Maximilien Rubel – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 18 Oct 2025 20:04:04 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Marx: scomodo e attuale, anche nella vecchiaia https://www.carmillaonline.com/2024/06/11/marx-scomodo-e-attuale-anche-nella-vecchiaia/ Tue, 11 Jun 2024 20:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82684 di Sandro Moiso

Marcello Musto, L’ultimo Marx. Biografia intellettuale (1881-1883), Donzelli editore, Roma 2023, pp. 278, 19 euro

«L’umanità ora possiede una mente in meno, quella più importante che poteva vantare oggi. Il movimento proletario prosegue il proprio cammino, ma è venuto a mancare il suo punto centrale, quello verso il quale francesi, russi, americani e tedeschi si volgevano automaticamente nei momenti decisivi, per ricevere quel chiaro e inconfutabile consiglio che solo il genio e la completa cognizione di causa potevano offrire loro. I parrucconi locali, i piccoli luminari e forse anche gli impostori si troveranno ad avere mano libera. [...]]]> di Sandro Moiso

Marcello Musto, L’ultimo Marx. Biografia intellettuale (1881-1883), Donzelli editore, Roma 2023, pp. 278, 19 euro

«L’umanità ora possiede una mente in meno, quella più importante che poteva vantare oggi. Il movimento proletario prosegue il proprio cammino, ma è venuto a mancare il suo punto centrale, quello verso il quale francesi, russi, americani e tedeschi si volgevano automaticamente nei momenti decisivi, per ricevere quel chiaro e inconfutabile consiglio che solo il genio e la completa cognizione di causa potevano offrire loro. I parrucconi locali, i piccoli luminari e forse anche gli impostori si troveranno ad avere mano libera. La vittoria finale resta assicurata, ma i giri tortuosi, gli smarrimenti temporanei e locali – già prima inevitabili – aumenteranno adesso più che mai. Bene, dovremo cavarcela. Altrimenti che cosa ci stiamo a fare?» (F. Engels, lettera a F. Sorge, 15 marzo 1883 – 24 ore dopo la morte di Karl Marx)

Marcello Musto, professore di Sociologia presso la York University di Toronto, può essere considerato tra i maggiori, se non il maggiore tra gli stessi, studiosi contemporanei di Karl Marx. Le sue pubblicazioni sono state tradotte in venticinque lingue e annoverano, tra le più recenti, dallo stesso scritte o curate: Karl Marx. Biografia intellettuale e politica (Einaudi 2018), Karl Marx. Scritti sull’alienazione (Donzelli 2018), Marx Revival. Concetti essenziali e nuove letture (Donzelli 2019), Karl Marx. Introduzione alla critica dell’economia politica (Quodlibet 2023) e Ricostruire l’alternativa con Marx. Economia, ecologia, migrazione (Carocci 2023 con M. Iacono).

L’attuale volume costituisce la riedizione ampliata di una ricerca già pubblicata nel 2016 dallo stesso editore che pone al centro dell’attenzione gli ultimi due anni di attività del Moro di Treviri prima della morte, giunta per lui alle 14,45 del 14 marzo 1883. Sono anni di sofferenza fisica e psicologica per Marx, segnati pesantemente, ancor più che dai malanni fisici che lo perseguitano, dalla morte della moglie (Jenny von Westphalen, 12 febbraio 1814 – 2 dicembre 1881) e della figlia maggiore Jenny (1° maggio 1844 – 11 gennaio 1883). Ancora nella stessa lettera citata in esergo, l’amico Engels avrebbe commentato:

