matriarcato – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 17 Oct 2025 20:00:24 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Tremate, uomini, tremate… le streghe non se ne sono mai andate! https://www.carmillaonline.com/2025/10/15/tremate-uomini-tremate-perche-le-streghe-non-se-ne-sono-mai-andate/ Wed, 15 Oct 2025 19:50:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90684 di Sandro Moiso

Sabrina Zuccato, La levatrice di Nagyrév, Marsilo Editori, Venezia 2025, pp. 448, 19 euro

«La levatrice sapeva osservare la natura come nessun’altra: sapeva scorgere gli aspetti benefici, ma anche scovarne le anomalie. E ciò non avveniva soltanto in rapporto ai raccolti e alle bestie. Lei conosceva bene anche la natura umana e sapeva guardare dentro le persone, riuscendo a scandagliare la loro anima. Forse era per questo che le donne del villaggio le chiedevano udienza così spesso.[…] Per loro lei non era solo la levatrice di Nagyrév. Non era solo la guaritrice. Era molto di più: un’amica, un’insegnante, [...]]]> di Sandro Moiso

Sabrina Zuccato, La levatrice di Nagyrév, Marsilo Editori, Venezia 2025, pp. 448, 19 euro

«La levatrice sapeva osservare la natura come nessun’altra: sapeva scorgere gli aspetti benefici, ma anche scovarne le anomalie. E ciò non avveniva soltanto in rapporto ai raccolti e alle bestie. Lei conosceva bene anche la natura umana e sapeva guardare dentro le persone, riuscendo a scandagliare la loro anima. Forse era per questo che le donne del villaggio le chiedevano udienza così spesso.[…] Per loro lei non era solo la levatrice di Nagyrév. Non era solo la guaritrice. Era molto di più: un’amica, un’insegnante, una confidente. Lei era zia Zsusi, e aveva una soluzione per tutto.» (Sabrina Zuccato)

Il romanzo “storico” di Sabrina Zuccato, pubblicato da Marsilio all’inizio di quest’anno, offre l’opportunità di sviluppare una riflessione sulla pratica dell’autodifesa e della violenza delle donne, separando gli avvenimenti reali e storicamente comprovati da una narrazione falsamente femminile e femminista in cui le donne sarebbero solo e sempre vittime indifese della violenza maschile o altra. Incapaci di difendersi autonomamente e, spesso, in maniera estremamente originale e “creativa” dalle ingiustizia e dai soprusi che le circondano e le opprimono, se non affidandosi alla protezione delle istituzioni. Una concezione, quest’ultima, che, volente o nolente, non fa altro che riportare l’iniziativa delle donne sotto la grande ala dei sistema patriarcale, dello Stato e delle sue leggi.

Come ha infatti affermato Anna De Biasio, ricercatrice di Letteratura anglo-americana presso l’Università di Bergamo:

Pochi temi sono terreno di silenzi e di tabù come la violenza femminile. Che le donne possano essere attori della violenza e non solo vittime è sembrato a lungo un ossimoro: parte integrante dei sistemi permanenti e impliciti del pensiero, la rappresentazione del femminile è ancorata a un’immagine di dolcezza e di rifiuto del male che trova espressione nel classico cliché della donna angelo o nell’icona della madre. A questa ritrosia si aggiunge il timore che trattare la violenza agita o immaginata dalle madri, sorelle e figlie possa sviare l’attenzione dal drammatico problema della violenza subita, dagli abusi domestici agli stupri di guerra. Eppure storia e letteratura sono popolate di donne capaci di opporsi al dominio maschile con il ricorso alla forza e persino a rivestire ruoli di rilievo nell’ambito virile per eccellenza, quello della guerra. [Ma] non ovunque, nei contesti nazionali, queste (anti)icone di genere hanno trovato la stessa visibilità1.

E proprio da questo cono d’ombra occorre ripartire per sviluppare non soltanto la recensione del romanzo della Zuccato, ma anche, e soprattutto, una riflessione su cosa significhi avere o non avere rimosso l’azione violenta delle donne dalla narrazione di una Storia che si vorrebbe “al femminile”, ma che ancora non lo è, poiché troppo spesso destinata a ricalcare ancora l’immaginario maschile imposto alla figura e alla funzione della donna.

Sabrina Zuccato (Padova, 1992) è giornalista pubblicista e si occupa prevalentemente di cultura, critica cinematografica e attualità; come ci informa nell’Appendice, il suo romanzo si ispira a fatti realmente accaduti, tra il 1919 e il 1929, nella regione ungherese del Tiszazug, un episodio che sconvolse l’Europa non solo per l’efferatezza dei crimini, ma anche per un inedito capovolgimento dei ruoli: donne che uccidevano gli uomini e che si vendicavano.

Al centro delle vicende narrate si stagliano due figure, una maschile e una femminile.
La prima è quella del capitano Zsigmond Danielovitz, mentre la seconda è quella della levatrice Zsuzsanna Fazekas, entrambe realmente esistite.

Il capitano, un uomo indebolito dalla guerra, ma vigile, viene incaricato di indagare sul cadavere di un’anziana contadina, ma ci mette poco a scorgere, dietro gli occhi degli abitanti del villaggio di Nagyrév qualcosa di sinistro. Rendendosi ben presto conto che quella morte di una donna sulle sponde del fiume Tibisco, in quella ristretta comunità rurale in cui il benessere non è mai arrivato, non è che l’anello di una lunga catena di scomparse e incidenti che da tempo coinvolgono il piccolo villaggio, sperduto nella pianura ungherese. Dove superstizione, violenze, miseria e soprusi sono i protagonisti delle vite che si incrociano in questo affresco rurale, in cui a fare le spese di appetiti e frustrazioni sono sempre le donne, mentre le regole patriarcali della comunità magiara e le meschinità dell’animo umano creano situazioni insostenibili e sofferenze ingiustificabili per mogli e figlie, anziane e ragazze.

L’altro personaggio chiave, intorno al quale ruotano le storie di Nagyrév, è la misteriosa, levatrice dal passato nebuloso, spesso etichettata come «strega» dai suoi concittadini, temuta e, ogni tanto, rispettata, una figura carismatica, rarissimo esempio di donna emancipata, cui molte «sorelle» chiedono aiuto per risolvere i guai che hanno dentro casa. Gravate da inganni, stupri e sottomissioni, le vittime hanno infatti deciso di alzare la testa. Mentre i due personaggi principali, nella trama del romanzo, vedranno intrecciarsi i loro destini anche da un punto di vista sentimentale, in un momento fragile e breve prima della catastrofe finale.

Gli avvenimenti che ebbero luogo a Nagyrév, mostrando gli orrori di cui è capace la vita domestica e, allo stesso tempo, le forme di resistenza alle sopraffazioni di genere, possono costituire però anche una finestra sul presente. In cui i soprusi famigliari possono ancora incrociare le vie della guerra e delle sue conseguenze sugli uomini, le donne e le famiglie.

Mescolando drammaticamente desideri femminili inconfessabili, follia, rabbia e impotenza di uomini tornati inabili o gravemente menomati dalla guerra e per questo trasformati soltanto in inutili bocche da sfamare; vendette e ritorsioni per le violenze subite o minacciate dalle donne e nei loro confronti. Per le quali un parto in più spesso, oltre ad un’ulteriore esperienza dolorosa e traumatica, poteva costituire il motore per la soppressione dei figli o dei neonati che sapevano di non poter sfamare.

Ed è proprio da questa palude di necessità, rancori e paure che si svilupparono i fatti che sconvolsero tra il 1919 e il 1929, ma come afferma l’autrice forse anche già da prima, la regione del Tiszazug con l’avvelenamento di più di cento persone. Una catena di omicidi che sembrerebbe trovare nella levatrice di Nagyrév, Zsuzsanna Fazekas, la maggiore responsabile. Sulle cui responsabilità indagarono il capitano della gendarmeria Zsigmond Danielovitz e ll crudele magistrato inquirente Janos Kronberg. Mentre persino la descrizione contenuta nel romanzo degli abusi condotti sulle donne arrestate all’interno delle istituzioni carcerarie in cui vennero rinchiuse prende spunto dalla realtà dell’epoca.

La maggior parte dei giornali dell’epoca tendeva ad attribuire ogni colpa alla mancanza di moralità delle imputate, tornando a fornire un’immagine della donna schiava delle tentazioni del demonio che già aveva nutrito le fantasie perverse ed erotiche degli inquisitori nei confronti del sabba, ma che affondava le proprie origini nelle prime pagine dell’Antico Testamento e nella figura insaziabile di Eva.

Ma quelle donne non erano mai vissute nel giardino dell’Eden e nemmeno lontanamente in prossimità dello stesso, visto che, come si è accennato prima, molte di loro avevano dovuto subire a lungo le angherie di mariti e parenti alcolizzati e violenti. In un contesto di arretratezza culturale in cui il divorzio, pur possibile, non rappresentava una scelta socialmente tollerabile, soprattutto se a richiederlo era una donna.
Donne e ragazze che, a causa delle tradizioni patriarcali di quella stessa società, spesso dovevano sottostare alla volontà del capofamiglia che poteva disporre chi dovessero sposare. Condizione che faceva sì che le donne, prima come figlie e poi come mogli, non potessero godere di alcuna indipendenza economica.

