannata allo scacco dell’appagamento e al continuo deferimento del piacere»11, ciò che i protagonisti cercano negli incidenti stradali sembra essere una nuova forma di incontro, di connubio tra corpi e menti, capace di ridare impulso vitale a esistenze atrofizzate da una realtà ormai priva di rapporti interpersonali.

Se l’invadenza tecnologica ha mutato il principio di piacere e con esso la sfera erotica degli individui, «la carne dei protagonisti di Crash non può prescindere dalla sua appendice tecnologica»12, la carne umana sembra risponde ormai soltanto al contatto con l’agente che ha rimodellato in Ventesimo secolo: l’automobile. Scrive Canova che «i personaggi di Crash sperimentano una dimensione della sessualità che trova nel “feticcio” novecentesco e tecnologico dell’automobile il proprio medium imprescindibile»13.

I corpi si toccano e si penetrano, le bocche parlano e sussurrano, le mani sfregano e palpeggiano, le auto si urtano e si collidono: Crash è un’algida ecografia dell’urto e del contatto, effettuata su corpi che raramente sembrano sorridere o godere, e che più spesso assumono espressioni dolenti e sofferte, come se avvertissero la biologia come un destino che inevitabilmente li condanna a non poter fare a meno di continuare a cercarsi, toccarsi e penetrarsi. […] Crash ci dice così di una civiltà che non può più permettersi il lusso di trovare nella natura (nel corpo, nel sesso, nello sperma, nell’orgasmo) il proprio appagamento, e che è condannata a cercare nell’artificio e nella merce (nella protesi, nella macchina, nel consumo, nell’introduzione violenta e “innaturale” di un desiderio inappagabile) l’unica residua possibilità di affermazione e di appagamento di sé.14

Come avviene in Videodrome ed eXistenZ (Id., 1999), siamo anche qua di fronte a una mutazione psicofisica dell’essere umano in «animale-macchina, una compenetrazione irreversibile tra mente, corpo e tecnologia tale che [l’essere umano] non può vivere (socialmente, sessualmente, addirittura ontologicamente) se non in relazione alla sua parte meccanica»15. La fusione tra essere umano e automobile viene ripresa, pur sotto altra luce, in Cosmopolis (Id., 2012): un corpo ormai ridotto ad alone di se stesso costretto a vivere all’interno dell’abitacolo di un’automobile.

Tornando a Crash, occorre dire del suo essere un film politico. Lo è certo perché mostra come la produzione di incidenti (e di morte) sia funzionale agli interessi dei produttori di automobili, quasi si trattasse di una piccola guerra quotidiana dispensata in dosi omeopatiche che al pari dei grandi conflitti bellici risulta di estrema utilità all’economia capitalista. Ma Crash è un film politico soprattutto per un altro motivo: ciò che ha fatto trasalire molti commentatori abituati a cercare una morale edificante di superficie nei film è che, come ha sottolineato Canova, Crash «mette in scena l’impotenza della politica a governare il desiderio. O perché sottrae al Politico come al teologo, al Sociologo come allo Psicanalista ogni possibilità di controllo sull’individuo e, quindi, ogni possibile e residua funzione»16. Crash è un film che inquieta perché, continua lo studioso,

individua nella possibilità di scegliere come morire l’ultima forma possibile di liberazione dell’individuo e della sua soggettività in un universo che ha ormai definitivamente cessato di essere antropocentrico. […] Crash fa compiere ai suoi personaggi il gesto blasfemo per eccellenza […]: la rivendicazione del diritto a riappropriarsi della vita scegliendo come e quando farla finire.17

Dopo essersi occupato con eXistenZ (Id., 1999) dell’impossibilità di discernere tra livelli di realtà e di virtualità, il regista canadese realizza Spider (Id., 2002), film che, come mette in evidenza Canova, prende il via con le immagini di un treno sulle cui lamiere campeggia un numero identificativo palindromo (47774), quasi a preannunciare che nella vicenda che lo spettatore si appresta a osservare l’inizio e la fine si riveleranno del tutto interscambiabili.

Il film obbliga lo spettatore a compiere un’immersione psicotica nella mente di un protagonista in cui si intrecciano e sovrappongono ricordi, realtà e visioni in ordine sparso: in Spider diviene impossibile discernere tra oggettivo e soggettivo, presente e passato, allucinazione e ricordo. L’opera si rivela davvero una ragnatela, una trappola nel suo essere costruita in modo da precludere allo spettatore di comprendere «se la storia a cui sta assistendo è la messinscena oggettiva della ricerca di un folle che fruga nel proprio passato o l’allucinazione soggettiva dello stesso personaggio che rivive il trauma della sua infanzia deformando la realtà tanto agli occhi di se stesso quanto a quelli dello spettatore»18.

A History of Violence (Id., 2005) appartiene a quel tipo di film che intendono mostrare come la violenza covi sotto la superficie e come, nonostante la sua rimozione alla vista, essa sia parte integrante e fondativa della storia di una comunità o di un’intera civiltà.19. Il film mostra come qualcosa di inquietante si nasconda anche dietro a un individuo come tanti che passa le sue placide giornate in una cittadina della provincia americana: come in altre opere è infatti la presenza congenita della violenza nella vita di tutti i giorni degli esseri umani a essere svelata strada facendo dal film. «Violenza endemica, violenza cronica, violenza appesa sotto la pelle del visibile. Questa è la scommessa [del film]: mostrare quanto sia labile i confine che separa la presenza della violenza dalla sua assenza (dalla sua rimozione), rendere visibile la hybris che abita la nostra tranquilla quotidianità»20.

Con A History of Violence si torna per certi versi alla tematica del doppio attraverso un individuo che manifesta presto la sua duplice identità: un essere che sembra aver messo da parte il male per vivere rettamente ma che si ritrova, improvvisamente, a dovervi ricorrere. Nel momento in cui riaffiora la parte rimossa della sua personalità, nascosta agli occhi di chi lo circonda, che però non è mai stata totalmente eliminata, né, sembra suggerire il film, avrebbe potuto esserlo, ecco che l’identità, ancora una volta nell’opera cronenberghiana, si rivela instabile.