Tutti gli eventi che accadono per necessità naturale recano in sé la propria consolazione, per quanto possano essere terribili. È stato così anche in questo caso. Forse, l’abilità dei medici gli avrebbe potuto assicurare ancora qualche anno di esistenza vegetativa; la vita di un essere impotente, il quale, per il trionfo della medicina, non muore d’un sol colpo, ma soccombe a poco a poco. Tuttavia, il nostro Marx non lo avrebbe mai sopportato. Vivere con tutti quei lavori incompiuti davanti a sé, anelando, come Tantalo, a portarli a termine senza poterlo fare, sarebbe stato per lui mille volte più amaro della dolce morte che lo ha sorpreso. «La morte non è una disgrazia per colui che muore, ma per chi rimane», egli soleva dire con Epicuro. E vedere quest’uomo geniale vegetare come un rudere a maggior gloria della medicina e per lo scherno dei filistei che lui, quando era nel pieno delle sue forze, aveva tanto spesso stroncato… no, mille volte meglio le cose così come sono andate. Mille volte meglio che dopodomani lo porteremo nella tomba dove riposa sua moglie. Dopo tutto quello che era successo precedentemente, di cui neanche i medici sono a conoscenza più di quanto lo sia io, secondo me non ci poteva essere che una scelta1.

Ma al di là delle considerazioni sulle afflizioni personali, è quell’annotazione engelsiana sui “lavori incompiuti” che ci proietta all’interno del lavoro condotto da Musto sugli ultimi anni del rivoluzionario tedesco, che, occorre qui subito dirlo, costituì, più che un’unica opera definitivamente compiuta, un gigantesco laboratorio di riflessioni, intuizioni e rielaborazioni che finiscono col costituire, ancora oggi, l’autentica eredità scientifica dello stesso Marx.

Una scienza definibile come tale non in virtù di dogmi, verità e affermazioni apodittiche espresse una volta per tutte, come molti seguaci e settari eredi ancora vorrebbero, ma proprio per la possibilità di falsificare tante affermazioni date per scontate, costringendo, così come l’autore del Capitale continuò a fare fino al momento della morte, lo scienziato a verificare e riverificare le proprie precedenti osservazioni e formulazioni. Non in nome del dubbio perenne, sempre insoddisfatto, ma della necessità di chiarire meglio concetti, problemi, sistemi di riferimento teorici che pur sempre nella concreta realtà materiale, sia che si trattasse della lotta di classe oppure delle trasformazione dei meccanismi di accumulazione e sfruttamento del capitalismo, dovevano piantare solidamente i piedi.

Una sfida che Marx accettò, e allo stesso si impose, durante l’intero corso del suo operato. Una sorta di gigantesco work in progress, condotto spesso in solitudine e talvolta nel confronto e con la collaborazione con Friedrich Engels, in cui è possibile inserire e verificare tutti i suoi scritti, dagli Annali Franco-tedeschi del 1844 fino agli ultimi scritti e lettere sulla Russia e le sue tradizioni comunalistiche in uso tra i contadini al servizio dei grandi proprietari terrieri ai tempi dello Zar.

Musto nel corso del suo lavoro, e non soltanto in questo caso, fa riferimento sia all’edizione delle opere di Marx-Engels già uscita in 50 volumi (più vecchia e dal travagliato percorso editoriale, soprattutto in Italia), sia a quella più recente, e tutt’ora i corso di pubblicazione, in 114 (che dovrebbe raccogliere tutti gli scritti e relative revisioni degli stessi, pubblicati e non, ad opera dell’autore). Mentre la prima iniziata ancora ai tempi dell’URSS doveva costituire una sorta di monumento all’opera dei due comunisti, trasformatosi, però, per carenza di materiali, rimozioni politiche e ideologiche e frettolose ricostruzioni in una sorta di fossile critico, l’attuale, pur di più difficile consultazione, finirà di fatto col costituire non tanto l’”opera definitiva” quanto piuttosto quella di riferimento filologico per tutti gli studi a venire.

Da questo punto di vista, all’interno del volume sugli ultimi anni di Marx, risultano importanti e utili le considerazioni contenute nella parte riguardante i motivi per cui Il capitale non fu mai davvero completato in vita dall’autore.

