Massimo Spiga – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 24 Dec 2025 22:55:56 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Pellegrinaggio nero https://www.carmillaonline.com/2017/09/26/pellegrinaggio-nero/ Mon, 25 Sep 2017 22:01:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40775 di Massimo Spiga

[Pubblichiamo la Prefazione dell’autore, giovane scritautore cagliaritano appassionato ed esperto di Howard Phillips Lovecraft, a Pellegrinaggio nero una guida della città di Providence e ai luoghi lovecraftiani realizzata, sotto forma di e-book, nel corso di una permanenza negli Stati Uniti. A seguire il link cui è possibile collegarsi per scaricare l’intero testo e il materiale iconografico che lo accompagna.]

Aristotele, nella sua Poetica, definì l’agnizione come il momento culminante di una tragedia; l’attimo in cui il protagonista, in un lampo di consapevolezza, riconosce le terribili afflizioni dell’animo che l’hanno inevitabilmente condotto su un sentiero destinato al dolore [...]]]> di Massimo Spiga

[Pubblichiamo la Prefazione dell’autore, giovane scritautore cagliaritano appassionato ed esperto di Howard Phillips Lovecraft, a Pellegrinaggio nero una guida della città di Providence e ai luoghi lovecraftiani realizzata, sotto forma di e-book, nel corso di una permanenza negli Stati Uniti. A seguire il link cui è possibile collegarsi per scaricare l’intero testo e il materiale iconografico che lo accompagna.]

Aristotele, nella sua Poetica, definì l’agnizione come il momento culminante di una tragedia; l’attimo in cui il protagonista, in un lampo di consapevolezza, riconosce le terribili afflizioni dell’animo che l’hanno inevitabilmente condotto su un sentiero destinato al dolore e alla caduta. Howard Phillips Lovecraft, uno dei più importanti autori horror del ventesimo secolo – anche se, a detta di molti, potremmo tralasciare il termine “horror” in questa definizione – ebbe modo di aggiornare l’agnizione, offrendone una radicale revisione.
Invertendone la polarità, dall’interno dello spirito umano all’esterno, HPL effettuò quella che Fritz Leiber definì una “rivoluzione copernicana”. Nelle sue storie, il pathos non giace nelle drammatiche imperfezioni della sfera emotiva: al contrario, questo aspetto è assente, o sbrigativamente accantonato. I protagonisti, giunti al climax delle loro vicende, si rendono conto che è il mondo stesso a essere imperfetto, condannato fin dal principio, privo di significato. Questa forma di oscura apocalisse (nel suo originario senso di “rivelazione”, “svelamento”) costituisce il fulcro della poetica e della filosofia lovecraftiana, ed è direttamente mutuata dall’esperienza scientifica del suo autore. Quando, da bambino, si appassionò alle stelle e all’astronomia, ben presto assaporò l’acre realizzazione che l’universo è un luogo sconfinato e insondabile: la Terra è una briciola in quell’immensità. Le nostre esistenze, le nostre ideologie, i nostri affetti si costituiscono come irrilevanti transizioni in uno spazio freddo, buio, indifferente. Lovecraft ebbe modo di codificare questa percezione nichilista in un pantheon di divinità aliene dalle medesime caratteristiche e, in questo modo, riuscì a rivoltare l’antica illusione illuministica secondo cui “il sonno della ragione genera mostri”: è la ragione stessa, con gli occhi spalancati, a produrli o a riconoscerli come pre-esistenti, distinguendone i confini in uno sfondo di caos ed entropia senza nome. Questa intuizione, forse in nuce presente anche nel Marchese De Sade, fornì una nuova, terribile lucidità allo sguardo sul rapporto tra uomo e natura, ed ebbe modo di svilupparsi nel ventesimo secolo attraverso il pensiero di molti intellettuali, tra cui possiamo citare, a mero titolo esemplificativo, la scuola di Francoforte e il loro “Grand Hotel Abisso”.
Tuttavia, Lovecraft conservò sempre un angolo cieco nella sua spietata prospettiva, un’interzona esente dal suo nichilismo: lo sconfinato affetto per la sua terra natia, il New England, e per il gioiello sulla sua corona, Providence. Fondata nel 1636 da Roger Williams, come una delle tredici colonie da cui originarono gli Stati Uniti, Providence resta ancora oggi un luogo in cui il passato permane e si insinua nel sostrato immaginifico dei suoi visitatori, come potrebbe accadere nelle città della vecchia Europa. L’identificazione tra HPL e la sua città rimane inestricabile tutt’ora; è inconcepibile proporsi di affrontare la sua sua filosofia e la sua estetica senza, nel contempo, tenere in considerazione lo spirito dell’antica città. Questo libro è stato pensato per chi intende affondare i propri sensi, la propria immaginazione, il proprio raziocinio nella culla da cui scaturì uno dei molti monumenti letterari del ventesimo secolo.