Tra le forme con cui si manifesta la doppia identità del protagonista di A History of Violence vi è quella sessuale. Nel corso del film si succedono due scene di intimità tra i coniugi, separate proprio dal ritorno della violenza nella vita del protagonista, che consentono di esplicitarne l’alternanza identitaria: ad una prima scena che mostra un romantico rapporto amoroso ne succede una seconda in cui l’atto sessuale è consumato con ferocia animalesca.

Anche la famiglia assume una duplice connotazione: se quella d’origine si rivela fonte di violenza, quella costruita rappresenta una via di fuga dalla prima. Per riconquistare la serenità perduta al protagonista non resta che uccidere il fratello e con lui, per certi versi, la parte di sé che aveva invano tentato di soffocare. Ma la violenza pare non essere mai eliminabile; è infatti attraverso essa che il protagonista ritrova il suo posto tra i famigliari che, ignari, almeno fino a quel momento, del suo passato malvagio, dopo averlo scoperto finiscono per accettarlo, mentre il cinema, da parte sua, sembra ancora una volta svelare, nel suo mostrare cosa si nasconde sotto la superficie, come la violenza resti ineliminabile elemento costitutivo del sogno americano.

Anche La promessa dell’assassino (Eastern Promises, 2007) è un film incentrato sulla difficile convivenza tra identità diverse che si scontrano tanto all’interno del corpo sociale quanto all’interno dell’individuo. Se A History of Violence svela il lato oscuro che si nasconde dietro la superficie di individuo apparentemente privo di aspetti negativi, specularmente Eastern Promises, mostra invece la presenza di nobili intenti dietro o un’apparenza malvagia di un agente sotto copertura. Se in quest’ultimo film il protagonista è perfettamente consapevole della duplicità di ruolo che si trova a interpretare, non di meno si trova condannato a questa doppia natura; il suo animo è ormai segnato in maniera indelebile dal lato oscuro della sua vita così come lo è il corpo, inciso da ferite e tatuaggi.

L’interesse per l’instabilità della personalità conduce Cronenberg a un film come A Dangerous Method (Id., 2011) in cui, nell’intreccio tra Jung, Freud e la giovane Spielrein, sostiene Riccardo Sasso, il regista canadese sembrerebbe derivare l’idea della psicanalisi come virus che si insinua nella mente di un essere umano mutandone la conformazione: «tutto il film è l’anamnesi del processo di mutazione che avviene in Carl Gustav Jung dopo l’incontro destabilizzante con Sabina e l’inizio del suo rapporto malato con lei»21.

Jung, secondo Sasso, sembrerebbe fungere da cavia su cui Cronenberg analizza il fenomeno del contagio e a tale scopo il regista insiste nel mostrarlo particolarmente permeabile alle altrui intrusioni nel meandri della propria mente; si lascia persuadere dalle teorie di Freud e, tramite questo, dai convincimenti di Otto Gross, per poi infrangere il rapporto medico-paziente e instaurare con la giovane Sabina Spielrein un rapporto sentimentale e sessuale mutando così da medico in ammalato, mutazione che tocca anche gli altri personaggi, visto che, a loro volta, palesano doppi ruoli. «Il contagio del dottore avverrà per mezzo della sessualità, e per giunta di una sessualità perversa, dal momento che Jung si troverà parte attiva delle devianze erotiche, sadomasochistiche di Sabina»22.


Processi di ibridazione


  1. G. Canova, David Cronenberg, Editrice Il Castoro, Milano 2007. La monografia, uscita la prima volta nel lontano 1993, è stata aggiornata più volte; in questo scritto si fa riferimento all’edizione del 2007 

  2. Ivi, p. 42. 

  3. R. Sasso, L’immagine mutante. Il cinema di David Cronenberg, Edizioni Falsopiano, Alessandria 2018, p. 52. 

  4. Ivi, p. 56. 

  5. G. Canova, op. cit., p. 71. 

  6. R. Sasso, op. cit., p. 90. 

  7. Ivi, p. 98. 

  8. Ibid

  9. G. Canova, op. cit., p. 95. 

  10. Ivi, p. 96. 

  11. Ivi, p. 102. 

  12. R. Sasso, op. cit., p. 111. 

  13. G. Canova, op. cit., p. 100. 

  14. Ivi, pp. 102-103. 

  15. R. Sasso, op. cit., p. 112. 

  16. Ivi, p. 105. 

  17. Ivi, p. 106. 

  18. Ivi, p. 115. 

  19. La messa in scena del ruolo fondativo della violenza per una civiltà lo si ritrova sin dall’antichità; si pensi ad esempio al rilievo dell’Ara Pacis Augustae in cui la Dea Roma viene mostrata seduta su un cumulo d’armi ricordando così non solo come proprio le armi siano fondamenta della civiltà romana e strumenti attraverso i quali è stata riottenuta la pace, ma anche come, al bisogno, a queste si possa nuovamente ricorrere per difendere tutto ciò. 

  20. Ivi, p. 123. 

  21. R. Sasso, op. cit., p. 145. 

  22. Ivi, p. 146. 

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Processi di ibridazione. La realtà (è) nella mente https://www.carmillaonline.com/2020/09/07/processi-di-ibridazione-la-realta-e-nella-mente/ Mon, 07 Sep 2020 21:01:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62110 di Gioacchino Toni

Dopo aver affrontato nello scritto Il demone (è) sotto la pelle alcuni percorsi tra le opere cronenberghiane proposti dal recente volume di Diego Altobelli, Human Fly. David Cronenberg e i luoghi della mutazione (Bakemono Lab edizioni, 2020), riprendiamo qua con il terzo itinerario presentato dallo studioso – Dalle Starliner Towers alla pelle tatuata de La promessa dell’assassino – che prende il via dal complesso residenziale in cui è ambientato Shivers – Il demone sotto la pelle (Shivers, 1975), luogo che metaforicamente mostra come dietro alla bellezza e [...]]]> di Gioacchino Toni

Dopo aver affrontato nello scritto Il demone (è) sotto la pelle alcuni percorsi tra le opere cronenberghiane proposti dal recente volume di Diego Altobelli, Human Fly. David Cronenberg e i luoghi della mutazione (Bakemono Lab edizioni, 2020), riprendiamo qua con il terzo itinerario presentato dallo studioso – Dalle Starliner Towers alla pelle tatuata de La promessa dell’assassino – che prende il via dal complesso residenziale in cui è ambientato Shivers – Il demone sotto la pelle (Shivers, 1975), luogo che metaforicamente mostra come dietro alla bellezza e alla pulizia delle geometrie funzionaliste si nasconda l’orrore che si palesa sotto la forma di efferati omicidi.