Tra il 1877 e l’inizio del 1881, Marx redasse nuove versioni di diverse parti del Libro Secondo del Capitale. Nel marzo del 1877, ripartì dalla compilazione di un indice, piuttosto esteso, dei materiali precedentemente raccolti. Si concentrò, poi, quasi esclusivamente sulla prima sezione, dedicata a «Le metamorfosi del capitale e il loro ciclo», eseguendo un’esposizione più avanzata del fenomeno della circolazione del capitale. In seguito, nonostante le cagionevoli condizioni di salute e seppure la necessità di effettuare ulteriori ricerche rendesse il lavoro molto saltuario, Marx continuò a occuparsi di diversi argomenti, tra i quali l’ultimo capitolo «Accumulazione e riproduzione allargata». Risale a questo periodo il cosiddetto «Manoscritto VIII» del Libro Secondo in cui, accanto alla ricapitolazione di testi precedenti, Marx preparò nuove bozze che riteneva utili per il proseguimento dell’opera. Egli comprese anche di avere commesso, e reiterato per lungo tempo, un errore di interpretazione, allorquando aveva ritenuto che le rappresentazioni monetarie fossero meramente un velo del contenuto reale delle relazioni economiche2.

Ma ciò che è stato appena qui riportato costituisce soltanto uno dei tanti ripensamenti che in qualche modo frenarono la definitiva stesura e pubblicazione di quella che avrebbe dovuto costituire l’opera definitiva del Moro di Treviri e che, invece, tale non fu e non avrebbe potuto essere. Ai problemi di carattere economico, politico, tecnologico, agrario e monetario che Marx si sforzò di comprendere per dare validità al proprio lavoro, si aggiunsero, oltre a quelli già segnalati di salute e gravi lutti famigliari, anche quelli legati alla traduzione in altre lingue del testo stesso. Fin dalla pubblicazione del primo volume dell’opera (l’unico comparso con l’autore ancora in vita).

Ecco allora che appare evidente la forzatura, iniziata già con Engels, di completare la pubblicazione del secondo e terzo volume basandosi (prima con il lavoro dello stesso amico e sodale tra il 1885 e il 1894 e poi per il quarto, noto anche come Teorie del plusvalore, pubblicato tra il 1905 e il 1910 a cura di Karl Kautsky, ex-segretario personale di Engels e all’epoca massimo esponente della socialdemocrazia tedesca e del marxismo cosiddetto ortodosso) sugli appunti sparsi e disordinatissimi, nonostante il rigore degli studi, dello stesso Marx. Errore che non è stato migliorato, e non poteva esserlo, nemmeno nell’edizione francese della Pléiade delle opere di Marx curata da Maximilien Rubel, in cui, grazie anche al contributo di Suzanne Voute, vecchia militante internazionalista di Marsiglia, sia il secondo che il terzo libro dell’opera stesso venivano, in qualche modo, risistemati sulla base di materiali tralasciati da Engels e Kautsky durante i precedenti lavori di sistemazione.

Riportare qui le vicende di quegli studi ripensati, sospesi e ripresi da Marx sarebbe troppo lungo nell’ambito di una recensione e per questo motivo non si può far altro che rinviare il lettore al teso pubblicato da Donzelli, in cui Musto sottolinea ancora come, ad ogni modo, «lo spirito problematico con il quale Marx scrisse e continuò a ripensare la sua opera palesa l’enorme distanza che lo separa dalla rappresentazione di autore dogmatico, proposta sia da molti avversari che da tanti presunti seguaci»3.

Ma questo carattere distintivo di Marx, questa sua estrema attenzione alla realtà delle cose e alla necessità di una spiegazione dei fatti sociali, economici e politici che fosse pienamente convincentte e utile ai fini dello sviluppo di un vittorioso confronto con l’avversario di classe, lo si può riscontrare anche nei confronti dell’”autonomia” della lotta di classe, del suo naturale svilupparsi a partire dall’azione dei lavoratori e delle loro lotte senza alcuna necessità di attori esterni che spingessero in tale direzione oppure, ancora,nei confronti sollevati dai socialisti rivoluzionari russi, quando questi si rivolsero a Marx e al suo giudizio proprio a proposito della comune contadina rssa e sulle sue potenzialità di sviluppo. Cui Marx rispose in maniera tale da demolire a priori qualsiasi tentativo di dare per scontati cicli storici di sviluppo sociale ed economici forzatamente uguali in ogni angolo del mondo.

