Massimo Rendina – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Gli archivi pongono domande, gli armadi le ripongono https://www.carmillaonline.com/2024/03/15/gli-archivi-pongono-domande-gli-armadi-le-ripongono/ Thu, 14 Mar 2024 23:05:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81684 di Luca Baiada

Daniele Biacchessi, Eccidi nazifascisti. L’Armadio della vergogna, prefazione di Bruno Manfellotto, Jaca Book, Milano 2023, pp. 187, euro 18,00.

 

Viene voglia di parlar bene, di un testo così convinto, così animato da passione. Si dà ragione volentieri a una posizione ben schierata. Ma che fatica bisogna fare, per superare inciampi e confusioni.

Nel risvolto di copertina iniziale: «Biacchessi riapre i fascicoli, li confronta con le carte di vecchi e nuovi processi, incontra testimoni, familiari delle oltre 15mila vittime, magistrati, avvocati, segue le tracce degli assassini rimasti di fatto impuniti, ricostruisce un mosaico composto da verità celate». Con questo [...]]]> di Luca Baiada

Daniele Biacchessi, Eccidi nazifascisti. L’Armadio della vergogna, prefazione di Bruno Manfellotto, Jaca Book, Milano 2023, pp. 187, euro 18,00.

 

Viene voglia di parlar bene, di un testo così convinto, così animato da passione. Si dà ragione volentieri a una posizione ben schierata. Ma che fatica bisogna fare, per superare inciampi e confusioni.

Nel risvolto di copertina iniziale: «Biacchessi riapre i fascicoli, li confronta con le carte di vecchi e nuovi processi, incontra testimoni, familiari delle oltre 15mila vittime, magistrati, avvocati, segue le tracce degli assassini rimasti di fatto impuniti, ricostruisce un mosaico composto da verità celate». Con questo sunto non si comincia nel modo migliore: secondo l’Atlante delle stragi i morti sono ventitremila, ma l’Atlante è inadeguato e probabilmente il numero effettivo è intorno a trentamila. È vero, però, che quel mosaico impegna l’autore da anni, nel solco di un lavoro che comprende Il paese della vergogna (Chiarelettere 2007) e I carnefici (Sperling & Kupfer 2015).

È da respingere l’impressione che Biacchessi, come una certa parte del mondo intellettuale, abbia pubblicato più volte lo stesso libro rimescolando i materiali, rispolverando abiti di scena. Esclusa questa ipotesi, è giusto pensare che abbia sempre bisogno di affinare il suo approfondimento, che desideri farlo crescere, ma che nel frattempo ci voglia mettere a parte di dati importanti, senza tenerli in serbo per quando saranno nella forma definitiva. Ci considera di casa e non fa complimenti, non perde tempo ad abbottonarsi la giacca prima di venire in salotto. Bene, allora, che arrivino spunti preziosi anche per chi frequenta già il tema. Qualche esempio.

L’intervista televisiva a Erich Priebke in Argentina, con risonanza internazionale, che apre al nuovo processo sulle Ardeatine, è del 1994, ma esiste un libro precedente, El pintor de la Suiza argentina[1], e a distanza di molto tempo dall’intervista l’emittente riconosce che la trasmissione ha un debito nei confronti del volume.

Poi. Joachim Peiper è un nazista colpevole del massacro di Boves; per quello la giustizia non lo disturba; per un altro, commesso in Belgio, è condannato ma liberato già nel 1956; però, dopo fughe e cambi di nome tra Francia e Germania, nel 1976 Peiper lascia li mal protési nervi nell’incendio della sua casa, assaltata con bombe da sconosciuti.

Ancora. Nell’ottobre 1959 il magistrato militare Massimo Tringali va all’ambasciata tedesca a concertare il sabotaggio della giustizia sulle Fosse Ardeatine; Herbert Kappler è già condannato e incarcerato, ma sono noti almeno altri dodici criminali e il magistrato suggerisce i passaggi tecnici per l’insabbiamento[2]. Il seguito del processo non si farà. La collaborazione di Tringali, strisciante all’ambasciata per ostacolare la giustizia e tradire il suo paese, è apprezzata dall’ambasciatore, che scrive a Bonn: «Mi unisco alle motivazioni di questa richiesta così piena di riguardo…». Cioè: il magistrato militare italiano anticipa così bene ciò che giova alla Germania, che basta prendere la trama preparata da lui e trasmetterla al dicastero tedesco. Questa storia oscena ha una particolarità: tra i dodici – oltre a Priebke e Hass, che saranno condannati negli anni Novanta – ci sono Hans Keller e Kurt Winden, a loro volta, durante l’occupazione di Roma, magistrati militari. Dopo la guerra Keller farà carriera nel mondo giudiziario, Winden in quello bancario, entrambi resteranno impuniti.