Durante i primi anni del Novecento, nei villaggi del Tsizazug, la base del sostentamento era costituito ancora dai poderi a conduzione familiare, che determinavano la vita quotidiana e i valori della comunità. Con lo scoppio della Prima guerra mondiale, e la conseguente chiamata alle armi degli uomini più giovani e sani, la cura della casa e della famiglia ricadde interamente sulle spalle delle donne, che poi, terminato il conflitto, si trovarono in maniera del tutto inaspettata a dover provvedere a mariti e figli resi invalidi dalla guerra, spesso mutilati o compromessi a livello psicologico2.

Più di quaranta furono le donne arrestate con l’accusa di essere coinvolte in quella catena di omicidi, quasi tutti diretti contro mariti, padri o altri uomini che ne avevano in qualche modo guastata la vita e che furono, per questo, ripagati con dosi letali di arsenico.
A conseguenza di ciò, nel corso delle udienze dei processi tenutisi presso il tribunale di Szolnok tra il 1929 e il 1931:

due imputate furono assolte in primo grado per mancanza di prove attendibili, altre sei ricevettero pene detentive pesanti per aver avvelenato i loro parenti, otto furono condannate all’ergastolo perché si erano rese complici di omicidi di cui avevano beneficiato in maniera diretta. Infine, sei vennero condannate a morte; a tre di queste, la Corte suprema, durante l’ultimo grado di giudizio, ridusse la pena all’ergastolo.
Il metodo con cui queste donne ricavarono l’arsenico non è mai stato completamente chiarito […] Secondo la documentazione consultata, corrisponde al vero che l’arsenico fosse ottenuto attraverso l’ebollizione di carta moschicida, anche se il procedimento preciso non è mai stato esplicitato3.

Qui vale ancora la pena di ricordare le parole usate da una condannata per omicidio, Maria Papai, per confessare alla corte del tribunale il proprio crimine: «Non mi sento affatto in colpa, perché mio marito era un uomo molto cattivo, che mi picchiava e mi torturava. Da quando è morto, ho trovato la pace.»4.

Come ancora ci ricorda l’autrice: la levatrice di Nagyrév, la guaritrice, l’istigatrice, la strega. Zsuzsanna Fazekas è stata chiamata in molti modi diversi ed è stata appurata la sua responsabilità negli avvelenamenti del Tsizazug.

Alcune fonti la citano con il nome di Mária Lakatos, molte altre ancora con quello di Julia Oláh, e talvolta viene indicata come Gyuláné Fazekas. Le più numerose, tuttavia, la identificano proprio come Zsuzsanna Fazekas, ed è logico pensare che quest’ultimo fosse il suo nome da coniugata. […] La sua prima vittima fu probabilmente un veterano di guerra cieco, da lei usato come “cavia” per provare l’effetto dell’arsenico ricavato dalla carta moschicida.
Le sue riconosciute doti di guaritrice e le basse tariffe richieste per i suoi servizi le garantivano la fiducia dei concittadini, e infatti era molto popolare nel villaggio, benché spesso fosse guardata con soggezione [perché] le comunità rurali erano permeate di credenze e superstizioni. Si riteneva che le levatrici, figure da sempre ammantate di mistero, acquisissero le loro abilità uccidendo qualcuno – di solito i propri figli – e divorandone la carne.
Nel 1929 una donna denunciò l’ostetrica alle autorità, presumibilmente perché le aveva negato i suoi servizi. Le indagini si strinsero presto attorno alla levatrice, che però negò le proprie responsabilità. Durante la mattina del 19 luglio 1929, tuttavia, appena i gendarmi la dichiararono in arresto, si suicidò bevendo lo stesso veleno che molto spesso aveva elargito agli altri5.

Ora, però, si rende necessario sospendere il riassunto dei fatti che costituiscono la base storica su cui si fonda il romanzo della Zuccato, aggiungendo soltanto che a Seghedino, posta alla confluenza tra il fiume Tibisco e il Maros, nel 1728 avvenne la più grande caccia alle streghe della storia ungherese, quando oltre venti persone furono accusate di stregoneria in quella città e dodici persone, tra uomini e donne, furono bruciate sul rogo. Dietro molti processi alle streghe non c’erano solo superstizioni e leggi religiose, ma anche tensioni sociali, paura dell’ignoto, gelosia e malizia, e tra gli accusati c’erano spesso ostetriche, guaritrici e donne che sfidavano le norme sociali o disponevano di conoscenze insolite.

Osservazioni, queste ultime che ci rinviano sia al contenuto del romanzo che alla riflessione cui occorre ricollegarsi per sottolineare come, al di là di una narrazione fin troppo ammansita delle conoscenze e pratiche femminili in età pre-moderna, le streghe, ovvero le donne capaci di interagire diversamente con la natura e con i corpi, sia femminili che maschili, un po’ di timore, soprattutto negli individui di sesso maschile, dovevano effettivamente suscitarlo.

Occorre comprendere ciò per capire a fondo la persecuzione che a lungo fu condotta contro le donne, i loro saperi, le loro “magie”, non solo a titolo religioso, come accadde con l’Inquisizione e ancor prima con la repressione violenta di ogni forma di eresia durante il medioevo, ma, e forse soprattutto, anche politico intendendo la politica nel suo senso più ampio di governo della società. La famiglia, le pratiche sessuali, gli obblighi riservati alle donne in quanto madri, mogli e figlie ancor prima che elementi di controllo morale hanno sempre costituito, fin dal loro apparire, aspetti concreti del dominio politico, patriarcale e di classe6.

Come ha affermato Michela Zucca, storica e antropologa, specializzata in cultura popolare, storia delle donne e analisi dell’immaginario, in una sua ricerca:

Nelle civiltà arcaiche e “premoderne” la massa della popolazione vive “fuori dalla società”, lontana dal “centro” in cui si esplica il potere politico, religioso, economico, ideologico dell’establishment. Soltanto in modo occasionale e frammentario i vari contesti locali si rapportano con quello centrale, mentre prevalgono la dispersione territoriale e la varietà locale. La scarsa possibilità di coordinamento sociale, la carenza di controllo da parte delle autorità, l’economia di sussistenza e non di mercato, sono fattori di ulteriore riduzione o restrizione del centro.
Con la cultura “moderna”, lo sviluppo del mercato e il rafforzamento amministrativo e tecnologico dell’autorità, l’urbanizzazione e la scolarizzazione su vasta scala, la diffusione capillare delle comunicazioni di massa, si determina un coinvolgimento generale della società, un’accentuazione e un’imposizione del sistema di valori centrale in misura sconosciuta negli altri periodi della storia.7.

Motivo per il quale, in un tempo in cui il pensiero unico dominante liberal-borghese tende a ridurre il problema dell’oppressione di classe, razza e genere ad una questione di diritti e “coscienze” individuali, con conseguenti atti di contrizione formale ipocriti quanto inutili, diventa urgente sottolineare come la lotta delle donne non sia mai finita. Ad ogni latitudine e in ogni periodo storico declinabile sotto le vesti del dominio di classe. Età contemporanea compresa, in cui, forse a causa dello stesso declino delle forme e valori che ne hanno permesso l’avvento, la lotta si è fatta ancor più visibilmente “politica”.

Una lotta, però, che affonda le sue radici, più di qualunque altra, in tempi storici apparentemente molto lontani, eppure ancora così vicini.

C’era un tempo in cui baciavo con fede la mano ad ogni cappuccino che incontravo per strada. Ero un bambino e mio padre mi lasciava fare tranquillamente, sapendo bene che le mie labbra non si sarebbero sempre accontentate di carne di cappuccino. E infatti diventai grande e baciai belle donne… Ma esse talvolta mi guardavano così pallide di dolore, e io mi spaventavo nelle braccia della gioia… Qui stava nascosta un’infelicità che nessuno vedeva e di cui ognuno soffriva; e io vi riflettevo. Riflettevo anche su questo: se […] tutto questo piacere, tutte queste risa gioconde sono estinte da lungo tempo, e nelle rovine degli antichi templi continuano sempre ad abitare, secondo la credenza popolare, le vecchie divinità [allora è per questo motivo che] la dea Venere, quando i suoi templi furono distrutti, si rifugiò in un monte misterioso dove conduce una vita fantasticamente felice insieme con i più lieti spiriti dell’aria, con belle ninfe dei boschi e dell’acqua8.

Il poeta e ribelle tedesco Heinrich Heine, nella prima metà dell’Ottocento, riusciva a comprendere come la memoria di altri tempi, più felici, potesse continuare ad esistere nello sguardo e nella memoria più recondita delle donne.

Al riparo delle foreste, tornate dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente, trova rifugio una popolazione di fuorilegge, di cui i cittadini hanno paura, ma che vengono lasciati vivere fino a quando gli interessi urbani non si espandono, e anche loro devono essere ridotti alla ragione, letteralmente “razionalizzati”. La caccia alle streghe non è l’unico mezzo di eliminazione di una cultura arcaica. La “soluzione finale” passa anche attraverso la distruzione del substrato ambientale che permise per secoli alle varie “tribù delle Alpi” di mantenersi indipendenti: la foresta meravigliosa che proteggeva genti e spiriti.9.