Tanti, dopo la morte di Marx, avrebbero innalzato la sua o le sue bandiere, però, come ci ricorda in chiusura Marcello Musto:

Nel corso di questo lungo processo – durante il quale Marx è stato studiato a fondo, trasformato in icona, imbalsamato in manuali di regime, frainteso, censurato, dichiarato morto e, di volta in volta, sempre riscoperto – alcuni hanno completamente stravolto le sue idee con dottrine e prassi che, in vita, egli avrebbe irriducibilmente combattuto. Altri, invece, le hanno arricchite, aggiornate e ne hanno messo in evidenza problemi e contraddizioni, con spirito critico simile a quello da lui sempre adoperato e che egli avrebbe apprezzato.
Coloro che oggi ritornano a sfogliare le pagine dei suoi testi, o quanti si cimentano con essi per la prima volta, non possono che restare affascinati dalla capacità esplicativa dell’analisi economico-sociale di Marx e coinvolti dal messaggio che trapela, incessantemente, da tutta la sua opera: organizzare la lotta per porre fine al modo di produzione borghese e per la completa emancipazione delle lavoratrici e dei lavoratori, di tutto il mondo, dal dominio del capitale4.

Ancora oggi, dunque, è utile tornare ai suoi testi e al suo metodo, anche attraverso le pagine di questo libro.


  1. F. Engels a F. Sorge, cit. ora in M. Musto, L’ultimo Marx. Biografia intellettuale (1881-1883), Donzelli editore, Roma 2023, pp. 252-253.  

  2. M. Musto, op. cit. pp. 172-173.  

  3. Ibidem, p. 190.  

  4. Ibid, pp. 253-254.  

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Marx e la cartina di tornasole dell’autoemancipazione https://www.carmillaonline.com/2020/12/04/marx-e-la-cartina-di-tornasole-dellautoemancipazione/ Thu, 03 Dec 2020 23:01:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63590 di Fabio Ciabatti

Dan Swain, None So Fit to Break the Chains. Marx’s Ethics of Self-Emancipation, Haymarket Books, Chicago 2020. pp. 224, 33,00 euro.

“L’emancipazione della classe operaia deve essere opera dei lavoratori stessi”. Questa famosa affermazione di Marx appare inequivocabile. Basta però, per alimentare qualche dubbio, accostare questa citazione a un altro famoso passaggio in cui il Moro di Treviri parla dell’“organizzazione dei proletari in classe e quindi in partito politico”. Si può così concludere che l’emancipazione della classe operaia è sostanzialmente opera del Partito comunista. Peccato che, come si evince dall’intero [...]]]> di Fabio Ciabatti

Dan Swain, None So Fit to Break the Chains. Marx’s Ethics of Self-Emancipation, Haymarket Books, Chicago 2020. pp. 224, 33,00 euro.

“L’emancipazione della classe operaia deve essere opera dei lavoratori stessi”. Questa famosa affermazione di Marx appare inequivocabile. Basta però, per alimentare qualche dubbio, accostare questa citazione a un altro famoso passaggio in cui il Moro di Treviri parla dell’“organizzazione dei proletari in classe e quindi in partito politico”. Si può così concludere che l’emancipazione della classe operaia è sostanzialmente opera del Partito comunista. Peccato che, come si evince dall’intero corpus marxiano e come è stato chiarito esplicitamente in una lettera dal diretto interessato, Marx quando parla di partito si riferisce generalmente al partito della classe in senso eminentemente storico, non a una qualche specifica organizzazione politica.
In altri termini, il concetto di partito, almeno nella sua accezione dominante nell’opera marxiana, coincide con il “movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti”.1 
Un movimento che si costituisce come parte, la parte proletaria in lotta con quella borghese, ponendosi l’obiettivo politico di abbattere il modo di produzione dominante e per fare ciò si cristallizza temporaneamente in specifiche organizzazioni. Saremmo però dei materialisti assai bizzarri se pensassimo che importanti sviluppi storici, come la centralità assunta dal partito nelle vicende novecentesche, siano dipesi dalla cattiva interpretazione di alcuni testi, fossero anche quelli di Marx. 

