Matteo Bittanti – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 28 Oct 2025 21:29:46 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il machinima e il suo contesto https://www.carmillaonline.com/2025/08/30/il-machinima-e-il-suo-contesto/ Sat, 30 Aug 2025 20:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89751 di Gioacchino Toni

Matteo Bittanti, a cura di, Videoarte ludica. Videogioco, cinema, machinima, traduzioni dall’inglese di Matteo Bittanti, Mimesis, Milano-Udine, 2025, pp. 602, € 40,00

Nell’ambito di un progetto di ricerca portato avanti da Matteo Bittanti presso l’Università IULM teso a esplorare la relazione tra videogiochi e arti visive, complementare a Fotoludica. Fotografia e videogiochi tra arte e documentazione (Mimesis, 2025), che si concentra sulla fotografia nei/dei videogiochi come pratica artistica, documentaria e critica, il volume Videoarte ludica (2025) curato dall’autore, seguito dei precedenti Machinima! Teorie. Pratiche. Dialoghi (Unicopli, 2013) e Machinima. Dal videogioco alla videoarte (Mimesis, 2017), guarda al videogame come [...]]]> di Gioacchino Toni

Matteo Bittanti, a cura di, Videoarte ludica. Videogioco, cinema, machinima, traduzioni dall’inglese di Matteo Bittanti, Mimesis, Milano-Udine, 2025, pp. 602, € 40,00

Nell’ambito di un progetto di ricerca portato avanti da Matteo Bittanti presso l’Università IULM teso a esplorare la relazione tra videogiochi e arti visive, complementare a Fotoludica. Fotografia e videogiochi tra arte e documentazione (Mimesis, 2025), che si concentra sulla fotografia nei/dei videogiochi come pratica artistica, documentaria e critica, il volume Videoarte ludica (2025) curato dall’autore, seguito dei precedenti Machinima! Teorie. Pratiche. Dialoghi (Unicopli, 2013) e Machinima. Dal videogioco alla videoarte (Mimesis, 2017), guarda al videogame come strumento spendibile nella realizzazione audiovisiva, performativa e cinematografica.

Quando si parla di machinima si fa riferimento a una pratica ibrida in cui si intrecciano videogame, cinema e videoarte che ha impattato in maniera importante tanto sull’universo artistico contemporaneo quanto su quello dell’intrattenimento, una pratica che ricorre a videogiochi e/o game engine capace di assumere forme documentarie, sperimentali, performative o narrative sia di tipo vernacolare che d’avanguardia.

In Videoarte ludica Bittanti si rapporta al machinima come a una pratica situata, derivata dall’incrociarsi di estetiche sperimentali e cultura digitale partecipativa: arte d’avanguardia, certo, ma anche intrattenimento vernacolare, museo e social media, détournement e divertissement. Vera e propria zona di frizione tra linguaggi, funzioni e logiche di valore, attraverso un approccio dialettico e comparativo, il machinima viene dunque indagato non per darne una definizione in senso assoluto, quanto, piuttosto, per vedere come viene prodotto, legittimato e recepito, nella convinzione che a determinarne il valore non sia tanto la forma, ma il contesto in cui viene inserito e le relazioni di ordine estetico, politico, istituzionale che lo strutturano.

Videoarte ludica non si limita a descrivere le peculiarità di questa pratica ibrida, ma ne esplora le potenzialità come strumento di indagine, sperimentazione artistica e attivismo culturale. Attraverso un approccio metodologico multidisciplinare che combina teoria, studi di caso e dialoghi, il volume analizza come il machinima possa ridefinire i confini tra pratiche e contesti eterogenei, sfidare convenzioni narrative e proporre nuove prospettive per l’analisi e la creazione artistica. In un’epoca in cui il digitale permea ogni aspetto della società e la nozione di arte è stata profondamente alterata dall’innovazione tecnologica, Videoarte ludica invita a considerare il machinima non solo come un prodotto della cultura contemporanea, ma come uno strumento analitico attraverso cui ripensare le dinamiche di potere, identità e rappresentazione che strutturano il nostro mondo» (pp. 34-35).

Il volume è strutturato in tre parti: la prima si occupa delle riflessioni teoriche e storiche riguardanti il machinima, la seconda presenta una serie di studi di caso che analizzano tanto opere d’avanguardia quanto vernacolari, mentre la terza propone alcuni dialoghi critici tra artisti e ricercatori. Non potendo approfondire le numerose questioni di cui si occupano le seicento pagine che compongono il volume, si provvederà di seguito a tracciare una mappatura dei contributi con l’intenzione di affrontare in futuro alcuni aspetti approfonditi dagli autori.

Nel primo blocco di contributi dedicato alle riflessioni teoriche e storiche riguardanti il machinima si guarda alle sue caratteristiche partecipative e alle potenzialità critiche che questo è in grado di esprimere sia in ambito artistico che vernacoalre: Thomas Hawranke esplora il tema dell’audiovisivo-nel-ludico, indagando una serie di lavori artistici capaci di ridefinire i confini tra gioco, video e arte digitale; Riccardo Retez e Luca Miranda guardano alle pratiche fandom, occupandosi del formato dei full game movie che, ibridando cinema e videogiochi, si rivela capace di reinterpretare i linguaggi mediali tradizionali attraverso un processo partecipativo e comunitario; José Blázquez si sofferma sulla produzione vernacolare permessa dalla diffusione delle tecnologie digitali intervistando alcuni praticanti così da restituire le logiche, le motivazioni e le estetiche proprie di questo universo; Kara Güt investiga il potenziale critico e performativo del machinima in modalità di gioco che, aggirando le regole convenzionali del videogame, permettono la realizzazione di esperienze visive e narrative alternative consentendo riflessioni critiche sulle convenzioni videoludiche; Martin Zeilinger guarda alle possibilità di resistenza e critica culturale e politica del machinima nei confronti delle ideologie sottese ai mondi virtuali evidenziando gli aspetti contraddittori dei sistemi algoritmici e sociali che regolano i videogame; Paul Atkinson e Farzad Parsayi esaminano criticamente il rapporto tra videogiochi e universo artistico guardando in particolare alle convergenze formali e concettuali tra videogame e videoarte e a come la mediazione dello schermo determini modalità di fruizione alternative rispetto a quelle offerte dal contesto museale tradizionale.

La seconda raccolta di saggi presenta una serie di studi di caso sia vernacolari che d’avanguardia: ispirandosi in particolare agli studi di Howard Saul Becker (Art Worlds, 1982), Matteo Bittanti guarda con approccio sociologico al machinima come fenomeno collettivo su cui incidono istituzioni, tecnologie e comunità di praticanti contemplando tanto la variante d’avanguardia che quella vernacolare; il collettivo austriaco Total Refusal (Leonhard Müllner, Robin Klengel e Michael Stumpf), a partire dagli scenari videoludici, guarda alle modalità con cui il machinima affronta tematiche sociali importanti come la brutalità poliziesca statunitense, le disparità economiche e le problematiche ambientali ragionando sul rapporto che si viene a creare tra esperienza ludica e narrazione audiovisiva; la studiosa Mandy Bloomfield guarda al lavoro di Andy Hughes incentrato sulla devastazione ambientale a partire dai paesaggi virtuali di videogame proponendo riflessioni ecocritiche relative al mondo fuori dagli schermi; Gloria López-Cleries e Sive Hamilton Helle ragionano su una loro realizzazione machinima incentrata sul tecno-colonialismo esplorando criticamente le ricadute ambientali dell’universo digitale; l’artista statunitense Carson Lynn indaga le potenzialità decostruttive e sovvertitrici del machinima in ambito di genere e sessualità per contrastare l’omofobia che permea molte comunità videoludiche; Harrison Wade guarda alle capacità del machinima di opporsi alle narrative egemoniche sull’identità e sul corpo caratterizzanti molta game culture.

La sezione Conversazioni propone una serie di dialoghi tra studiosi e artisti in cui il machinima emerge come medium dialogico e trasformativo attraverso cui si possono affrontare in maniera innovativa tematiche come il gender, la memoria e il trauma attraverso sguardi diversi rispetto a quelli dominanti maschili e occidentali: nell’intervista rilasciata a Matt Turner, Angela Washko parla del suo tentativo di portare la critica femminista in un ambiente tradizionalmente ostile come quello videoludico evidenziando i modelli ideologici incorporati nei videogame; nella conversazione tra Matteo Bittanti e l’artista palestinese Firas Shehadeh si guarda a come il machinima d’avanguardia possa essere utilizzato come contro-narrazione alla propaganda imperiale, come strumento di contrasto e resistenza alle ideologie dominanti e alla censura da queste operata nei confronti delle culture marginalizzate e perseguitate; il dialogo tra Matteo Bittanti e l’artista siriano Giath Taha fa invece emergere il possibile ricorso al machinima per fronteggiare e rielaborare eventi traumatici.

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Il potenziale sovversivo della fotoludica https://www.carmillaonline.com/2025/08/17/il-potenziale-sovversivo-della-fotoludica/ Sun, 17 Aug 2025 20:00:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89331 di Gioacchino Toni

Matteo Bittanti, Marco De Mutiis, a cura di, Fotoludica. Fotografia e videogiochi tra arte e documentazione, traduzioni dall’inglese di Matteo Bittanti, Mimesis, Milano-Udine, 2025, pp. 684, € 40,00

Il volume curato da Matteo Bittanti e Marco De Mutiis raccoglie una serie di contributi di studiosi e teorici di arte, media e game, incentrati sulla fotoludica, vale a dire sulla fotografia in-game o fotografia videoludica, una pratica artistica e critica in cui si intrecciano l’estetica della fotografia tradizionale e il mondo dei videogame. I diversi contribuiti guardano alla capacità della fotoludica di ridefinire i confini della rappresentazione visiva e al [...]]]> di Gioacchino Toni

Matteo Bittanti, Marco De Mutiis, a cura di, Fotoludica. Fotografia e videogiochi tra arte e documentazione, traduzioni dall’inglese di Matteo Bittanti, Mimesis, Milano-Udine, 2025, pp. 684, € 40,00

Il volume curato da Matteo Bittanti e Marco De Mutiis raccoglie una serie di contributi di studiosi e teorici di arte, media e game, incentrati sulla fotoludica, vale a dire sulla fotografia in-game o fotografia videoludica, una pratica artistica e critica in cui si intrecciano l’estetica della fotografia tradizionale e il mondo dei videogame. I diversi contribuiti guardano alla capacità della fotoludica di ridefinire i confini della rappresentazione visiva e al ruolo attivo e critico che questa permette al gamer che vi ricorre sia come mezzo espressivo per generare immagini inedite, sia come strumento utile alla conservazione della memoria dei mutevoli mondi virtuali altrimenti destinati a scomparire.

La fotoludica viene dunque indagata nei suoi fondamenti teorici e tecnici, nelle sue potenzialità artistiche, creative, documentarie e archivistiche, oltre che negli aspetti politici e ideologici. Come sottolineano i curatori del volume, l’intento è quello di guardare alla fotoludica non solo dal punto di vista artistico, ma anche come a «un territorio in cui la documentazione del virtuale può trasformarsi in un atto sovversivo, sfidando le regole della realtà e riscrivendo il rapporto tra visibile e invisibile, tra ciò che è stato e ciò che è ancora da simulare» (p. 26).

Nell’impossibilità di dar conto in maniera approfondita delle tante questioni trattate dal volume – di quasi settecento pagine – ci si limiterà in questo scritto a fornire almeno una loro mappatura, con l’intenzione di tornare successivamente su alcune di esse approfondendole.

Circa le questioni teoriche e tecniche della fotoludica, alcuni saggi guardano alle modalità attraverso le quali questa, ricorrendo a tecnologie digitali e alle interfacce dei videogame, rimedia e ridefinisce la pratica fotografica tradizionale. Lungi dal limitarsi a riprodurre le dinamiche visive tradizionali, la fotografia nei videogame rielabora e ridefinisce i confini della rappresentazione visiva e il concetto stesso di immagine: Cindy Poremba guarda a come le pratiche di cattura delle immagini all’interno dei videogame conferiscano un ruolo attivo al gamer nella rielaborazione dei mondi virtuali; Seth Giddings mette in luce le potenzialità di espressione visiva della fotografia in-game nel suo confrontarsi con la mimesi del reale; Jan Švelch passa in rassegna le diverse tecniche di cattura dello schermo guardando alla fotografia in-game al di là del contesto strettamente videoludico; Sebastian Möring e Marco De Mutiis si focalizzano sulla rimediazione della fotografia da parte del videogame e sull’incidenza della fotoludica sulla fotografia tradizionale; Gabriele Aroni si occupa della proprietà intellettuale delle immagini catturate dagli universi digitali.

Alle potenzialità visive dei videogame e alle ricadute artistiche, economiche, esperienziali e culturali della fotografia nei mondi virtuali sono dedicati saggi di studiosi e artisti che mostrano come la fotoludica possa mettere in relazione realtà e simulazione, arte e cultura popolare, stimolando una riflessione critica sull’evoluzione dell’immagine nell’era digitale: Marco De Mutiis guarda alle forme di lavoro immateriale a cui è sottoposto il giocatore-fotografo; Justin Berry ai sofferma sulle inedite esperienze estetiche che, attraverso la cattura delle immagini nei videogame, si possono ricavare dagli scenari sintetici; Kent Sheely riflette sul possibile uso sovversivo della fotocamera virtuale a partire dalla resistenza che può attuare nei confronti dell’estetica tradizionale; Adonis Archontides guarda alle potenzialità di evasione e di autoriflessione offerte dalla fotoludica; Leonardo Magrelli approfondisce la possibilità di rievocazione della memoria culturale e storica attraverso la simulazione, focalizzandosi sul rapporto tra paesaggio virtuale e quello reale; Antonio Careri guarda alla rappresentazione del territorio simulato a partire dalla fotografia paesaggistica tradizionale all’interno dei mondi virtuali; Vladimir Rizov si occupa delle potenzialità narrative della fotoludica.

Altri interventi sono dedicati alla fotoludica come strumento di conservazione e memoria storica di mondi virtuali sottoposti a mutamento costante, altrimenti destinati a scomparire: Alex Urban guarda alle fotografie in-game come a registrazioni-testimonianze di esperienze ludiche inesorabilmente condannate a svanire; Kieran Nolan si focalizza sull’archiviazione fotografica dei graffiti nei e con i videogiochi; Florence Smith Nicholls e Michael Cook riflettono sulla possibilità di studiare e conservare le dinamiche videoludiche attraverso tecniche e modalità archeologiche solitamente applicate al mondo reale; Richard Cole indaga la possibilità di rivisitare la Storia e il mito attraverso combinazioni di elementi tecnologici e culturali di natura videoludica; Hans-Joachim Backe indaga le modalità con cui le immagini in-game possono incidere sul significato di un’opera videoludica tanto dal punto di vista estetico che da quello narrativo.

Alle potenzialità di critica sociale e politica della fotografia in-game, al possibile ricorso ad essa per rivelare le strutture ideologico-politiche sottese all’industria del divertimento digitale guardano diversi contributi: Joseph DeLappe e Laura Leuzzi esaminano le performance critiche di DeLappe in cui l’artista interviene ribaltando l’immaginario militarista di videogame di propaganda dell’esercito; Simone Santilli espone come la fotografia in-game possa documentare e criticare la logica estrattivista di un videogame che riflette le dinamiche di sfruttamento proprie del capitalismo globale del mondo reale; Ivan Girina esplora le potenzialità critiche della fotoludica nei confronti delle rappresentazioni convenzionali della violenza, della povertà e della criminalità di un videogame; Matteo Bittanti guarda al ruolo ideologico della fotografia in-game nella rappresentazione dei paesaggi naturali simulati, evidenziando come attraverso le immagini videoludiche sia possibile cogliere le tensioni tra estetica e potere.

Il volume curato da Bittanti e De Mutiis si chiude con un paio di contributi che invitano a guardare alla fotoludica come strumento utile a preservare e comprendere la storia del medium videoludico, altrimenti inesorabilmente destinata a perdersi: Joanna Zylinska riflette sulla percezione visiva nei mondi distopici post-apocalittici dei videogame guadando alla fotografia in-game come strumento utile a comprendere e interpretare il mondo virtuale; Henry Lowood, a partire dagli scatti di Ira Nowinski relativi agli spazi fisici delle sale giochi e alle comunità di gamer della Bay Area degli anni Ottanta, riflette sulle possibilità offerte dalla fotografia di realizzare un archivio della memoria videoludica.

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Immaginari di crisi. Da Mad Max a Furiosa https://www.carmillaonline.com/2024/05/27/immaginari-di-crisi-da-mad-max-a-furiosa/ Mon, 27 May 2024 20:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82717 di Gioacchino Toni

Rudi Capra, Antonio Pettierre, a cura di, Le strade furiose di Mad Max. Filosofia del mondo post-atomico, Mimesis, Milano-Udine 2024, pp. 188, € 16,00

In chiusura degli anni Settanta del secolo scorso ha fatto la sua comparsa nelle sale cinematografiche il film australiano Interceptor (Mad Max, 1979) di George Miller. Realizzato in maniera un po’ rocambolesca, da un regista all’esordio, con un budget di 400 mila dollari, il film ha ottenuto un successo che è andato ben oltre le più rosee aspettative incassando al botteghino cento milioni di dollari. Ciò è bastato all’industria cinematografica per pianificare, a stretto [...]]]> di Gioacchino Toni

Rudi Capra, Antonio Pettierre, a cura di, Le strade furiose di Mad Max. Filosofia del mondo post-atomico, Mimesis, Milano-Udine 2024, pp. 188, € 16,00

In chiusura degli anni Settanta del secolo scorso ha fatto la sua comparsa nelle sale cinematografiche il film australiano Interceptor (Mad Max, 1979) di George Miller. Realizzato in maniera un po’ rocambolesca, da un regista all’esordio, con un budget di 400 mila dollari, il film ha ottenuto un successo che è andato ben oltre le più rosee aspettative incassando al botteghino cento milioni di dollari. Ciò è bastato all’industria cinematografica per pianificare, a stretto giro, una seconda ed una terza pellicola, dando così vita a una saga ripresa, dopo tre decenni di interruzione, nel nuovo millennio con un quarto episodio di grande successo che ha aperto le porte ad un quinto film giunto ora nelle sale.