Una memoria che oggi inizia a ritornare alla luce della coscienza collettiva e obbliga a ripensare tutta la narrazione storica condotta fino ad ora da penne troppo spesso esclusivamente maschili, anche se, proprio a causa di questa “tradizione storiografica”:

È difficile raccontare la storia delle culture minoritarie, dei popoli marginali, dei ceti sociali subalterni e, magari, avversari dichiarati e coscienti del potere costituito, della civiltà e dei sistemi di valori dominanti; poiché nel corso dei secoli – e dei millenni – i dottori della legge – di ogni legge scritta – hanno fatto di tutto per distruggerne non solo le tracce, ma anche la memoria. Erano società e comunità di donne (e di uomini) liberi, che vivevano a stretto contatto con la natura e dall’ambiente ricavavano il necessario per vivere e la sapienza per crescere nello spirito. Un popolo che una volta occupava gran parte dell’Europa; che in seguito alle invasioni degli eserciti, dei missionari cristiani e dell’economia di mercato ha dovuto ritirarsi nei luoghi più isolati per poter sopravvivere. E che poi lentamente si è estinto, distrutto con una guerra di sterminio durata oltre dieci secoli, alla quale ha opposto una resistenza feroce e disperata.
Per eliminare anche l’aspirazione a un futuro migliore fra i superstiti […] era assolutamente necessario cancellare la memoria di quelle antiche genti, imponendo l’idea che – comunque – era sempre stato così, e non avrebbe potuto essere diversamente: le donne sottomesse agli uomini, i poveri ai ricchi. Senza speranza di cambiamento, né, tanto meno, di riscatto10.

Un groviglio intricato, ma non inestricabile, di rapporti di genere, di classe, di etnie, sociali ed economici, religiosi e politici che i drammi della storia “femminile”, di ieri e di oggi, non possono far altro che rendere evidenti nella loro funzione repressiva e ordinativa. Tutti elementi che una volta tanto non sgorgano soltanto dall’interno della cultura occidentale, ma che sono drammaticamente presenti anche nella storia, nelle società e nell’immaginario di altri continenti11.

Certo, esiste da tempo una narrazione, soprattutto cinematografica, che pone le donne protagoniste sullo stesso piano dell’uomo per l’abilità nell’uso della violenza, avvicinandole però più a un modello di gusto maschile che non alla realtà della Storia passata. Come afferma ancora Anna De Biasio, nel suo testo già precedentemente citato, sottolineando come tale prospettiva della violenza al femminile sia inestricabilmente compromessa:

con il sistema delle rappresentazioni patriarcali, vuoi in quanto esteriorizzazione erotizzata delle angosce degli uomini di fronte alla trasformazione in atto dei ruoli di genere, vuoi in quanto replicazione di meccanismi ideologici identificati come tipicamente maschili, a cominciare dal ruolo fondativo giocato dalla violenza nei generi letterari e cinematografici in cui più frequentemente appaiono […] Lo stesso tipo di polarizzazione si può osservare nel dibattito critico sulla diffusione della figura della femme fatale nella letteratura e nelle arti dell’Ottocento. Per certi versi quest’ultima appare come un’antesignana delle eroine implacabili che popolano l’immaginario contemporaneo. Anche allora, come oggi, le rappresentazioni di personaggi femminili seducenti e pericolosi, spesso letali, si pongono in un rapporto attivo con i contesti storici e culturali di riferimento; si fanno cioè veicolo, in modo più o meno esplicito, più o meno consapevole, delle tensioni legate al processo di modernizzazione, uno dei quali è la richiesta di maggior capacità d’azione, accesso alle professioni, e in generale di partecipazione allo spazio pubblico da parte delle donne12.

Un discorso che, allargato anche alle dark lady che hanno popolato e popolano le pagine e le immagini di tanta letteratura e di tanto cinema noir, rischia però di nascondere la “tradizione passata” della violenza femminile per ricollegarla quasi esclusivamente alle condizioni derivate dall’esplodere della modernità. Dimenticando quell’immagine paurosa, per gli uomini, che la strega, la dark lady per antonomasia del passato, ovvero la donna libera e cosciente della sua forza e delle sue reali potenzialità non represse dall’organizzazione sociale patriarcale, porta con sé.

Timore reverenziale, si potrebbe quasi dire, che si è tramesso fino ai nostri giorni anche nel linguaggio: esser stregati da qualcosa o da qualcuno, occhi stregati, stregare e così via. Tanto da far pensare, come sostiene ancora la De Biasio che tali figure di “donne forti”, e il linguaggio che le richiama, costituiscano fondamentalmente «incarnazioni di fantasie maschili, sia nel senso di una masochistica fascinazione per la donna sessualmente aggressiva, sia nel senso dei timori dai contorni misogini nei confronti del suo potenziale dominio». Anche perché la femme fatale non solo non può essere ridotta a una semplice maschera di contenuti eterodiretti ma può e deve essere «rivendicata come emanazione di un desiderio femminile attivo, riconosciuta come dotata di una soggettività autonoma in grado di scompaginare le tradizionali definizioni di genere»13.

Ma a questo punto bisogna ancora ricordare, anche se già anticipati, altri due aspetti rimossi della resistenza o dell’uso femminile della violenza. Il primo è quello della pratica delle armi che risale a tempi immemori, non tanto per il mito delle Amazzoni rimasto all’interno della cultura occidentale, ma soprattutto per la pratica militare che spesso le donne esercitarono nelle società pre-statuali, anche in posizione di comando, spesso condiviso con il ruolo di sciamane, e che ha trovato la sua continuità non tanto nell’arruolamento negli eserciti moderni quanto piuttosto in tutte le lotte di liberazione nazionali e in gran parte delle battaglie internazionaliste in cui le donne si sono sempre distinte. Sottolineando poi come, nel caso italiano, sia nella Resistenza al nazi-fascismo che durante la successiva esperienza della lotta armata condotta in Italia a cavallo tra la seconda metà degli anni Settanta e i successivi primi anni Ottanta del secolo passato, sia stato rilevante e cospicuo il contributo fornito da militanti donne sia nella conduzione militare delle azioni che nella loro preparazione14.

Mentre l’altro punto rimasto in ombra afferisce, se così vogliamo dire, al mito, tragico di Medea ovvero alla soppressione dei figli da parte delle madri stesse. Soprattutto in condizione di miseria o schiavitù e là dove la pratica dell’aborto era, e rimane ancora troppo spesso osteggiata moralmente e dal punto di vista giuridico da un regime sociale che, nonostante l’esaltazione del ruolo della donna-madre e della famiglia come focolare e base dell’amore e della nazione, poco o nulla faccia per non lasciare le donne sole di fronte alle difficoltà psicologiche, lavorative ed economiche seguite alla maternità15.

Delle cosiddette streghe di Nagyrév, chiamate talvolta anche fabbricanti di angeli, rimangono soltanto poche foto ingiallite e quasi cancellate dal tempo. Ma il loro ricordo, o perlomeno quello della loro battaglia, per sopravvivere in un mondo che non meritavano a causa della sua intrinseca miseria, ha continuato a manifestarsi fino ad oggi nei modi e nei luoghi più impensati.

Come in quel gennaio del 1976 quando tante giovani streghe tentarono un assalto al Duomo di Milano che il papa Paolo VI condannò come atto «indecente e sacrilego».

N. B.
Questa recensione e i suoi contenuti sono da ritenersi frutto del confronto sugli stessi argomenti tenuto nel corso degli anni tra l’autore e Cosetta, una di quelle giovani streghe.


  1. A. De Biasio, Le implacabili. Violenza al femminile nella letteratura americana tra Otto e Novecento, Donzelli Editore, Roma 2016.  

  2. S. Zuccato, La vera storia dietro «La levatrice di Nagyrév», Appendice a La levatrice di Nagyrév, Marsilio Editore, Verona 2025, p. 441.  

  3. S. Zuccato, La vera storia dietro «La levatrice di Nagyrév», cit., pp. 431-432.  

  4. S. Zuccato, cit., pp. 35-36.  

  5. Ivi, pp. 432-433.  

  6. Si veda il sempre valido F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato: alla luce delle ricerche di Lewis H. Morgan, un trattato sul materialismo storico scritto e pubblicato nel 1884 che si basava in parte sulle note di Karl Marx al libro The Ancient Society, dell’antropologo americano Lewis Henry Morgan.  

  7. Michela Zucca, Popoli fuori e popoli dentro la storia in Donne delinquenti. Storie di streghe, eretiche, ribelli, bandite, tarantolate, edizioni TABOR, Valle di Susa, maggio 2021, pp. 28-29.  

  8. Heinrich Heine, Gli spiriti elementari (1837) in H. Heine, Gli dei in esilio, Adelphi, Milano 1978, pp. 37-46.  

  9. M. Zucca, Premessa a op. cit., p. 12.  

  10. Ivi, pp. 17-19.  

  11. A solo titolo di esempio si pensi alla tradizione sciamanica e ribelle delle donne giapponesi affrontata in: R. Marangoni, Yamanba. Donne ribelli del Giappone, Mimesis, Milano-Udine 2025; M. Zanetta, Itako. Sciamane e spiriti dei morti nel Giappone contemporaneo, Mimesis, Milano-Udine, 2024; R. Marangoni, Onibaba. Il mostruoso femminile nell’immaginario giapponese, Mimesis, 2023 e F. Soriano, Noe Itō. Vita e morte di un’anarchica giapponese, Mimesis, Milano-Udine 2018. Tutti i testi citati sono stati in precedenza recensiti da Gioacchino Toni su Carmillaonline.  

  12. A. De Biasio, Le implacabili, op. cit., pp. IX-X.  

  13. Ivi, p. XI.  

  14. Si consultino in proposito: A. Cantaluppi, M. Puppini, “Non avendo mai preso un fucile tra le mani”. Antifasciste italiane alla guerra cvile spagnola 1936-1939, WWW. AIVACS. ORG., Milano 2014; I. Faré, F. Spirito, Mara e le altre. Le donne e la lotta armata: storie, interviste, riflessioni, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 1979 e P. Staccioli, Sebben che siamo donne. Storie di rivoluzionarie, DeriveApprodi, Roma 2015.  

