Massimo Carlotto – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 13 Sep 2025 20:04:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Soldati di carta sulla strada per l’inferno https://www.carmillaonline.com/2023/11/22/soldati-di-carta-sulla-strada-per-linferno/ Wed, 22 Nov 2023 21:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79958 di Sandro Moiso

Robert Stone, Dog Soldiers, con una prefazione di Massimo Carlotto, Edizioni minimum fax, Roma 2023, pp. 427, 19 euro

«Non sappiamo cosa stiamo facendo», rispose Converse, sicuro di sé. «Questo è il principio che dfendevamo in Vietnam. Questo è il motivo per cui siamo andati in guerra». (Robert Stone – Dog Soldiers)

Gli Stati Uniti, dal 1945 fino ad oggi, sono riusciti a condurre una guerra permanente in ogni angolo del globo. Una guerra lunga ormai quasi ottant’anni, formata da una serie di guerre sempre meno locali da cui, però, non sono mai usciti vincitori. Un record che [...]]]> di Sandro Moiso

Robert Stone, Dog Soldiers, con una prefazione di Massimo Carlotto, Edizioni minimum fax, Roma 2023, pp. 427, 19 euro

«Non sappiamo cosa stiamo facendo», rispose Converse, sicuro di sé. «Questo è il principio che dfendevamo in Vietnam. Questo è il motivo per cui siamo andati in guerra». (Robert Stone – Dog Soldiers)

Gli Stati Uniti, dal 1945 fino ad oggi, sono riusciti a condurre una guerra permanente in ogni angolo del globo. Una guerra lunga ormai quasi ottant’anni, formata da una serie di guerre sempre meno locali da cui, però, non sono mai usciti vincitori. Un record che se, da un lato, ha comunque arricchito il cosiddetto complesso militar-industriale di quel paese, dall’altro, ha anche fatto sì che forse non esista al mondo altro paese che abbia prodotto altrettanta letteratura basata sull’esperienza bellica.

Una tradizione letteraria che ha avuto inizio nell’Ottocento con i romanzi sulla Guerra civile di Stephen Crane, i racconti di Ambrose Bierce e le cronache di Walt Whitman, ma che già a partire dagli anni successivi alla prima carneficina mondiale, iniziò a produrre romanzi sulla delusione dei soldati e le loro paure e sofferenze, come quelli di William March, John Dos Passos o William Faulkner e Donald Trumbo. Oppure critici della violenza espressa nel corso del secondo conflitto globale e delle progressiva disumanizzazione del soldato americano e, ancora, dell’inutile sacrificio di migliaia di giovani in divisa e del loro drammatico ritorno a caso, dove nulla sembrava essere cambiato.

Tralasciando l’opera letteraria di Ernest Hemingway, che scrisse romanzi e racconti basati sulla sua personale esperienza sia della Prima guerra mondiale che della guerra civile spagnola, fu quella l’epoca dei romanzi di Norman Mailer, Glen Sire, Richard Matheson, James Jones e John Oliver Killens. Ma è soltanto dall’esperienza della guerra di Corea e, ancor più, da quella del Vietnam che la separazione tra guerra fuori dai confini nazionali e guerra in casa oppure tra guerra con un “nemico esterno” e guerra con il “nemico interiore”, ancor prima che interno, viene definitivamente superata. Sono i romanzi e i racconti di Tim O’Brien, Kent Anderson, Gustav Hasford, Denis Johnson e Karl Marlantes a parlarci, in tempi diversi, di quella guerra e dei traumi psicologici ancor prima che fisici riportati dai giovani soldati che la combatterono.

Mentre l’esperienza delle guerre successive in Centro America, in Medio Oriente e nell’Asia Centrale ci è stata narrata, in anni più recenti, da autori come Phil Klay e da Tobias Wolff. Ma è stata proprio la guerra del Vietnam ha ridefinire, come si diceva prima, lo sconfinamento tra conflitto esterno e interno, tra devastazione dei territori “altri” e di quello “interiore” dei soldati. Basti qui ricordare almeno due romanzi: Primo sangue di David Morrell, da cui sarebbe stato tratto il primo Rambo, diretto da Ted Kotcheff, e quello appena ripubblicato da Minimum Fax, Dog Soldiers di Robert Stone1.

Quest’ultimo, comparso in edizione originale nel 1974, è quello che maggiormente ha introdotto il discorso dell’autentico disfacimento morale di un paese e di una generazione che, fino a pochi anni prima si erano illusi di aver definito una “nuova frontiera” e un mondo di cui l’estate dell’amore del 1967 avrebbe segnato invece l’inizio, più che dell’utopia comunitaria, del declino. Prima i Beat, la libertà di immaginarsi “altri” (in letteratura, nella realtà e negli esperimenti lisergici di Ken Kesey2 ), poi la cruda realtà dei macelli in Estremo Oriente e delle droghe in polvere da iniettarsi in vena, sia al fronte che una volta tornati a casa. Con la mente guasta e il corpo in astinenza da sesso facile, adrenalina, eroina o morfina.