Il regista ricorre allo spazio architettonico residenziale come a una metafora del corpo umano: «il residence dove è ambientato il film è in tutto e per tutto un corpo visto dall’interno, con le sue aperture (bocca, naso, orecchie), i corridoi (i vasi sanguigni), i sotterranei e il garage (le viscere)»1, ed è all’interno di queste pareti/epidermide umana che prolificano quei vermi che conducono alla mutazione. In questo caso l’agente di contagio determina la riattivazione di appetiti sessuali eliminando ogni freno inibitorio; è dunque un desiderio sfrenato a dilagare nelle viscere di quelle Starliner Towers che si volevano totalmente assoggettate alla razionalità architettonica, dunque dei corpi umani che, allo stesso modo, si volevano totalmente sottoposti al controllo della ragione.

Attraverso il verme che entra e penetra nelle tubature e nelle intercapedini, il palazzo sembra animarsi diventando il vero antagonista del film: dopo essere stato infetto, il residence “prende vita” condizionando gli abitanti che vivono al suo interno. Così che l’eleganza stilistica della scena, con ambienti puliti, sgombri, arredati con fare moderno, si sporca del germe che muta quegli appartamenti; a un tratto, come spettatori capiamo che non è tanto il parassita a rappresentare il pericolo del contagio, ma il fatto stesso di trovarsi all’interno di quelle mura. Siamo all’interno di un corpo malato, corrotto e irrecuperabile.2

Una volta contagiato anche l’ultimo degli abitanti, questi abbandonano l’edificio per propagarsi all’interno delle arterie della città: l’orda selvaggia – che non manca di rinviare all’immaginario zombie romeriano – potenzialmente può estendere il contagio all’intera città e con essa al mondo intero. Ed è proprio nell’ambientazione metropolitana che nel film successivo, Rabid – Sete di sangue (Rabid, 1977), si diffonde l’orrore. Se in Shivers il parassita permette ancora agli esseri umani un’esteriorità “normale”, con Rabid, sostiene Altobelli, la mutazione pare compiere un passo ulteriore intaccando anche l’aspetto esterno.

Anche in questo caso non mancano anaologie con gli zombie romeriani ma, scrive Gianni Canova nella sua monogrfia dedicata al canadese (Editrice Il Castoro, 20073) che se in un film come La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1968) di Geroge Romero «si ha una struttura centripeta che conduce tutte le creature risorte dalla tomba a concentrarsi attorno alla casa isolata che diventa il simbolo dell’ultima resistenza degli umani, Rabid sete di sangue presenta invece una struttura centrifuga che porta i personaggi ad allontanarsi dalla clinica Keloid, lungo un percorso narrativo che si sfrangia e si ramifica nel territorio urbano, seguendo i rigangoli capillari del propagarsi della malattia»4.

Anche in Rabid le ambientazioni assumono un valore simbolico: «la Keloid Clinic è il ventre che partorisce il mostro, dopo averlo tenuto in incubazione, esattamente come le Starliner Towers del film precedente; i viali della città di Montreal diventano flussi sanguigni dove si consuma la follia»5. L’esperimento scientifico – il trapianto di pelle necessario alla protagonista – diviene elemento mutante che, incontrollato e incontrollabile, dilaga in una città presentata come estensione del corpo della donna, ulteriore passo verso l’infezione dell’intero pianeta.

A ben guardare, sostiene Altobelli, Shivers e Rabid, nonostante l’apparenza, non sono poi così distanti da La promessa dell’assassino (Eastern Promises, 2007 ), ultima tappa di questo terzo itinerario. Si tratta, in questo caso, di un film costruito sulla pelle, un’epidermide solcata da tatuaggi, cicatrici e ferite che si fa testimone della storia dei personaggi attraverso un linguaggio che però, al pari delle diverse lingue che si intersecano e dei codici comportamentali delle diverse parti in lotta, risulta pressoché incomprensibile. Ancora una volta, in fin dei conti, sostiene lo studioso, si tratta di un film sulla convivenza di diverse identità all’interno di un unico corpo e di nuovo, suggerisce Cronenberg, la convivenza di più entità appare impossibile. Nel film ogni corpo è in qualche modo connesso a un altro e il regista racconta il legame tra i personaggi e tra gli spazi. «L’identità passa per forza di cose dal corpo, dice Cronenberg, ma passa anche […] dalle ferite che su quella pelle sono inferte. Sono loro – i segni, i tagli, i tatuaggi – a svelare l’identità. Ma cos’è diventato l’uomo, quando alla fine del percorso si è rivelato?»6.

Il quarto itinerario proposto dal volume – Alla Civic Tv per la proiezione di A Dangerous Method – parte da Videodrome (Id., 1983), un viaggio allucinatorio in cui la percezione dello spettatore si fonde con quella del protagonista, a sua volta ormai inestricabile dalla televisione in un intrecciarsi di piani che confonde il grado di mediazione dell’immagine. Chi guarda cosa? Attraverso quale mediazione? Quando per il protagonista, e per gli spettatori, la video-allucinazione ha iniziato a intrecciarsi, sovrapporsi, sostituirsi alla realtà? Se, riprendendo Marshall McLuhan, si pensa al monitor televisivo come a un’estensione del sistema nervoso umano, la distinzione tra i piani sembra allora farsi davvero impossibile.