I contatti di Tringali con l’ambasciata sono diversi da quelli – Biacchessi non ne parla – di un altro magistrato, Marco De Paolis, procuratore generale militare in appello, che nel 2021 riceve dalle mani dell’ambasciatore un’alta onorificenza tedesca in una cerimonia ufficiale. Tringali commette un crimine e De Paolis, sessant’anni dopo, certamente no. Eppure, le ombre dei contatti segreti o i riflettori della cerimonia accompagnano la mancata giustizia, allora e adesso, segnando un prima e un dopo, un passaggio attraverso tempi e contesti che sottolinea la stratificazione della società dello spettacolo.

Insomma, materiali interessanti ce ne sono: Biacchessi lavora sodo e, visto che ce la mette tutta, bisogna perdonargli le poche inesattezze e versioni superate[3].

L’ammirazione per Franco Giustolisi, il giornalista che rese nota sulla stampa nazionale la presenza dell’archivio con le stragi nazifasciste, percorre tutto il libro e va condivisa. Altro tema è il Premio Giustolisi, ricordato con entusiasmo dall’autore e da Bruno Manfellotto: il premio ha dato riconoscimenti a personalità, per lo più appartenenti al circuito chiuso che ha successo nella cultura e nella comunicazione, ma purtroppo non risulta che li abbia dati per ricerche nuove e originali sulle stragi.

Quanto al ruolo di Giustolisi nell’emersione dell’archivio – poi chiamato Armadio della vergogna per una scelta felice che si deve a lui – la questione è affrontata male. Non si tratta di Biacchessi ma della prefazione di Manfellotto, L’ostinazione della memoria, quando ricorda il giornalista:

In [Franco Giustolisi] si aggiunse, come chiamarla?, una certa ostinazione della memoria che completò e arricchì quella sua originaria febbre per la verità. Accadde quando nell’estate del 1996 scoprì che a Roma, in una stanza della Procura militare adibita a cancelleria, giaceva un vecchio armadio dimenticato, addossato al muro verso il quale erano state rivolte le ante: perché a nessuno venisse la tentazione di aprirlo. Una rozza barriera. Evidentemente studiata per nascondere qualcosa. E naturalmente Franco lo aprì e lì dentro trovò quasi 700 dossier e un grande registro con più di duemila notizie di reato che documentavano puntigliosamente crimini efferati commessi dai nazisti e dai loro alleati fascisti nel terribile biennio 1943-’45.

A parte i dettagli (le ante, il muro eccetera), discutibili e non decisivi, va detto: non è stato Giustolisi, a scoprire l’archivio, né ad aprirlo. L’archivio fu rifrequentato a partire dal 1994, l’opinione pubblica rimase all’oscuro, lui ne scrisse sulla stampa nel 1996. Forse non ci si rende conto delle conseguenze di attribuire a qualcuno ruoli iniziali, determinanti, propulsivi: se Giustolisi, lui, avesse riaperto l’armadio nel 1994, ci si dovrebbe chiedere come potesse conoscerlo prima degli altri e perché sino ad allora non l’avesse riaperto.

Proprio la riemersione dell’archivio, quella iniziale nel 1994, è un punto di frizione. Biacchessi è documentato e riporta dati noti ma che si rileggono volentieri: soprattutto dichiarazioni di magistrati e funzionari. Il fatto è che tutto questo è presentato senza offrire a chi legge una riflessione più profonda, neanche a livello dubitativo.

L’autore collega la riemersione – è una versione tralatizia – a ricerche di documenti fatte nel 1994 dal procuratore militare di Roma Antonino Intelisano, sia occasionate dal processo Priebke sia connesse alla visita di una «giovane ricercatrice» piuttosto misteriosa (neanche la Commissione bicamerale è riuscita a identificarla); ricerche seguite, poi, da reazioni e attivazioni nella sede centrale della giustizia militare. Il volume non prova a sciogliere l’intreccio.