Per quanto diversi siano i film della saga, ad accomunarli è certamente la messa in scena di un “immaginario di crisi” variato nei diversi episodi in base al cambiare dei tempi, dei motivi, delle modalità e degli sguardi con cui si guarda con inquietudine al presente ed al futuro più prossimo. Ad esaminare le questioni principali sollevate dai film di Miller – crisi ecologica, economica e politica, oltre che sociale, della mascolinità, del patriarcato… – in concomitanza con l’uscita del nuovo film della saga – Furiosa: A Mad Max Saga (2024) di George Miller –, provvede il volume edito da Mimesis Le strade furiose di Mad Max. Filosofia del mondo post-atomico, curato da Rudi Capra e Antonio Pettierre, con una postfazione di Matteo Boscardi.

In apertura di volume, Antonio Pettierre evidenzia come i diversi film di Miller insistano sul crollo della società.

Nella saga di Mad Max è messa in scena l’autodistruzione della società civile: da un lato, abbiamo la rappresentazione di un’umanità ai limiti della sussistenza, dall’altro il residuo di un potere (patriarcale) pre-apocalittico che fomenta, mediante lotte e conflitti, lo sfruttamento economico delle ultime risorse naturali. Un potere che si autoconsuma e che raggiunge livelli parossistici attraverso una combinazione cinetica che transustanzia il contenuto (la morte e distruzione) nella forma (una sinestesia visiva e sonora). In questo presente-futuro distopico, il continuo movimento dei personaggi su auto, camion, moto e automezzi (re)inventati raffigurano plasticamente l’impossibilità dell’essere umano all’equilibrio, alla staticità dell’esistenza, in un continuo movimento verso la distruzione. Del resto, la speranza di trovare un’“Arcadia” dove poter (ri)vivere tempi migliori risulta sempre aleatorio o, quantomeno, illusorio (Pettierre, p. 22).

Nel primo film della serie, Interceptor, ad essere messa in scena è sostanzialmente la crisi della società australiana e delle sue istituzioni: un conglomerato di comunità locali in balia di bande criminali che le autorità statali tentano di arginare attraverso il pattugliamento delle strade da parte della MFP (Main Force Patrol) a cui appartiene il protagonista Max Rockatansky (Mel Gibson). La morte, durante un inseguimento condotto da Max, di un membro di una gang di motociclisti e della sua ragazza, scatena la reazione vendicativa del gruppo di cui fa le spese lo stesso protagonista che, dopo aver peso un collega ed essere stato tragicamente colpito negli affetti famigliari (figlioletto ucciso e moglie ridotta in coma irreversibile), abbandonato il corpo di polizia, si mette al volante di una Interceptor potenziata per vendicarsi a sua volta eliminando la gang. Se gli agenti della MFP, sottolinea Pettierre, seguono ancora le regole della società civile – per quanto inclini a travalicare abbondantemente la legge “quando serve” – la banda di motociclisti è presentata come una struttura tribale strettamente verticistica incline a ricorrere alla violenza più selvaggia allo scopo di ottenere ciò che desidera.

È nel sequel Interceptor. Il guerriero della strada (Mad Max 2. The Road Warrior, 1981) che Miller mette in scena il collasso definitivo della civiltà ambientando il film in un futuro post-apocalittico – successivo a un non meglio definito conflitto nucleare scatenato dal controllo dei combustibili fossili – con il protagonista che, affiancato da un cane, a bordo della sua Interceptor, vaga alla ricerca di carburante per poi restare coinvolto in una guerra per il controllo del combustibile tra una comunità isolata nel deserto e una crudele gang motorizzata. Lo scenario di crisi si presenta in questo film nel confronto tra una comunità stanziale, dotata ancora di qualche vaga traccia di regole democratiche, e una tribù nomade comandata da un despota sanguinario.

Nel film successivo, Mad Max. Oltre la sfera del tuono (Mad Max Beyond Thunderdome, 1985), in cui alla regia Miller viene affiancato da George Ogilvie, il protagonista si trova coinvolto in una lotta per il potere nelle cittadina di Bartertown in mezzo al deserto in cui si produce metano dagli escrementi di maiale. Gli eventi conducono Max ad unirsi a una piccola comunità di ragazzini desiderosi di raggiungere la “città del domani” che però, anziché il paradiso terrestre sognato, si rivela una Sydney ridotta in macerie. Attraverso le vicende di Max vengono messe a confronto una società costituita su due livelli in lotta tra loro – uno superiore, dotato ancora di una qualche lontana parvenza democratica, caratterizzato da un’economia di scambio e commercio, ed uno inferiore, ove si si produce metano, governato dispoticamente – ed una tribù di ragazzi che vivono allo stato brado facendo ricorso alle risorse naturali dell’Oasi in cui hanno trovato rifugio. In tale comunità le vecchie norme di convivenza hanno assunto forme leggendarie e mitologiche ed il ruolo di guida spirituale è stato assegnato a un’anziana donna.

Dopo i primi tre film, usciti in rapida successione tra il 1979 ed il 1985, occorre attendere ben tre decenni prima che Miller realizzi un nuovo capitolo della saga. Con Mad Max: Fury Road (2015) il regista australiano non prosegue la narrazione a cui è giunto nell’ultimo film preferendo ricollocarsi in uno spazio temporale precedente. Max, qua interpretato da Tom Hardy, si ritrova prigioniero del signore della guerra, Immortan Joe (Hugh Keays-Byrne), che esplicita il suo potere assoluto attraverso il controllo dell’acqua nella Cittadella da lui governata.

Ad essere tenute prigioniere dal despota sono anche cinque giovani mogli, le uniche a poter partorire figli in un contesto in cui la popolazione è affetta da gravi malattie e mutazioni genetiche. Max finisce per unirsi alla fuga dalla Cittadella organizzata dall’imperatrice Furiosa (Charlize Theron) che, insieme alle mogli di Immortan, a bordo di una blindo-cisterna intende raggiungere, oltre il deserto, la comunità matriarcale da cui era stata sottratta da bambina. Una volta giunte alle meta, le fuggiasche si trovano di fronte ad un paesaggio devastato abitato soltanto da un gruppetto di donne combattenti che hanno gelosamente conservato delle sementi che potrebbero consentire una rinascita. Le donne decidono dunque di far ritorno alla Cittadella, ove è disponibile l’acqua necessaria al processo di rigenerazione, e spodestare i potenti. È dunque una donna, Furiosa, ad essere protagonista in questo film, mentre a Max spetta un ruolo secondario, per certi versi utile più per dare continuità alla saga che non per l’episodio in sé. A confrontarsi in questa quarta opera sono Furiosa, insieme alle mogli del tiranno e alla tribù matriarcale a cui si unisce, e il governo dispotico della Cittadella insieme ai suoi alleati.

Da un lato, abbiamo un gruppo di donne in fuga alla ricerca di un eden. Dall’altro, un’organizzazione maschile basata su un’economia di guerra perpetua, residuo di una società comandata da monarchi assoluti e strutturata su tre comunità che controllano l’acqua, l’energia e le armi. Lo scontro qui è tra la fecondità femminile e la sterilità maschile, tra la distribuzione delle risorse da un lato e lo sfruttamento fine a sé stesso dall’altro (Pettierre, p. 23).

Con questo film, sottolinea Pettierre, il regista australiano esplicita quanto nei precedenti aveva soltanto delineato:

i tre patriarcati riproducono in modo più completo il sistema capitalistico che ha portato alla distruzione della società. Immortan Joe esercita la violenza attraverso i figli di guerra, impedendo l’erogazione dell’acqua a un’umanità agonizzante e uccide, e fa uccidere, nell’illusione di trascendere la morte; egli rinchiude le giovani mogli dentro una camera-cassaforte trasformandole in donne-gioello, oggettivate come strumento di riproduzione dinastica per perpetuare il proprio potere. Quella di Immortan Joe è una comunità – così come quelle di Gas Town e Bullet Farm che, pur mai mostrate nella pellicola, sono rappresentate simbolicamente da padroni trasformati in icone dei luoghi che dominano –, in cui il valore prodotto è dato dalla continua prestazione dei figli di guerra, sfruttatori e sfruttati a loro volta dal sistema post-capitalistico, in un parossismo che li porta a fagocitare loro stessi (Pettierre, p. 26).

Nella saga viene messo in scena un universo via via sempre più desertificato dallo sfruttamento a cui la natura e gli esseri umani sono stati sottoposti, in cui la convivenza civile è stata soppiantata da sistemi di potere clanico votati a confrontarsi con gli incubi del loro tempo attraverso la violenza più efferata. La dissoluzione sociale del mondo post-apocalittico di Mad Max – aggiungiamo – sembra rappresentare il punto di arrivo di quel neoliberismo selvaggio scientemente pianificato da quella Iron Lady (interpretata da Margaret Thatcher) – a cui si è presto aggiunto il personaggio Ronald Reagan (interpretato da sé stesso) – che, grossomodo in concomitanza con il primo episodio della serie, ha inquinato i pozzi dell’immaginario predicando lo smembramento della società in favore dell’individualismo più cinico.

Nel contributo di Giuseppe Gangi viene indagata la rappresentazione dell’universo australiano emergente dalla saga di Miller disseminata com’è di tracce di quella cultura dell’automobile, del viaggio, della velocità e dello spazio desertico dell’outback che lo caratterizzano. La serie Mad Max funge «da specchio mitografico e riflesso allegorico di un’identità nazionale liminare che ha le sue radici nell’irrisolta storia coloniale» (Gangi, p. 34). Gangi, inoltre, evidenzia come

la progressiva ambizione di Miller inferisca l’allargamento del proprio orizzonte volto alla descrizione di un mondo post-apocalittico e a una riflessione politica sofisticata e problematica, che getta uno sguardo sulle crisi che hanno attanagliato l’Occidente e che sono ancora di strettissima attualità (minaccia nucleare, ecocidio, sfruttamento capitalista, discriminazione di genere). L’architrave della saga consiste proprio in quest’oscillazione tra la peculiare ambientazione australiana, il ripensamento della sua storia culturale e della sua identità e come questi elementi volgano in riflesso universale nel quale poter cogliere i segni e i sintomi di una crisi globale (Gangi, pp. 34-35).

Diego Cavallotti sottolinea come già nel primo film della serie sia possibile cogliere come il canonico conflitto tra ordine e disordine si inserisca «all’interno del rapporto fra approvvigionamento energetico e potere, mettendo in risalto il modo in cui la scarsità di risorse sia in grado di stravolgere gli equilibri sociali» (Cavallotti, p. 61). L’ universo anarcoide della prima pellicola si trova a dialogare con la manifesta ecocritica della seconda attraverso forme di mediazione proprie dell’immaginario cyberpunk – soprattutto per l’ibridazione tra organico e inorganico – e steampunk – in particolare per l’intrecciarsi del futuro con suggestioni legate all’estetica delle macchine di età vittoriana – attraverso il sottogenere denominato diselpunk che

rispetto alle ucronie spesso incentrate sul rapporto fra progresso e meraviglie tipiche dello steampunk, […] mette in scena una fase della storia umana in cui la narrazione della modernità ha raggiunto uno spartiacque: da un lato, l’efficienza e la produttività della tecnologia sono ai loro massimi, dall’altro il senso di meraviglia tipico dello steampunk si tramuta in un senso di angoscia legato alla tecnologia stessa, perché quest’ultima si rivela uno dei catalizzatori delle devastazioni materiali, sociali ed etiche delle due Guerre mondiali e dei totalitarismi (Cavallotti, pp. 63-64).

Se nei primi tre episodi della saga, sottolinea Cavallotti, «il petrolio è la metafora dei bisogni essenziali della civiltà occidentale e della sua capacità (ri)produttiva», con Fury Road Miller si sposta sulla «sfera materiale della corporeità, quasi a voler evidenziare che, a più di quarant’anni da Interceptor, i processi di trasformazione della società non possono più confrontarsi solo con le condizioni concrete dell’esistenza e le loro implicazioni psicologiche, ma devono interagire anche con la dimensione biotica dell’essere, con il bíos» (Cavallotti, p. 65).

Rudi Capra, come esplicita il titolo Mad Marx del suo saggio, propone una lettura marxista della saga soffermandosi su quattro snodi propri del capitalismo contemporaneo: l’incremento esponenziale dello sfruttamento; il regime accelerato della vita e del lavoro; la crisi ecologica globale; la crescente instabilità sociale e la mancanza di cura. L’intero ciclo di film di Miller ruota attorno ai processi di mercificazione dell’umanità, di competizione per il controllo delle risorse, di accelerazione del processo di accumulazione di capitale, di sfruttamento delle risorse naturali e di disgregazione della società sottoposta a una condizione di guerra civile permanente condotta da violente strutture claniche.

Alle forme del mostruoso che popolano la serie di Miller provvede il saggio di Jonatan Peyronel Bonazzi che mette in luce come ciò riguardi tanto i personaggi quanto i mezzi di locomozione e, più in generale, le costruzioni presenti negli scenari post-apocalittici mostrati. Lo studioso si sofferma sul particolare ricorso che viene fatto nella saga a due figure che da sempre popolano mitologie e folklore occidentali: il nano ed il gigante. Ad essere preso in esame è soprattutto il film Oltre la sfera del tuono in cui Miller, nel mettere in scena la figura del nano (Master), dapprima associa le «sensazioni negative alla disabilità e alla mostruosità del personaggio per poi capovolgerne la prospettiva» (Bonazzi, p. 102), mentre invece per quanto riguarda la figura del gigante (Blaster), il regista propone

una versione distorta del duello tra Davide e Golia; non è il piccolo avversario di Blaster (Max) a consegnargli la morte, non è Davide che ammazza Golia, e nemmeno Ulisse che acceca Polifemo, la mano di Max si ferma prima del colpo finale. È una terza persona ad arrogarsi questo privilegio. Ma gli ideali che muovono la decisione di Aunty di procedere all’esecuzione del gigante risiedono nella volgare brama di potere, e anche questo aspetto consuma ulteriormente l’empatia del pubblico nei confronti del personaggio interpretato da Tina Turner e innalza il gigante, una volta tanto, a vittima compresa e compianta (Bonazzi, p. 102).

Se i personaggi femminili messi in scena da Miller nell’intera saga tendono a restare subalterni al “maschio dominante” subendo «le leggi di un patriarcato stigmatizzato, indipendentemente dal posto che le stesse occupano, siano loro mogli, nutrici, regine o guerriere» (Sansone, p. 112), con l’avvento di Furiosa, come sottolinea Mariangela Sansone, le cose cambiano drasticamente.

Furiosa non è una moglie, non è una madre, non è dato sapere che tipo di relazione abbia o abbia avuto con Immortan Joe, ciò che è palese è la stima dell’intera tribù nei suoi confronti e il rispetto dello stesso dittatore. È chiamata l’imperatrice e i guerrieri prendono ordini da lei; è una donna alla guida dell’enorme blindo-cisterna, un mezzo corazzato mastodontico, metafora femminile che in qualche modo rappresenta la maternità, un’enorme matrioska che custodisce e trasporta merce preziosa, fondamentale per il sostentamento, indispensabile per la vita (Sansone, pp. 113-114).

Furiosa si presenta come donna che decide di prendersi la sua rivincita, come simbolo di redenzione. Anche il suo personaggio è soggetto a un’evoluzione: «pur godendo di una posizione sociale privilegiata, si mette in gioco e combatte la sua guerra contro tutti, soprattutto contro quell’esercito “maschio”, per la liberazione definitiva di sé stessa e delle altre donne» (Sansone, p. 114).

Applicando alcune categorie filosofiche all’analisi della dittatura di Immortan Joe nella Cittadella in Fury Road, Andrea Tortoreto esamina le argomentazioni espresse del tiranno sulla base della teoria degli atti linguistici, evidenziando come la sua retorica sia intrisa di fallacie logiche utilizzate al fine di strutturare un regime di tipo complottista. Come tutti i regimi di tal tipo, scrive lo studioso, anche questo tiranno

identifica i nemici esterni come la causa di ogni problema per gli abitanti della Cittadella, distogliendo l’attenzione dalle ingiustizie e dalle disparità perpetrate all’interno del regime. Creazione di un nemico comune, e sua demonizzazione, sono lo strumento primario che, agendo sulle paure della popolazione, rafforza il controllo di Immortan Joe sulla propria tribù. Un nemico creato ad arte, in base a una narrativa che si basa spesso su aneddoti, presunti segreti gelosamente custoditi, intuizioni del leader, ma mai su prove autentiche e concrete. Una narrativa che indica come traditore e nemico chiunque abbia l’ardire di metterla in discussione e che reprime con forza e intimidazione ogni forma di dissidenza, favorendo l’autocensura. Un regime, quello della Cittadella, che si fonda dunque sulla fede nel leader e sull’obbedienza cieca, piuttosto che sul dibattito razionale (Tortoreto, pp. 128-129).

Il saggio di Matteo Bittanti analizza il videogioco Mad Max, sviluppato da Avalanche Studios e pubblicato da Warner Bros. Interactive Entertainment nel 2015, che immerge i giocatori nel mondo post-apocalittico caro alla saga di Miller, come esempio di fusione della petro-mascolinità – «mascolinità legata al dominio sull’ambiente secondo una logica estrattiva e distruttiva, incentrata sui combustibili fossili, nonché sulla celebrazione dei valori maschili tradizionali» (Bittanti, p. 144) – e della mascolinità geek – «interazione tra genere, tecnologia e identità, che riflette cambiamenti sociali più ampi nella comprensione e nella performance della soggettivazione mascolina, per la quale la conoscenza e l’attitudine tecnologica sono fondamentali per la sua costruzione e mantenimento» (Bittanti, p. 137).