  15. Si veda in proposito S. Fariello, Madri assassine. Maternità e figlicidio nel post-patriarcato, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2016 – recensito qui.  

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«Superuomo, ammosciati!» ovvero l’eroe scassato e sconquassato da Philip José Farmer https://www.carmillaonline.com/2022/08/24/superuomo-ammosciati-ovvero-gli-eroi-scassati-e-sconquassati-di-philip-jose-farmer/ Wed, 24 Aug 2022 20:00:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72995 di Sandro Moiso

Sventurata la terra che ha bisogno di eroi (Bertolt Brecht – Vita di Galileo)

Due sono le costruzioni cui più suinamente si inchina il filisteo, lo Stato e l’Io (Amadeo Bordiga – Superuomo, ammosciati!)

Mia madre è una scimmia, mio padre è Dio (Philip José Farmer – Lord Tyger)

Se è mai esistito un autore di SF che possa essere definito come iconoclasta, questo non può essere altri che Philip José Farmer. Un’intera vita, e un’intera attività letteraria, spesa a demolire e distruggere tutti i dogmi delle religioni rivelate, tutti i tabù e tutti gli “eroi” della [...]]]> di Sandro Moiso

Sventurata la terra che ha bisogno di eroi (Bertolt Brecht – Vita di Galileo)

Due sono le costruzioni cui più suinamente si inchina il filisteo, lo Stato e l’Io (Amadeo Bordiga – Superuomo, ammosciati!)

Mia madre è una scimmia, mio padre è Dio (Philip José Farmer – Lord Tyger)

Se è mai esistito un autore di SF che possa essere definito come iconoclasta, questo non può essere altri che Philip José Farmer. Un’intera vita, e un’intera attività letteraria, spesa a demolire e distruggere tutti i dogmi delle religioni rivelate, tutti i tabù e tutti gli “eroi” della letteratura e del mito. Senza sconti e senza scampo per nessuno,
Del suo ruolo di innovatore della SF americana Valerio Evangelisti ha scritto:

Negli anni, la fantascienza era divenuta (aderendo al proprio oggetto) un’astronave proiettata fuori dal mondo letterario; e se al suo interno fiorivano le ipotesi vertiginose e i temi socialmente e politicamente scottanti, fiorivano anche le incrostazioni di tabù e divieti. Sappiamo, per esempio, da una testimonianza di Harry Harrison, che persino la menzione di un comune vaso da notte faceva storcere il naso agli editori americani, attenti a non scandalizzare un pubblico minorenne. Figuriamoci il sesso. Ma ecco che arriva Philip José Farmer ad abbattere le barriere a spallate. Non è il solo, ma certo il meno cauto. […] E non si tratta solo di sesso. La religione altro argomento precluso (ma molto meno), subisce la stessa sorte. Si pensi alla pagina di Venere sulla conchiglia in cui Gesù Cristo appare alla tv, dice «In verità vi dico…» poi viene oscurato perché il tempo è scaduto. Memorabile. […] Questo è in effetti Farmer: un rivoluzionario che magari nemmeno sa di esserlo1.

Nato a Terre Haute, nell’Indiana, il 26 gennaio 1918 e morto a Peoria il 25 febbraio 2009, Farmer è stato, fin dagli anni Quaranta, uno scrittore estremamente prolifico nell’ambito della fantascienza statunitense. A causa della rigida educazione impartitagli da una famiglia benestante e puritana, di origini inglesi, olandesi e irlandesi da parte di padre e scozzesi e tedesche da parte di madre, cercò sfogo nella lettura di romanzi fantastici e d’avventura. A nove anni scoprì i classici della letteratura greca e i libri di Oz, mentre l’anno seguente avrebbe iniziato a frequentare la letteratura di stampo fantascientifico e satirico-fantastico attraverso i romanzi di Edgar Rice Burroughs, Jules Verne e I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift.

Di queste iniziali, infantili e disordinate letture avrebbe approfittato più avanti negli anni quando, nei suoi romanzi maggiori, ma anche in quelli minori e nei racconti, avrebbe mescolato figure e vicende prese a prestito da quella letteratura, oltre che da quella weird e pulp, per dare vita a saghe che avrebbero visto tra i protagonisti personaggi del calibro di Mark Twain, Erik il Rosso, Riccardo Cuor di Leone, Gesù Cristo, Tom Mix, Richard Francis Burton e molti altri ancora, come nel ciclo di Riverworld, il mondo del Fiume (cinque romanzi pubblicati tra il 1971 e il 1983, più svariati racconti).

Oppure descrivendo universi impossibili, con mondi strutturati come ziggurat, sui cui piani convivevano e combattevano esseri ed eroi provenienti dalla mitologia greca, come i centauri, così come da quella nordica o degli amerindi. Come avviene nel ciclo dei Fabbricanti di universi (sette romanzi pubblicati tra il 1965 e il 1993).

Infatuato fin dall’infanzia dai dirigibili e dai veicoli più leggeri dell’aria, avrebbe poi “riscritto” Moby Dick, ambientandolo su un pianeta dove le balene galleggiano nell’aria e gli equivalenti del capitano Achab e degli altri personaggi descritti da Melville danno loro la caccia a bordo di strane mongolfiere (Pianeta d’ariaThe Wind Whales of Ishmael, 1971), mentre nel 1973 avrebbe reinventato un classico di Verne, letto nell’infanzia: Il giro del mondo in ottanta giorni (Il diario segreto di Phileas FoggThe Other Log of Phileas Fogg, 1973). Come ha affermato Diego Gabutti, in Fantascienza e comunismo:

Farmer è sempre stato, prima che uno scrittore, un riscrittore: tali sono anche, del resto, i padri fondatori della letteratura moderna. Vivendo come una sorta di vampiro emozionale i romanzi degli altri, impossessandosi di trame e personaggi non suoi […] Farmer è un grande lettore se non immediatamente un grande scrittore.

Così, se egli non ha mai veramente scritto romanzi propri, è solo perché nessuno l’ha mai veramente fatto: il romanzo è ripetizione infinita, nel senso in cui Bordiga definiva se stesso un «ripetitore» […] Meglio vecchi libri che cadaveri freschi. Tuttavia, la professione del bibliotecario non è soltanto il collaudato male minore: è una scelta di campo intransigente, fredda e determinata […] Se Farmer, ad esempio, ha riscritto Il giro del mondo in ottanta giorni è solo perché neppure Verne, lui in particolare, aveva evidentemente saputo o potuto dire tutto. Con la riscrittura del Voyage, in cui ci è svelata l’identità extraterrestre di Phileas Fogg, di Passepartout e della principessa Auda, viene soprattutto ad affermarsi in un corpo già consegnato alla classicità un po’ sudicia dei musei di scienze naturali della letteratura, un movimento che il divenire, compiacendone i tic, aveva radicalmente negato.

Statue di marmo non parlano più. Ma proprio perciò Farmer torna a quel che la statua era prima che divenisse un marmo, prima che s’indurisse nell’impotenza dei suoi tratti scolpiti per sempre […] D’altra parte, il filologo non si preoccupa tanto del suo oggetto quanto della propria salute: vuole sbarazzarsi dei fantasmi ululanti nelle sue ossessioni, ed è allora un fantasma ulteriore che egli prepara per gli altri. Tanto peggio per l’oggetto se ne risulterà massacrato […] Lo sforzo filologico ha un carattere insurrezionalista: quando, come ora, tutti i tempi tattici sono stati consumati e chi non è con noi è contro di noi, non c’è altro modello che non sia nuovamente quello che ha dato il là nei tempi moderni alla leggenda del filologo, la saga stessa di Nietzsche. Il filologo è senza paura, è stato terrorizzato a sangue. La sua è la parete che rimanda, inalterabile, l’eco dell’opera; chi, per averne accusato in pieno l’onda d’urto, ora si lamenta perché è stato ferito, perché non ci capisce niente, ha solo quel che si merita; la prossima volta si leverà di mezzo2.

Farmer “filologo insurrezionalista”, terrorista dell’ordine costituito dalla letteratura che finisce, non importa se inavvertitamente o volontariamente, anche per sabotare strutture sociali e religiose, oltre che appartenenti all’immaginario, date per scontate. Come la figura dell’Eroe o dell’individuo di eccezione.

Sono costruzioni reali apparse nella storia, e che hanno avuto materiali effetti di ogni natura e di massima portata, e ciò vale tanto per le varie forme e tipi di Stati di tutti i tempi, che per i grandi Capi e Maestri di tutti i popoli e di tutte le epoche.
Quel che vogliamo stabilire è che, come la teoria marxista dello Stato, dopo aver sciolto l’enigma della dinamica di questo formidabile fattore, chiude col suo invio in pensione, un processo analogo avviene per l’Io, inteso come finora l’hanno inteso i filosofi, ossia non solo come il soggetto che si troverebbe eterno ed assoluto in ogni animale-uomo, ma come l’entità immateriale e imponderabile che anima l’Uomo con la lettera maiuscola, il grande duce, il grande condottiero, l’innovatore che appare ad ogni tratto della storia ufficiale. Come lo Stato, anche questa “forma” del capo, ha una base materiale e manifesta l’azione di forze fisiche, ma noi neghiamo che abbia funzione assoluta ed eterna: stabilimmo che è un prodotto storico, che in un dato periodo manca; nacque sotto date condizioni, e sotto date altre scomparirà. Marx annunziò allo Stato moderno la sorte di essere fracassato e ridotto in frantumi. Engels e lui stesso definirono la sorte dello Stato rivoluzionario, che gli seguirà, come una lenta sparizione. All’Io di eccezione spetta la stessa sorte; deperire, svuotarsi, sgonfiarsi, dissolversi (sich auflosen), estinguersi, spegnersi (sich aufloeschen) come in Engels. Lenin ebbe un altro termine espressivo: assopirsi3.