Il pellegrinaggio nei luoghi in cui HPL spese la sua vita ci riserva un’esperienza unica: è stupefacente assistere allo snodarsi di antiche vie e di architetture coloniali – le quali paiono balzare intatte dalle pagine che molti di noi lessero per la prima volta alla soglia dell’infanzia – ed è, nel contempo, perturbante scoprire come l’autore, al pari di Cesare Zavattini, sembra aver tessuto le sue storie con una struttura e una palette emotiva che pare ricalcata sull’urbanistica stessa della città. Providence non è solo una silente co-protagonista dei racconti: è una loro co-autrice. Il percorso all’interno della città sarà un viaggio che prosegue su due piani paralleli: il buio siderale della contemplazione sull’esistenza e il focolare domestico di una città che non ci appartiene, eppure sentiamo da sempre come nostra. Questo ambivalente ruolo di turisti della città reale e di cittadini della città immaginata non farà altro che provocare dissonanze cognitive, le quali ci avvicineranno alla quintessenziale esternalità che costituisce il fulcro dell’esperienza lovecraftiana.
La natura cognitivamente infettiva della sua narrativa, il suo tentativo di abbattere le barriere tra il mondo scritto e quello non scritto (che, nella prefazione a Lovecraft Zero, provai a sintetizzare con la formula “l’Abisso è la realtà”) non può che trovare il suo trionfo nel Pellegrinaggio Nero qui proposto, un itinerario in corpore vili nella materia stessa che fu usata per edificare la vasta cattedrale letteraria dei suoi miti.
A proposito della sua idea d’arte, HPL scrisse: “La vera raison d’etre dell’arte “weird” è offrire l’illusione temporanea di un’emancipazione dall’irritante e intollerabile tirannia del tempo, dello spazio, del cambiamento e della legge naturale. Se ci concediamo, anche per un fuggevole momento, l’illusoria sensazione che qualche legge di questo cosmo spietato sia stata (o possa essere) invalidata o sconfitta, acquisiamo una certa vampata di trionfante indipendenza, paragonabile nel suo potere confortante ai sogni oppiacei della religione. Difatti, la stessa religione è semplicemente una pomposa formalizzazione dell’arte fantastica. Il suo svantaggio è quello di necessitare una credenza intellettuale nell’impossibile, mentre l’arte fantastica non ne ha bisogno.”
Per noi pellegrini, Providence è un luogo in cui la tirannia del tempo si attenua e le inferenze fantasmatiche innervano sottilmente ogni percezione. Il campanile su cui posiamo gli occhi non è un mero, seppur pregevole, elemento architettonico: si tratta di “quel” campanile, in cui l’occhio trilobato di Nyarlatothep si spalancò durante una terribile tempesta. Spero che questa piccola guida possa aiutarvi, anche solo per un fuggevole momento, a sospendere le leggi del cosmo, a percepire l’impossibile.