Se a livello narrativo questo videogame «esemplifica la nozione di petro-mascolinità in diversi aspetti chiave, intrecciando temi di sopravvivenza, dominio e ricerca di carburante in uno scenario distopico» (Bittanti, p. 153), riproducendone tanto le ossessioni legate alla percezione del declino quanto le fantasie compensatorie cercate nel potere distruttivo maschile, dall’altro però, nel palesare come il ricorso alla mera violenza come mezzo di risoluzione dei problemi si riveli un inconcludente circolo vizioso nel suo ricondurre inesorabilmente a solitudine, disperazione e alienazione, ne mette in luce tutti i limiti. Insomma, scrive Bittanti, «se sul piano narrativo [il videogioco] Mad Max glorifica la supremazia maschile e il dominio dell’automobile, attraverso il gameplay, offre una critica indiretta o implicita degli assunti stessi della ludo-petro-mascolinità. Portando in primo piano la futilità, l’isolamento e la totale insostenibilità di questi ideali, Mad Max offre un’esplorazione ricca di sfumature della mascolinità tradizionale in un contesto distopico» (Bittanti, p. 160).

Infine, nella postfazione al volume, Matteo Boscarol tratteggia l’influenza esercitata dalla saga Mad Max sull’immaginario nipponico anche grazie, all’uscita dei primi episodi, all’ascesa del mercato delle videocassette che ha permesso il diffondersi di opere “di genere” ben oltre i circuiti cinematografici e televisivi. Se i primi due film della serie sono usciti in Giappone in un momento in cui le automobili e le motociclette, così come il motivo della guerra fra bande, hanno trovato terreno fertile nella fantasia nipponica, è soprattutto il virare su uno scenario sempre più post-apocalittico della saga ad essere risultato attrattivo in un Paese segnato dall’indelebile ricordo delle atomiche e dai disastri naturali.

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Estetiche del potere. La (tele)dittatura del divertimento https://www.carmillaonline.com/2023/10/12/estetiche-del-potere-la-teledittatura-del-divertimento/ Thu, 12 Oct 2023 20:00:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79306 di Gioacchino Toni

A metà degli anni Ottanta del secolo scorso negli Stati Uniti e in maniera analoga, seppure in leggera differita, in buona parte dell’Occidente, mentre sugli schermi televisivi imperversavano Dynasty, Dallas, The A-Team, Cheers e Hill Street Blues, i telepredicatori facevano il pieno di ascolti e alla sobrietà della tv dei decenni precedenti si sostituivano sguaiate risate registrate e fragorosi applausi a comando, quanti avevano letto Nineteen Eighty-Four (1949) di George Orwell potevano rallegrarsi del fatto che, giunti al fatidico 1984, la società in cui vivevano non aveva assunto le sembianze della distopia prospettata dal romanzo.

A trarre un [...]]]> di Gioacchino Toni

A metà degli anni Ottanta del secolo scorso negli Stati Uniti e in maniera analoga, seppure in leggera differita, in buona parte dell’Occidente, mentre sugli schermi televisivi imperversavano Dynasty, Dallas, The A-Team, Cheers e Hill Street Blues, i telepredicatori facevano il pieno di ascolti e alla sobrietà della tv dei decenni precedenti si sostituivano sguaiate risate registrate e fragorosi applausi a comando, quanti avevano letto Nineteen Eighty-Four (1949) di George Orwell potevano rallegrarsi del fatto che, giunti al fatidico 1984, la società in cui vivevano non aveva assunto le sembianze della distopia prospettata dal romanzo.

A trarre un sospiro di sollievo potrebbero però essere stati soltanto coloro che non avevano letto, o avevano nel frattempo rimosso, il meno celebre Brave New World (1932) di Aldous Huxley in cui la tirannia anziché essere esercitata per via coercitiva aveva saputo rendersi desiderabile.

Insomma, negli anni Ottanta, in Occidente, anziché avverarsi la distopia orwelliana, a compiersi, in sordina, era quella huxleyana, rivelatasi più in linea con le esigenze di una società votata alla mercificazione e al consumismo più sfrenati.

Sebbene nella stretta contemporaneità, segnata da un insistito ricorso a stati emergenziali, i due scenari distopici sembrino non di rado intrecciarsi, si tende a individuare il modello orwelliano, contraddistinto da un tipo di oppressione imposta dall’alto deprivante il popolo della propria memoria e autonomia, nei sistemi esplicitamente dittatoriali, mentre invece quello huxleyano, in cui il potere riesce a far amare al popolo il proprio oppressore e a sostenere le tecnologie tese ad annullare la capacità di pensiero, nei sistemi più democratici.

Convinto dell’importanza delle tecnologie e dei media nella costruzione della realtà, nella definizione delle percezioni, nell’organizzazione delle esperienze e delle relazioni emotive e nell’azione sociale degli individui, in Amusing Ourselves to Death (1985), analizzando gli effetti socioculturali del medium televisivo, il sociologo statunitense Neil Postman ha colto proprio in esso lo strumento principale di attuazione della pratica di dominio prospettata da Huxley nei primi anni Trenta, agli albori di quella che si sarebbe rivelata l’era televisiva.

In occasione dell’uscita di una nuova edizione italiana del volume di Neil Postman, Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo, prefazione di Matteo Bittanti e traduzione di Leone Diena (Luiss University Press, 2023), vale la pena evidenziare come diverse riflessioni espresse dal sociologo statunitense, che sarebbero poi in parte da lui stesso riprese e sviluppate nel successivo Technopoly. La resa della cultura alla tecnologia (Bollati Bornighieri, 1993), nonostante facciano riferimento a un panorama mediatico ormai decisamente cambiato, restino assolutamente valide ai giorni nostri segnati dall’affiancamento di internet al mezzo televisivo.

Gli anni Ottanta sono passati alla storia come il decennio della superficialità, della frivolezza, del trash e dell’usa e getta, un periodo, come ha sostenuto Tommaso Ariemma (Dark Media. Cultura visuale e nuovi media, Meltemi 2022)1, caratterizzato non tanto dalla sensazione di “mancanza di futuro”, quanto piuttosto dal “futuro già presente” derivata in buona parte dall’estetica della simulazione diffusasi con le nuove tecnologie informatiche, grazie soprattutto al Mac, votata alla celebrazione della sola “superficie visuale”.

All’individualismo degli anni Ottanta si è affiancata, in parte anche in reazione ad esso, una spinta all’isolamento in un universo fittizio in cui si è cercato rifugio in seguito alla delusione indotta dal mondo reale rivelatosi incapace di soddisfare le aspirazioni dei più giovani. Un ripiegamento votato al primato della sensazione, dell’immediato, del mero “significato di superficie”, anticipando di fatto quella web culture che avrebbe finito per sostituire alle relazioni amicali il desiderio del sentire e, come efficacemente sostenuto da Mario Perniola (Del sentire, Einaudi 1991), all’ideologia, socializzazione dei pensieri, la “sensologia”, socializzazione dei sensi.

L’analisi del medium televisivo proposta da Postman in Divertirsi da morire, nel suo porsi, scrive Matteo Bittanti nella prefazione al volume, come sintesi nella dialettica che vede Gli strumenti del comunicare (1964) di Marshall McLuhan e La società dello spettacolo (1967) di Guy Debord occupare rispettivamente il ruolo di tesi e di antitesi, ha il grande merito di mostraci oggi come le premesse della web culture siano ravvisabili nel medium televisivo degli anni Ottanta, nella sua «forma di comunicazione basata unicamente sull’intrattenimento e sullo svago – entertainment, infotaiment, amusement – introducendo un’estetica squisitamente spettacolare».

Un mezzo di comunicazione votato dunque a promuovere contenuti visuali leggeri, trasmessi in rapida e frammentata successione, mercificati, dunque progettati per attrarre e intrattenere il pubblico divertendolo ben oltre i generi storicamente votati a tale compito. Come ha avuto modo di segnalare Carmine Castoro (Clinica della TV, 2015)2, l’inarrestabile flusso casuale di comunicati decontestualizzati supporta pratiche di seduzione consumistica e di istupidimento deprivanti l’essere umano di capacità critica, intrattenendolo attraverso un flusso soporifero di immagini.

Il divertimento/intrattenimento che plasma la televisione degli anni Ottanta, in tutti i suoi programmi, notiziari compresi, si pone per certi versi alla base di quei processi di ludicizzazione3 che si dispiegheranno nel web nei decenni successivi e, più in generale, di quella logica che ha saputo rendere costantemente produttivi gli utenti di internet facendo loro percepire il lavoro non pagato a cui si sottopongono come mera attività ludica.

Se è usuale individuare nella storia statunitense una città che, più di altre, può essere vista come incarnazione dello spirito americano del tempo, per gli anni Ottanta, sostiene Postman, questa è sicuramente Las Vegas e lo è perché in essa vive esclusivamente il divertimento, esattamente come nella televisione. Il problema, sottolinea il sociologo, non è certo dato dall’offerta di divertimento da parte della televisione, quanto piuttosto dal fatto che tutto in essa sia dia all’insegna del divertimento, che l’intrattenimento sia l’inderogabile “superideologia” di ogni discorso televisivo.

“Ed ecco a voi…” è probabilmente una delle frasi più ricorrenti in televisione, tanto da fungere quasi da punteggiatura volta a mettere un punto fermo dopo quanto visto fino a quel momento per aprire un discorso totalmente nuovo. «La frase è fatta apposta per mettere in luce il fatto che il mondo così com’è descritto dai frettolosi mezzi elettronici non ha nessun ordine e nessun senso e non deve essere preso troppo sul serio. Non c’è assassino così efferato, terremoto cosi disastroso, guaio politico così grave […] che non possa essere cancellato dalla nostra memoria con un: “Ed ecco a voi…”».

Con tali parole viene suggerito ai telespettatori che quanto visto fino a quel momento non merita ulteriore spazio, approfondimento o riflessione e che è giunto il momento di proiettarsi su un nuovo frammento di notizia o di pubblicità, che poi così diverse non sono. Certo, il modello “Ed ecco a voi…” non è stato inventato dalla televisione, che lo ha derivato dal connubio tra telegrafo e fotografia, ma sicuramente, sostiene Postman, è stata la tv a condurlo alla sua «attuale perversa maturità» ed è proprio nel telegiornale che tale modello «si mostra nella sua forma più sfrontata e imbarazzante» finalizzata unicamente all’intrattenimento.

Nel suo susseguirsi di frammenti non solo slegati uno dall’altro ma anche neganti importanza al precedente di turno, di cui si palesa la necessità di abbandono frettoloso, la televisione minimizza ogni notizia; per quanto grave possa sembrare, questa sarà presto seguita da una di minor gravità, o da una pubblicità, che provvederà a banalizzarla.

Si è «ormai talmente assuefatti all’universo di “Ed ecco a voi…” – un universo a frammenti, in cui i vari fatti se ne stanno da soli strappati da ogni connessione col passato, o col futuro, o con altri fatti – che sono vanificate tutte le presunzioni di coerenza. E quindi anche ogni contraddizione. Nel contesto di nessun contesto, per così dire, la contraddizione semplicemente svanisce».

Sebbene non sia possibile incolpare esclusivamente la televisione di tutto ciò, afferma Postman a metà degli anni Ottanta, di certo tale medium rappresenta «il paradigma della nostra concezione di informazione» e visto che la pubblicità televisiva si presenta come «la forma più vistosa di comunicazione pubblica nella nostra società», continua il sociologo, «era inevitabile che gli americani dovessero […] accettarla come forma normale e plausibile di discorso».

Occorre aggiungere che se, come sostiene Postman, negli anni Ottanta l’intrattenimento televisivo era indubbiamente fondato sul divertimento, nei decenni successivi l’intrattenimento si sarebbe avvalso anche della “tv del dolore” contraddistinta, come argomenta Carmine Castoro (Il sangue e lo schermo, Mimesis 2017)4, da un’iconografia della paura costruita su pandemie, calamità naturali e attentati spalmati sul nulla di ore e ore di dirette attraversate da narrazioni ripetitive, opinionisti improvvisati, inviati e video amatoriali trasmessi in un estenuante e ansiogeno ripetesi di immagini di soccorritori e di disperazione in un loop di etichette ripetute come un mantra: “crimine efferato”, “tragedia immane”, “apocalisse”, “disastro epocale” e via dicendo.

In chiusura di libro, riprendendo la distopia prospettata da Brave New World5,  Postman sottolinea come ciò che Huxley aveva cercato di dirci è che ciò che affliggeva gli abitanti del mondo nuovo tratteggiato dal suo romanzo «non era ridere anziché pensare, ma non sapere per che cosa ridessero e perché avessero cessato di pensare». Verrebbe da dire che se si pensava di seppellire lor signori con una risata, è finita che oggi si ride davanti agli schermi – televisivi o degli smartphone – senza sapere di cosa e perché e, soprattutto, avendo mandato (da tempo) in vacanza il cervello.

In una contemporaneità tecnocratico-liberista in cui, come denuncia Bittanti nella prefazione al volume, in ambito accademico l’analisi dei media si riduce al funzionalismo applicato, all’ottimizzazione dei motori di ricerca e alle strategie di gamification volte a generare profitto, «Divertirsi da morire rappresenta un’anomalia tanto anacronistica quanto preziosa». Quello di Postman è un libro che non ha bisogno di like, ma di essere letto e preso sul serio.


Estetiche del potere – serie completa


  1. Cfr. Gioacchino Toni, Dark Media, in “Carmilla online”, 26 giugno 2023. 

  2. Cfr. Gioacchino Toni, Estetiche del potere. Virtualizzazione, estetizzazione, neutralizzazione ed altre patologie virali del Tele-Capitalismo, in “Carmilla online”, 4 maggio 2016. 

  3. Cfr. Gioacchino Toni, Gamification e controllo comportamentale, in “Pulp Magazine”, 22 febbraio, 2023; Matteo Bittanti, A lezione di Pokémon Go. Da A(lfie Bown) a (Shoshana) Z(uboff), Università Iulm, 18 novembre 2022. 

  4. Cfr. Gioacchino Toni, Estetiche del potere. Il sangue e lo schermo. La mercificazione della paura nell’era dei media spacciatori di assenze, in “Carmilla online”, 29 dicembre 2017. 

  5. Cfr. Gian Paolo Serino, Aldous Huxley e la distopia, in “Carmilla online”, 8 settembre 2003. 

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La pillola rossa dell’alt-right – 2 https://www.carmillaonline.com/2023/07/14/la-pillola-rossa-dellalt-right-2/ Fri, 14 Jul 2023 20:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77740 di Gioacchino Toni

Come visto precedentemente [su Carmilla], gli ambienti mediali si sono rivelati in grado di intensificare gradualmente l’odio provato da un individuo agendo sulle sue capacità decisionali fornendogli opportunità volte a stimolare e soddisfare i suoi desideri più riprovevoli su cui canalizzare frustrazioni e disillusioni maturate quotidianamente.

L’alt-right online si è dimostrata efficace nell’integrare ideologie debolmente correlate a temi e argomenti di grande interesse. Luke Munn ha ricostruito il processo attrattivo della destra alternativa statunitense: attraverso un calibrato periodo di acclimatazione viene definita una nuova base cognitiva [...]]]> di Gioacchino Toni

Come visto precedentemente [su Carmilla], gli ambienti mediali si sono rivelati in grado di intensificare gradualmente l’odio provato da un individuo agendo sulle sue capacità decisionali fornendogli opportunità volte a stimolare e soddisfare i suoi desideri più riprovevoli su cui canalizzare frustrazioni e disillusioni maturate quotidianamente.

L’alt-right online si è dimostrata efficace nell’integrare ideologie debolmente correlate a temi e argomenti di grande interesse. Luke Munn ha ricostruito il processo attrattivo della destra alternativa statunitense: attraverso un calibrato periodo di acclimatazione viene definita una nuova base cognitiva per ciò che è accettabile; dal momento in cui il discorso viene riconosciuto come consueto e condivisibile, l’utente viene accompagnato in modo “naturale” verso lo stadio successivo ove incontrerà immagini più forti e discorsi più radicali.

Naturalmente, gli individui affiliati anche in modo informale all’alt-right sono relazionali nel senso che sono connessi a vaste infrastrutture sociali e comunità online. Ma non appartengono a un’organizzazione e nemmeno a una cellula. Infatti, questi giovani, spesso disoccupati, si ritirano intenzionalmente dalla società, abbracciando il loro nuovo isolamento sociale anziché rifuggerlo […] Le recenti violenze perpetrate dall’alt-right sono difficili da prevedere e prevenire. Il razzismo e la xenofobia degli aggressori sono stati alimentati, coltivati e incoraggiati negli ambienti più disparati della rete […] Istigando soggetti alienati attraverso una retorica basata sull’odio e l’antagonismo, l’esito non può che essere distruttivo. Le condizioni che alimentano e incentivano l’indignazione, che incitano alla violenza, che perpetuano gli stereotipi razzisti, prima o poi spingeranno un soggetto particolarmente impressionabile e psicologicamente debole a comportamenti estremi1.

Gli individui che esprimono idee vicine all’alt-right sono il più delle volte persone comuni – spesso giovani bianchi disoccupati che si isolano intenzionalmente dal resto della società – che, un passo alla volta, meme dopo meme, video dopo video, hanno maturato convinzioni che considerano corrette e lapalissiane. Pur non facendo parte di gruppi “emarginati” o “assediati”, i discorsi di molti uomini bianchi che si sono avvicinati all’alt-right sono infarciti di retorica di persecuzione e vittimismo. Stando a un recente rapporto, circa undici milioni di statunitensi si dicono persuasi che nel loro paese i bianchi siano le “vittime” ed esprimono la profonda convinzione dell’importanza della “solidarietà bianca”2. «In breve, ci sono undici milioni di americani potenzialmente ricettivi ai messaggi dell’alt-right. Considerato nel più ampio contesto della popolazione, il simpatizzante dell’alt-right è un normale radicale e un estremista mainstream»3.