Altra questione su cui si resta a mani vuote è quella dell’archivio di Giustolisi. È difficile pensare che un giornalista di quella caratura lavorasse senza un buon archivio personale. Anni fa è stata fondata la onlus Archivio Franco Giustolisi, e nel 2020 l’allora presidente della Toscana, Enrico Rossi, ha annunciato il trasferimento dell’archivio Giustolisi a Firenze, con supporto della Regione per riordinarlo e fare un centro studi; sede, il vecchio ospedale di San Giovanni di Dio[4]. Non se ne sa di più, e il libro non indica l’archivio del giornalista tra le numerose fonti consultate, italiane ed estere.

In fondo questi due passaggi, questi ologrammi impalpabili che anche i migliori osservatori quasi sempre trascurano, si collocano in due fasi importanti della storia dell’Armadio: prima un archivio emerge nel chiaroscuro di un ufficio e la notizia viene alla luce grazie a un giornalista; poi l’archivio di quel giornalista resta in una penombra senza corpo. Un archivio pubblico affiora dal buio alla luce, uno privato scivola dalla luce al buio, e in mezzo c’è un uomo che sa la cosa giusta al momento giusto.

Il volume è arricchito da un’intervista a Giustolisi fatta nel 2014, per interposta persona, dopo che la salute l’aveva abbandonato. Ecco il suo ricordo sull’origine della più alta, fra le strutture che si sono occupate dell’Armadio, cioè sull’origine della Commissione bicamerale istituita nel 2003:

Insieme a Massimo Rendina, allora presidente dell’Anpi di Roma, vero uomo e vero partigiano (capo di stato maggiore della 1ª Divisione Garibaldi, nome di battaglia «Max»), ci recammo più volte al Senato per sostenere l’opportunità di una commissione parlamentare d’inchiesta. Ma la destra, in particolare i fascisti, non ne volevano sapere. Poi, a parte le nostre insistenze, tutto cambiò all’improvviso. Il progetto della commissione fu varato, contemporaneamente fu istituita la giornata del ricordo per gli istriani e dalmati. Io sono un antipolitico di natura, di questo tipo di politica intendo, quella che sottobanco dice io do una cosa a te e tu dai una cosa a me. Comunque, i risultati della commissione furono completamente negativi, addirittura un autoceffone che si era dato il Parlamento.

Mettendo da parte ogni considerazione sulla moralità, si nota la convenienza, davvero: il Giorno del ricordo per un’inchiesta. La Commissione lavorò una tantum, chiuse nel 2006 e da allora le due relazioni prodotte non sono mai state discusse in aula; il Giorno del ricordo, invece, torna ogni anno e se ne parla. Come dar via un orologio a cucù per ricevere una sveglia ferma. Il giornalista si rese conto della trappola, dell’autoceffone, e non si diede per vinto:

Tentai altre strade. Cercai di parlare con Luciano Violante, che conoscevo bene anche se non c’erano ottimi rapporti tra di noi, ma il suo portavoce mi riferì: «Il presidente dice che si tratta di questioni di 50 anni fa». […] Cercai anche di parlare con Fausto Bertinotti, uno dei successori della presidenza alla Camera, verso il quale non ho mai nutrito un minimo di stima. Ma la sua risposta, così tranchant, mi lasciò di sasso: tramite portavoce mi fu detto che «dell’armadio della vergogna si era parlato anche troppo». Non ricordo la mia risposta, ma certamente non fu un inno per quest’uomo forse noto per le sue giacche di tweed.

Giustolisi si spense proprio nel 2014, a novembre, poche settimane dopo una sentenza della Corte costituzionale – tappa di una vertenza di rilievo internazionale – favorevole ai risarcimenti per le famiglie colpite dalle stragi[5]. Era anziano, stava male e forse neanche ebbe la notizia. L’autore, però, è al corrente della contesa in corso sui risarcimenti, perché cita la sentenza civile del Tribunale di Novara del 2022 sulla strage di Borgo Ticino; eppure non valorizza il tema. È un altro aspetto su cui il suo impegno si mostra rivolto nella direzione giusta, ma debole sulla tutela delle vittime, e quindi ancora con una bella strada davanti.