In una celebre sequenza del film viene mostrato un talk show televisivo in cui O’Blivion «parla attraverso la televisione. Anzi, è lui stesso la televisione. Lo show televisivo, infatti, invita un televisore (!) che proietta l’immagine del professore che interagisce con gli ospiti come se fosse presente con loro»7. Lo spettatore, al pari dei personaggi, subisce un vero e proprio martellamento visivo fatto di schermi e richiami al concetto stesso di vedere e alla sua ambiguità. La realtà, suggerisce il film, è la nostra percezione della stessa e «per concepirla l’unico elemento sono le immagini. Se lo sguardo convince il nostro cervello che ciò che vediamo è vero, il corpo si adeguerà di conseguenza»8.

Il rapporto tra realtà e percezione del reale viene ripreso in eXistenZ (Id., 1999), che per certi versi rappresenta un aggiornamento di Videodrome, una fase successiva del processo di mutazione in atto in cui Cronenberg elimina ogni punto di riferimento per lo spettatore costretto ad accontentarsi di perdere atto di ciò che vede «alla ricerca di una via di uscita da quel corpo in cui, non si sa bene quando, come o perché, ci si è ritrovati»9.

Rispetto a Videodrome, secondo Altobelli, eXistenZ pare persino più inquietante in quanto ogni situazione mostrata viene percepita dallo spettatore come del tutto reale nel momento in cui si sta svolgendo e ciò perché, una volta che si accetta di entrare insieme ai protagonisti nel gioco, tutto può essere accettato. Forse, si potrebbe aggiungere, nel frattempo è cambiato, e parecchio, anche lo spettatore rispetto ai primi anni Ottanta… qualche “decennio televisivo” in più e massicce dosi di schermi sempre più indissociabili dal corpo hanno mutato drasticamente l’individuo e il livello di ciò che è disposto ad accettare nella fruizione10.

In eXistenZ Cronenberg, oltre alla percezione del reale, azzera persino lo spazio e il tempo (la protagonista a un certo punto si mette persino “in pausa”), «eXistenZ non inizia e non finisce, i suoi confini sono sfumati al punto da essere impercettibili: l’inizio di eXistenZ può tranquillamente essere considerata la sua fine, in un circolo infinito della percezione»11. Al termine della proiezione il dubbio di aver assistito a una mera allucinazione senza capo né coda può far capolino ed ecco allora che l’itinerario proposto da Altobelli ci conduce al film A Dangerous Method (Id., 2011) ove ci si trova a chiedersi cosa la protagonista femminile realmente veda e cosa no. Altobelli definisce l’opera un elegante «dramma della perversione» che narra del triangolo relazionale vissuto per qualche anno da Freud, Jung e la giovane Sabina Spielrein. «Pericolosi (dangerous) echi (method) della coscienza che, al netto dell’uso che ne vogliamo fare, porteranno comunque all’annientamento. I sogni, appunto, le visioni. Come quelle che avevano invaso la realtà in Videodrome e eXistenZ. Epiloghi concettuali iniziati in uno studio di psicanalisi»12.

Il quinto itinerario – In macchina. Cosmopolis e la fusione possibile – proposto da Altobelli prende il via da Veloci di mestiere (Fast Company, 1979), un film spesso considerato un corpo estraneo all’interno della produzione cronenberghiana ma che a suo modo, secondo lo studioso, risulta comunque utile per comprendere la poetica del regista canadese in quanto, pur essendo ancora ben lontani da quelle «intuizioni apocalittico/emotive» che si ritroveranno in Crash (Id., 1996), già in questo film si intravedono i germi di alcune tematiche ricorrenti nel cinema del canadese. «Il film è un’appendice che già mostra, dietro il rassicurante racconto della rivalsa di un corridore contro un sistema corrotto, tutti quei dispositivi tossici che andranno a insinuarsi nella poetica di Cronenberg e che porteranno all’ossessione morbosa (corporale e mentale) descritta in Crash»13. In quest’ultimo film Altobelli vede un’opera sull’incomunicabilità,

un’allarmante e lucida riflessione sulla natura umana e sul suo bisogno di esprimersi a un livello primordiale, usando il corpo e il sesso. È un film sussurrato dove i protagonisti subiscono i fatti che si susseguono con un atteggiamento passivo e remissivo; la loro unica reazione è dettata dal desiderio carnale dell’accoppiamento. Dall’illusione che il breve momento di estasi derivato da questo impulso possa far loro dimenticare le rispettive inquietudini, i malesseri, la sottintesa depressione che, in effetti, sembra caratterizzare tutti i personaggi.14

James Ballard, a proposito della sua prova letteraria, ne parla come del primo romanzo pornografico basato sulla tecnologia. D’altra parte anche il film che ne ha tratto Cronenberg tratta del rapporto perverso uomo/macchina, natura/tecnologia. «Ecco quindi un’altra contrapposizione impossibile: la natura (l’uomo, il sesso, il corpo) e la tecnologia (le macchine, che rappresentano anche il cosiddetto progresso) sono due entità inconciliabili»15. Tale fusione, sottolinea Altobelli, al pari di altre trattate dal canadese, vedono la ricerca della convivenza infrangersi sul desiderio del singolo individuo. Se in altre opere la razionalità capitolava sotto l’illusione di un orizzonte comune, «in Crash è l’istinto a prevalere e a far capitolare già per questo ogni possibilità di buon esito dell’incontro»16.

Pur chiamato a essere testimone delle perversioni dei personaggi, lo spettatore sembra restare, per quanto stupito, abbastanza indifferente di fronte alla sessualità esibita in Crash: «l’assenza di una vera struttura narrativa coinvolge anche noi come spettatori che vaghiamo, come fa Ballard, attraverso una serie di ambienti urbani e industriali»17. Nastri d’asfalto, garage ospedali… come nei primissimi film di Cronenberg – Stereo (1969) e Crimes of the Future (1970) – i protagonisti, e con essi gli spettatori, si spostano da un ambiente a un altro senza una logica particolare. In Crash al regista, sostiene lo studioso, sembra interessare cosa c’è “dietro” l’atto sessuale, più che quest’ultimo e qui abbiamo soprattutto disperazione e solitudine.