Lungi dall’essere per forza un emarginato, il soggetto su cui può far presa la retorica dell’alt-right è un individuo disilluso e cinico che, anche quando socialmente inserito, non trova felicità nella sua quotidianità e nel sistema politico che la governa. Un individuo alla ricerca di una sua dimensione all’interno di una comunità strutturatasi nell’universo online su una specifica questione che spesso diventa la sua unica questione esistenziale, una figura che, secondo Matteo Bittanti 4, non è molto diversa da quella di tanti gamer appassionati di giochi “sparatutto in prima persona” che magari, in diversi casi, sono usciti dagli schermi per partecipare all’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021.

Oltre che poter contare su una rete di supporter influenti e su un’immensa disponibilità economica, senza le quali, è bene sottolinearlo, nessuna escalation si sarebbe potuta dare, Trump ha saputo sfruttare la cultura dell’altrnative right permettendole di contaminare l’establishment. Nell’analizzare il successo del tycoon statunitense, Alain Badiou5 ha argomentato come a suo avviso le posizioni politico-culturali di questo outsider rappresentino una sorta di “esteriorità interna” al sistema, un’esteriorità dispensatrice di false promesse portate avanti con un linguaggio roboante, violento, demagogico, irrazionale e semplicistico che non ha esitato a recuperare vecchi immaginari nazionalisti, razzisti, bigotti e sessisti, pur presentandoli, talvolta, in maniera nuova.

Come diversi analisti, anche Badiou ritiene che il successo di Trump sia stato costruito sfruttando quel senso di profonda frustrazione derivata dall’incapcità di proiettarsi nel futuro patito da larghi strati della popolazione privi, come sintetizza efficacemente Fabio Ciabatti, di «un insieme sufficientemente forte e articolato di principi condivisi in grado di fungere da mediazione tra il soggetto individuale e il progetto collettivo dell’emancipazione, di costituire un’unione strategica globale di tutte le forme di resistenza e di azione politica»6.

La “pillola rossa” offerta dall’alt-right e la “pillola blu” dispensata dall’establishment, al di là del diverso colore, conterrebbero, in definitiva, il medesimo principio attivo volto a preservare le fondamenta basilari di un sistema che non ammette alternative a sé stesso.

Sandro Moiso individua nella retorica del “duro lavoro”, onnipresente nel discorso dell’alt-right trumpiana, uno degli elementi cardine del suo successo tra la working class statunitense.

Perché è proprio nel concetto di lavoro inteso come partecipazione alla creazione della ricchezza della Nazione che si nasconde la grande fascinazione esercitata dal fascismo su una parte significativa della classe operaia. Nazionalismo, razzismo, esclusione e prevaricazione di genere, bellicismo non sono altro che i corollari, a livello ideologico, di un concetto che è penetrato in profondità nella mentalità di coloro che collegavano e collegano ancora il benessere proprio alla fatica e allo sfruttamento produttivo. […] Il barbecue famigliare e buy american cui il nuovo presidente invita i suoi elettori è fatto di cibo spazzatura e di illusioni di grandezza, di violenza e odio nei confronti degli immigrati e di qualsiasi nemico. Esterno o interno che sia7.

Tutto ciò, sostiene Moiso, era già presente, per quanto in maniera meno esplicitata, in quell’establishment di cui l’universo alt-right trumpiano si dichiara nemico. Rispetto alla tranquillizzante “pillola blu” proposta dall’establishment liberal-democratico o conservatore, ciò che la “pillola rossa” alt-right trumpiana ha esplicitato è «l’intima connessione tra interesse privato e nazionale che è il fondamento dei rapporti di produzione basati sull’appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta. Da cui deriva l’intrinseca e inscindibile connessione che corre tra le politiche liberali e il loro rovescio apparente: il fascismo»8.

Se al fine di “smascherare” qualche personaggio o istituzione dell’establishment nel corso del tempo hanno fatto ricorso a forme di “hacktivismo moralizzatore” tanto militanti di sinistra che di destra, questi ultimi hanno saputo garantirsi una certa egemonia all’interno della chan culture. Spetta a 4chan il ruolo di apripista in tale ambito. Per dare un’idea del bacino su cui ha potuto contare la cultura di destra fattasi egemone su 4chan, basti pensare che la sezione del forum Something Awful intitolata The Anime Death Tentacle Rape Whorehouse, inaugurata nel 2003, luogo di ritrovo di tanti appassionati di anime giapponesi, ha  raggiunto circa 750 milioni di visualizzazioni mensili nel 2011.

Attraverso una prolifica produzione di meme e troll la comunità di 4chan ha dato voce a una cultura profondamente misogina di appassionati di videogame di guerra e di film come Fight Club (1999) di David Fincher e The Matrix (1999) di Lana e Lilly Wachowski, per quanto letti da una prospettiva probabilmente altra rispetto a quella degli autori. L’anonimato consentito dal sito ha certamente incoraggiato i partecipanti a esprimersi senza freni in un’escalation sempre più sguaiata in cui l’ironia e la parodia hanno finito per intersecarsi con le provocazioni, le minacce e gli insulti della destra radicale. «La troll culture di 4chan brulicava di razzismo, misoginia, deumanizzazione, pornografia disturbante e nichilismo anni prima di diventare una forza centrale dietro l’estetica e lo humor della alt-right»9.

Ad accomunare tanti frequentatori di 4chan e gli estremisti della destra più radicale è stata la comune insofferenza nei confronti del politcally correct, del femminismo, del multiculturalismo e, soprattutto, il timore che tali tendenze potessero “infettare” il loro mondo online privo di regole e dominato dall’anonimato. Il livello degli insulti e delle minacce online ha spesso preso come bersaglio le donne accusate, in definitiva, di aver condotto al declino del “maschio occidentale”. Nella preoccupazione per la mascolinità bianca e occidentale che emerge in molta web culture anonima e priva di leader, secondo Nagle, si potrebbero cogliere  la avvisaglie di un malessere occidentale che va ben al di là dello specifico.

All’espansione di politiche identitarie liberal ha fatto da contraltare il proliferare di reazioni sempre più sguaiate e incattivite portate avanti, in internet, attraverso raffiche di meme e troll virulenti fino alle minacce dirette con tanto di  pubblicazione di informazioni riservate, indirizzi compresi, dei soggetti presi di mira, soprattutto da parte dei gamer antifemministi, dunque allargando, di fatto, la sfera d’azione al di fuori degli schermi.

Secondo Nagle a diffondere la misoginia – come del resto il razzismo, la transfobia ecc. – presente in internet nelle pieghe del corpo sociale, più che le frange radicali dell’alt-right sarebbe stata la sua componente maggioritaria, la cosiddetta alt-light, grazie a personaggi come Milo Yiannopoulos, molto popolare su Twitter e su diversi blog, Mike Cernovich, autore di una celebre guida all’essertività maschile, e una schiera di produttori di meme (Pepe the Frog ecc.) mossi, più che da una visione politica precisa, dalla propensione al politicamente scorretto fine a sé stesso.

Sebbene si tenda ad associare la cultura della trasgressione alla sua manifestazione negli anni Sessanta del secolo scorso nell’ambito di quella rivoluzione sessuale che ha nei fatti minato alle fondamenta la famiglia tradizionale, di per sé, sostiene Angela Nagle, la trasgressione si è storicamente mostrata «ideologicamente flessibile, politicamente intercambiabile e moralmente neutr[a]» tanto da poter «caratterizzare la misoginia tanto quanto la liberazione sessuale»10.

Figure di spicco delle battaglie culturali condotte dalla destra trumpiana come Milo Yiannopoulos e Allum Bokhari nel tratteggiare il pantheon intellettuale dell’alternative right citano personalità quali: Oswald Spengler (Il tramonto dell’Occidente, 1918); H.L. Mencken, avverso al New Deal e promotore di una critica nietzschiana alla religione e alla democrazia rappresentativa; Julius Evola, soprattutto per la sua esaltazione dei valori tradizionali maschilisti; Samuel Francis, paleoconservatore avverso al neoconservatorismo capitalista. Anche la Nouvelle Droite francese rientra nell’eterogeneo pacchetto di influencer a cui guarda l’alt-right statunitense.

Durante gli anni della presidenza Obama, sostiene Nagle, i millenial liberal dotati di buon livello culturale non hanno approfittato dello spazio offerto dai nuovi media dopo il declino dei quotidiani e delle televisioni generaliste, tradizionali luoghi di dibattito politico. Si sono limitati a riempire le piattaforme di contenuti melensi, pieni di sentimenti edulcorati ritenendoli sia attrattivi che utili a costruire identità politica.

Affetto da miopia o da sprezzante disinteresse e snobismo, l’universo liberal non ha saputo/voluto vedere come nel frattempo l’alt-right stesse costruendo un impero mediatico online alternativo e stratificato capace di intercettare «adolescenti che creavano meme ironici e pubblicavano online contenuti contrari all’etichetta comportamentale di Internet formavano un esercito di riserva di produttori di contenuti, composti perlopiù di immagini in stile manga e anime spesso utilizzati in un contesto di umorismo nero»11.

Un esercito facilmente convocabile da parte di celebrità della destra alternativa online come Milo Yiannopoulos, Andrew Breitbart, Cathy Young, Mike Cernovich, Alex Jones, Richard Spencer, ecc. Un mileu di personalità decisamente eterogeneo per quanto accomunato dal livore nei confronti della politica e del giornalismo tradizionali che, dopo l’elezione di Trump, evento che ha ulteriormente rafforzato la loro notorietà mediatica, in molti casi ha dato luogo, come prevedibile, ad esasperate lotte intestine.

La metafora della “pillola rossa” ha permesso tanto ai misogini quanto ai razzisti di raccontare come si sono “risvegliati” «dall’ingannevole prigione mentale del pensiero liberal»12. L’alt-right ha un ruolo di primo piano nella cosiddetta  “maschiosfera”, ambito egemonizzato dalla misoginia di individui in preda a forme di risentimento nei confronti delle donne, come nel caso di quanti si dichiarano soggetti al “celibato involontario” o denunciano le preferenze delle donne per i “maschi alfa” su quelli “beta”. «Sotto i vessilli del “movimento degli uomini” negli Stati Uniti si sono riuniti gruppi di diverso orientamento, da quelli cristiani come i Promise Keepers al movimento mitopoietico del poeta Robet Bly, impegnato nella ricerca dell’autenticità maschilista persa in una società moderna femminilizzata e atomizzata»13.

Tra le figure più note della galassia in cui misoginia e razzismo si mescolano vi è sicuramente James C. Weidmann (“Roissy in DC”) autore di proclami in cui miscela psicologia evoluzionista, antifemminismo e difesa della razza bianca dicendosi convinto che il “declino della civiltà bianca” derivi dall’immigrazione, dalla mescolanza razziale e dalla scarsa attività procreativa delle donne bianche “fuorviate dal femminismo”. Secondo Weidmann, tale declino potrebbe essere invertito attraverso la “restaurazione del patriarcato” e la “deportazione di chi non è bianco”.

Il sito Vox Day, oltre a vedere nel femminismo una minaccia per la civiltà occidentale, palesa la sua contrarietà al concetto di “stupro nel matrimonio” ritenendolo “un attacco all’istituto del matrimonio, al concetto di legge oggettiva e, di fatto, al fondamento stesso della civiltà umana”. Il movimento separatista di uomini eterosessuali Men Going Their Own Way (MGTOW) rifiuta “relazioni romantiche” con donne per protestare contro la cultura che le invita alla realizzazione personale e all’indipendenza. Tra i personaggi più in vista a cui si rifà il movimento vi è lo scrittore maschilista e suprematista bianco Francis Roger Devlin, nemico della “morale elastica” e della “confusione dei ruoli”.

Secondo Nagle molti giovani statunitensi sono attratti dalla galassia dell’estrema destra per il suo denunciare la rivoluzione sessuale come causa delle unioni matrimoniali sempre meno durature e per il suo aver posto fine ai vincoli del matrimonio non appena scemato il rapporto d’amore sgravando i coniugi dal tradizionale obbligo di sacrificarsi per la famiglia. Il prolungarsi indefinito dello stato di irresponsabilità adolescenziale avrebbe dunque condotto a una gerarchia sessuale in cui le donne, rotti i vincoli di monogamia, si concederebbero quasi esclusivamente ai maschi al vertice della piramide sociale condannando tanti altri al celibato involontario.

L’ostilità viscerale degli uomini nei confronti delle donne presente sul web sembra spesso mossa da un senso di rivalsa nei loro confronti. «Sono proprio i giovani uomini con difficoltà relazionali con l’altro sesso e che hanno sperimentato il rifiuto a riempire spazi come Incel, la sezione di Reddit dedicata al celibato involontario, nella quale cercano consigli o soltanto la possibilità di esprimere la propria frustrazione»14. La rabbia che cova tra i livelli inferiori della “gerarchia sessuale”, ossia i maschi che si sentono scarsaemnte desiderati dalle donne, è tale da esplodere, in taluni casi, in maniera estrema.

Alla maschiosfera appartengono anche i Proud Boys, fondati da Gavin McInnes, che si rifanno alla dottrina “No Wanks” e che indicano tra i loro principi guida: «governo minimo, massima fedeltà, opposizione alla correttezza politica, diritto a detenere armi, guerra alle droghe, confini chiusi, opposizione alla masturbazione, culto dell’imprenditorialità e culto delle casalinghe»15. McInnes ha più volte affermato di aver derivato alcune linee di condotta dalla scena hardcore statunitense degli anni Ottanta; non a caso le stesse produzioni grafiche dei Proud Boys riprendono la pratica do-it-yourself degli ambienti punk-hardcore.

L’eterogeneo universo dell’alternative right statunitense si contraddistingue anche per la presenza di una serie di teorie del complotto proliferate e cresciute online poi, in taluni casi, uscite dagli schermi fino a raggiungere il manistream16.

I teorici del complotto lavorano sullo stupore, sulla fascinazione, sui punti di vista inconsueti. Nel fare questo, intercettano e soddisfano bisogni autentici: nelle nostre vite abbiamo bisogno di sorpresa, meraviglia, nuove angolature da cui guardare il mondo e sentirci diversi. I teorici del complotto forniscono tutto ciò e fanno sentire speciali i loro seguaci. Non a caso usano la metafora della “pillola rossa” tratta dal film Matrix: prendere la pillola rossa significa scoprire la verità sul complotto e vedere finalmente la griglia nascosta della realtà»17.

[continua]


La pillola rossa dell’alt-right completo: Parte 1 – Parte 2  – Parte 3


  1. Luke Munn, Il processo di radicalizzazione dell’alt-right, in Matteo Bittanti (a cura di), Reset. Politica e videogiochi, Mimesis, Milano-Udine, 2023, pp. 158-159. 

  2. Cfr. George Hawley, The Demography of the Alt-Right, in “Institute for Family Studies”, 9 agosto 2018. 

  3. Luke Munn, Il processo di radicalizzazione dell’alt-right, op. cit., p. 161. 

  4. Matteo Bittanti (a cura di), Reset. Politica e videogiochi, Mimesis, Milano-Udine, 2023 [su Carmila] 

  5. Alain Badiou, Trump o del fascismo democratico, Meltemi, Milano, 2018. 

  6. Fabio Ciabatti, Dopo Trump, il rilancio dell’idea comunista per superare lo sgomento, in “Carmilla”, 12 maggio 2018. 

  7. Sandro Moiso, Hard working men: alle radici del fascismo di Trump (e non solo), in “Carmilla”, 21 febbraio 2017. 

  8. Sandro Moiso, Hard working men: alle radici del fascismo di Trump (e non solo), op. cit. 

  9. Ivi, p. 149. 

  10. Angela Nagle, Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato manistream, Luiss University Press, Roma, 2018, p. 53. 

  11. Angela Nagle, Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato manistream, Luiss University Press, Roma, 2018, p. 66. 

  12. Ivi, p. 126. 

  13. Ivi, p. 125. 

  14. Ivi, p. 139. 

  15. Ivi, p. 135. 

  16. Cfr.: Wu Ming 1, Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla, prima parte, in “Internazionale”, 15 ottobre 2018; Wu Ming 1, Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla, seconda parte, in “Internazionale”, 29 ottobre 2018. 

  17. Wu Ming 1, Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla, seconda parte, op. cit. 

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La pillola rossa dell’alt-right – 1 https://www.carmillaonline.com/2023/07/10/la-pillola-rossa-dellalt-right-1/ Mon, 10 Jul 2023 20:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77734 di Gioacchino Toni

You take the blue pill, the story ends, you wake up in your bed and believe whatever you want to believe. You take the red pill, you stay in wonderland, and I show you how deep the rabbit hole goes (The Matrix, 1999)

L’assenza di un modello verticistico promessa da internet e l’insofferenza nei confronti dell’establishment e delle ipocrisie di certo politically correct non si sono rivelate, di per sé, prerogativa della sinistra libertaria. Tanti cyberutopisti di sinistra hanno dovuto ricredersi: la forma (reticolare-partecipativa) offerta dal web non si è rivelata garanzia di contenuto (libertario). Nemmeno la logica [...]]]> di Gioacchino Toni

You take the blue pill, the story ends, you wake up in your bed and believe whatever you want to believe. You take the red pill, you stay in wonderland, and I show you how deep the rabbit hole goes (The Matrix, 1999)

L’assenza di un modello verticistico promessa da internet e l’insofferenza nei confronti dell’establishment e delle ipocrisie di certo politically correct non si sono rivelate, di per sé, prerogativa della sinistra libertaria. Tanti cyberutopisti di sinistra hanno dovuto ricredersi: la forma (reticolare-partecipativa) offerta dal web non si è rivelata garanzia di contenuto (libertario). Nemmeno la logica della “pillola rossa” della “rivelazione” (nientemeno) in alternativa all’anestetica e  tranquillizzante “pillola blu” dispensata dall’establishment si è rivelata metafora esclusiva di una sinistra che, piuttosto, in astinenza da piazze novecentesche, deve saper evitare di farsi trascinare da tale logica in un vortice di lacrimogeni complottismi maleodoranti a rischio di riflessi rossobrunastri.