Il libro conclude: «Oggi il vero pericolo è che la storia possa essere riscritta non dal vincitore, ma da chi ha perso la guerra». Sì, ma c’è anche il pericolo che la storia la scrivano insieme, i vincitori e i vinti, o per meglio dire la scrivano parallelamente, contrapponendo posizionamenti opposti sulle medesime vicende, però senza effetti quanto alle conseguenze che quelle vicende hanno o devono avere. È ciò che può accadere se il lavoro culturale di impronta soprattutto memoriale – anche quello da apprezzare come il libro di Biacchessi – non tiene conto per intero delle vertenze non risolte e della giustizia non realizzata.

 

 

[1] Esteban Buch, El pintor de la Suiza argentina, Editorial Sudamericana, Buenos Aires 1991.

[2] Biacchessi cita Felix Nikolaus Bohr, L’indagine indesiderata. Una testimonianza di «politica del passato» italo-tedesca, 1959-1961, in «Contemporanea. Rivista di storia dell’800 e del ’900», XVI, n. 3 (luglio-settembre 2013), pp. 429-442, con trascrizioni di documenti, tradotti, e con segnature d’archivio.

[3] Per esempio. A p. 36 il golpe Borghese slitta dal 1970 al 1980, quando il fascista era già morto. A p. 39 la Germania del 1960 è divisa dal muro di Berlino, che sarà costruito nell’anno successivo. A p. 81 l’ordine di compiere la strage delle Fosse Ardeatine viene da Hitler, una tesi superata da anni.

[4] https://www.toscana-notizie.it/web/toscana-notizie/-/la-regione-ospiter%C3%A0-a-firenze-l-archivio-giustolisi.

[5] Corte costituzionale 22 ottobre 2014 n. 238.

 

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Il viaggio dell’eroe e la coscienza di classe https://www.carmillaonline.com/2015/02/26/il-viaggio-delleroe-e-la-coscienza-di-classe/ Wed, 25 Feb 2015 23:01:45 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=20821 di Luca Cangianti

1207px-Kaninchen_und_Ente_1L’eroe delle narrazioni moderne percorre lo stesso cammino di chi prende coscienza di una situazione d’oppressione e decide di ribellarsi. Nel Viaggio dell’eroe, un manuale di sceneggiatura di ampio successo, Chris Vogler afferma che il protagonista, l’eroe per l’appunto, è spinto a intraprendere un’avventura che lo strappa alla realtà quotidiana, portandolo alle soglie di un mondo straordinario nel quale dovrà superare prove mortali nel tentativo di sconfiggere il nemico. Tuttavia “Gli eroi non si limitano a visitare il regno dei morti per poi tornare a casa. Ne escono trasformati”.

Tre storie gestaltiche

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di Luca Cangianti

1207px-Kaninchen_und_Ente_1L’eroe delle narrazioni moderne percorre lo stesso cammino di chi prende coscienza di una situazione d’oppressione e decide di ribellarsi. Nel Viaggio dell’eroe, un manuale di sceneggiatura di ampio successo, Chris Vogler afferma che il protagonista, l’eroe per l’appunto, è spinto a intraprendere un’avventura che lo strappa alla realtà quotidiana, portandolo alle soglie di un mondo straordinario nel quale dovrà superare prove mortali nel tentativo di sconfiggere il nemico. Tuttavia “Gli eroi non si limitano a visitare il regno dei morti per poi tornare a casa. Ne escono trasformati”.