Un’educazione come quella che l’autore americano aveva ricevuto doveva aver lasciato fantasmi e ossessioni piuttosto ingombranti per la sua psiche. E’ evidente che è proprio contro quei fantasmi che si levano prima di tutto la sua rivolta e il rigetto delle verità date, siano esse di carattere razziale, religioso, sessuale, politico o letterario.

Entrano, dunque, quei fantasmi nella sua scrittura e, in particolare, in tutta la sua azione di demistificazione degli eroi e degli dei. In particolare nel romanzo in cui più spavaldamente e provocatoriamente porta a segno la sua ristrutturazione, più che destrutturazione, filologica dell’eroe, riportandolo a ciò che è nella sua essenza.

Proveniva da una famiglia dell’alta borghesia sudista con una tradizione protestante e puritana. Per di più, la sua mammy negra, che l’aveva allevata fin da quando aveva sei anni, era una battista del Sud di stretta osservanza. Nonostante ciò, Clio riuscì ad evolversi in una giovane donna appassionata e non particolarmente pudica, con una tendenza a quel che gli umani chiamano “sperimentazione sessuale”. E riuscì anche a liberarsi da quegli aberranti riflessi condizionati che gli umani chiamano pregiudizi razziali. Per lo meno, per quanto è possibile per un bianco nordamericano4.

Sono alcuni degli aspetti della compagna di Tarzan, Clio, alla quale l’autore americano attribuisce caratteristiche educative tratte dalla propria personale esperienza. In tali considerazioni è implicito il fatto che una volta superati i tabù del sesso, anche tutti gli altri di carattere religioso, politico e razziale possono essere, almeno in parte, superati. Una sorta di manifesto dei movimenti, soprattutto americani, di quegli anni, ma che Farmer aveva già anticipato nei racconti e romanzi che lo avevano fatto conoscere al pubblico.

Nel 1951 aveva infatti proposto il racconto breve Un amore a Siddo (The Lovers) ad «Astounding Science Fiction» e a «Galaxy» che lo rifiutarono per il tema, in esso contenuto, della relazione amorosa tra un umano e un’aliena, ritenuto troppo scabroso per l’America puritana e razzista degli anni cinquanta. Il racconto fu poi pubblicato sul numero di agosto del1952 di «Startling Stories», facendogli ottenere per la prima volta, nel 1953, il Premio Hugo.

Ma per Farmer il sesso, spesso esplicito e privo di infingardaggini e romanticherie, non è, come affermato da Charles Bukowski, qualcosa da aggiungere ai racconti per vendere di più. Costituisce il filo rosso che percorre gran parte della sua opera sia in chiave liberatoria che demistificatoria.
Insieme alla violenza, alla crudeltà, al sangue versato con indifferenza, che “filologicamente” restituiscono ad eroi e miti il loro originario e più veridico volto.

In particolare questo proposito è portato avanti, con singolare crudezza, proprio nel romanzo appena citato, Festa di morte, che si presenta, sia nel sottotitolo che nell’introduzione dello stesso Farmer, come l’ultimo volume dei nove che costituirebbero l’autobiografia di Lord Grandrith, meglio conosciuto come Lord Greystoke o Tarzan delle scimmie. Affermazione che, rispetto all’opera complessiva dello scrittore nordamericano, non è affatto una boutade, visto che almeno sei o sette dei suoi libri, non tutti tradotti in italiano, sono dedicati alla figura creata da Edgar Rice Burroughs. Senza contare quelli dedicati al ciclo della città di Opar che, di fatto, proseguono il ciclo avventuroso creato già da Burroughs.

Ossessione per l’”eroe della giungla” o altro?
Sicuramente nelle diverse opere dedicate, direttamente o indirettamente da Farmer alla figura di Tarzan, o consimili5, tutte pubblicate nell’arco di un quinquenni tra il 1969 e il 1974, non c’è soltanto la volontà di sperimentare tutte le possibili variazioni sullo stesso “tema”, ma, in primo luogo, quello di riportare l’”eroe” alla sua essenza e “reale” forma di esistenza. Quella bestiale, poiché, non per nulla, l’eroe sembra appartenere a ciò che Marx definiva la “preistoria” da cui l’umanità non sarebbe ancora uscita.

Sono le parole del magnate pazzo deus ex-machina di Lord Tyger a rivelarci, attraverso la scrittura di Farmer, l’intima essenza dell’eroe, del suo operato e di chi lo crea o rilancia nell’immaginario collettivo: «Io non sono malvagio! Non sono malvagio! Ma non si può avverare un sogno senza dolore!»6.

Ma se questo è il mandato dell’eroe, realizzare i sogni attraverso il dolore, in Festa di morte Farmer mette ancora più a nudo l’eroe, la bestia in quanto tale, lasciandogli solo la violenza, il sangue, la brutalità, la paura7, l’istinto primario e irrazionale. Scopo reso ancor più evidente dal fatto che l’eroe si aggira totalmente nudo per gran parte delle pagine del romanzo. Un ritorno allo stato di natura che non costituisce, nemmeno lontanamente, un ipotetico ritorno a uno stato di grazia. L’eroe, soprattutto se “bianco” e ancora ispirato dall’immaginario coloniale, può soltanto cadere, sempre più in basso e senza nemmeno poter avere la pretesa di trasformarsi in un anti-eroe.

E non solo poiché, per rafforzare il suo discorso, l’autore pluripremiato per le sue opere inserisce nelle vicende un altro classico protagonista della letteratura seriale statunitense degli anni Trenta: Doc Savage (nel romanzo Doc Caliban). Supereroe dalla pelle color bronzo che, simile a un bronzo di Riace dell’immaginario capitalistico americano, combatte il male, oltre che con dosi estreme di violenza, anche adottando radicali terapie psichiatriche correttive della personalità in funzione del ristabilimento dell’ordine sociale borghese8.

Ma ancora non basta. Tra ironia e immaginario trash l’”eroe” rivela le conseguenze, sul piano psichico e comportamentale, della sua educazione tra il popolo delle scimmie, che era costata al giovane Tarzan esperienze non sempre piacevoli nei primi anni di vita. Stimolando così in lui una tendenza alla violenza nei rapporti sessuali, in cui talvolta appare come dominatore e altre come dominato, che dipende però, e soprattutto, da un altro suo e più grande segreto: essere figlio, come Doc Caliban, di Jack lo squartatore.

Buon sangue non mente e per tutto il romanzo sia Tarzan che Doc Savage, alias Doc Caliban, raggiungeranno spesso l’orgasmo mentre uccidono o cercano di uccidersi a vicenda. Magari penetrando le ferite già inferte all’avversario. In un’autentica orgia di sangue. La ricerca del piacere e dell’immortalità trionfano attraverso l’egoismo più sfrenato, anche se l’eroe “mortale” defeca, piscia, si corica per dormire tra i propri o altrui escrementi o uccide con modalità che solo più tardi sarebbero state riprese dal cinema di Robert Rodriguez9.

Lo scagliai lontano con la sola forza del braccio, imprimendogli una parziale rotazione. Volò per la sala urlando. Ogni goccia di adrenalina di cui il mio corpo poteva disporre doveva essere stata chiamata a raccolta. I suoi intestini, lunghi pressapoco sette metri, fuoruscirono e caddero strappati dal suo corpo. Noli atterrò sulla faccia, le braccia spalancate, Era ancora vivo, per quanto livido per il trauma. I suoi intestini erano distesi come una scia sanguinosa sul pavimento dietro di lui. Ebbe un sussulto e morì10.

Dopo aver devastato religioni e dei, le forme della sessualità consentite e no, Farmer più che portare a fondo la filologia dell’essenza dell’”eroe”, finisce col distruggerlo o, meglio, devastarlo attraverso l’uso di una filologia degna di Rabelais e del suo Pantagruele che usava i pulcini per pulirsi il culo. Oppure raccogliendo la sfida di Céline a non scrivere come se si stesse “ricamando merletti”.

In Farmer, il machismo implicito nella figura dell’eroe viene portato alle estreme conseguenze in una giostra di attributi maschili fuori misura e sempre in erezione, pronti sempre alla bisogna e al richiamo della foresta. Il tutto in una girandola di cattivo gusto, violento e sadico, sarcastico e canzonatorio allo stesso tempo, che più che mettere alla prova il lettore, testa le probabilità che può avere l’eroe di sopravvivere ad un simile trattamento. In effetti, non lasciandogliene molte.