Qui il link per scaricare il testo nella sua interezza:

http://www.massimospiga.it/download/5542/

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PARADOX https://www.carmillaonline.com/2017/01/06/paradox-massimo-spiga-2/ Fri, 06 Jan 2017 01:25:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35409 di Massimo Spiga

paradox-cover-ebook-18-06-16[È da pochi giorni in libreria la nuova opera di Massimo Spiga, Paradox, romanzo di “fantascienza anarchica”, che spazia tra viaggi nel tempo, guerriglia urbana e James Joyce. Ne proponiamo l’incipit].

1999. Stavano sulla strada tutto il tempo, come i cani. Talvolta, per noia o per fame o per rabbia, sbranavano il primo coglione di passaggio. Il vagabondo sputò i denti e si aggrappò a una grondaia per rialzarsi dal suolo. Il giocattolo si era rotto, così i fasci lo congedarono con un calcio allo stomaco e si [...]]]> di Massimo Spiga

paradox-cover-ebook-18-06-16[È da pochi giorni in libreria la nuova opera di Massimo Spiga, Paradox, romanzo di “fantascienza anarchica”, che spazia tra viaggi nel tempo, guerriglia urbana e James Joyce. Ne proponiamo l’incipit].

1999. Stavano sulla strada tutto il tempo, come i cani. Talvolta, per noia o per fame o per rabbia, sbranavano il primo coglione di passaggio.
Il vagabondo sputò i denti e si aggrappò a una grondaia per rialzarsi dal suolo. Il giocattolo si era rotto, così i fasci lo congedarono con un calcio allo stomaco e si allontanarono. Il poveraccio si piegò, vomitò grumi di sangue, si risollevò a stento e scomparve tra le torme di indifferenti.
Perla odiava quel posto. Odiava la puzza, il chiasso, i morti senza nome che si radunavano negli appartamenti sfitti per sfondarsi di Roba. Odiava il mercato nero sulle strade, in cui le strette di mano avevano valore di contratti e l’anima degli uomini si pesava in grammi. Sui marciapiedi si poteva acquistare qualsiasi cosa: sesso, speranza, morte, lusso, rispetto, amore. Per qualche fuggevole momento, chiunque poteva scordare se stesso e perdersi nel proprio vizio preferito. La scoperta più spaventosa, per molti, era comprendere che null’altro era loro concesso in questa vita.
La città vecchia fu costruita alla fine dei ’60, in una devastante campagna di speculazione edilizia; il risultato fu un tappeto di cemento, intessuto per spazzarci sotto i detriti umani della metropoli. Non era così antica come implica il nome, ma nelle sue vene nere pompava un sangue così marcio da sembrare millenario. Entro i suoi confini, il fiume del tempo non scorreva in avanti, ma in circolo: le generazioni si succedevano compiendo sempre e comunque gli stessi errori; i ruoli chiave rimanevano costanti, sebbene interpretati da volti diversi. Un’intera comunità asservita alla santissima Trinità nella sua forma più quintessenziale, il Verbo. Nella fattispecie: bevi/fuma/fotti.
Perla strinse al petto la busta della spesa e varcò le soglie dell’affollatissimo bar di quartiere. Nonostante tutto, era un’istituzione locale che la bambina accettava in maniera quasi inconscia. All’Alacran Y Pistolero, le liti duravano il tempo di due pinte e tutti erano troppo storti per mentire in modo convincente o portare rancore. Nella sua immaginazione, il bar aveva la stessa funzione del confessionale, era illuminato dallo Spirito Santo: una terra in cui il leone e l’agnello potevano convivere in pace, zona neutra in un quartiere militarizzato dalle lame degli affamati e degli avidi. Il proprietario salutò Perla con un cenno, per poi servire l’ennesima birra annacquata a un muratore. Il barista era un eroe locale; la strada lo chiamava Enzo, Delinquenzo