Sebbene sia ormai passato molto tempo da quando, sugli sgoccioli del vecchio millennio, ha fatto la sua uscita nelle sale, The Matrix (1999) di Lana e Lilly Wachowski si rivela ancora un prodotto culturale influente soltanto che, come afferma Mattia Salvia, «è come se il senso del film originale fosse stato ribaltato»; quella che alla sua uscita poteva essere colta come «l’epica lotta di un individuo per uscire dalla gabbia omologante della società dei consumi risulta inattuale»1.

Se in chiusura di Novecento lo spirito di Matrix sembrava prolungare la critica all’omologazione, al consumismo e allo sfruttamento proposta da They Live (1988) di John Carpenter, oggi il film di Lana e Lilly Wachowski solletica l’immaginario di chi, in balia di un frustrante senso di impotenza, nell’incapacità di decifrare la realtà che lo circonda e privo di una prospettiva futura a cui guardare, è pronto a dare credito a qualsiasi visione altra rispetto a quella a cui si sente costretto, ma da cui, nei fatti, continua a non sottrarsi evitando di mettere davvero in discussione la logica profonda che struttura la realtà che lo opprime. È indubbiamente più semplice prospettare visioni semplicemente, e spesso apparentemente, altre della realtà e individuare carpi espiatori su cui poter scaricare la frustrazione accumulata che non prospettare un mondo altro per cui valga la pena abbandonare la realtà attuale.

«La stessa metafora della pillola blu/pillola rossa», scrive Salvia, «è sopravvissuta solo al prezzo di cambiare completamente di segno»2; la metafora della pillola è entrata far parte dell’immaginario dell’alternative right, la tana del Bianconiglio sembra ormai rinviare direttamente al processo di radicalizzazione che conduce dentro QAnon e Morpheus, anziché presentarsi in impermeabile di pelle e occhiali scuri come la sua epidermide, ha il viso dipinto con colori patriottici e indossa un costume da sciamano.

Possiamo dire che il senso di Matrix ha cambiato di segno allo stesso modo in cui la globalizzazione ha finito per trasformarsi in un processo di ridefinizione dei rapporti d forza globali: la “matrice” indica ancora la realtà nascosta dietro l’alienazione dell’esperienza di vita occidentale, ma adesso quella realtà non è più percepita come spaventosa, bensì denunciata come insufficiente. Uscire dalla matrice non vuol dire più rifiutare di far parte di un mondo che si regge su terribili fondamenta, bensì rifiutare di far parte di un mondo le cui terribili fondamenta vanno così poco a fondo. Oggi Neo non esce dalla simulazione perché vuole la verità: ne esce perché la simulazione non lo soddisfa. Non combatte più per la futura sconfitta delle macchine da parte dl genere umano, ma per ritornare a una passato migliore – reale o simulato, poco importa»3.

Il web ha indubbiamente favorito idee e movimenti marginali, permettendone e incentivandone la crescita, e fino a quando la cultura da essi veicolata è stata – o sembrata – in linea con l’immaginario di sinistra, molti militanti e analisti con tali simpatie politiche hanno guardato all’universo online come a una miracolosa scorciatoia utile a superare l’immobilismo cresciuto insieme al mantra della “fine della storia”.

Il fatto che la reticolarità dell’infosfera potesse esprimere qualsiasi tipo di ideologia, compresa quella che ha poi preso il nome di alternative right, da molti è stato compreso quando questa, un passo alla volta, si è insinuata persino tra le pieghe dell’odiato establishment contribuendo a riplasmarlo.

La battaglia culturale che, negli Stati Uniti, si dispiega in internet da ormai qualche decennio viene a darsi in un contesto in cui, sin dalla metà degli anni Novanta, secondo Jonathan Crary4, vengono neutralizzate le energie ribelli dei giovani – negando loro spazi e tempi di autonomia e autoriconoscimento collettivo, dunque la possibilità di costruirsi una memoria e di avere esperienze reali – trasformati in target su cui costruire conformismo tecnologico e consumistico inducendoli ad abitudini e comportamenti prevedibili e duraturi. Online «vediamo quello che succede come viene visto. E in questo mondo di vita virtuale, anche noi appariamo sugli schermi ancora più di prima. Dobbiamo salire sul nostro piccolo palco virtuale e presentare la nostra immagine, i nostri profili»5.

Impugnane uno smartphone per condividere sulle piattaforme social il proprio desiderio di libertà tradisce l’impossibilità di liberarsi da quei graziosi walled garden digitali di cui si continua, nei fatti, a essere prigionieri nel timore non solo di essere altrimenti esclusi dall’accesso alle informazioni, cosa che equivale di questi tempi alla morte sociale, ma anche dalla possibilità di trasmetterne a propria volta in un contesto però profondamente viziato. Un cortocircuito da cui è indubbiamente difficile difendersi6.

Sin dagli ultimi decenni del Novecento, come sottolinea Éric Sadin, si è andato progressivamente ad affermare il primato sistematico di sé sull’ordine comune in ossequio al progetto politico dell’individualismo liberale richiedente «una ricerca sfrenata della singolarizzazione di sé all’unico scopo di differenziarsi»7. La pretesa di indipendenza e sovranità che serpeggiava in individui delusi e traditi dalle promesse a cui avevano a lungo desiderato credere è stata amplificata dall’avvento di internet le cui lusinghe di partecipazione e autonomia hanno celato, di fatto, l’introduzione di sistemi valutativi e di procedimenti disciplinari sempre più sofisticati sugli individui attraverso la cessione alle grandi corporation del web di dati comportamentali e predittivi.

In molti, la sensazione di essere stati a lungo ingannati, l’aver assistito allo sgretolarsi di quel patto sociale che si voleva votato al solidarismo, l’incrementarsi dello scarto tra edulcorata “narrazione ufficiale” ed amara realtà delle cose, hanno generato l’impressione di trovarsi di fronte a una sorta di “doppia realtà” parallela e incomunicante. Alla narrazione manistream si sono andate a contrapporre narrazioni di soggettività costruite soprattutto su particolarismi che trovano nei social i canali privilegiati in cui incanalare il rancore accumulato spesso accontentandosi di ricorrere a visioni semplicemente altre rispetto a quella ufficiale esponendosi così, non di rado, a complottismi di ogni risma8.

È a tale stato d’animo, a tale malessere esistenziale, oltre che materiale, che sono sembrate venire in soccorso tante salvifiche “pillole rosse” capaci, come per incanto, di smascherare lo storytelling dell’establishment rivelando “tutto ciò che era stato sempre nascosto” a un’opinione pubblica “tradita” in messianica attesa di “verità alternative”. È in tale desiderio di “visioni rivelatrici”, una volta passati di moda gli occhiali di They Live di Carpenter, che ha prosperato l’alternative right costruendo un nuovo regime dell’opinione edificato su asserzioni grossolane o infondate e mirabolanti teorie complottiste capaci di proporsi come risposte altre, rispetto a quelle ufficiali, sufficientemente plausibili a spiegare accadimenti inattesi e spiazzanti.

Nella retorica dell’alt-right, sostiene Luke Munn (Il processo di radicalizzazione dell’alt-right, in Matteo Bittanti, a cura di, Reset. Politica e videogiochi, Mimesis, 2023 [su Carmilla]), “scegliere la pillola rossa” indica la volontà di guardare la realtà con “occhi nuovi” prendendo coscienza dell’ingannevolezza della narrazione dominante, sostituendo a essa contronarrazioni complottiste imperniate sul disprezzo nei confronti di tutti coloro che promuovono «opinioni socialmente progressiste e liberali, tra cui il femminismo, i diritti civili, i diritti dei gay e dei soggetti transgender e il multiculturalismo»9.

Agli individui in balia di umiliazioni quotidiane e del senso di impotenza, i social network hanno offerto narrazioni compensatorie  capaci di fornire illusorie magnificazioni (manistream) delle esistenze a esseri umani frustrati e/o la possibilità (alt-right) di scaricare l’ira accumulata prendendosela, spesso protetti dall’anonimato, con qualcuno o qualcosa.

È questa “l’era dell’individuo tiranno”: l’avvento di una condizione di civilizzazionale inedita, che vede l’abolizione progressiva di qualsiasi base comune e la comparsa di una moltitudine di individui sparsi, convinti di rappresentare l’unica fonte normativa di riferimento e di occupare una posizione preponderante che gli spetta di diritto. È come se in una ventina d’anni, l’intreccio tra la presunta orizzontalizzazione delle reti e l’esplosione delle logiche liberali, sostenitrici della “responsabilizzazione” individuale, fosse approdato a un’atomizzazione dei soggetti, incapaci di instaurare legami costruttivi e duraturi e intenzionati a far prevalere rivendicazioni basate principalmente sulle loro biografie e sulle loro condizioni10.

Negli Stati Uniti, tanto la cultura mainstream (e non certo da oggi), quanto quella dell’alt-right si dimostrano imperniate attorno a un analogo individualismo antisociale; solo che nel secondo caso questo assume forme anticonformiste e trasgressive per mascherare come ribellione la sostanziale non messa in discussione di un modello giunto al capolinea sommerso dalle sue tante contraddizioni.

Secondo Pablo Calzeroni, lʼelaborazione simbolica della realtà contemporanea è

progressivamente impoverita favorendo le epidemie di un immaginario antisociale che è al centro del processo di soggettivazione proprio perché ne comporta il continuo fallimento. Le infrastrutture digitali della comunicazione, invece di favorire le relazioni interpersonali, sfruttano e amplificano a dismisura proprio queste dinamiche di desoggettivazione11.

Nel malessere che si agita online è possibile vedere un indicatore dell’eccesso di fiducia riposta nella portata libertaria del web. «Un malessere che ogni giorno si manifesta in modo sconcertante: ludopatie, bullismo on line, misoginia, xenofobia, radicalizzazione religiosa, polarizzazione delle opinioni, violenza». Dietro alla propagandistica lettura patinata del presente, offerta dalla tranquillizzante “pillola blu” manistream, si celano «sfruttamento, disgregazione sociale, precarietà esistenziale, solitudine, perdita di punti di riferimento, frustrazione. In termini più brutali: il vuoto interno ed esterno al soggetto»12.

Se è pur verso che non è possibile addebitare al processo di digitalizzazione la colpa di tutti i mali, è innegabile il ruolo che ha avuto, e ha, nell’esplicitare e amplificare la fragilità e l’isolamento degli individui contemporanei.

La sofferenza che permea la nostra società e si insinua in modo evidente nelle esperienze mediatiche [è] innanzitutto legata a una mutazione antropologica del soggetto, la quale a sua volta è stata determinata, negli ultimi decenni, da una riconfigurazione del sociale a tutto tondo: non solo del nostro rapporto con le macchine, ma anche delle relazioni interpersonali, del mondo del lavoro, dei nostri sistemi di governo. La questione essenziale non è la tecnica in sé ma l’intreccio tra lo sviluppo tecnico e i grandi cambiamenti che hanno caratterizzato il passaggio dalla società industriale avanzata della seconda metà del Novecento all’attuale società dellʼinformatizzazione. Cambiamenti che hanno determinato un progressivo impoverimento della nostra vita relazionale13.

Analizzando l’ascesa dell’alt-right, Luke Munn ha evidenziato come la sua diffusione online si sia fondata su un processo di ricalibrazione del sistema di credenze attuato attraverso una «lenta, ma sistematica colonizzazione del sé, una progressiva infiltrazione che agisce sulla razionalità e sull’emotività»14.

Nell’analizzare le testimonianze di giovani statunitensi che si sono radicalizzati online, Munn individua alcune costanti nelle modalità con cui ciò è avvenuto. In molti racconti emerge, ad esempio, come l’algoritmo del motore di ricerca di Google, dopo aver elaborato le tracce delle ricerche più personali, si sia prodigato nel suggerire nella barra laterale di YouTube link rimandanti a video in cui vengono denigrate le opinioni socialmente progressiste e che invitano ad approfondire le tesi esposte in specifiche piattaforme. «Si comincia con l’umorismo di Steven Crowder, si passa a sostenitori dei diritti dei bianchi più espliciti come Lauren Southern, si procede con figure apertamente suprematiste come Jared Taylor per culminare con il verbo neonazista. Il processo è scalare, incrementale: non prevede stacchi bruschi»15.

L’escalation avviene lentamente, senza salti evidenti, in modo da rendere il tutto “naturale”. Rebecca Lewis16 ha descritto dettagliatamente il funzionamento di questo Alternative Influence Network, vera e propria ragnatela che compare su YouTube attravero narrazioni retoriche, celebrità di internet, studiosi, comici, influencer, opinionisti accomunati da un feroce disprezzo per tutto ciò che ritengono progressista. Gli utenti vengono dunque rimpallati tra una sessantina di influencer politici distribuiti su un’ottantina di diversi canali che man mano alzano il livello di radicalità così da rendere meglio accettabili le proposte politiche via via sempre più estreme.

Nulla è lasciato al caso. In base a una disamina di centinaia di segnali, agli utenti vengono presentati contenuti dal design attraente, che si innestano sui loro interessi, obiettivi e convinzioni dichiarate (attraverso specifiche scelte di consumo) o implicite (dedotte/ipotizzate dall’algoritmo). I motori di raccomandazione non sono entità statiche, che non operano in base a un presunto “io autentico”, stabile e riconoscibile. Sono, piuttosto, fenomeni dinamici, organici e aggiornati in tempo reale. Il profilo di un utente incorpora la sua cronologia di consumo, ma anche le sue esperienze di fruizione più recenti. […] Il consumo culturale non è mai neutrale e il consumo di video non è un processo astratto. La fruizione dei video, specie se ripetuta e prolungata, finisce per modellare la sfera cognitiva del soggetto, generando nuovi desideri, nuovi interessi e nuove concezioni della realtà. In questo senso, YouTube non è solo una piattaforma bensì un percorso, un iter, un condotto, un imbuto […]. Lentamente, progressivamente, il sistema di credenze di un utente viene ricalibrato. Si tratta cioè di un processo mediale metodico accompagnato da un cambiamento psicologico incrementale17.

Pur senza scivolare nel determinismo tecnologico, occorre prendere atto, sostiene Munn, di quanto siano metodiche ed efficaci le strategie messe in atto all’universo dell’alt-right. La logica di funzionamento delle maggiori piattaforme incentivano tale strategia in quanto garantisce importanti guadagni. Pur non essendo collegate tra loro in modo chiaro e intelligibile, le diverse questioni discusse dall’alt-right offrono agli utenti molteplici soglie d’ingresso e opportunità di immedesimazione. La retorica di fondo è ideologicamente coesa. «L’algoritmo suggerisce contenuti familiari, ma al tempo stesso propongono un barlume di novità. Quest’ultima, tuttavia, non può essere estrema, per non destabilizzare il fruitore. Per quanto il percorso non sia identico per ogni utente – può biforcarsi e divergere – in tutti i casi lo spinge sempre più in profondità [verso] un’unica direzione»18.

L’ingresso nell’alt-right, sostiene Munn, è pertanto il punto di arrivo di un graduale processo di radicalizzazione solitamente costruito attraverso una fase di normalizzazione (in cui l’umorismo e l’ironia giocano un ruolo fondamentale nel normalizzare anche le affermazioni più riprovevoli), dunque una di acclimatazione (sfruttando la ripetizione incessante per produrre familiarità, assuefazione e desensibilizzazione), infine una fase di disumanizzazione dell’alterità nemica, da intendersi come «un processo che pian piano logora, annienta e cancella l’altro, fino a trasformarlo in una non-persona, un personaggio di un videogioco, come uno zombie o un demone, da abbattere senza rimorsi»19.

Angela Nagle, Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato manistream (Luiss, 2018), ha ricostruito puntualmente i conflitti culturali online che negli ultimi decenni – dapprima in contesti di nicchia, poi in ambiti decisamente più allargati di vita pubblica e politica –, hanno contribuito a costruire l’immaginario di una generazione di statunitensi appassionati di videogiochi, di anime giapponesi e dell’irriverenza al politically correct persino di serie come South Park (dal 1997 – in corso) di Matt Stone e Trey Parker, trasformatisi frequentemente in cyber-molestatori produttori di meme dal cinico umorismo nero, spesso contraddistinti da becere battute antifemministe o razziste che, in un’apoteosi di sguaiata trasgressione fine a sé stessa, hanno così trovato modo di sfogare i loro giovanili impulsi ribellistici e antisistemici.

Le battaglie culturali condotte in internet negli ultimi decenni, spesso condotte al riparo dell’anonimato, sostiene Nagle, hanno mostrato l’emergere di un’inedita sensibilità anti-establishment che ha trovato espressione in quella cultura fai-da-te fatta di meme e user-generated content, in una reticolarità partecipativa scardinante i vecchi modelli gerarchici su cui riponevano grandi aspettative tanti cyberutopisti libertari.

Sulle ceneri dei moralisti difensori dell’etichetta e della consapevolezza culturale, ad avere la meglio è però stata la galassia dell’alternative right, abile nel portare avanti il suo immaginario a suon di sberleffi “anti-politici” e “infrangi-tabù” tanto nei confronti dell’establishment che dell’attivismo liberal online focalizzato quasi esclusivamente sul gender-bender.

Se da una parte gli ambienti liberal online e dei campus, sostiene Nagle, hanno generato una tendenza a “problematizzare” ogni cosa, individuando ovunque tracce di misoginia e suprematismo bianco, dall’altra la galassia della destra online ha alzato il livello degli insulti e delle minacce ricorrendo frequentemente a forme di dileggio compiaciutamente volgari. «Un’intera generazione ha vissuto come formativi questi primi, oscuri approcci alla politica, che hanno così avuto un significativo impatto sulla sensibilità di massa e persino sul linguaggio». Numerosi esponenti di primo piano dell’alt-right hanno costruito la loro carriera «denunciando le assurdità delle politiche identitarie online»20 e la tendenza degli ambienti liberal a individuare ovunque forme di misoginia, razzismo, transfobia, discriminazione nei confronti dei disabili, body shaming ecc.