Vediamo dunque un poco la dottrina della fine e dell’origine del Battilocchio.
[…] vogliamo con questo stabilire e meglio chiarire, con motivi strettamente deterministici, come la funzione del Battilocchio (abbiamo così definito il Superuomo, l’Io extra misura, l’individuo “fuori classe”) che ha fin qui avuta una meccanica effettiva, debba eliminarsi insieme agli altri caratteri delle società di classe con la rivoluzione comunista. […] non nascondiamo una larga simpatia per i tempi del matriarcato. […] In questa società è la donna che trasmette il nome alla gens ed alla prole, ed è la donna che può fondare sola una gens nuova. Qui non incontriamo dunque ancora in circolazione la specie battilocchius clarissimus. Qui non viene ancora tra i piedi il Superuomo. […] La serie dei Battilocchi comincia da quando una complessa rete di possessi fondiari, di schiere di schiavi, di eserciti in armi, rovinato il comunismo primitivo e il matriarcato, deve tradurre il suo meccanismo da una generazione all’altra, e per tanto fare abbisogna di un centro, di un vertice, di una passerella di comando, di sinedri in cui si faccia la consegna delle chiavi e dei segreti di dominio. Qui l’uomo di eccezione viene sulla scena e comincia a rappresentare la sua parte […] Fin che funzione preminente è la difesa e la lotta materiale contro pericoli ed aggressioni, è chiaro che basta per capo quello più alto, dai muscoli solidissimi e dal cuore a battito formidabile; e basta a questi scegliere un giovane successore cui trasmetterà l’arte della lotta, del tiro dell’arco e della scherma. Al cospetto dei battilocchiali delusi Proci, Ulisse prova sprezzante e senza favellare la sua identità flettendo come fuscello il suo colossale arco. Stessa prova darà il figlio Telemaco, e quelli volgeranno le terga senza tentare la zuffa11.

Lontano dal comparativismo di Joseph Campbell12, tutto teso alla definizione di un eterno modus operandi della figura dell’eroe, o dalle edulcorate critiche di Umberto Eco13, Farmer, considerato in ambito fantascientifico un comparativista del mito più vicino al James Frazer del Ramo d’oro, sembra porre invece la necessità e l’urgenza di rivedere in profondità, se non distruggere, l’eroe, manifestazione suprema, arbitraria e anche un po’ ridicola del meschino Io borghese in età contemporanea.

Motivo per cui, nei confronti dei tentativi di rinnovare e riciclare l’eroe, occorre, parafrasando l’undicesima tesi di Marx su Feuerbach, riaffermare che, mentre si è sempre cercato di interpretarlo variamente, è ora giunto il momento di abolirlo. Definitivamente, poiché non è altro che un fantasma o il rimasuglio di una vecchia ossessione e di un immaginario destinato a estinguersi, il cui viaggio è giunto, forse da tempo, al suo capolinea.

Le rivoluzioni a venire, per essere tali, difficilmente potranno proporre le gesta dei singoli, poiché, come scrive Emilio Quadrelli, in un suo testo di prossima pubblicazione, a proposito di uno dei più famosi “eroi proletari”:

Kamo è un uomo senza fama assai prossimo alla moltitudine dei sanculotti e, al pari di questi, degno di citazione storica solo in quanto massa. Impossibile trovare in Kamo quella dimensione individuale la quale, a conti fatti può appartenere ai politici, agli intellettuali, ma mai agli operai i quali, quando occupano la scena storica lo fanno in quanto massa, mai come individui. Lo aveva colto bene Rosa Luxemburg quando coniò, a proposito del protagonismo delle masse, quell’io collettivo della classe operaia che al lessico borghese dava più di qualche problema anche sul piano grammaticale14 .

Pur ammettendone la funzione simbolica, archetipica e mitica presso i popoli e le società antiche, oggi, sia che si tratti dell’eroe dotato di superpoteri (Superman, Super Mario o Super Zelensky) oppure destinato al martirio (Gesù Cristo, Beowulf o Che Guevara), a transitare soltanto tra i vivi oppure anche nel regno dei morti, sempre egli finirà con lo sconfinare nella negazione del sogno rivoluzionario, trasformandosi nel misero soldatino sacrificabile o sacerdote sacrificante dell’esistente immodificabile o della Patria, anche se “socialista”.

Forse non a caso, in una recente intervista, Yaryna Grusha Possamai, docente di Lingua e letteratura ucraina all’Università Statale di Milano, ha potuto affermare che in Ucraina «sta nascendo una nuova letteratura eroica»15. Infatti, anche se questo si è rivelato troppo spesso difficile da comprendere per molti compagni, il superamento del capitalismo e del suo immaginario non potrà avvenire cambiando di segno i suoi apparati politici, economici e culturali, ma soltanto rovesciandoli e negandoli totalmente.

Non fu il manifesto di Carlo Marx, o di lui e Federico Engels, fu il Manifesto del partito comunista. Di lì, e senza battilocchi, muovemmo. Purtroppo ne piovvero da ogni lato, e al loro effetto, antiproducente in partenza, si devono i ripetuti rovesci; tuttavia inevitabili, perché ogni forma ha la sua inerzia storica, e quella dei battilocchi resiste più che le cimici al D.D.T., si acclimata con disperata virulenza ai più drastici disinfettanti.
[…] Torniamo ai capi di Stato, uomini politici, condottieri, e se volete ai capi rivoluzionari. Fino ad oggi hanno avuto una parte negli eventi, se pure sempre riferita in modo più che distorto ed iperbolico. Tale parte non è quella di una causa primaria, di un primo motore; e non costituisce condizione necessaria, […] Alcune volte tuttavia la storia mostra di avere un protagonista, e alcune volte ancora il suo nome diviene noto all’universo mondo, benché tale identificazione non cambi nulla, e in dati casi sia un ulteriore impaccio ed un guaio nero, come per i movimenti rivoluzionari mostrammo16.


  1. Valerio Evangelisti, Farmer: Venere sulla conchiglia, Introduzione a «Urania collezione», n° 15, aprile 2004 ora in V. Evangelisti, Distruggere Alphaville, Edizioni l’ancora del mediterraneo, 2006, pp. 90-91  

  2. Diego Gabutti, Fantascienza e comunismo, La Salamandra. Milano 1979, pp. 159-163  

  3. Amadeo Bordiga, Superuomo, ammosciati!, “Il programma comunista” n. 8 del 1953  

  4. Philip José Farmer, Festa di morte, Ennio Ciscato Editore, Milano 1972 (titolo e edizione originale: A Feast Unknown, 1969), p.135  

  5. Si tratta, oltre che dell’opera già citata di: Lord of the Trees, Ace, 1970. (inedito in italiano); The Mad Goblin, Ace, 1970. (inedito in italiano); Lord Tyger (Lord Tyger, Doubleday, 1970) in I Massimi della Fantascienza n. 29, Arnoldo Mondadori Editore, 1992; Tarzan Alive: A Definitive Biography of Lord Greystoke, Doubleday, 1972. (inedito in italiano); L’ultimo dono del tempo (Time’s Last Gift, Ballantine, 1972) traduzione di Ugo Malaguti, Slan. Il Meglio della Fantascienza n. 22, Libra Editrice, 1974; Opar, la città immortale (Hadon of Ancient Opar, DAW n. 100, 1974), traduzione di Lidia Lax e Diana Georgiacodis, Oscar Fantasy n. 2, Arnoldo Mondadori Editore 1989; Fuga a Opar (Flight to Opar, DAW n. 197, 1976), traduzione di Lidia Lax e Diana Georgiacodis, Oscar Fantasy n. 8, Arnoldo Mondadori Editore 1990  

  6. P. J. Farmer, Lord Tyger, Delta fantascienza, 1970, p. 251  

  7. Farmer, in Festa di morte, fa dire a Tarzan: «Personalmente non ho paura della morte, però le mie cellule non sono razionali quanto me», op. cit., p.25  

  8. Personaggio cui Farmer dedicherà un’altra opera, inedita in italiano: Doc Savage, His Apocalyptic Life, Doubleday, 1973  

  9. Ad esempio in Machete, nel 2010  

  10. P. J. Farmer, Festa di morte, op. cit., p. 232  

  11. A. Bordiga, Superuomo, ammosciati!, cit.  

  12. J. Campbell, L’eroe dai mille volti, Feltrinelli 1958 – Lindau 2016  

  13. Si veda: Umberto Eco, Il superuomo di massa, Bompiani, Milano 1978/2015, IV edizione Tascabili, pp. 135-139, in cui l’autore propone una lettura a dir poco esilarante, superficiale e perbenista proprio di Tarzan, oltre che della letteratura di genere nel suo insieme  

  14. Emilio Quadrelli, L’altro movimento operaio, introduzione alla ristampa integrale di La classe, giornale delle lotte operaie e studentesche (maggio-agosto 1969)  

  15. Jessica Chia, Il tabù è caduto, in Ucraina l’epos vive, «Corriere della sera», supplemento «La lettura» del 17 luglio 2022, p. 40  

  16. A. Bordiga, op. cit.  

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Ridare la voce alle comunità a cui è stata tagliata la lingua https://www.carmillaonline.com/2021/10/13/ridare-la-voce-alle-comunita-a-cui-e-stata-tagliata-la-lingua/ Wed, 13 Oct 2021 20:00:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68456 di Sandro Moiso

Michela Zucca, Donne delinquenti. Storie di streghe, eretiche, ribelli, bandite, tarantolate, edizioni TABOR, Valle di Susa, maggio 2021, pp. 368, 16,00 euro

La nuova edizione rivista del testo di Michela Zucca, edito originariamente nel 2004 da altro editore rispetto all’attuale, può costituire un ottimo punto di partenza per chiunque voglia iniziare un percorso di studio della Storia rimossa dell’Occidente. In un tempo in cui il pensiero unico dominante del politically correct tende a ridurre il problema dell’oppressione di classe, razza e genere ad una questione di pura rimozione della realtà storica, riducendo ogni conflitto ad un problema di [...]]]> di Sandro Moiso

Michela Zucca, Donne delinquenti. Storie di streghe, eretiche, ribelli, bandite, tarantolate, edizioni TABOR, Valle di Susa, maggio 2021, pp. 368, 16,00 euro

La nuova edizione rivista del testo di Michela Zucca, edito originariamente nel 2004 da altro editore rispetto all’attuale, può costituire un ottimo punto di partenza per chiunque voglia iniziare un percorso di studio della Storia rimossa dell’Occidente. In un tempo in cui il pensiero unico dominante del politically correct tende a ridurre il problema dell’oppressione di classe, razza e genere ad una questione di pura rimozione della realtà storica, riducendo ogni conflitto ad un problema di diritti e “coscienze” individuali, con conseguenti atti di contrizione formale ipocriti quanto inutili, diventa urgente sottolineare come anche noi, occidentali ed europei, siamo stati costretti a diventare “bianchi” ovvero portatori di idee e comportamenti culturali, religiosi, politici ed economici che sono stati instillati con la forza e la violenza nei nostri antenati, distruggendone le comunità e le culture cui appartenevano.