Tre storie gestaltiche

Nel film Tutti a casa il sottotenente Alberto Innocenzi (Alberto Sordi), dopo il collasso dell’8 settembre 1943, intraprende un viaggio drammatico e picaresco attraverso l’Italia sconvolta dalla guerra e invasa dai nazisti. Innocenzi all’inizio si comporta da opportunista, ma il corso degli eventi lo cambia progressivamente. Nel finale, di fronte all’assassinio del suo compagno, ha uno scatto di dignità e decide di non subire più la violenza dell’oppressore. Prende coscienza, s’impossessa di una mitragliatrice e inizia a combattere: l’inquadratura si allarga sulle azioni coordinate di una brigata partigiana; l’eroe non è più solo, è parte di una comunità più grande che sfida il potere e crea a una nuova società.
Rimaniamo sempre nell’ambito della Resistenza, ma passiamo dalla fiction alla realtà storica. Il partigiano Massimo Rendina ricorda: “Ero tornato a Bologna dalla Russia indignato contro il fascismo perché i miei soldati li aveva mandati a morire, senza armi, senza niente… L’8 settembre andai a trovare i miei genitori a Torino, ma quel giorno i tedeschi entrarono a Torino. Li vidi entrare, erano molto belli negli impermeabili verdi, mi impressionò la differenza con il nostro esercito scalcinato. E c’erano delle donne che urlavano, uno di loro sparò e credo che abbia colpito qualcuno. Non sono sicuro ma fu determinante per me, fu come una ribellione interiore: gliela faccio pagare”.1
Roberto oggi è medico di base all’Alessandrino, un quartiere popolare di Roma. Una volta gli ho chiesto come avesse “preso coscienza” e lui mi ha risposto così: “Gli operai edili erano in sciopero per il rinnovo contrattuale e avevano organizzato un corteo. Era il 9 ottobre del 1963 e pioveva. La polizia aveva caricato e i dimostranti si rifugiarono nel mio liceo, il Cavour. Con i compagni di classe ci fermammo a discutere con alcuni di quei lavoratori. Le loro ragioni non mi convincevano: ma che volevano questi adesso? Che li pagassero per non lavorare? Mi stavo annoiando e cominciai a scherzare, a prenderli in giro. Un uomo magro con dei piccoli baffi mi puntò contro l’ombrello quasi fosse un grande indice accusatore: ‘Tu non sai che significa spaccarsi la schiena ogni giorno, rischiando di cadere dalle impalcature!’ La retorica del movimento operaio, le lotte, gli scontri con la polizia, le contrapposizioni ideologiche, mi sembravano cose di altri tempi – ed erano solo i primi anni sessanta, pensa un po’! Cinque anni dopo era il ’68. Mentre passeggiavo a via del Corso udii un rombo possente. Si trattava di una semplice parola scandita da diecimila bocche. Era di nuovo un corteo, ma questa volta si trattava di studenti universitari. Una massa fittissima, compatta, incordonata, sulla quale si stagliava altissima una sola ed enorme bandiera rossa. In quel momento mi sono passate davanti agli occhi le immagini del Vietnam viste in televisione, l’arroganza di certi insegnanti e soprattutto il volto dell’operaio edile con l’ombrello. Mi ricordo che cercai di resistere. Quello che stavo per fare mi sembrava ridicolo: sono salito sopra il parafango di una Fiat 1100, ho alzato il pugno al cielo e ho cominciato a gridare ripetendo fino a sputar fuori i polmoni lo slogan del corteo: ‘Co-mu-nis-mo! Co-mu-nis-mo!’ Credo che sia andata così. Da quel giorno ho cominciato a vedere le cose in modo completamente diverso. Sono diventato un compagno, ho preso coscienza”.

In questi tre racconti c’è un prima, un poi e in mezzo un viaggio coscienziale. Il prima è connotato da una visione conforme, quotidiana, comune e pacificata della realtà. Poi c’è un “clic” ed ecco apparire un’altra figura. La presa di coscienza assomiglia a quelle immagini gestaltiche che a seconda di come le si guarda si vede prima un coniglio e poi un’anitra. La realtà che guardiamo è la stessa, ma di tratto, dopo un viaggio costellato di esperienze drammatiche, in un preciso momento, avviene il salto – che però, a differenza delle immagini gestaltiche, non è reversibile a piacimento.

Il mentore e il partito

pillsCome il sottotenente Innocenzi, il partigiano Rendina e il medico Roberto, l’eroe di Vogler percorre un “arco di trasformazione” e passa attraverso molte possibili fasi: consapevolezza limitata del problema, riluttanza a cambiare, sperimentazione dei primi cambiamenti e loro conseguenze, trasformazioni più profonde, padronanza finale del problema. Infine “Gli eroi, qualche volta, dopo aver attraversato una Prova Centrale, provano un’improvvisa consapevolezza della natura delle cose. Sopravvivere alla morte dà significato alla vita e rinforza le percezioni”.2

L’emergere di questa potenza gnoseologica sembra avvicinarsi alla teoria elaborata da György Lukács negli anni venti del secolo scorso.3 Qui la coscienza di classe è concepita come un punto di vista superiore sulla realtà sociale. In questo caso non siamo più di fronte alla svolta coscienziale di un individuo pur inserito in una rete di esperienze sociali. La coscienza di classe di cui parla Lukács è una realtà in qualche modo metafisica, è un’entità soggettiva superindividuale che ricorda l’Io trascendentale hegeliano. Si tratta della capacità del soggetto di rappresentare adeguatamente la società e la propria posizione al suo interno a partire dagli interessi materiali. La mancanza di questo elemento comporta l’assenza di agency politica da parte di un determinato gruppo sociale, condannandolo alla sudditanza per quanto riguarda l’appropriazione della ricchezza e la costruzione dell’intera realtà sociale.