In apertura degli anni Dieci del nuovo millennio, sull’onda di una serie di manifestazioni di piazza, utopisti tecnologici, come i giornalisti Heather Brooke21 e Paul Mason22, si sono cullati nel sogno che i social network potessero garantire forme di “rivoluzione senza leader”. L’entusiasmo è stato di breve durata; presto si sarebbero palesati movimenti apparentemente “senza leader”, diffusi attraverso i social in maniera tutt’altro che spontanea, capaci di dare luogo a risvolti di estrema destra.

Negli Stati Uniti è attorno alla metà degli anni Dieci del nuovo millennio che, con la conquista della Casa Bianca da parte di un outsider incarnante la sempre più diffusa ostilità nei confronti dei media e dei partiti tradizionali, si è palesata la fine del dominio esclusivo dei vecchi media sulla politica ufficiale. Alla conquista del potere da parte di Donald Trump molti si sono tardivamente accorti del ruolo assunto dalla galassia dell’alternative right, nella cui orbita sono comparsi personaggi come Milo Yiannopoulos e spazi online come 4chan, oltre a svariati siti neonazisti, suprematisti, anti-egualitari, segregazionisti e nazionalisti bianchi ove si sono messi in luce individui come Richard Spencer.

Nonostante la varietà delle tematiche discusse all’interno di tale galassia – dal calo demografico al declino della civiltà occidentale, dalla decadenza culturale al processo di islamizzazione ecc. –, l’elemento accomunante è l’ambizione a creare un’alternativa all’establishment conservatore di destra, definito sprezzantemente con il neologismo cuckservative per la «passività cristiana e per aver offerto, metaforicamente, le loro “donne”, cioè la loro nazione e la loro razza agli invasori stranieri non di razza bianca»23. Il successo otteneuto soprattutto sui più giovani da parte della cultura veicolata da tale galassia è dovuto in buona parte al ricorso insistito alle immagini e all’umorismo irriverente e trasgressivo dei meme di 4chan, poi 8chan, e al ricorso a strategie da hacker.

[continua]

 


  1. Mattia Salvia, Interregno. Iconografie del XXI secolo, Nero, Roma, 2022, p. 234. 

  2. Ibidem

  3. Ivi, p. 235. 

  4. Jonathan Crary, Terra bruciata. Oltre l’era del digitale verso un mondo postcapitalista, Meltemi, Milano, 2023 [su Carmilla]

  5. Hans Georg Moller, Paul J. D’Ambrosio, Il tuo profilo e te. L’identità dopo l’autenticità, Mimesis, Milano-Udine, 2022, p. 221 [su Carmilla]

  6. Gioacchino Toni, Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale, Il Galeone, Roma, 2022, p. 31. 

  7. Éric Sadin, Io tiranno. La società digitale e la fine del mondo comune, Luiss University Press, Roma, 2022, p. 17 [su Carmilla]

  8. Gioacchino Toni, Il nuovo disordine mondiale / 11: dispositivi digitali di secessione individuale generalizzata, in “Carmilla”, 3 aprile 2022. 

  9. Luke Munn, Il processo di radicalizzazione dell’alt-right, in Matteo Bittanti (a cura di), Reset. Politica e videogiochi, Mimesis, Milano-Udine, 2023, p. 138, nota 15. 

  10. Éric Sadin, Io tiranno, op. cit., pp. 26-27. 

  11. Pablo Calzeroni, Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano-Udine, 2019, p. 124 [su Carmilla]

  12. Ivi, pp. 10-11. 

  13. Ivi, p. 11. 

  14. Luke Munn, Il processo di radicalizzazione dell’alt-right, op. cit., p. 137. 

  15. Ivi, p. 141. 

  16. Rebecca Lewis, Alternative Influence: Broadcasting the Reactionary Right on YouTube, in “Data & Society”, 18 settembre 2018. 

  17. Ivi, pp. 143-144. 

  18. Ivi, p. 146. 

  19. Ivi, p. 154. 

  20. Angela Nagle, Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato manistream, Luiss University Press, Roma, 2018, p. 17. 

  21. Heather Brooke, The Revolution Will Be Digitised. Dispatches from the Information War, Windmill Books, London, 2011. 

  22. Paul Mason, Why It’s Kicking Off Everywhere. The New Global Revolutions, Verso Books, London, 2011. 

  23. Angela Nagle, Contro la vostra realtà, op. cit., p. 22 

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Videogame e conflitto sull’immaginario https://www.carmillaonline.com/2023/05/24/videogame-e-conflitto-sullimmaginario/ Wed, 24 May 2023 20:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76920 di Gioacchino Toni

Scrive Tommaso Ariemma, Filosofia del gaming. Da Talete alla PlayStation (Tlon, 2023), che l’universo dei videogame dovrebbe interessare quanti «hanno a cuore il destino politico del nostro tempo» e in particolare «coloro che si dichiarano marxisti» in quanto anche attorno a tale ambito «si raccolgono le grandi contraddizioni del presente» e perché anche «attraverso il gaming può essere portata avanti la lotta politica e la resistenza all’ideologia dominante». All’universo del videogame, insomma, occorre guardare come a un territorio di conflitto sull’immaginario in cui si confrontano un dispositivo di gestione del potere da un lato e un’azione di resistenza [...]]]> di Gioacchino Toni

Scrive Tommaso Ariemma, Filosofia del gaming. Da Talete alla PlayStation (Tlon, 2023), che l’universo dei videogame dovrebbe interessare quanti «hanno a cuore il destino politico del nostro tempo» e in particolare «coloro che si dichiarano marxisti» in quanto anche attorno a tale ambito «si raccolgono le grandi contraddizioni del presente» e perché anche «attraverso il gaming può essere portata avanti la lotta politica e la resistenza all’ideologia dominante». All’universo del videogame, insomma, occorre guardare come a un territorio di conflitto sull’immaginario in cui si confrontano un dispositivo di gestione del potere da un lato e un’azione di resistenza e antagonismo dall’altro.

Ariemma invita a guardare ai videogame più maturi – nel loro essere puro divertimento, narrazione complessa, esperienza estetica, laboratorio per dilemmi morali, o tutto ciò al contempo – non solo come a un oggetto di analisi filosofica, ma anche come a uno strumento attraverso e con cui ragionare a proposito di quei temi di cui la filosofia ha sempre discusso: vita e morte, realtà e illusione, umano e non umano, scelta e libertà, giustizia e società ideale ecc.

Nel videogioco Assassin’s Creed: Syndacate (2015)1, che  consente di immergersi nella Londra vittoriana del 1868 attraversata da una rivolta popolare contro i ricchi industriali e da una serie di omicidi efferati, con salti temporali nel 1916, ci si imbatte in Marx. In quel Marx, sottolinea Ariemma, capace di individuare il lavoro anche ove non lo si vede distintamente, ossia nelle merci che qualcuno produce faticando magari alle prese con qualche macchinario. Ad attivarsi per nascondere il lavoro necessario alla produzione delle merci è proprio quell’immaginario dispensato ed aggiornato costantemente dal potere al fine di presentare l’esistente come naturale, immutabile e, persino, giusto. Per svelare la presenza del lavoro celato dall’economia capitalista, ricorda Ariemma, Marx ricorre frequentemente nelle sue opere alla metafora del vampiro/capitale, metafora che, come argomentato da Luca Cangianti, si rivela costitutiva della teoria del plusvalore e dello sfruttamento2.

Occorre ricordare che se l’industria militare statunitense si è interessata ai videogame sin dalla loro origine3, dal momento in cui questi sono stati in grado di simulare la possibilità di sparare sono divenuti terreno fertile per l’ideologia più reazionaria strutturandosi attorno al modello maschio, bianco ed eterosessuale, con tutto ciò che ne consegue nei confronti di chi è estraneo a tale modello4.

Il videogame, sottolinea inoltre Ariemma, «è sempre stato una merce. Una merce particolarmente efficace dal punto di vista ideologico, proprio secondo la definizione che Marx ha dato implicitamente dell’ideologia nella sua opera Il capitale: “Non sanno di far ciò, ma lo fanno”. Il gamer si diverte, ma non sta vedendo un film o leggendo un libro: percepisce come propri, perché li attua attraverso un controller, desideri e azioni progettati da altri»5.

Il rischio che il diffondersi dei videogame potesse impattare sulla produttività distraendo e sottraendo tempo e attenzione durante l’attività lavorativa è stato per certi versi arginato grazie alla trasformazione che ha toccato molti ambiti lavorativi negli ultimi decenni del vecchio millennio, quando si è assistito a quel processo di gamification6 attraverso cui l’economia capitalista ha saputo appropriarsi anche del gioco rendendolo non solo compatibile all’attività lavorativa ma ristrutturando quest’ultima facendo leva sull’ambito motivazionale attraverso le logiche del gioco7.

«Nel mascherare a noi stessi e agli altri i meccanismi di sfruttamento del lavoro che esso alimenta, “fai ciò che ami” rappresenta il più efficace strumento ideologico del capitalismo. Elide il lavoro degli altri e cela il nostro lavoro a noi stessi», scrive Miya Tokumitsu8. In effetti, come ha puntualizzato Ulysses Pascal, il neoliberismo ha saputo sfruttare il potenziale emotivo e motivazionale del gioco per agire a livello comportamentale anche in ambiti extraludici trasformando le meccaniche del gioco (punteggi, premi, classifiche…) in strumenti finalizzati a «rendere quantificabile (dunque misurabile, commensurabile ed esportabile) il comportamento di un utente all’interno di un videogioco»9.

Il videogioco, sostiene Ariemma, sembra dunque essersi «allontanato dalla sua esperienza gioiosa, diventando simile al gambling, al gioco d’azzardo, con i suoi meccanismi d rinforzo variabile: una continua scommessa, capace di creare una pericolosa dipendenza»10 in maniera non dissimile a ciò che avviene frequentemente con il ricorso ai social media.

Soprattutto nel gaming più maturo, scrive Ariemma, «si è attratti dalla possibilità di potenziare delle abilità, di fare esperienze etiche profonde, assumendo punti di vista insoliti, di esplorare nuovi spazi di condivisione, di sentirsi parte di una narrazione epica, di riflettere criticamente sulle condizioni materiali della nostra società»11.

Esiste però un «lato oscuro del gaming più maturo», mette in guardia lo studioso, «proprio nel momento in cui favorisce la nostra più libera espressione, nella misura in cui concorre ad alimentare ciò che Shoshana Zuboff ha chiamato “capitalismo della sorveglianza”: attraverso il gaming i dispositivi permettono sempre più a terze parti di collezione informazioni personali […] fornendo un “surplus comportamentale”, attraverso il quale molte aziende potenziano i propri profitti, facendo la fortuna dei cosiddetti “mercati dell’attenzione”»12.

I dati raccolti permettono dunque di accumulare informazioni comportamentali. GameAnalytics, per fare un esempio, è in grado di raccoglie ed elaborare i dati di oltre 850 milioni di gamer attivi mensili su più di 70 mila videogiochi ottenendo informazioni precise sui valori e sulle abitudini dei giocatori e, visto che, come dimostrano diversi studi accademici, queste hanno relazioni significative con le abitudini degli utenti nel mondo “fuori dagli schermi”, i videogiochi si dimostrano ottimi strumenti per ottenere una precisa profilazione della personalità di chi ne fa uso.

Anche il meccanismo introdotto dai videogame negli anni Dieci del nuovo millennio, che prevede l’accesso gratuito alle modalità basilari del gioco salvo poi richiedere una serie di pagamenti per poter avere accesso a contenuti e funzionalità extra, si rivela, come spiega Daniel James Joseph13, estremamente redditizio per il business videoludico non solo dal punto di vista delle transizioni dirette in denaro ma anche per quelle indirette in termini di dati raccolti.

I giochi ludicizzati si rivelano importanti anche nell’ambito dello sviluppo dell’intelligenza artificiale applicata all’ambito militare14, come dimostrano, ad esempio, gli ingenti investimenti operati dall’agenzia governativa del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti nella sperimentazione di “agenti artificiali” operanti a fianco dei giocatori umani nel videogioco Minecraft15 al fine di sviluppare un’intelligenza artificiale in grado di monitorare e gestire i soldati sul campo di battaglia.

Contestualizzato nell’ambito di quello che Shoshana Zuboff16 ha definito surveillance capitalism (profilazione al servizio dell’indirizzo comportamentale), e facendo riferimento alle riflessioni di Tiziana Terranova17 sul lavoro culturale nell’economia digitale, Pascal sottolinea come

La valorizzazione delle opportunità rese possibili dal lavoro creativo digitale e dal videogioco nelle sfere dei media partecipativi spesso ignora, sottovaluta e trascura la complicità con le strutture di sfruttamento e di disuguaglianza tipicamente capitalistiche. Se l’aspirazione consiste nel guadagnarsi da vivere “facendo ciò che si ama” – in questo caso, videogiocando – un’attività che in origine aveva unicamente un valore d’uso (leggi, intrattenimento e socializzazione), ora possiede anche un valore di scambio. Da parte sua, la fruizione videoludica partecipa a entrambe le sfere del valore, dal momento che gli utenti sono letteralmente “pagati per giocare”. Così facendo, tuttavia, il gameplay digitale – pratica liminale in bilico tra due sfere di valore – è rimodellato in modo significativo poiché diversamente mobilitato, “giocato” e “riscattato” in tali sfere. Tale trasformazione, da un lato rende invisibile un lavoro aspirational estremamente precario e non adeguatamente ricompensato e, dall’altro, svaluta e impoverisce la nozione e la pratica ludica. I giocatori sono a loro volta giocati da modalità capitalistiche di produzione digitale che impoveriscono tanto il gioco quanto la giocosità, dato che il giocare è rimpiazzato da una performance pubblica e da una correlata ossessione per le metriche, il posizionamento, i guadagni. Detto altrimenti, la gratificazione intrinseca sottesa al giocare si riduce a un puro esercizio economico. Questo stravolgimento di valore condanna tanto il giocatore quanto lo spettatore, che finiscono entrambi per essere strumentalizzati dalla logica della transazione»18.

Sospesi tra l’essere strumenti di controllo e indirizzo comportamentale, oltre che culturale, e l’offrire inedite possibilità non soltanto ricreative ma anche di riflessione critica, i videogiochi, anche alla luce della loro enorme diffusione, non solo meritano di essere studiati con attenzione ma anche di essere utilizzati come strumento – tra gli altri – con cui portare avanti un’opposizione critica, consapevole e risoluta nei confronti di un sistema di dominio a cui occorre opporrsi dentro e fuori gli schermi. La battaglia sull’immaginario, insomma, deve essere condotta con ogni mezzo necessario, videogioco compreso.



  1. Assassin’s Creed: Syndacate (2015), nono capitolo della serie Assassin’s Creed, sviluppato da Ubisoft Quebec. 

  2. Cfr. Luca Cangianti, FantaMarx. Critica dell’economia immaginaria, pp. 85-86, in: Luca Cangianti, Alessandra Daniele, Sandro Moiso, Franco Pezzini, Gioacchino Toni, Immaginari alterati. Politico, fantastico e filosofia critica come territori dell’immaginario, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2018 

  3. Cfr. Jamie Woodcock, Marx at the Arcade: Consoles, Controllers, and Class Struggle, Haymarket Books, Chicago, 2019. 

  4. Cfr. Alfie Bown, Il sogno videoludico. Come i videogiochi trasformano la nostra realtà, Luiss University Press, Roma, 2022 [su Carmilla]; Matteo Bittanti, a cura di, Game Over. Critica della ragione videoludica, Mimesis, Milano-Udine, 2020 [su Carmilla]; Matteo Bittanti, a cura di, Reset. Politica e videogiochi, Mimesis, Milano-Udine, 2023 [su Carmilla]

  5. Tommaso Ariemma, Filosofia del gaming, cit. pp. 71-72. 

  6. Cfr. Gioacchino Toni, Gamification e controllo comportametnale, in “Pulp”, 22 febbraio 2023. 

  7. Cfr. Sarah Mason, Punteggio massimo, compenso minimo. Ludicizzazione: un gioco che i lavoratori non possono vincere, in Matteo Bittanti (a cura di), Game Over, cit. 

  8. Miya Tokumitsu, In the name of love, in “Jacobin”, 12 gennaio 2014. 

  9. Ulysses Pascal, La ludicizzazione dei videogiochi, in Matteo Bittanti (a cura di), Game over, cit, p. 463. 

  10. Tommaso Ariemma, Filosofia del gaming, cit., p. 72. 

  11. Ivi. 73. 

  12. Ivi. 74. 

  13. Cfr. Daniel James Joseph, Capitalismo Battle Pass, in Matteo Bittanti (a cura di), Reset, cit. 

  14. Cfr. Ulysses Pascal, La ludicizzazione dei videogiochi, cit. 

  15. Minecraft è un videogioco sandbox open world sviluppato da Mojang Studios e pubblicato come gioco completo nel 2011. Per una disamina di tale videogioco si veda Daniel Dooghan, I conquistatori digitali: Minecraft e gli apologeti del neoliberismo, in Matteo Bittanti (a cura di), Game over, cit. 

  16. Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il Futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019 [su Carmilla]

  17. Cfr. Tiziana Terranova, Free labour: Producing culture for the digital economy, in “Social Text”, vol. 18, n. 2, 2000, pp. 33-58. 