Michela Zucca (1964), storica e antropologa, è specializzata in cultura popolare, storia delle donne, analisi dell’immaginario. Ha svolto lavoro sul campo tra gli sciamani della foresta amazzonica, in Perù e Colombia, e fra i Lapponi in Finlandia e ha insegnato Storia del territorio in varie università italiane e svizzere. Ha, inoltre, fondato la «Rete delle donne della montagna» e collaborato con il «Centro di ecologia alpina», mentre attualmente organizza e coordina le attività di Arkeotrekking con l’Associazione Sherwood1. In tale contesto di studi ha prodotto numerosi testi e curato l’opera, in 5 volumi, Matriarcato e montagna (1995-2005).

Come afferma l’autrice nel primo capitolo del testo, destinato ad illustrarne l’impostazione metodologica:

Nelle civiltà arcaiche e “premoderne” la massa della popolazione vive “fuori dalla società”, lontana dal “centro” in cui si esplica il potere politico, religioso, economico, ideologico dell’establishment. Soltanto in modo occasionale e frammentario i vari contesti locali si rapportano con quello centrale, mentre prevalgono la dispersione territoriale e la varietà locale. La scarsa possibilità di coordinamento sociale, la carenza di controllo da parte delle autorità, l’economia di sussistenza e non di mercato, sono fattori di ulteriore riduzione o restrizione del centro.
Con la cultura “moderna”, lo sviluppo del mercato e il rafforzamento amministrativo e tecnologico dell’autorità, l’urbanizzazione e la scolarizzazione su vasta scala, la diffusione capillare delle comunicazioni di massa, si determina un coinvolgimento generale della società, un’accentuazione e un’imposizione del sistema di valori centrale in misura sconosciuta negli altri periodi della storia. Sulle montagne però, le condizioni di vita premoderne continuano a esistere per lunghi, lunghissimi, secoli: quasi fino a ieri2.

Questa trasformazione sociale viene comunemente associata al progresso e come tale rivendicata dai cantori della modernità, tra cui non bisogna esitare ad inserire gran parte del pensiero di sinistra e marxista3, che dimenticano, sottovalutano oppure nascondono ciò che la nostra autrice non manca invece di sottolineare con forza, ovvero che «il “progresso” è fondato sullo sterminio»4.
Stermino di popoli, culture e comunità, di qua e di là degli oceani.

Al riparo delle foreste, tornate dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente, trova rifugio una popolazione di fuorilegge, di cui i cittadini hanno paura, ma che vengono lasciati vivere fino a quando gli interessi urbani non si espandono, e anche loro devono essere ridotti alla ragione, letteralmente “razionalizzati”. La caccia alle streghe non è l’unico mezzo di eliminazione di una cultura arcaica. La “soluzione finale” passa anche attraverso la distruzione del substrato ambientale che permise per secoli alle varie “tribù delle Alpi” di mantenersi indipendenti: la foresta meravigliosa che proteggeva genti e spiriti.
Il Concilio di Trento è il momento di rottura violento che sancisce il cambiamento culturale, tanto è vero che viene ricordato nella memoria orale in maniera vivissima ancora oggi5.

Il Concilio trentino (1545-1563) può infatti essere considerato non soltanto come un momento di “rinnovamento” della chiesa cattolica in reazione allo sviluppo e alla diffusione del protestantesimo, ma anche come un momento centrale della fondazione legislativa dello Stato moderno, che proprio tra il XV e il XVI secolo vedrà crescere i propri attributi, compiti, forza militare e repressiva e potere, proprietrio e amministrativo, sui territori definiti sia scala imperiale che nazionale6.

D’altra parte proprio il cristianesimo, nel corso della sua storia, all’epoca già più che millenaria, aveva fortemente contribuito a quella risistemazione socio-culturale su cui avrebbe potuto svilupparsi la società mercantile-capitalistica. Autentica operazione biopolitica che in, qualche modo, già il Romanticismo europeo non aveva mancato di sottolineare e, talvolta, deridere agli albori della Rivoluzione industriale. Come le parole del poeta, e ribelle, tedesco Heinrich Heine possono qui ancora, ironicamente, dimostrare.

C’era un tempo in cui baciavo con fede la mano ad ogni cppuccino che incontravo per strada. Ero un bambino e mio padre mi lasciava fare tranquillamente, sapendo bene che le mie labba non si sarebbero sempre accontentate di carne di cappuccino. E infatti diventai grande e baciai belle donne… Ma esse talvolta mi guardavano così pallide di dolore, e io mi spaventavo nelle braccia della gioia… Qui stava nascosta un’infelicità che nessuno vedeva e di cui ognuno soffriva; e io vi riflettevo. Riflettevo anche su questo: se le privazioni e la rinuncia siano davvero da preferire a tutti i godimenti di questa terra, e se coloro che quaggiù si sono accontentati di cardi, verranno nutriti tanto più abbondantemente di ananassi. No, chi mangiava cardi era un asino: e chi ha ricevuto botte se le tiene.
[…] Forse mi è concesso di riportare qui alcuni fatti banali, per inserire tra le favole che vengo compilando alcune cose ragionevoli o almeno l’apparenza di esse. Quei fatti si riferiscono alla vittoria del cristianesimo sul paganesimo. Io non sono affatto dell’opinione del mio amico Kitzler, che cioè l’iconoclastia dei primi cristiani sia da biasimare con tanta amarezza; essi non potevano e non dovevano risparmiare gli antichi templi e statue, poiché in essi viveva ancora quell’antica serenità greca, quella gioia vitale che al cristiano appariva diabolica. […] Tutto questo piacere, tutte queste risa gioconde sono estinte da lungo tempo, e nelle rovine degli antichi templi continuano sempre ad abitare, secondo la credenza popolare, le vecchie divinità […] La leggenda più originale, romanticamente meravigliosa, narrata dal popolo tedesco è quella della dea Venere che, quando i suoi templi furono distrutti, si rifugiò in un monte misterioso dove conduce una vita fantasticamente felice insieme con i più lieti spiriti dell’aria, con belle ninfe dei boschi e dell’acqua […] Già da lontano, quando ti avvicini al monte, senti risate gioconde e dolci suoni di cetra, che ti avvincono il cuore come una catena invisibile e ti attirano nel monte7.

Certo il riferimento formale è ancora a Venere, così come la stessa Michela Zucca denuncia a proposito delle donne perseguitate come streghe, le cui divinità di riferimento erano travisate oppure misconosciute, ma il significato della forzata rimozione delle divinità e delle credenze locali con quella unica indicata da Santa Romana Chiesa, destinata ad accentrare e regolamentare i comportamenti e l’immaginario, non cambia.

Donne che credono e sostengono di andare di notte al seguito di una signora che cambia il suo nome, spesso identificata da giudici e frati zelanti, infarciti di cultura classica, con Diana, dea latina degli animali e delle foreste, in groppa o insieme a bestie, percorrendo grandi distanze volando, obbedendo ai suoi ordini come a una padrona, servendola in notti determinate, con feste fatte di canti, balli e grandi mangiate, in cui si fa all’amore senza curarsi delle convezioni. Questo – elemento più, elemento meno – il minimo comune denominatore delle confessioni delle streghe. Come i combattimenti fra le nubi, per la fertilità dei campi, contro gli spiriti del male; il cannibalismo rituale; le cavalcate con l’esercito furioso dei morti implacati.
Per un periodo di tempo inimmaginabilmente lungo, secoli, forse anche millenni, matrone, fate e altre divinità femminili, benefiche o mortifere e vendicative, hanno abitato invisibilmente nell’Europa celtizzata. Cacciate via presto, a suon di roghi e benedizioni, dalle città, in cui dominava il clero, hanno continuato a praticare indisturbate sulle montagne, dove sono leaders delle comunità8.

Al di là del fatto che, fino al Concilio di Trento e ancora dopo, gran parte del basso clero era certamente né istruito, tanto meno di cultura classica spesso rimossa dalla Chiesa stessa, né alfabetizzato9, le finalità dell’opera dello Stato e della Chiesa rimanevano inalterate e incontrovertibilmente rivolte alla distruzione delle culture e delle comunità altre, alla drastica riduzione del ruolo che le donne esercitavano al loro interno e alla violenta repressione delle loro, inevitabili, ribellioni.