La citazione con cui abbiamo aperto testimonia che l’intera opera marxiana è pervasa da un impegno etico-politico nei confronti della rivoluzione intesa come autoemancipazione del proletariato.2 Ma stando così le cose si apre subito un problema: se la società comunista deve essere il frutto di un’autonoma attività emancipatrice del proletariato come può darsi questa attività in una società che sistematicamente la impedisce? E’ proprio a fronte di questa difficoltà teorica, ma soprattutto pratica, che si afferma la soluzione rappresentata dal primato del partito sulla classe. Che però non è la soluzione di Marx il quale nota  perentoriamente, nella terza tesi su Feuerbach, che “l’educatore stesso deve essere educato”.

È allora interessante utilizzare il principio dell’autoemancipazione del proletariato come cartina di tornasole per valutare alcuni snodi centrali dell’opera marxiana, come fa Dan Swain in un recente testo intitolato None so fit to break the chain. Marx’s ethics of self-emancipation.3 Da questa prospettiva si può comprendere meglio l’antiutopismo di Marx, laddove per utopia si intenda la costruzione di piani dettagliati per la società dell’avvenire. Se c’è qualche mente illuminata che è in grado di progettare in anticipo il futuro con dovizia di particolari, allora è chiaro che alla massa non rimane che il ruolo del mero esecutore. Addio autoemacipazione.
Però, se per utopia intendiamo semplicemente la speranza o la fiducia in una società futura radicalmente migliore di quella presente definire Marx un antiutopista è un semplice non senso. Esiste comunque una terza accezione di utopia che si incentra sulla proposta di modelli alternativi di società dal carattere esplicitamente limitato e provvisorio. Nei confronti di questi tipi di modelli Marx rimane diffidente perché ritiene possano rappresentare un elemento fuorviante rispetto alle necessità più impellenti del conflitto di classe. Un atteggiamento che ha le sue fondate ragioni, sostiene Swain, ma che da un punto di vista politico potrebbe portare a sottostimare la capacità mobilitante di un immaginario alternativo sufficientemente articolato. E ciò è vero oggi più che ai tempi di Marx, perché noi dobbiamo fare i conti con il crollo di un immaginario centrato, in un modo o nell’altro, sul socialismo realizzato di stampo sovietico. 

Poiché la nostra capacità di prevedere il futuro è limitata, prosegue Swain, l’immagine della futura società comunista deve essere concepita come una visione. Siamo cioè capaci di raffigurare la società futura allo stesso modo in cui siamo in grado di vedere, da un punto di osservazione posto in alto, un paesaggio lontano di cui possiamo scorgere solo i contorni più marcati, le figure più grandi. Quanto più cerchiamo con l’immaginazione di riempire di dettagli ciò che non possiamo osservare direttamente, tanto più siamo portati a utilizzare inconsapevolmente elementi tratti dalla nostra esperienza quotidiana. Il futuro diventa così un ombra del presente. Ciò che rimane precluso è il novum in senso forte, perché esso può essere prodotto e concepito soltanto attraverso una prassi di emancipazione di un soggetto collettivo che si trova ad operare in modo autonomo in circostanze impreviste e imprevedibili.
Non potendo eliminare la contingenza dalla nostra visione politica, cosa rimane del materialismo storico inteso come analisi scientifica del funzionamento del modo di produzione capitalistico e come capacità di prevedere le sue traiettorie di sviluppo futuro? Di certo comprendere che le leggi che governano il nostro mondo sono storicamente determinate è il primo passo necessario per capire che possono essere cambiate. Ma non è tutto. Imparare a leggere i necessari vincoli che i rapporti sociali di produzione ci pongono è un altro passo necessario per formulare concrete strategie per sovvertire le regole del gioco. In base a queste regole possiamo prevedere l’avverarsi di alcune categorie di eventi, come crisi e rivoluzioni, non i singoli eventi. Solo se l’analisi scientifica non diventa rivelazione di un futuro già scritto, profezia, essa può diventare strumento nelle mani di un soggetto collettivo che liberamente si autodetermina. 