  18. Ulysses Pascal, La ludicizzazione dei videogiochi, in Matteo Bittanti (a cura di), Game over, cit., pp. 368-369. 

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Distopia, neoliberismo e universo videoludico https://www.carmillaonline.com/2023/02/27/distopia-neoliberismo-e-universo-videoludico/ Mon, 27 Feb 2023 21:01:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75459 di Gioacchino Toni

Oltre che un audiovisivo interattivo, il videogioco è anche una precisa architettura di game design. Visto che la narrazione e le meccaniche ludiche operano in base a logiche differenti, un’analisi ideologica del videogioco dovrebbe esplorare entrambi gli ambiti anche perché, in taluni casi, possono palesarsi delle importanti dissonanze ludonarrative. Óliver Pérez-Latorre e Mercè Oliva, Videogiochi, distopia e neoliberismo: BioShock Infinite, uno studio di caso, in Matteo Bittanti (a cura di), Reset. Politica e videogiochi (Mimesis 2023) [su Carmilla], concentrandosi proprio su come tali dissonanze incidano sull’esperienza di fruizione, sviluppano una riflessione sull’intero universo videoludico a [...]]]> di Gioacchino Toni

Oltre che un audiovisivo interattivo, il videogioco è anche una precisa architettura di game design. Visto che la narrazione e le meccaniche ludiche operano in base a logiche differenti, un’analisi ideologica del videogioco dovrebbe esplorare entrambi gli ambiti anche perché, in taluni casi, possono palesarsi delle importanti dissonanze ludonarrative. Óliver Pérez-Latorre e Mercè Oliva, Videogiochi, distopia e neoliberismo: BioShock Infinite, uno studio di caso, in Matteo Bittanti (a cura di), Reset. Politica e videogiochi (Mimesis 2023) [su Carmilla], concentrandosi proprio su come tali dissonanze incidano sull’esperienza di fruizione, sviluppano una riflessione sull’intero universo videoludico a partire dall’approfondimento di un caso specifico.

Ad essere preso in esame dal saggio in questione è il videogame di successo BioShock Infinite (2013), terzo capitolo di una serie retrofuturistica, sviluppato da Irrational Games e pubblicato da 2K Games. Si tratta di uno “sparatutto in prima persona” che, nel palesare evidenti contraddizioni tra ciò che si fa effettivamente nel gioco e ciò che questo suggerisce, evidenzia come i videogame siano «artefatti ideologicamente complessi che riflettono in modo non triviale le inerenti tensioni ideologiche. Ergo, la dissonanza ludonarrativa è un sintomo socioculturale anziché un deficit progettuale» (p. 296).

BioShock Infinite è ambientato a inizio Novecento nella fittizia “città volante” di Columbia, fondata da Zachary Hale Comstock su commissione dal governo statunitense, fatta “decollare” in occasione dell’Esposizione Universale del 1893 di Chicago per intraprendere un tour mondiale volto a propagandare la superiorità tecnica, culturale e morale degli Stati Uniti. A distanza di pochi anni i Fondatori, che governano Columbia, dopo aver diffuso tra i cittadini l’idea che la madrepatria fosse ormai avviata a un inesorabile declino morale, economico e sociale, decidono di staccarsi dagli Stati Uniti dando vita a una società utopica in grado, a loro dire, di salvaguardare gli ideali e i principi originali del modello americano. Ai Fondatori si oppone il gruppo Vox Populi, guidato da Daisy Fitzroy, basato sulla composizione sociale sfruttata dal sistema.

Il giocatore è destinato a immedesimarsi con il personaggio di Booker DeWitt, uno “straniero”, ex-investigatore, che giunge a Columbia nel 1912 con l’incarico di trovare e potare a New York una ragazza di nome Elizabeth. Ben presto l’impressione di essere stato catapultato in un’utopia lascia il posto nel protagonista/giocatore alla consapevolezza di trovarsi di fronte a uno scenario di ben altra natura, contraddistinto da fanatismo religioso, razzismo, autoritarismo tecnocratico e capitalismo selvaggio. Visto che anche il gruppo ribelle Vox Populi, palesemente connotato con una simbologia “di sinistra”, viene mostrato, nei fatti, non dissimile dai nemici Fondatori, si può dire che il discorso politico del videogioco sia situato «in un’arena post ideologica, ivi intesa in senso letterale: una cornice concettuale nella quale le ideologie sono presentate come costrutti socio-culturali obsoleti, anacronistici, se non esplicitamente dannosi» (p. 305).

Strada facendo non mancheranno colpi di scena volti ad approfondire o a rileggere sotto nuova luce gli eventi e i personaggi, tanto che persino il protagonista si rivelerà, in qualche modo, parte in causa nella deriva di Columbia e ciò contribuisce a rafforzare nel giocatore l’idea che non sono contemplate alternative. «Il contrasto tra il senso illusorio di libertà del personaggio/giocatore e la rivelazione finale che “i giocatori stanno solo adempiendo al ruolo che gli è stato prescritto” è un tema ricorrente nella saga di BioShock. Nei vari capitoli, la libertà è rappresentata come un’utopia inaccessibile, irraggiungibile. Anzi, è necessario rinunciare alla libertà per intraprendere l’unico itinerario contemplato» (p. 307). Pérez-Latorre e Oliva sottolineano però come nel caso di BioShock Infinite il finale si mantenga è più aperto permettendo una lettura della storia tanto nel solco dell’anti-utopia quanto in quello della distopia critica.

Se ci atteniamo alla logica interna del gameplay, BioShock Infinite è composto da una successione di fasi o “livelli di gioco” che pongono diversi problemi, pericoli e sfide al giocatore. Il giocatore può sempre (o quasi) superare questi problemi, pericoli e sfide ed è ricompensato in forma simbolica (potenziamenti, cutscenes e così via). Il finale narrativo di BioShock Infinite è senza dubbio tragico e frustrante, ma de facto è una lunga sequenza scorporata dall’esperienza di gioco in quanto tale. Per converso, la ludologica in senso stretto, segue uno schema epico che si fa man mano più roboante e iperbolico; detto altrimenti, non prevede reali momenti di frustrazione: è piuttosto una successione di vittorie che producono un’intensa gratificazione psicologica per il giocatore (p. 308).

Se dal punto di vista narrativo BioShock Infinite concede di essere letto come una distopia critica, da quello delle regole e delle meccaniche di gioco le cose, secondo Pérez-Latorre e Oliva, sembrano invece permeate da valori essenzialmente neoliberisti: «la personalizzazione dell’avatar che riflette una precisa logica imprenditoriale del sé; una logica di consumo e cumulativa legata all’autoformazione; un’epica individualista e una competitività nonché un sistema di ricompensa idealizzato» (p. 311).

Circa la customizzazione dell’avatar e del sé imprenditoriale è interessante notare come il gioco, attraverso «il monitoraggio costante dei livelli di salute, munizioni, sali e danni al casco dell’avatar [incoraggi] il giocatore a fare scelte strategiche basate su queste informazioni, inquadrando queste pratiche di auto-sorveglianza come positive, legittime e “normali”. In questo modo, BioShock Infinite è strettamente connesso al concetto di biopotere» (p. 314).

A proposito del consumo e della logica cumulativa legata all’autocostruzione, nel videogame «più cose il personaggio/giocatore raccoglie, maggiori sono le sue possibilità di progredire all’interno del gioco» (p. 315); «il giocatore è incoraggiato a fare acquisti giudiziosi e oculati per migliorare le abilità, i poteri e l’equipaggiamento di Booker. Queste attività esplicitano la logica neoliberista per cui lo shopping, l’acquisto continuo, l’accumulo di merci rappresentano la modalità privilegiata di costruzione e affermazione identitaria»; secondo questa logica il consumo rappresenta «la soluzione ottimale a ogni tipo di problematica che affligge il soggetto » (p. 316).

Per quanto riguarda l’epica individualista, BioShock Infinite fornisce al gamer l’illusione di disporre di un “potere individuale” di “dimensioni epiche” in linea con l’immaginario dei popolari eroi hollywoodiani. Pérez-Latorre e Oliva sottolineano come persino alcuni dialoghi rafforzino «l’individualismo come valore di “senso comune”» (p. 316).

Circa la competitività, come molti videogiochi manistream, anche BioShock Infinite contempla un unico vincitore il cui trionfo presuppone la sconfitta degli altri. Il gioco prevede un meccanismo di ricompensa “idealizzato”; la ricompensa al personaggio/giocatore aumenta al progredire con successo nell’avventura. La competitività premiata da un sistema di ricompensa idealizzato propria di numerosi videogiochi manistream, ricordano Pérez-Latorre e Oliva, non è l’unica opzione possibile, così come non lo è il neoliberismo.

«L’idea di un sistema di ricompensa idealizzato riflette la nozione che una società ideale opera secondo valori meritocratici: pari opportunità e risultati diseguali basati sul talento e sul duro lavoro» (p. 318). Se la retorica meritocratica prevederebbe che tutti e tutte, indipendentemente dalla posizione sociale iniziale, fossero messi nelle condizioni di poter conseguire il risultato grazie al talento e al duro lavoro, il concetto meritocratico ha finito per essere sfruttato dal neoliberismo per motivare, legittimare e mantenere le disuguaglianze sociali promuovendo competitività e atomizzazione sociale.

La logica neoliberista in ambiente ludico non è certamente introdotta dai videogame: «l’intero genere dei giochi di ruolo tradizionali (RPG da tavolo), nati negli anni Settanta, glorifica i principi e i valori della logica neoliberista: la libertà associata al consumo (la “scelta oculata” tra le varie opzioni offerte dal mercato), la soggettività dell’homo economicus e la cultura imprenditoriale, l’autocontrollo e il costante lavoro sul sé, la costruzione ottimale, e così via, sono elementi centrali in molti generi ludici mainstream» (p. 319).

Resta il fatto che in BioShock Infinite, sottolineano Pérez-Latorre e Oliva, la logica neoliberista è centrale e lo si percepisce bene indagando «la creazione e lo sviluppo del personaggio da parte del giocatore, i sistemi di implementazione delle competenze dell’avatar, una costante analisi dei rapporti costi-benefici, e la gestione delle attrezzature al fine di ottimizzare le risorse» (p. 319).

Insomma, «l’incorporazione di elementi tipici dei giochi di ruolo nel genere action-adventure e la loro relazione con l’ideologia neoliberista non rendono BioShock Infinite un caso peculiare o idiosincratico. Semmai, ciò che lo rende unico è l’interazione tra la componente neoliberista espressa dal gameplay e la componente critica progressista veicolata dal racconto distopico» (p. 320).

 

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Il diritto alla città dentro e fuori gli schermi https://www.carmillaonline.com/2023/02/06/il-diritto-alla-citta-dentro-e-fuori-gli-schermi/ Mon, 06 Feb 2023 21:00:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75418 di Gioacchino Toni

I videogiochi open world, nel loro proporre un mondo virtuale che il giocatore può esplorare in modo relativamente autonomo, sono basati essenzialmente sullo spazio, uno spazio connesso a quello del mondo concretamente esperito. La spazialità di questo tipo di videogame assume frequentemente connotazioni inquietanti e conflittuali soprattutto nelle interazioni con l’ambito metropolitano simulato. Ciò è particolarmente evidente in Red Dead Redemption 2 (2018), un videogame sviluppato e pubblicato da Rockstar Games ambientato tra le praterie, i deserti e le zone che si stanno urbanizzando dell’America settentrionale ottocentesca che il giocatore, [...]]]> di Gioacchino Toni

I videogiochi open world, nel loro proporre un mondo virtuale che il giocatore può esplorare in modo relativamente autonomo, sono basati essenzialmente sullo spazio, uno spazio connesso a quello del mondo concretamente esperito. La spazialità di questo tipo di videogame assume frequentemente connotazioni inquietanti e conflittuali soprattutto nelle interazioni con l’ambito metropolitano simulato. Ciò è particolarmente evidente in Red Dead Redemption 2 (2018), un videogame sviluppato e pubblicato da Rockstar Games ambientato tra le praterie, i deserti e le zone che si stanno urbanizzando dell’America settentrionale ottocentesca che il giocatore, vestendo i panni del cowboy Arthur Morgan, si trova ad attraversare.

Alla politica dello spazio simulato è dedicato il saggio di Jack Denham e Matthew Spokes, Il diritto alla città virtuale: la regressione rurale nei videogiochi open world, in Matteo Bittanti (a cura di), Reset. Politica e videogochi (Mimesis, 2023) [su Carmilla].

Nell’analizzare le interazioni di una quindicina di giocatori ventenni, dieci ragazzi e cinque ragazze, ricorrendo sia a interviste, prima e subito dopo la sessione di gioco, che all’osservazione diretta del gameplay, i due studiosi hanno verificato una marcata contiguità tra la percezione dello spazio concreto e virtuale.

I videogiochi open world possono essere definiti come «esperienze sociali contestate giacché propongono dinamiche di interazione mercificate, ostili e alienanti. Queste caratteristiche – che riflettono una specifica ideologia di design a sua volta basata su una concezione neoliberista della società – ci permettono non solo di contestualizzare, ma di comprendere la riluttanza dei giocatori a interagire con l’ambiente urbano costruito»1

Nella “dialettica triplice dello spazio” formulata sul finire degli anni Sessanta da Hernri Lefebvre2 per decifrare gli spazi sociali si distinguono uno spazio concepito, uno vissuto e uno percepito. Riprendendo la formulazione del francese che vuole lo spazio concepito come quello ordinante la società, teso a rafforzare il controllo egemonico attraverso aspettative e regole imposte dall’alto, con riferimento all’universo videoludico questo è identificabile con il mondo simulato e le regole del gioco pianificate dagli sviluppatori.

Nell’illustrare sul finire degli anni Sessanta le trasformazioni dell’ambiente urbano, Lefebvre3 ha sottolineato come le grandi trasformazioni urbanistiche dell’epoca, pur avendo migliorato le condizioni di vita di alcune zone cittadine, abbiano fatto perdere alla città il suo storico significato legato all’uso: anziché essere costruita e gestita secondo il suo valore d’uso, come accadeva in passato, la città ha finito per essere pianificata e realizzata in base al suo valore di scambio.

Tra i giocatori di Red Dead Redemption 2 è stato percepito il carattere «classista, esclusivo e sofisticato che rigetta e respinge i ruvidi cowboy»4 della città virtuale e non è passato inosservato come il paesaggio americano in evoluzione tratteggiato dal videogioco mostri una «concentrazione della ricchezza in poche mani nello spazio concepito della città»5.

A proposito dello spazio vissuto, della comprensione simbolica rappresentativa, i giocatori hanno individuato all’interno di Red Dead Redemption 2 elementi narrativi evocativi che rinviano al cinema western, a partire dall’immagine stereotipata del cowboy come maschio “duro” e “ruvido”.

Circa lo spazio percepito, inteso come «l’esperienza “dal basso verso l’alto” del giocatore che “accoglie la produzione e riproduzione e le particolari locazioni e caratteristiche di ciascuna formazione sociale”»6, nel libro Il diritto alla città, Lefebvre segnala come i valori urbani siano concepiti in modo esclusivo anziché inclusivo e siano tesi a privilegiare il valore di scambio. «In questo senso, i cowboy come Arthur Morgan sono attivamente ostracizzati: non hanno il diritto di abitare i nuovi spazi industriali e capitalistici»7.

Il genere open world si rivela un’esperienza spaziale che lega fortemente l’universo virtuale a quello non virtuale in cui sono giocati; considerare il gioco come uno spazio isolato non consente di cogliere il suo più ampio contesto sociale. Nonostante promettano estrema libertà al giocatore, i videogiochi manistream risultano spesso intrisi di logiche neoliberiste giustificanti lo sfruttamento classista e di genere, legittimanti l’alienazione, l’industrializzazione e la distruzione delle risorse naturali che il giocatore non può negoziare in quanto imposte dalle regole del gioco.

Il nostro campione considera l’esperienza di gioco in un mondo aperto come la libertà simultanea di esplorare mondi incontaminati dai processi di meccanizzazione e industrializzazione urbana, contrastata da un senso di esclusione nel momento in cui quei panorami sono stati “colonizzati” dal summenzionato nesso tecno-capitalista. I partecipanti allo studio erano, per lo più, studenti universitari, cresciuti in contesti urbani, che risiedono in città. Come tali, essi hanno ben presenti i danni prodotti dalla gentrificazione, dall’urbanizzazione, dall’inquinamento, dalla conflittualità, dalla competizione opprimente del capitalismo. Il videogioco fornisce loro la possibilità di riflettere su questi fenomeni in forma metaforica8.

Red Dead Redemption 2 finisce per riflettere e incoraggiare la partecipazione del giocatore all’imperativo capitalistico della crescita senza limiti, alla colonizzazione e allo sfruttamento delle risorse; il videogioco diviene insomma «una sorta di una rivisitazione ludica e spaziale della “logica egemonica liberale e liberista che assegna un primato assoluto al mercato” tipico degli spazi urbani moderni»9. I giocatori sono così spinti «a riflettere sul “diritto collettivo” di occupare gli spazi e di agire negli spazi, come scrive il Lefebvre del Diritto alla città»10, impattando anche sul modo in cui esperiscono l’esperienza del videogioco.

I giocatori usano le esperienze open world offerte da RDR2 per indulgere nell’“esperienza urbana contemporanea con un’aura di libertà e scelta nel mercato”, usando il tempo a disposizione per aggirare le intenzioni dei programmatori e degli sviluppatori, all’interno di uno spazio giocabile che rispecchia i principali aspetti della moderna economia politica urbana. Non rivendicano alcun “potere di modellare il processo di urbanizzazione” che costituirebbe un diritto alla città virtuale, ma abbracciano il diritto alla città come una forma di resistenza. Sono consapevoli della relazione tra cittadinanza e capitalismo che rimodella e “afferma […] il diritto degli utenti di far conoscere le loro idee sullo spazio e sul tempo delle loro attività” cozzando contro scelte di design non negoziabili11.

Quanto sin qua tratteggiato circa il “diritto alla città”, seppure in maniera decisamente diversa,  è per certi versi al centro anche di film focalizzati sulle periferie parigine come L’Odio (La Haine, 1995) di Mathieu Kassovitz, I Miserabili (Les Misérables, 2019) di Ladj Ly e Athena (2022) di Romain Gavras. Ad essere ostracizzati dalla città disciplinata e disciplinare, in questi casi, non sono i ruvidi cowboy che “vengono da fuori” ma quella riottosa feccia – come la definiva quel galantuomo di Nicolas Sarkozy – confinata nelle periferie metroplitane.