A tutti i differenti aspetti della vita e della lotta di quelle comunità Michela Zucca dedica i quattro quinti dei capitoli che la compongono e i tre quarti delle pagine dell’opera, suddivisa in quattro parti, intitolate rispettivamente Metodologia di ricerca; La vita quotidiana; Il corpo, la trasgressione, la festa; Il filo rosso della rivolta e La fine dei giochi: repressione e resistenza.
Se i capitoli che costituiscono le ultime quattro parti sono talmente densi, ricchi di informazioni e sollecitazioni che diventa difficile per il recensore riassumerli sinteticamente, ciò che vale la pena di fare in chiusura di questa riflessione su Donne delinquenti, è sottolineare l’importanza delle note metodologiche di ricerca che vengono dettagliatamente e brillantemente esposte nella prima parte.

Il passato esiste solo attraverso la ricostruzione storiografica, e questa, per essere considerata valida, deve rispettare regole precise, che comunque cambiano a seconda del periodo storico e dell’ideologia di riferimento del ricercatore. La storia, quindi, non è verità ricostruita, ma è culturalmente determinata: è una creazione antropologica. Ciò è tanto più vero quanto lo studio di questa disciplina sta lentamente cambiando, trasformandosi da evenemenziale (basato cioè su degli avvenimenti estemporanei, compiuti da “grandi uomini” che “danno una svolta alla storia”) in sociale. In quest’ottica, i dati etnografici e i comportamenti dei popoli diventano fondamentali, così come la mentalità della gente comune, perché sono i veri fattori di evoluzione. E le masse si muovono da protagoniste, anche se tempi e ragioni di cambiamento talvolta si allungano e sfumano, si sovrappongono e si rincorrono in maniera inconcepibile per il nostro sistema di pensiero, che assegna ogni effetto a una causa precisa e circoscritta.
La nuova storia, come d’altra parte l’antropologia e la psicanalisi, indaga su un campo d’azione ben diverso da quello delle attività coscienti e volontarie dell’uomo, orientate verso decisioni politiche chiaramente identificabili. Il suo scopo è scoprire gli elementi non dichiarati che permangono nella cultura di un popolo, il non detto: l’inconscio collettivo, la struttura mentale, che formano la sua totalità psichica, che si impone ai contemporanei senza che questi riescano nemmeno a percepirla. La storiografia antropologica cerca di descrivere la cultura di una comunità, le sue motivazioni di rinnovamento, stasi o, addirittura, regresso, in un’ottica di adattamento alle condizioni ambientali, economiche, politiche, religiose, sociali, che non procedono secondo percorsi lineari e prevedibili. Si delinea così una storia collettiva, che ha per protagoniste le moltitudini, i gruppi, le comunità, che cerca di spiegare il come e il perché della vita stessa degli sconosciuti, e che si traduce in una struttura economico-sociale-culturale che caratterizza gli individui prima ancora che se ne rendano conto.
Le piste spesso sono impercettibili: si parte alla ricerca di impronte quasi evanescenti. Come nell’antropologia classica, è più importante ciò che viene taciuto di quanto viene raccontato. Soprattutto quando si cerca di ricostruire le vicende di individualità più e più volte discriminate: come donne, appartenenti a un “sesso inferiore” di cui però i maschi hanno paura (specie della loro lingua lunga); parte di caste, ceti, classi subalterne, illetterate, che non hanno potuto scrivere e tramandare la propria versione dei fatti nell’unica forma legittimata dalla cultura dominante; oppositrici del potere, di cui a maggior ragione bisogna tacitare la voce; extralegali, delinquenti, che di fatto si mettono contro, e con il loro comportamento e con il proprio corpo si fanno beffe della società costituita dimostrando che un altro mondo è possibile.
In questo lungo lavoro di ricomposizione di una trama di cui sono rimasti solo alcuni frammenti sparsi, bisogna impegnarsi a smascherare – negli atti dei processi, nelle cronache, nei discorsi fatti o scritti dai personaggi illustri, ma anche nei racconti e nelle leggende che si sono salvate dalla distruzione, così come nelle memorie dei “testimoni chiave” delle “storie di vita” – oltre al significato evidente, il senso nascosto, il non detto, ciò di cui nessuno ha parlato, volontariamente o meno, ciò che, coscientemente o no, è stato nascosto, e che invece è necessario decifrare fra le pieghe del poco che ha conquistato il privilegio di essere tramandato.

[…] È difficile raccontare la storia delle culture minoritarie, dei popoli marginali, dei ceti sociali subalterni e, magari, avversari dichiarati e coscienti del potere costituito, della civiltà e dei sistemi di valori dominanti; poiché nel corso dei secoli – e dei millenni – i dottori della legge – di ogni legge scritta – hanno fatto di tutto per distruggerne non solo le tracce, ma anche la memoria. Erano società e comunità di donne (e di uomini) liberi, che vivevano a stretto contatto con la natura e dall’ambiente ricavavano il necessario per vivere e la sapienza per crescere nello spirito. Una razza che una volta occupava gran parte dell’Europa; che in seguito alle invasioni degli eserciti, dei missionari cristiani e dell’economia di mercato ha dovuto ritirarsi nei luoghi più isolati per poter sopravvivere. E che poi lentamente si è estinta, distrutta con una guerra di sterminio durata oltre dieci secoli, alla quale ha opposto una resistenza feroce e disperata.
Per eliminare anche l’aspirazione a un futuro migliore fra i superstiti («Ciò che è già stato può sempre ritornare: sette volte prato e sette volte bosco», recita la Canzone di Santa Margriata, il racconto, in forma mitica, del passaggio dalla società matriarcale a quella patriarcale) era assolutamente necessario cancellare la memoria di quelle antiche genti, imponendo l’idea che – comunque – era sempre stato così, e non avrebbe potuto essere diversamente: le donne sottomesse agli uomini, i poveri ai ricchi. Senza speranza di cambiamento, né, tanto meno, di riscatto10.

Questa, in altre parole, le origini della civiltà “bianca” qui in Occidente, tanto violente, repressive ed oppressive quanto le successive conquiste operate dalla Chiesa, dagli stati e dal capitale nei confronti degli altri continenti e dei popoli che li abitavano. Un’operazione di sterminio, rimozione e imposizione ancora mai finita, fino a quando persisteranno religioni rivelate, patriarcato, capitale e stati centralizzati. Con buona pace di tutti quei perbenisti moderati che credono nella possibilità di riformare il mondo a suon di belle parole e frasi fatte, basate soltanto sulle “evidenze” prodotte dal modo di produzione dominante.


  1. L’Associazione Sherwood nasce nel 2016 e le sue linee di ricerca e di azione riguardano le società egualitarie, le modalità di produzione e riproduzione dei saperi, con un’attenzione particolare ai meccanismi sociali che hanno permesso ad alcune civiltà di sopravvivere e superare le crisi ambientali, rinunciando al “progresso tecnologico”, rispetto ad altre che non sono state capaci di cambiare e sono scomparse. Non ha alcuna fiducia nello “sviluppo sostenibile” (che spesso serve soltanto a sdoganare tipologie di produzione spesso ancor più dannose di quelle che dovrebbe sostituire), ma piuttosto nel fatto che una nuova tecnologia sia possibile: come dimostra il grande salto in avanti realizzato in Europa dall’alto Medio Evo da parte delle comunità che hanno condiviso e messo a frutto conoscenze quali mulini, segherie, frantoi, impianti ad acqua… L’intento è infatti quello di recuperare quel tipo di conoscenze, sul territorio, attraverso il lavoro condiviso, per costruire nuovi modelli di insediamento in grado di sopravvivere, in forme egualitarie, al cambiamento climatico in montagna. Dal 2016 ha dato avvio ad un’attività di Archeotrekking che si occupa di valorizzare i territori montani e la loro storia, troppo spesso ignorata.  

  2. Michela Zucca, Popoli fuori e popoli dentro la storia in Donne delinquenti. Storie di streghe, eretiche, ribelli, bandite, tarantolate, edizioni TABOR, Valle di Susa, maggio 2021, pp. 28-29  

  3. Basti qui ricordare l’analisi condotta da Roman Rosdolsky nel suo Friedrich Engels e il problema dei popoli «senza storia», Graphos, Genova 2005  

  4. M. Zucca, Premessa a op. cit., p. 11  

  5. Ivi, p. 12  

  6. Si veda: Charles S. Maier, Dentro i confini. Territorio e potere dal 1500 a oggi, Giulio Einaudi Editore, Torino 2019  

  7. Heinrich Heine, Gli spiriti elementari (1837) in H. Heine, Gli dei in esilio, Adelphi, Milano 1978, pp. 37-46  

  8. M. Zucca, op. cit., pp. 11-12  

  9. Gli errori e le differenze riscontrabili all’interno dei medesimi testi ricopiati dagli amanuensi di conventi diversi è, per molti studiosi, la testimonianza diretta di un esercito di monaci illetterati che ricopiavano i testi senza comprenderli. Proprio il Concilio di Trento invece, non solo attraverso il rafforzamento della Compagnia di Gesù, avrebbe costretto i chierici, del clero alto e basso, ad una maggiore formazione culturale, teologica e spirituale. Proprio per contrastare una diffusione del Protestantesimo che della diffusione della Bibbia a stampa e dell’allargamento della lettura e della scrittura aveva fatto una delle sue armi più insidiose per la critica della Chiesa romana, dei suoi esponenti e della loro ignoranza.  

  10. M. Zucca, op. cit., pp.17-19  

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