Robert Stone (Brooklyn 1937 – Key West 2015) nel 1971 partì per il Vietnam, dove avrebbe trascorso due mesi in qualità di corrispondente di guerra per «INK», un piccolo giornale inglese, e da lì avrebbe tratto l’ispirazione per il suo secondo romanzo, poi pubblicato nel 19743. In precedenza, nel 1962, mentre si trovava alla Stanford University aveva conosciuto Ken Kesey, all’epoca già famoso, che gli aveva dato la possibilità di conoscere molti altri scrittori, tra cui Jack Kerouac che, in qualche modo, lo avrebbe influenzato nello stile narrativo.

Si dice, infatti, che l’autore americano si sia ispirato per uno dei personaggi del suo romanzo più famoso, Ray Hicks, al personaggio reale di Neal Cassady, scrittore e protagonista della Beat Generation, che incontrò grazie al suo rapporto con Ken Kesey. Cassady che era anche stato l’ispiratore della figura di Dean Moriarty, il co-protagonista di Sulla strada di Kerouac. Mentre le pagine finali di Dog Soldiers hanno tratto abbondantemente spunto dalla morte reale dello stesso Cassady, avvenuta nel 1968, lungo una strada ferrata messicana.

Non a caso, si potrebbe definire Dog Soldiers un romanzo “on the road”, non solo tra Vietnam, Stati Uniti e Messico, ma anche nell’interiorità dei personaggi che lo animano. Interiorità descritta, nella migliore tradizione americana, non attraverso l’analisi dei pensieri dei singoli, ma attraverso le loro azioni e le loro parole. A metà strada tra noir e romanzo di azione, in cui la fuga si trasforma in un viaggio verso l’abisso e la fine. Del noir il romanzo porta la traccia amara e indelebile di Raymond Chandler, delle sue amicizie tradite e dei suoi anti-eroi spietati perché nessuno, mai e per nessun motivo, ha provato pietà per loro.

Mentre, per certi altri versi, si presenta come un romanzo apocalittico, in cui la corruzione dell’America nixoniana del Watergate si riflette nelle azioni dei personaggi, nei loro tradimenti, nella loro avidità (di sesso o soldi non fa differenza), sia che si tratti di giornalisti disillusi come John Converse, uno dei protagonisti principali, oppure di un ex-soldato come Ray Hicks, di una tossica confusa e sposata infelicemente con Converse o, ancora, di un agente corrotto della DEA.

Vite che trascorrono sul bordo di un inferno tutt’altro che metafisico di cui, in qualche modo saranno i cani. Definiti con un termine, dog soldiers, che rinvia sia alle targhette metalliche appese al collo dei soldati per l’eventuale riconoscimento dei loro corpi disfatti dopo la morte in battaglia, le dog tag, che alla tradizione guerriera degli Indiani delle pianure, in particolare di quelli appartenenti alle tribù Cheyenne.

Le cosiddette “società guerriere” erano raggruppamenti che, all’interno delle bande o delle tribù, si incaricavano dell’inquadramento dei guerrieri. Svolgevano incarichi di “polizia” interna e portavano avanti le attività guerresche sempre in prima linea. La loro rilevanza era enorme e tra i Cheyenne l’importanza delle società guerriere, specialmente di quella dei Soldati Cane, fu veramente notevole.

Quella dei Soldati Cane fu una delle più famose fra le società dei guerrieri cheyenne. Molti dei suoi appartenenti fecero il giuramento di suicidarsi oppure pronunciarono “l’incantesimo dei vecchi”. Questo perché, quando sfilavano in parata intorno all’accampamento prima della battaglia, i vecchi si schieravano ai loro lati e i banditori annunciavano a gran voce: “Guardate questi uomini, fintanto che sono vivi, per l’ultima volta perché butteranno via le loro vite”.

Il guinzaglio e il piolo costituivano gli oggetti simbolo degli appartenenti a tale società guerriera. I giovani appartenenti facevano voto di conficcare il piolo in terra e di legarsi ad esso nella battaglia, quando il nemico avesse cominciato ad avvicinarsi diventando sempre più pericoloso. Questo significava che avrebbero saldamente occupato la loro posizione e non sarebbero indietreggiati, combattendo fino a quando il nemico non fosse stato respinto o loro stessi non avessero incontrato la morte.

Per i Soldati Cane, che avevano fatto tale giuramento, era un grande onore morire combattendo legati al piolo. C’era anche un altro modo di impegnarsi al suicidio in guerra. Ma in questo caso non venivano utilizzati né guinzaglio né piolo; il guerriero si limitava a lanciarsi in mezzo ai nemici e a caricarli senza sosta, esponendosi così fino a quando non veniva ucciso. Gli altri giovani guerrieri, influenzati dal gesto, ne avrebbero seguito l’esempio.

Vite buttate si diceva prima, come quelle dei soldati mandati in guerra tra le paludi e le giungle del Vietnam oppure come quelle dei protagonisti del romanzo, non tutti destinati a morire, ma tutti ugualmente legati al piolo della siringa o del denaro. Mai eroi per coraggio e dedizione a una causa autentica, ma quasi sempre per calcolo personale o irrimediabile corruzione.