o Mister Spazzaneve, a seconda dell’occasione. Dopo la galera, aveva cominciato a spaccarsi il culo al bancone, in attesa del momento in cui avrebbe gustato il frutto di quegli onesti anni di sobrietà e disciplina. Al momento, però, la sua attenzione era calamitata dal padre di Perla: si era pisciato addosso di nuovo, svenuto sotto un tavolo. Vestito, come tutti i giorni, con una giacchetta smanicata in jeans, Zappa (perché nessuno ricordava il suo nome di battesimo) viveva il sogno del rocker, e quest’attività consumava ogni sua energia. Born to be wild, incespicava attraverso i giorni tra trucchetti, da lui sempre definiti «imprese» o «avventure», per scroccare soldi ai gonzi. I suoi amici, seduti al tavolo, continuavano a giocare a carte come nulla fosse. Zappa sbronzo sotto il tavolo aveva, per loro, la rasserenante costanza di un quadro, remoto e senza tempo, mentre il mondo circostante ribolliva.
La bambina salutò i giocatori e posò sul tavolo la busta della spesa. Si avvicinò al padre, gli infilò una mano in tasca, aprì il portafogli, sfilò le poche banconote presenti. Non lo considerava un furto, ma un mero rimborso per i generi alimentari che si trascinava dietro. Mentre usciva dal locale, incrociò lo sguardo mortificato di Enzo. La piccola fece un’alzata di spalle. Si soffermò a fantasticare sull’arredamento pacchiano simil western dell’Alacran Y Pistolero. La TV appesa al muro trasmetteva un vecchio film. Un generale dei tempi andati, in punto di morte, chiedeva a due cowboy di far saltare un ponte per fermare un massacro insensato. Perla concordò con il generale. L’unico modo per salvare la città vecchia è il tritolo.
Varcata la soglia, quasi fu stirata da due fessi in scooter. Le sfrecciarono davanti, eseguendo una goffa impennata. Erano compari di suo fratello. Si schiantarono su un cassonetto poco dopo, ridendo per tutto il tempo; pupille gonfie di bamba e neanche un pensiero al mondo.
Perla attraversò la strada ed entrò nel suo palazzaccio. Salì le scale, tenendo gli occhi sui gradini; era sua consuetudine evitare di incrociare lo sguardo dei magri notturni di passaggio. Sapevano essere imprevedibili, specie se a secco di contante o Roba, cioè quasi sempre. Arrivata al secondo piano, salutò ad alta voce la zia Lili. La porta di casa della donna era sempre aperta. Stravaccata su un divano, Lili steccava fumo e lo depositava su un tavolino di vetro dall’aspetto orientale. Chiacchierava di calcio con un adolescente pallido. Perla sentì la voce ovattata dello zio levarsi dalle interiora dell’appartamento: cantava sotto la doccia, e quel rantolo neomelodico riecheggiava debolmente per la tromba delle scale.
Lili le fece cenno di avvicinarsi e le allungò cinquantamila lire. L’adolescente, seduto di fianco, salutò Perla alla maniera dei surfer e si congratulò con lei per la grana, sottolineando il concetto con una pacca sulla schiena.
«Quanti anni hai, per guadagnare così tanta pilla?» disse il secco.
«Undici,» rispose lei.
«Vedrai da grande, allora…»
Lili gettò uno sguardo complice all’adolescente e sorrise. Tutti e tre sapevano che, da grande, Perla non avrebbe guadagnato o fatto proprio nulla. Nella migliore delle ipotesi, avrebbe cagato una nidiata di balordi pronti a consumarle le ossa e spezzarle il cuore. Fin dalla prima infanzia, la sua vita non era stata segnata dalle sirene delle favole, ma da quelle per la casanza. La bambina ringraziò la zia con un piccolo inchino e continuò la scalata fino al quinto piano.

Massimo Spiga, ParadoxAcheronbooks 2016, pp.307, € 13,75 (€ 4,50 eBook)

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