La città è l’altro corpo che viene stuprato, scorticato, scoperto totalmente. Cronenberg mostra le corsie stradali come mostrerebbe le arterie che scorrono sotto pelle. In quelle strade i personaggi diventano globuli rossi, sono cellule, piastrine pronte a defluire e a emergere quando qualcosa (la lamiera, il ferro) taglia quel corpo, quella pelle (la strada, la città). Come a dire: facevamo già parte di un tutto e non lo sapevamo. L’esito di una separazione è necessariamente la morte. Senza appello. E nel confronto tra vita e morte, non ci resta che la tragica fine di un’esistenza vissuta senza scopo.18

È in Cosmopolis (Id., 2012) – atto d’accusa senza appello nei confronti di un sistema che non riesce, non può, fare a meno di rende tutto moneta di scambio – che secondo Altobelli si assiste alla fusione desiderata in Crash: «il corpo è già all’interno della macchina, è già fuso in essa. […] è un corpo (visivamente) immateriale all’interno di un guscio (l’automobile) che lo irrobustisce fino a dargli quella forma che nella sua natura manca [in quanto] morto prima del tempo»19. Qua la carne diviene inconsistente; siamo di fronte a un fantasma alla ricerca di «una sua identità fisica lontana dall’involucro ipertecnologico della limousine in cui è costretto a vivere in una simbiosi che rimanda naturalmente a film come Crash o Veloci di mestiere, ma certamente anche alle mutazioni di La mosca, o alle coesistenze metafisiche di Videodrome»20.

L’ultimo tragitto tra le opere cronenberghiane proposto da Altobelli – A Hollywood, per Maps to the Stars – prende il via con M. Butterfly (Id., 1993), film in cui «il sesso è una liberazione, un atto naturale e anche, per la prima volta nel cinema di Cronenberg, sentimentale. Eppure il dramma è dietro l’angolo»21, forse perché, ancora una volta nulla è come pare. In questo film a mutare non è il singolo ma la coppia stessa. «La coppia di amanti dall’equivoca identità, sfocerà nella mutazione quando l’uomo diverrà la donna di cui (non) si è innamorato. È come se Cronenberg tentasse di rivelare cosa si nasconde sotto la (nuova?) carne. La pelle è un coperchio fatto per essere divelto dal furore passionale del sentimento»22.

In Brood – La covata malefica (The Brood, 1979), il regista mette in scena l’impossibilità di una famiglia di concretizzarsi come entità e lo fa attraverso un percorso a tappe allegorico disseminato di sottotesti. Nel film si è posti di fronte a immagini mentali che prendono vita e si danno a vedere, allucinazioni visive o percettive che attraversano la mente anche dei personaggi di Maps to The Stars (Id., 2014), punto d’approdo di questo ultimo percorso proposto da Altobelli. Questo ultimo film mette lo spettatore di fronte a un’umanità distorta quanto il sistema a cui appartiene e da cui è stata plasmata. Maps to the Stars insiste sulla necessità dell’essere umano di mostrarsi, sulla dipendenza dall’immagine che lo rappresenta e lo Star System hollywoodiano mostra qua di contenere al suo interno il germe dell’autodistruzione innescata dal desiderio di essere altro, dramma che, sostiene Altobelli, può facilmente essere esteso all’universo televisivo o dei social network.


 Serie completa Processi di ibridazione

 


  1. D. Altobelli, Human Fly. David Cronenberg e i luoghi della mutazione, Bakemono Lab edizioni, Roma 2020, p. 87. 

  2. Ivi, p. 89. 

  3. G. Canova, David Cronenberg, Editrice Il Castoro, Milano 2007. La monografia, uscita la prima volta nel lontano 1993, è stata  aggiornata più volte; in questo scritto si fa riferimento all’edizione del 2007. 

  4. Ivi, p. 30. 

  5. D. Altobelli, op. cit., p. 94. 

  6. Ivi, p. 100. 

  7. Ivi., p. 106. 

  8. Ivi, p.109. 

  9. Ivi, p. 114. 

  10. Cfr. V. Codeluppi, Vivere negli schermi. La nostra nuova esistenza all’interno dello spazio dei media, in C. Bordoni (a cura di), Il primato delle tecnologie, Mimesis, Milano-Udine, 2020. Si veda anche G. Toni, Processi di ibridazione. La carne, lo schermo e l’inner space contemporaneo, “Carmilla”. 

  11. D. Altobelli, op. cit., p. 117. 

  12. Ivi, p. 121. 

  13. Ivi, p. 128. 

  14. Ivi, p. 129. 

  15. Ivi, p. 130. 

  16. Ivi, p. 130. 

  17. Ivi, p. 132. 

  18. Ivi, p. 132. 

  19. Ivi, pp. 133-134. 

  20. Ivi, p. 134. 

  21. Ivi, p. 142. 

  22. Ivi, p. 145. 

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Processi di ibridazione. Il demone (è) sotto la pelle https://www.carmillaonline.com/2020/09/05/processi-di-ibridazione-il-demone-e-sotto-la-pelle/ Sat, 05 Sep 2020 21:01:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61968 di Gioacchino Toni

Sin dagli inizi degli anni Ottanta, David Cronenberg afferma di essersi reso conto durante la realizzazione dei suoi primi film di essere più interessato a quanto accade all’interno dell’individuo, mentalmente e fisicamente, rispetto a ciò che avviene al di fuori di esso ed è per tale motivo che, secondo il regista canadese, si può dire che nelle sue opere il mostro coincida con il corpo stesso.

La produzione cinematografica di Cronenberg è sicuramente influenzata dalla letteratura di William S. Burroughs e James G. Ballard, anche al di là dei film [...]]]> di Gioacchino Toni

Sin dagli inizi degli anni Ottanta, David Cronenberg afferma di essersi reso conto durante la realizzazione dei suoi primi film di essere più interessato a quanto accade all’interno dell’individuo, mentalmente e fisicamente, rispetto a ciò che avviene al di fuori di esso ed è per tale motivo che, secondo il regista canadese, si può dire che nelle sue opere il mostro coincida con il corpo stesso.