E  qui sorge la domanda successiva. Questo soggetto che si autodetermina verso quale meta si dirige? L’autodeterminazione per Marx è possibile solo attraverso forme sociali che permettono la gestione democratica dell’attività lavorativa, l’appropriazione della totalità delle forze produttive da parte degli individui uniti. Ciò è impossibile nel mondo moderno su piccola scala e per questo è necessario esercitare una capacità di decisionalità collettiva su una scala geografica sufficientemente ampia. Quale che sia questa scala, è il lavoro stesso che deve cambiare e a tal fine è necessario superare la distinzione tra lavoro mentale e manuale, tra compiti direttivi e compiti esecutivi. Certamente Marx sostiene che il regno della libertà inizia solo dove finisce il regno della necessità. Ma se intendiamo quest’ultimo come il regno del lavoro necessario a soddisfare i bisogni della società, non c’è bisogno di pensarlo come il luogo della subordinazione e della soggezione dei lavoratori. La limitazione della giornata lavorativa per Marx è essenziale ma, sostiene Swain, rappresenta un mezzo, non un fine. Altrimenti si finirebbe per confermare la contrapposizione tra tempo libero e tempo di lavoro limitandosi ad ampliare il primo a discapito del secondo. Rimane invece vero che è necessario superare la relazione antagonistica che è storicamente esistita tra lavoro e libertà.
Questo antagonismo e lo sfruttamento che è ad esso connesso è per Marx storicamente necessario e al tempo stesso da condannare. Questa condanna non avviene però sulla base di una morale metastorica. Ogni società ha una sua giustificazione morale delle forme di sfruttamento storicamente date. Esse sono in qualche modo legittime. Questa necessità storica può essere messa in questione soltanto perché lo sfruttamento è vissuto da una parte della società come qualcosa contro cui combattere. Se ci si mette dal punto di vista degli sfruttati questa reazione non ha nulla di misterioso. Per combattere lo sfruttamento non c’è bisogno di basarsi su una qualche teoria della giusta distribuzione della ricchezza o dello scambio equo tra possessori di beni. Ciò che  in ultima istanza emerge dalla critica marxiana dello sfruttamento, afferma l’autore, è che esso rappresenta una rapporto di dominio, esercitato in primo luogo nel segreto laboratorio della produzione, in cui i capitalisti approfittano della debolezza e della mancanza di potere dei lavoratori.
In modo simile Swain sostiene che per parlare di alienazione non abbiamo bisogno di una concezione essenzialista, metastorica della natura umana che verrebbe negata dall’attuale società. E’ sufficiente focalizzarsi sulle reali esperienze di sofferenza fisica e psicologica cui sono sottoposti i lavoratori e le lavoratrici. Partendo da questa negatività possiamo sostenere che l’essenza umana è qualcosa che deve essere ancora realizzata. Parlare di alienazione è dunque un modo per denunciare una situazione economico-sociale che nega la possibilità di un’attiva partecipazione degli individui uniti alla libera costruzione dell’identità umana. 