Nel momento in cui storicamente una classe subalterna si candida a sfidare una classe dominante si pone il problema della coscienza e dell’identità. Secondo la teoria marxiana del feticismo, tuttavia, l’esercizio dello sfruttamento e dell’oppressione è reso invisibile dalla falsa apparenza dello scambio egualitario tra salario e utilizzo della forza lavoro. In queste condizioni l’eroe è restio a intraprendere il viaggio e tende a restarsene a casa, nell’oscurità gnoseologica del mondo ordinario.

Lenin sostenne infatti che la classe dei salariati fosse troppo immersa nei meccanismi di occultamento ideologico descritti da Marx per acquisire un punto di vista antagonista: la coscienza doveva essere importata da un soggetto terzo, molto simile a quello che Vogler, traendo spunto dall’Odissea, definisce il mentore: “L’incontro con il Mentore è la fase del viaggio in cui l’eroe ottiene il viatico, conoscenze e fiducia in sé, di cui avrà bisogno per superare la paura e cominciare l’avventura”.4 In Matrix è Morpheus a offrire a Neo la possibilità di scegliere tra la pillola blu che lo farà tornare immemore nella realtà fallace e la pillola rossa che disvelerà l’orrido mondo di sfruttamento che si cela dietro l’apparenza virtuale. In seguito, è sempre Morpheus che guida Neo, attraverso le prove più incredibili, fino alla piena conoscenza del modo di produzione della matrice. Neo a questo punto controlla la realtà apparente: al suo interno può schivare i proiettili e nella scena finale spicca il volo a simbolizzare il massimo dispiegamento della libera soggettività.
Lenin non crede che “il movimento puramente operaio sia di per sé in grado di elaborare… una ideologia indipendente” e definisce come “parole profondamente giuste e importanti” quelle del leader socialdemocratico Karl Kaustky: “Socialismo e lotta di classe nascono uno accanto all’altro e non uno dall’altra; essi sorgono da premesse diverse. La coscienza socialista contemporanea non può sorgere che sulla base di profonde cognizioni scientifiche… Il detentore della scienza non è il proletariato, ma sono gli intellettuali borghesi… La coscienza socialista è… un elemento importato nella lotta di classe del proletariato dall’esterno… e non qualche cosa che ne sorge spontaneamente”.5

Ma questa soggettività esterna non sarà essa stessa immersa nell’oggettività produttrice di falsa coscienza? E qualora si tratti di una soggettività organizzata, cioè di un partito o di un sindacato, non sarà essa stessa sottoposta, almeno nel lungo periodo, agli influssi materiali che presiedono agli interessi specifici dei suoi funzionari, alla riproduzione delle sue strutture e dei suoi redditi? Insomma, perché il materialismo storico dovrebbe valer per tutti, ma non per i materialisti storici? La socialdemocrazia tedesca, sopravvissuta alle leggi bismarckiane, accumulò progressivamente forze diventando una sorta di contro-società che gestiva mense, palestre, circoli ricreativi, scuole, case editrici e cooperative di ogni tipo in attesa d’instaurare il socialismo. Nel 1914, tuttavia, quando arrivò la prova dei fatti, capitolò miseramente sui crediti di guerra. Prendere una decisione diversa avrebbe significato con ogni probabilità rischiare tutto il patrimonio organizzativo accumulato. Del resto il peso di tale variabile materiale si era già ideologicamente manifestato con la diffusa convinzione bersteiniana che il capitalismo potesse esser addomesticato e instradato pacificamente verso il socialismo.