La produzione cinematografica di Cronenberg è sicuramente influenzata dalla letteratura di William S. Burroughs e James G. Ballard, anche al di là dei film in cui si confronta direttamente con le loro opere. Dal primo scrittore il canadese sembrerebbe derivare “l’onirismo visionario” e la convinzione di un’umanità avviata a una vera e propria metamorfosi. Nei confronti di quest’ultima, così come Burroughs, anche Cronenberg pare essere al tempo stesso affascinato quanto spaventato.

Con Ballard, invece, il regista condivide un analogo allontanamento dalle etichette “di genere” della prima ora (scrittore di fantascienza l’inglese, autore di film horror il canadese) che conduce entrambi a ripiegare su un tipo di metamorfosi che riguarda lo spazio interiore dell’individuo, il corpo e la mente. Insomma, i demoni non vengono da fuori ma alloggiano e proliferano sotto la pelle e all’interno della mente, avendo non di rado a che fare con un processo di ibridazione tra essere umano e tecnologia capace di mettere in crisi ogni certezza identitaria e il confine stesso del corpo.

Spesso nella produzione cronenberghiana il diastro prende il via da qualche esperimento scientifico che determina negli esseri umani trasformazioni che questi non sono in grado di fronteggiare e quasi sempre nella cinematografia del candese le mutazioni dei personaggi non sono collocabili entro la netta distinzione hollywoodiana tra Bene e Male.

Nonostante il regista sia stato per comodità a lungo associato ai b-movie di genere horror, nelle sue opere vengono affrontate tematiche complesse che hanno a che fare con le facoltà percettive della mente, con l’identità, la sessualità e il rapporto dell’essere umano con i media e, più in generale, con la tecnologia e tutto ciò fa di Cronenberg uno degli autori che maggiormente hanno saputo mettere lo spettatore di fronte ai suoi demoni anticipando persino le riflessioni sul rapporto tra individuo e tecnologie e sul pericolo del controllo proposte dalla serie televisiva Black Mirror (Id., dal 2011 – in produzione, Channel 4 – Netflix), tanto che la studiosa Claudia Attimonelli coglie nel titolo stesso della serie espliciti rimandi al finale di Videodrome (Id., 1983)1.

Diego Altobelli, nel suo recente volume Human Fly. David Cronenberg e i luoghi della mutazione (Bakemono Lab edizioni, 2020), propone un interessante viaggio attraverso i luoghi/non luoghi del regista della “nuova carne”, mostrando come i suoi film, pur distanti tra loro nel tempo e nella forma, siano legati da rimandi e connessioni su cui l’autore ha costruito una poetica di cui non si può che cogliere la sorprendente portata anticipatoria.

Ogni storia, nel cinema di David Cronenberg, è caratterizzata da un luogo che è sia narrativo sia figurativo, immaginifico o reale, proiezione dello sguardo o introspezione della psiche, e che diventa metafora della condizione umana, trappola scientifica, pura rappresentazione altra, immagine visionaria. Sono i luoghi, nel cinema di Cronenberg, a unire il suo discorso autoriale. Tratteggiano un percorso che lo spettatore è obbligato a percorrere per arrivare a comprenderlo. Tutto il cinema del regista canadese è caratterizzato dal rapporto luogo/azione/significato2.

Si tratta di spazi e luoghi particolari che possono condurre alla destrutturazione del rapporto personaggio-immagine nell’indistinguibilità tra realtà e immaginazione di Videodrome ed eXistenZ (Id., 1999), alla distruzione degli ambienti di Shivers – Il demone sotto la pelle (Shivers, 1975), Rabid – Sete di sangue (Rabid, 1977) e Brood – La covata malefica (The Brood, 1979), al caotico spazio mentale di La zona morta (The Dead Zone, 1983) e Spider (Id., 2002), ai rapporti tra corpo e mente di Inseparabili (Dead Ringers, 1988) o all’ibridazione con o attraverso le macchine di Crash (Id., 1996) e La mosca (The Fly, 1986), ai luoghi-allucinazioni de Il pasto nudo (Naked Lunch, 1991) fino agli spazi orientali abitati da identità sessuali inquiete di M. Butterfly (Id., 1993) ecc.

I luoghi nel cinema del regista canadese sono spesso metafora di altro […]. Sono percezioni, proiezioni della mente. È uno dei modi con cui Cronenberg distrae, disorienta, altera la percezione dello spettatore. […] I luoghi in Cronenberg divengono alterazione del percepire il cinema […] un preciso strumento per catturare l’attenzione dello spettatore. In qualche modo, costringerlo a fidarsi3.

In questo la poetica cronenberghiana sembra davvero non molto distante da quella ballardiana dell’inner space che lo scrittore inglese deriva dalla convinzione che ciò che si è soliti chiamare realtà oggi coincida con l’immaginario creato dai media e che dunque ormai realtà e sogno siano indistinguibili4.

Pur attraversate da tematiche tra loro diverse, le opere di Cronemberg, sostiene Altobelli, sono contraddistinte da una comune importanza assegnata allo spazio. Se luogo e mente appaiono in continua mutazione dall’essere all’apparire, il corpo è invece, secondo lo studioso, il motore del racconto e dell’immagine. «Il cinema di Cronenberg è […] un organo a sé stante che genera continui impulsi percettivi allo stesso tempo visivi e narrativi. Luoghi del racconto sempre nuovi, mutevoli, pavimenti instabili che però si poggiano saldamente sull’unicum che è il discorso autoriale del regista. La sua idea di cinema.»5 È dunque di questi luoghi, di queste percezioni e mutazioni che tratta il libro Human Fly e lo fa proponendo sei itinerari che si dipanano lungo l’opera del canadese.