In un modo o in un altro si torna verso la medesima conclusione: la possibilità di riempire di dettagli la visione del comunismo non dipende da standard preordinati all’azione politica, siano essi relativi alla giustizia distributiva o all’essenza umana, ma può emergere solo nell’ambito di movimenti di resistenza e reazione a specifici mali della società capitalistica. Ciò significa, tra l’altro, che la resistenza deve possedere dei caratteri prefigurativi, in grado cioè di anticipare alcuni elementi della realtà che vogliamo costruire. Deve essere in grado, mentre si pone specifici obiettivi, di proiettarsi verso un successivo stadio di sviluppo che ancora non è dato, aiutando così la trasformazione dei soggetti coinvolti, l’acquisizione di nuove capacità ed attitudini. Questo perché la coscienza comunista, almeno su larga scala, non è qualcosa di dato, ma qualcosa da costruire, da conquistare. L’autoemancipazione è cioè un processo collettivo di autoeducazione attraverso il conflitto. Solo così è possibile sviluppare pratiche sociali realmente nuove e differenti rispetto a quelle esistenti. Queste pratiche sociali devono negare alla radice la separatezza tra sfera socio-economica e sfera politico-statuale. In questo senso l’autoemancipazione è una pratica di spoliticizzazione e dunque di critica di tutte quelle forme politiche che in questa separazione trovano il loro habitat naturale. Ma, per altro verso, si tratta di una dinamica di politicizzazione radicale, nel senso che attribuisce alla decisionalità collettiva una capacità di intervento su sfere sociali, economiche e anche personali considerate oggigiorno sottoposte all’arbitrio privato o a leggi “naturali” e perciò immodificabili.
Non bisogna però dimenticare che questi processi si sviluppano nell’ambito di dinamiche conflittuali e devono fare i conti con la violenza dello relazioni sociali dominanti e dello stato. Secondo Marx nessuna rivoluzione si può dare senza che a un certo punto si ponga il problema del potere statale. Che si tratti di conquistarlo, di distruggerlo o di impadronirsene per trasformarlo in profondità i temi della violenza degli sfruttati e quello della loro organizzazione diventano ineludibili, con tutto il portato problematico che riguarda il rapporto tra efficacia dell’azione politica e principio dell’autoemancipazione, tra politica e etica rivoluzionarie. Anche per questo, pur assumendo che la coerenza tra mezzi e fini sia un problema decisivo, è semplicemente assurdo assumere che i primi debbano coincidere con i secondi. 

Alla luce di queste ultime considerazioni il tema dell’autoemancipazione, se preso sul serio, risulta essere meno “innocente” di quanto potrebbe apparire a prima vista. Ma proprio per questo un pensiero che si pretenda rivoluzionario, come sostiene Swain, deve prendere sul serio l’attualità della rivoluzione ponendosi, in ogni fase, la questione di cosa possa aiutare il proletariato a costruire e riconoscere la propria capacità di trasformare il mondo. E per fare questo non bisogna applicare schemi esterni alle lotte degli sfruttati o pretendere di educare e dirigere ex cathedra gli oppressi, ma occorre partecipare alla loro forme di resistenza cercando di far avanzare, dall’interno, i movimenti di autoemancipazione. Occorre camminare domandando per cercare collettivamente le possibili risposte, ciascuno secondo le proprie capacità e i propri bisogni. 


  1. La prima citazione è tratta K. Marx, L’Internazionale operaia, Editori Riuniti, Roma 1993, p. 17, la seconda dal K. Marx e F. Engels, Manifesto del partito comunista, Editori Riuniti, Roma 1996, p. 17, la terza da K. Marx e F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori riuniti, Roma 1991, p. 25. La lettera cui abbiamo fatto riferimento è quella scritta da Marx a Freiligrath il 29 febbraio 1864. 

  2. Il tema dell’autoemancipazione è particolarmente presente nell’opera di Maximilien Rubel che negli anni ‘90 del secolo scorso è stata ripresa in Italia, grazie a Marco Melotti, dalla rivista Vis-à-Vis. Alcuni articoli di Rubel sono reperibili nell’archivio on line della rivista qui http://web.tiscalinet.it/visavis/

  3. Il titolo riprende la prima parte di una frase di James Connolly contenuta nel pamphlet del 1915 The Re-Conquest of Ireland: “None so fitted to break the chains as they who wear them, none so well equipped to decide what is a fetter”. Nessuno è così adatto a spezzare le catene come coloro che le indossano, nessuno così ben attrezzato per decidere cos’è una catena. 

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