Sociologia della coscienza di classe

riccardo_videocracy2Un approccio molto diverso all’analisi della coscienza di classe è quello sociologico. In questo caso si cerca empiricamente d’indagare quali sono le condizioni specifiche della vita proletaria che permettono di sviluppare un determinato tipo coscienza. In una ricerca effettuata nei primi anni cinquanta del secolo scorso fra gli operai siderurgici della Ruhr, i ricercatori individuarono tre tipi di consapevolezza: quella riguardante la prestazione (di origine artigiana e collegata alla tipologia ancora professionale della composizione di classe di quegli anni), quella del comune destino e quella dell’antagonismo (“noi-voi”, “sopra-sotto”).6 Nella prima metà degli anni sessanta, con approccio simile, Alain Touraine studiò la coscienza operaia intesa come “visione della società”, come “un senso dato all’esperienza sociale”. Somministrò oltre duemila questionari, scelse sette settori industriali (edilizia, miniere, gas, carpenteria, meccanica, fonderie e petrolio) e individuò tre principi: identità, cioè il lavoratore come produttore; opposizione, il lavoratore come diverso dall’altro da sé; totalità, cioè il lavoratore come soggetto storico. I risultati della ricerca mostrarono che tali principi si distribuivano differentemente tra gli operai delle varie branche produttive in base alle concrete specificità delle stesse.7
Al di là della correttezza e dell’attualità dei singoli studi, questo approccio ha il vantaggio di ancorare il discorso sulla coscienza di classe a un vasto numero di variabili riguardanti le concrete condizioni di vita, rifuggendo dalle spiegazioni ottimistiche e meccanicistiche che ipotizzano lo sviluppo della coscienza di classe con l’intensificarsi del disagio sociale e della crisi del modo di produzione dominante. Lo stesso Engels, nella sua opera più “sociologica”, La situazione della classe operaia in Inghilterra, mette in relazione lo sviluppo della coscienza con le specifiche modalità di vita industriale, con l’urbanizzazione e la concentrazione spaziale.8

Nel documentario Videocracy si racconta la storia di Riccardo, un giovane e simpatico operaio industriale italiano. Egli non costruisce la propria identità e la propria agency a partire dalla sua condizione di disagio nel processo produttivo, ma nel tentativo fallimentare di diventare una star della televisione, sul terreno della circolazione e del consumo. In una situazione del genere come potrà mai prodursi una coscienza collettiva capace di rappresentare non ideologicamente gli interessi di tutte le persone come lui?
Oggi il carattere postfordista della produzione, la sua frammentazione etnica e geografica, la struttura spaziale delle città, disincentivano nei paesi industrializzati una percezione del proprio sé adeguata alla posizione sociale ricoperta. Si può perfino ipotizzare, e anche Marx lo fece, che lo sviluppo capitalistico piuttosto che produrre una soggettività antagonista, la disarticoli continuamente.9

La dinamica dello sviluppo capitalistico è attraversata da crisi, ristrutturazioni, conflitti e guerre che più di una volta nella storia hanno portato a collassi temporanei del potere politico. È in queste fratture che l’eroe, anche contro la propria volontà, è costretto a rimettersi in viaggio senza alcuna certezza, attraversando i territori devastati dalla violenza dell’invasore di turno. È nella precarietà di queste situazioni che nascono organizzazioni adeguate allo scopo, mandando in frantumi le precedenti strutture ossificate. E così, se si arriva in tempo, prima che sterminio e guerra estinguano del tutto vita e speranza, può anche accadere di ritrovare se stessi e di dire, come accadde al partigiano Rendina: io a questi qui gliela faccio pagare.


  1. Il Manifesto, 13.2.2015

  2. C. Vogler, Il viaggio dell’eroe, Audino, 2005, p. 128. 

  3. Cfr. G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Sugar, 1967. 

  4. C. Vogler, op. cit. p. 82. 

  5. In V. I. Lenin, Che fare?, Editori Riuniti, 1970, pp. 71-72. 

  6. Cfr. H. Popitz, H.-P. Bahrdt, E. A. Jueres e H. Kesting, Progresso tecnico e mondo operaio, Edizioni Paoline, 1962. 

  7. Cfr. A. Touraine, La coscienza operaia, Franco Angeli, 1975. 

  8. Cfr. F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra in K. Marx-F. Engels, Opere, IV, Editori Riuniti, 1972, pp. 259, 353, 485. 

  9. Cfr. Carmilla, 3.9.2014

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