Il primo percorso – Da Toronto a Londra. La negazione dell’Io in Spider – prende il via con Stereo (Id., 1969), una storia ambientata nei locali asettici di un istituto di ricerca, uno spazio isolato dal mondo esterno abitato da individui alienati alla ricerca ossessiva di contatti fisici e intenti a portare avanti misteriose sperimentazioni scientifiche. Lo spazio geometrico e labirintico dell’ambientazione rimanda alla situazione mentale dei personaggi che vivono una condizione claustrofobica priva di sbocchi esterni.

Se gli esperimenti in questo film non conducono a vere e proprie alterazioni corporali, le cose cambiano con Crimes of the Future (Id., 1970), opera che, sin dal titolo, si riferisce a quelle perversioni, devianze e patologie che affliggono la popolazione maschile in un futuro distopico, e che hanno a che fare con malattie infettive e disturbi sessuali. Qua il regista non pare però intenzionato a muovere accuse nei confronti della società; ad interessarlo, sostiene Altobelli, è piuttosto il topos mente-corpo che caratterizza buona parte della sua produzione.

Si osserva il tentativo della mente di rimodellare il corpo e creare una specie di nuova rappresentazione dell’essere umano: una nuova razza, se così possiamo intenderla, che, pare suggerire il regista, dovrebbe nascere dai crimini che la vecchia generazione si porta dietro […]. È una mutazione dell’essere, più che dell’apparire, ma che non potrà (mai) avere un lieto fine. […] Cronenberg è distruttivo nel raccontare l’evoluzione della specie. Il sacrificio fa parte della prosecuzione del percorso6.

Per certi versi è come se la negazione dell’identità in cui versano gli uomini, dominati dalle loro perversioni, rimandasse alla negazione di un sguardo univoco dello spettatore, questione che torna prepotentemente nel film La zona morta, derivato da un soggetto di Stephen King. Qua, risvegliandosi dal coma procurato da un incidente stradale, il protagonista si trova improvvisamente in grado di percepire nella propria mente il passato e il futuro di tutti coloro che tocca. Ecco allora che strade, sentieri, luoghi di passaggio diventano allegorie del destino verso cui va incontro il protagonista.

Mai come in questo film David Cronenberg mette alla prova la percezione del racconto, lo modella, costituendone il corpo che lo ospita. Avviene nel film una mutazione continua di luoghi che “ospitano” il racconto, che a sua volta muta. È la rappresentazione del microcosmo canadese, alieno e allucinato, con la neve che si poggia sulle fredde architetture delle città che lo compongono e che fa da sfondo al primo vero “film letterario” del regista. È il primo momento nella filmografia di Cronenberg in cui agli shock visivi vengono preferiti quelli emotivi, giocando in modo ambivalente sia con il dramma che con il thriller.7

Si diceva dell’impossibilità per lo spettatore di un sguardo univoco su quanto viene mostrato da Cronenberg; se per buona parte della sua durata il film fornisce all’osservatore prove della veridicità dei poteri visionari del protagonista, sul finale viene introdotto un caso in cui la controprova manca e ciò non può che insinuare il dubbio di trovarsi di fronte a una percezione alterata. É così che il pubblico viene condotto all’interno di una “zona morta” della percezione.

L’incapacità dello spettatore di districarsi in questo mescolarsi di piani di realtà e onirismo visionario è decisamente evidente ne Il pasto nudo, film che, come sottolineato dallo stesso regista, non è un adattamento cinematografico di un’opera letteraria, quanto piuttosto un film su Burroughs stesso, sulla mutazione psichica e sulla pericolosità del creare. Qua, gli spazi in cui è ambientata la vicenda, così come i personaggi che li abitano, contribuiscono a suggerire stati di allucinazione.

Ogni luogo qui è un’interzona, un non luogo […]. La qualità onirica di una messa in scena così allusiva è un’estensione (evoluzione) delle allucinazioni percettive di Videodrome. […] Tra l’altro, ad aggravare questo senso di smarrimento, è la sensazione di trovarsi in un altro tempo. Il pasto nudo è di fatto un film in costume, un noir ambientato negli anni del post-proibizionismo americano […]. Si può quindi affermare che alla componente spaziale Cronenberg aggiunga anche un altro elemento di smarrimento che è quello temporale, in questo senso non lontano dal disorientamento che si prova, ad esempio, vedendo eXistenZ8.

Gli spazi urbani, così come gli interni, sembrano qua essere proiezioni della stessa mente di chi li abita. Il pasto nudo è un film che miscela l’universo cronenberghiano con la mente di Burroughs, è un’opera che, sostiene Altobelli, si presenta come «l’allucinata rappresentazione della parola (verbo) che si fa corpo (carne) […] alla ricerca di Annexia, meta del Creatore [che] esiste nella mente del protagonista. E a quella mente, ancora una volta, noi spettatori siamo costretti a credere e a fidarci, come in La zona morta»9.

Dalla Toronto di Stereo il primo percorso proposto dallo studioso conduce alle ambientazioni londinesi di Spider, film che si presenta come un’immersione psicotica nella mente del protagonista che, una volta dimesso dall’ospedale psichiatrico, si incammina dalla stazione ferroviaria lungo un meandro di strade attorniate da abitazioni che si ripetono sempre uguali, così come gli interni in cui si troverà ad abitare: tutto si ripete in maniera ossessiva agli occhi del personaggio, al pari dei suoi pensieri.

Cronenberg vuole rappresentare una condizione umana irrappresentabile: dall’interno (le stanze) invece che dall’esterno (le strade), privandosi della luce (l’illuminazione razionale) e basandosi su rebus insondabili. Per fare ciò Cronenberg rinuncia all’horror visionario e carnale per proporre quello psicologico privo di un corpo (forma), pur se interno al corpo stesso (la mente di Dennis). È il corpo di Dennis – Spider – Cleg a contenere i suoi ricordi […] Difficile (anche per noi) capire dove dirigersi con un protagonista che si muove stancamente nei sentieri dei ricordi che vede con altri occhi, ma che sono pur sempre i suoi10.