Il film di Kassovitz ha portato sul grande schermo le banlieue francesi di inizio anni Novanta e lo ha fatto raccontando un giorno e una notte di tre giovani amici che, mettendo piede nella Ville Lumière, non possono che vivere sulla loro pelle quanto questa si riveli ostile nei loro confronti. Ed è proprio negli eleganti Champs-Élysées parigini, tra tricolori e inno nazionale cantato all’unisono per celebrare la vittoria dei Bleus ai Mondiali, che si apre il film Ladj Ly. L’unità francese esibita dalla Capitale si rivelerà una maschera incapace di celarne l’inospitalità di fondo nei confronti di chi non può permettersi di abitarla.

L’Odio sembra per certi versi il prologo de I Miserabili, film uscito oltre due decenni dopo e le periferie degli anni Novanta mostrate da Kassovitz rappresentano la premessa alla situazione in cui versano le banlieue contemporanee, veri e propri concentrati di guerra civile quotidiana che, al di là della contrapoposizione tra gendarmi e abitanti, vedono, rispetto al passato, nuovi attori non statali della violenza caratterizzati da originali configurazioni di potere in competizione tra loro con cui i singoli devono fare i conti12.

La banlieue messa in scena dal film si palesa come una prigione labirintica costituita da palazzoni e isolati tra i quali incessantemente si perpetua, in una sorta di loop quotidiano, il pattugliamento dell’anticrimine: uno spazio che, in linea con il concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault, può dirsi contemporaneamente chiuso in sé e in relazione col mondo, in contatto, ad esempio, con la grande Ville Lumière che la contiene ma che, tuttavia, la contraddice13.

Tutto ciò è ripreso, in questo caso con respiro epico e tragico, anche da Athena di Romain Gavras che, come gli altri film, sbatte letteralmente in faccia allo spettatore la guerra civile che attraversa le periferie occidentali14 ed anche in questo caso, come ne I Miserabili, tutto inizia in un inospitale centro urbano, che però, stavolta, palesandosi direttamente come centrale di polizia, non maschera nemmeno più la sua ostilità nei confronti di chi vive nelle periferie. I tricolori francesi, paradossalmente, vengono fatti sventolare durante il concitato “ritorno a casa” da parte di, obbligato alle periferie, ha ormai deciso di rispondere agli oppressori con il loro medesimo linguaggio pur sapendo che le cose non potranno andare a finere bene.

In banlieue ci si muove sull’istanza del bisogno: il lavoro, la casa, gli spazi, la bestialità dei gendarmi; sofismi ideologici mal si accordano al cemento armato. E ci si muove coi propri vicini, coi parenti e con gli amici. Non si può tracciare una linea di demarcazione netta tra il corpo politico e quello sociale. […] La banlieue è il territorio di sperimentazione del capitale, dove la disarticolazione della vecchia classe operaia è stata presupposto e trampolino per la ristrutturazione dell’intero modo di produzione capitalista interno della Francia (ma similmente è avvenuto per il resto d’Europa). È il più avanzato laboratorio del nemico e pertanto la trincea di prima linea dei subalterni15.

Questo gruppo di film impone non solo una riflessione sui rapporti centro-periferia ma anche sulle tante strutture di potere con cui i singoli abitanti delle banlieue devono fare i conti nella loro quotidiana lotta per vivere una vita degna di questo nome.


 


  1. Jack Denham e Matthew Spokes, Il diritto alla città virtuale: la regressione rurale nei videogiochi open world, in Matteo Bittanti (a cura di), Reset. Politica e videogochi, Mimesis, Milano-Udine, 2023, p. 261. 

  2. Hernri Lefebvre, La produzione dello spazio, Pgreco, Milano, 2018. 

  3. Hernri Lefebvre, Il diritto alla città, Ombre Corte, Verona, 2014. 

  4. Jack Denham, Matthew Spokes, Il diritto alla città virtuale: la regressione rurale nei videogiochi open world, cit. p. 274. 

  5. Ibidem

  6. Ivi., p. 279. 

  7. Ivi., p. 283. 

  8. Ivi., pp. 287-288. 

  9. Ivi., p. 288. 

  10. Ibidem

  11. Ivi., pp. 288-289. 

  12. Cfr. Sandro Moiso, I don’t live today / 2: la guerra delle periferie, in “Carmilla”, 26 agosto 2020. 

  13. Gioacchino Toni, Immaginari di guerra civile permanente, in Sandro Moiso, Guerra civile globale. Fratture sociali del terzo millennio, Il Galeone, Roma, 2021, p. 362. 

  14. Cfr.: Sandro Moiso, La nostra guerra civile quotidiana: Athena, in “Carmilla”, 12 ottobre 2022; Guy Van Stratten, “Athena”: quando la rivolta degli ultimi diventa un poema epico, in “Codice Rosso”, 1 novembre 2022. 

  15. Jack Orlando, Parlami di noi. Note di ricerca e militanza in banlieue, in “Carmilla”, 3 gennaio 2003. 

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Scenari videoludici di guerra civile americana https://www.carmillaonline.com/2023/01/24/scenari-videoludici-di-guerra-civile-americana/ Tue, 24 Jan 2023 21:01:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75404 di Gioacchino Toni

Ricostruire sui ruderi di un esperimento fallito ripetendo gli stessi errori

«Questo videogioco [Days Gone] racconta la storia di un operaio assediato dalle forze della globalizzazione, un soggetto in larga parte ignorato dalle forze politiche tradizionali. Un soggetto diffidente delle istituzioni, arrabbiato e impaziente. Un soggetto che prova nostalgia per un’immagine dell’America come terra di opportunità, una terra promessa costruita sui valori dell’espansionismo e della colonizzazione, sul mito della frontiera». In Days Gone i panorami americani vengono rappresentati «attraverso una visione di mondo antropocentrica ed estrattiva, per cui la natura è concepita unicamente come una serie di risorse [...]]]> di Gioacchino Toni

Ricostruire sui ruderi di un esperimento fallito ripetendo gli stessi errori

«Questo videogioco [Days Gone] racconta la storia di un operaio assediato dalle forze della globalizzazione, un soggetto in larga parte ignorato dalle forze politiche tradizionali. Un soggetto diffidente delle istituzioni, arrabbiato e impaziente. Un soggetto che prova nostalgia per un’immagine dell’America come terra di opportunità, una terra promessa costruita sui valori dell’espansionismo e della colonizzazione, sul mito della frontiera». In Days Gone i panorami americani vengono rappresentati «attraverso una visione di mondo antropocentrica ed estrattiva, per cui la natura è concepita unicamente come una serie di risorse da sfruttare, come un diritto inalienabile e indiscutibile. I giocatori si muovono tra le rovine dell’America, costruendo una nuova nazione sui ruderi di ciò che potremmo definire un esperimento fallito: anche se il gioco non lo esplicita, sono condannati a ripetere gli stessi errori» (pp. 251-252).

Così, in estrema sintesi, viene descritto il videogioco Days Gone (2019) – sviluppato da SIE Bend Studio e pubblicato da Sony Interactive Entertainment – da Soraya Murray, L’America è morta, viva l’America. L’affettività politica in Days Gone1, in Matteo Bittanti (a cura di), Reset. Politica e videogochi (Mimesis, 2023) [su Carmilla].

Days Gone è un action-adventure open world in terza persona con caratteristiche tipiche del survival horror ambientato nelle zone rurali dell’Oregon, in un’America post-apocalittica, in cui imperversa un’alterità radicale, il freaker, un essere mostruoso geneticamente modificato simile alla figura dello zombie contemporaneo. Il giocatore è tenuto a identificarsi con Deacon St. John, ex-militare bianco, che vagabonda disilluso a cavallo della sua motocicletta tra le rovine di una società piombata in una guerra civile che contrappone le stesse piccole comunità separatiste che si sono venute a creare dopo l’apocalisse che ha dilaniato il Paese a stelle e strisce.

Il protagonista/giocatore è costretto a fare i conti non soltanto con i temibili freaker e con feroci animali selvatici, ma anche – analogamente a quanto avviene nella serie televisiva The Walking Dead (dal 2010) ideata da Frank Darabont, tratta dai fumetti (dal 2003) di Robert Kirkman [su Carmilla 1  2] –, con le diverse fazioni di sopravvissuti contraddistinte da specifiche caratteristiche valoriali che spaziano dall’ideologia libertaria (nell’accezione americana anarcocapitalista) al fondamentalismo religioso, dal militarismo fortemente gerarchizzato alla logica concentrazionaria, ecc. Insomma, l’universo messo in scena da Days Gone è caratterizzato dal conflitto pervasivo, dall’inimicizia e da una violenza generalizzata e se per sopravvivere qualche forma di collaborazione reciproca si rende necessaria, occorre però far affidamento sulla diffidenza nei confronti di tutto e tutti.

Se in altra sede Soraya Murray si è preoccupata di interpretare in chiave ideologica la logica di rappresentazione del videogioco2, in questo saggio ha preferito indagarlo nella sua dimensione affettiva espressa da una peculiare esperienza estetica, in quanto convinta che è proprio nello spazio emotivo che, per usare le parole di Jennifer Doyle, “gli effetti devastanti dell’ideologia diventano particolarmente evidenti”3. Secondo Murray «Days Gone esprime in forma estetica una svolta ideologica: dall’espansione globale neoliberista alla spinta verso il nazionalismo e l’autosufficienza» (p. 221).

Alla studiosa «interessa comprendere come l’attraversamento spaziale e la temporalità degli ambienti simulati contribuiscono al portato affettivo complessivo del videogioco [e] come l’atmosfera stessa del videogioco possa comunicare particolari stati d’animo attraverso l’organizzazione dello spazio virtuale» (p. 222). Secondo Murray l’analisi di Days Gone aiuta a comprendere meglio l’ansia diffusa che permea il contesto socio-politico statunitense.

Nel videogioco il collasso sociale ed economico degli Stati Uniti è stato causato da un contagio, tema ricorrente in numerose opere cinematografiche recenti4, in questo caso diffuso involontariamente da Sarah, la moglie del protagonista, costretta pertanto a essere perseguitata dal senso di colpa e a cercare una soluzione scientifica al disastro che ha maldestramente causato. Il videogioco, però, sostiene Murray, più che sul misogino stereotipo dell’incoscienza femminile muove accuse anti-governative e anti-scientifiche: politica e scienza, insomma, sono considerati i veri responsabili del disastro apocalittico.

Murray sottolinea come se da un lato Days Gone, al pari di molti videogame, permette una certa customizzazione dei dettagli, dall’altro propone l’immedesimazione in un personaggio decisamente strutturato degli elaboratori del gioco caratterizzato dai cliché del maschio bianco tradizionalista e normativo incarnante i valori dell’intraprendenza, della forza e della durezza emotiva, reduce di guerra senza aver ricevuto per i sui servigi alla nazione un adeguato riconoscimento.

L’appeal ideologico di Days Gone, secondo la studiosa, si rifà allo stato d’animo rancoroso diffusosi negli Stati Uniti a partire dall’elezione del presidente Barack Obama del 2012 – soprattutto tra i bianchi della classe operaia e della middle class impoverita – in risposta al percepito decadimento dell’America tradizionale. Tale senso di frustrazione, di vittimizzazione del maschio bianco, ha determinato il «desiderio di “riprendersi” a tutti i costi la nazione, rendendola nuovamente grande» (p. 231) scemando facilmente in xenofobia nei confronti di tutte quelle forze aliene che assediano il Paese.

«Nel contesto della crescente polarizzazione tra l’Occidente e gli Altri, lo scenario survivalista attesta l’ansia diffusa di parte della popolazione che si sente vittima della globalizzazione» (pp. 231-232). Nel protagonista Deacon, così come in altri personaggi che popolano Days Gone, non è difficile vedere la «rappresentazione del bianco americano che si sente assediato e perseguitato» (p. 232), sebbene, sostiene Murray, non sia assimilabile alla classica figura del razzista o del suprematista bianco; in diverse occasioni egli disprezza i personaggi più marcatamente razzisti e intolleranti e non manca di allearsi con personaggi di colore con i quali, in alcuni casi, manifesta una qualche prossimità affettiva.

Come avviene in diversi film hollywoodiani post-apocalittici, anche in Days Gone spetta a un protagonista maschile bianco dare un ultima speranza all’umanità di ristabilire l’ordine dei tempi andati: se l’apocalisse è vista come evento che scombussola l’esistenza degli uomini bianchi, non può che spettare a questi il compito di risolvere la situazione. «Days Gone promuove l’idea che l’individuo è un agente libero e autonomo, che il capitalismo sopravviverà all’apocalisse e che lo sforzo umano individuale è più efficace dell’azione collettiva. Days Gone mostra come un soggetto forte possa adattarsi al panico e superare la crisi» (p. 236).

In termini di gameplay, l’intensità affettiva del videogioco alterna fasi di offesa (che prevedono l’eliminazione dell’Altro) e di difesa (sopravvivenza). Days Gone ci dice che il mondo è ostile, siamo soli, non possiamo contare su nessun altro al di fuori di noi stessi, dunque dobbiamo sopravvivere, sopravvivere, sopravvivere. Chi sopravvive? I fanatici delle armi da fuoco, gli ex soldati traumatizzati, i malvagi immorali senza scrupoli. Ci sono inoltre i “lavoratori essenziali”: meccanici, operai edili, carpentieri. In breve, uomini e donne della classe operaia che si sporcano le mani per garantire la sopravvivenza della civiltà, ma che sono sistematicamente sfruttati, sottovalutati e infine sacrificati (p. 236).

Donald Trump ha saputo sfruttare a proprio vantaggio tale immaginario insistendo nell’indicare nella globalizzazione la causa dell’erosione sociale della classe operaia e di quella media proletarizzatasi e prendendo costantemente le distanze dalla classe politica, contribuendo così alla sua delegittimazione.

Trump ha descritto gli Stati Uniti come una nazione inerte di fronte a legioni di criminali, spacciatori e stupratori provenienti dal Messico, disumanizzando gli immigrati con l’epiteto di “bestie”. Tra le soluzioni che ha proposto per arginare “la piaga”, spiccano le deportazioni di massa e la costruzione di un grande muro. Il “flusso” di cui parla può anche essere letto in relazione ai flussi globali di corpi, capitali e informazioni che caratterizzano la globalizzazione, un processo che produce manodopera a basso, anzi bassissimo costo, con la quale i lavoratori americani non possono competere (pp. 238-239).

Una parte importante dell’analisi di Murray riguarda il ruolo politico che viene ad avere il paesaggio in Days Gone. Nel videogioco il paesaggio viene presentato come un ambiente naturale e selvaggio invaso da una forza aliena che deve essere riconquistato, “ripulito dai nemici” al fine di ripristinare le “condizioni iniziali”.

La necessità di tale incombenza non è comunicata in forma verbale bensì spaziale, ovvero attraverso la messinscena di un territorio connotato come una risorsa limitata che appartiene di diritto a un gruppo specifico. In questo contesto, possiamo scorgere ovunque i detriti di una civiltà ormai perduta che tuttavia non si rassegna all’oblio. Laddove la società precedente era fondata sul consumismo, nel “nuovo mondo” il valore delle cose dipende dalla loro utilità pratica. Days Gone è strutturato sulla base di processi “naturali” legati ai comportamenti degli animali, degli infetti e delle persone. Tali comportamenti hanno un effetto diretto sulle azioni dei giocatori, sulle opportunità e sui risultati possibili nello spazio di gioco. […] L’ambiente simulato – che mostra un paesaggio tentacolare e maestoso, ricco di risorse, nella vibrante e grandiosa riproduzione del Pacifico nord-occidentale – promette una reinvenzione degli Stati Uniti come nuovo Eden, una fantasia di abbondanza, l’utopia della vita agreste (p. 248).

In conclusione, sostiene Murray, si può affermare che Days Gone comunica un messaggio autarchico e, pur non scemando nel complottismo, esprime una retorica anti-governativa, promuovendo «un’ideologia libertaria, basata sul primato del singolo rispetto alla collettività, e celebra la libertà personale come valore assoluto» (pp. 249-250). Non a caso sul piano narrativo tale videogioco può essere assimilato a un western in cui il protagonista, una sorta di fuorilegge, non rinuncia alla propria individualità, evita di unirsi in modo permanente con una delle fazioni in lotta e palesa una sorta di atavica diffidenza nei confronti di ogni iniziativa istituzionale: «Forte di una rappresentazione del paesaggio che segue il canone del sublime, combinata all’affetto politico anti-governativo e anti-scientifico, Days Gone mette in scena uno dei miti fondanti dell’America» (p. 250).

L’importanza di Days Gone, afferma la studiosa, «non risiede tanto nel suo messaggio politico, quanto nella capacità di veicolare una specifica affettività politica. […] Immergendosi per un lungo frangente temporale negli spazi di Days Gone, è possibile accedere all’intensità affettiva del sentimento politico che si è sviluppato negli Stati Uniti nel modo in cui si è sviluppato» (pp. 252-253).

 

 


  1. Versione in lingua inglese: America is Dead. Long Live America! Political Affect in Days Gone, in “European Journal of American Studies”, Special Issue – Video Games and/in American Studies: Politics, Popular Culture, and Populism, vol. 16, n. 3, 2021. Disponibile online [link], data di consultazione 24 gennaio 2023. 

  2. Soraya Murray, On Video Games: The Visual Politics of Race, Gender and Space, I.B. Tauris, London 2018 

  3. Jennifer Doyle, Hold It Against Me: Difficulty and Emotion in Contemporary Art, Duke University Press, Durham, North Carolina 2013, p. XI. 

  4. Ad esempio: La città verrà distrutta all’alba (The Crazies, 2010) di Breck Eisner e Dawn of the Dead (2004) di Zack Snyder, derivati dagli omonimi film del 1973 e del 1978 di George A. Romero; Io sono leggenda (I Am Legend, 2007) di Francis Lawrence, tratto dall’omonimo romanzo del 1954 di Richard Matheson; 28 giorni dopo (28 Days Later, 2002) di Danny Boyle; Contagion (2011) di Steven Soderbergh; World War Z (2013) di Mark Forster, derivato da un romanzo del 2006 di Max Brooks ecc. 

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