Altobelli individua nel film anche la rappresentazione meta filmica della poetica dell’autore: al pari di come proietta se stesso nel passato, il personaggio proietta i suoi pensieri sulla carta così come ne Il pasto nudo lo scrittore diviene parte del racconto che egli stesso scrive. In Spider, però, continua lo studioso, il parassita è l’uomo stesso che distorce e altera i ricordi per poter sopravvivere nella realtà esterna al proprio corpo.

Il secondo percorso – I rigurgiti di passato in A History of Violence – proposto da Altobelli prende il via da Scanners (Id., 1981), film ambientato all’interno di grandi e inquietanti strutture architettoniche che contribuiscono, insieme al resto degli scenari urbani, a creare un clima caotico e ostile ove il pericolo è dietro l’angolo e può manifestarsi all’improvviso. In un sovrapporsi di voci, visi, personaggi e luoghi si struttura la percezione di un altro sentire e di un altro vedere, questione che torna anche nel film La mosca, che riprende L’esperimento del dottor K (The Fly, 1956) di Kurt Neumann.

Qua Cronemberg mette in bocca al protagonista una frase che Altobelli indica come centrale: «Questa non è la storia di un uomo che sognava di essere una mosca, ma di una mosca che ha sognato di essere un uomo, e ora è sveglia». In maniera del tutto simile il fratello del protagonista di A History of Violence (2005) sul finale chiede a quest’ultimo: «Cosa hai sognato in questi anni? Hai sognato come Tom o come Joey?»11. In entrambi i casi, sottolinea lo studioso, il regista ci parla di un problema di percezione, di come il corpo sente se stesso.

In The Fly il laboratorio/appartamento del protagonista è mostrato come luogo caotico, ben lontano da quell’immagine di luoghi ordinati e asettici in cui si compiono gli esperimenti scientifici nei primissimi film del canadese. Oltre agli interni ed esterni urbani, l’altro luogo fondamentale ne La mosca è, ovviamente, il pod del teletrasporto nato dall’incontro tra organico e inorganico, tra tecnologia e “intuizione umana”.

Simile a un grande embrione con un cordone ombelicale, la cabina del teletrasporto, la cui forma ovoidale richiama alla mente il ricordo ancestrale della nascita, altro non è che la casa di appartenenza, il punto di partenza. In La mosca David Cronenberg elabora il concetto della metamorfosi attraverso una visione a fasi: la nascita, la vita e la morte; ovvero il pod, il laboratorio e la strada/ città. Sono tutti ambienti connessi tra loro che generano la mostruosità12.

Altobelli individua interessanti linee di continuità tra The Fly e A History of Violence: in entrambi i casi si è di fronte all’impossibilità dell’esistenza di due entità (mosca/uomo o doppia vita di uno stesso individuo). Da tale impossibilità deriva quella rottura che sfocia inesorabilmente nel mostruoso. Ed è proprio sul rapporto Io/doppio che si basa Inseparabili, film tratto dal romanzo omonimo di Bari Wood e Jack Geasland, basato sulla dualità, sull’impossibilità di due individui di condividere il corpo e, soprattutto, il pensiero. A essere mostruoso qua è il distacco dei corpi a cui sono stati condannati i due mentre la mente si ostina a mantenerli uniti.

Se nelle opere cronenberghiane il disastro è determinato da una serie di eventi che tentano di unire figure estranee, in questo caso il canadese sembra suggerire l’impossibilità dell’unione nella condizione umana. Anche la figura femminile che si insinua tra i due – «personaggio che fa passare lo spettatore dall’osservare l’uno al contemplare la trinità, attraverso il doppio (i due gemelli)»13 – non sfugge allo statuto del mostruoso; non a caso buona parte del film è ambientato nell’appartamento dei gemelli e in quello della donna, presentati come opposti e complementari, a metafora della compensazione che i due nuclei vanno cercando nel corso del racconto.

Partito da Scanners, il secondo itinerario proposto da Altobelli giunge così al film A History of Violence, opera derivata da una graphic novel del 1997 di Vince Locke (disegni) e John Wagner (testi). Di nuovo un film costruito su dualismi e scissioni ma stavolta non viene mostrato un corpo in corso di trasformazione: il corpo qua è già modificato. Ancora una volta il mostro si palesa dentro l’individuo; abita già il protagonista, seppure in forma latente. Altobelli individua nel film anche un atto di accusa nei confronti dell’american dream in quanto palesa come questo, per realizzarsi, richieda spargimento di sangue. In A History of Violence la sonnolenta provincia americana è il luogo in cui il protagonista si è rifugiato

per smantellare il proprio Io per proteggere un ipotetico Noi. È il frammento che difende il corpo. È il pezzo di puzzle che non vuole essere associato nell’immagine più grande. La chiave di lettura della pellicola non è, come per altri film di Cronenberg, la creazione di unicum mostruoso e vorace, ma il processo di deterioramento e distacco che quel mostro attua sulla comunità che l’ha generato14.

[continua]


Processi di ibridazione


  1. C. Attimonelli, Corpo in M. Trino, A. Tramontana, I riflessi di Black Mirror, Rogas, Roma 2018. Si veda a tal prosito anche G. Toni, Processi di ibridazione. La carne, lo schermo e l’inner space contemporaneo, “Carmilla”. 

  2. D. Altobelli, Human Fly. David Cronenberg e i luoghi della mutazione, Bakemono Lab edizioni, Roma 2020, p. 21. 

  3. Ivi, p. 23. 

  4. Cfr. James Ballard, All that Mattered was Sensation, Krisis Publishing, Brescia 2019. Testo con intervista e prefazione di Sandro Moiso e un saggio critico di Simon Reynolds. 

  5. D. Altobelli, op. cit., p. 26. 

  6. Ivi, pp. 37-38. 

  7. Ivi, p. 42. 

  8. Ivi, p. 47 

  9. Ivi, pp. 48-49. 

  10. Ivi, p. 51. 

  11. Ivi, p. 64. 

  12. Ivi, p. 67. 

  13. Ivi, p. 73. 

  14. Ivi, p. 76. 

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