E’ una Saigon che offre ad ogni angolo eroina e prostituzione che spalanca le braccia a John Converse appena arrivato in Vietnam, durante un conflitto sempre più difficile per le forze americane e per i loro alleati. Ed per questo motivo che Converse, abbandonata l’idea di scrivere, si trova a smerciare tre chili di eroina dal Vietnam alla California, negli Stati Uniti di Nixon e della guerra alla droga, dando così inizio a una fuga durante la quale la linea di demarcazione tra preda e cacciatore è fluida e impalpabile come quella tracciata tra i due Vietnam.

«Ti conviene stare attento», gli disse Hicks. «Negli Stati Uniti succedono cose strane ormai».
«Non può essere più strano di qui».
«Qui è tutto più semplice», disse Hicks. «In America è tutto più strano. Io non so bene con chi tela fai ultimamente, ma scommetto che non hanno il senso dell’umorismo».
Converse guardò dall’alto l’amico seduto, barcollando un po’. Spalancò le braccia in un gesto plateale. «Ora come ora potrebbe anche mettersi a piovere sangue e merda», disse. «Non saprei dove altro andare»4

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Dal romanzo, nel 1978, fu tratto il film Who’ll Stop the Rain (in Italia intitolato I guerrieri dell’inferno) diretto da Karel Reisz e interpretato da Nick Nolte nella parte di Ray. Stone, che nel frattempo aveva vinto il National Book Award con Dog Soldiers, partecipò alla sceneggiatura dello stesso, non fu mai particolarmente soddisfatto del risultato, anche se il film fu presentato in concorso al 31° Festival del cinema di Cannes.

Minimum Fax che già nel 2018 aveva proposto un altro ottimo romanzo noir basato sul reducismo successivo alla guerra di Corea, Country Dark di Chris Offutt, ha sicuramente il merito di continuare un’attività di pubblicazione, scoperta o riscoperta di romanzi particolarmente adatti a rilanciare l’attenzione del pubblico per la letteratura americana e per le profonde contraddizioni che attraversano la medesima società da decenni. E il romanzo di Robert Stone, oggi ancora una volta giunti alle porte dell’Inferno, vale davvero la pena di essere letto.


  1. Già comparso precedentemente in Italia con il titolo I guerrieri dell’inferno, Bompiani, Milano 1978.  

  2. Si veda Tom Wolfe, L’Acid Test al rinfresko elettrico, Feltrinelli, Milano 1970.  

  3. Il primo, A Hall of Mirrors uscito negli Stati Uniti nel 1966, gli era valso sia la Houghton Mifflin Literary Fellowship che il William Faulkner Foundation Award per il miglior romanzo d’esordio.  

  4. R. Stone, Dog Soldiers, Edizioni minimum fax, Roma 2023, p. 92.  

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Da l’Alligatore con dolore https://www.carmillaonline.com/2021/01/02/da-lalligatore-con-dolore/ Sat, 02 Jan 2021 21:30:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64173 di Mauro Baldrati

Più che una serie noir forse si potrebbe definire gialla. Un giallo di nuova generazione, oppure old fashion, dipende dai punti di vista. Gli ingredienti ci sono: un caso intricato, apparentemente insolubile, le indagini, i retroscena, i segreti; e poi la corruzione, lo schermo ipocrita dell’apparenza, la perversione. L’epica blues è solida, per il ritmo, le suggestioni; basterebbe sostituire l’attore protagonista, l’ex fotomodello Matteo Mortari (che peraltro è perfetto per il ruolo) con Mattew McConaughey, e cambiare l’ambientazione da Nordest/foce del Po con le Everglades per avere una [...]]]> di Mauro Baldrati

Più che una serie noir forse si potrebbe definire gialla. Un giallo di nuova generazione, oppure old fashion, dipende dai punti di vista. Gli ingredienti ci sono: un caso intricato, apparentemente insolubile, le indagini, i retroscena, i segreti; e poi la corruzione, lo schermo ipocrita dell’apparenza, la perversione. L’epica blues è solida, per il ritmo, le suggestioni; basterebbe sostituire l’attore protagonista, l’ex fotomodello Matteo Mortari (che peraltro è perfetto per il ruolo) con Mattew McConaughey, e cambiare l’ambientazione da Nordest/foce del Po con le Everglades per avere una serie blues da manuale. Già, perché il blues è l’estetica di riferimento. E’ presente come musica, come struttura poetica/filosofica. L’Alligatore è da sempre innamorato, con fedeltà granitica di stampo proustiano, di Greta, una ragazza “tosta”, con una perfetta faccia da blues singer dall’aura romantica. Infatti il suo personaggio è davvero una cantante blues, che esegue pezzi lenti e struggenti.
Anche il bar frequentato dai personaggi è blues. Si affaccia sul Po/Mississippi, come del resto il romanticissimo loft dove vive l’Alligatore. Poi c’è il suo pard, Beniamino, che non è un bluesman (ama la musica da ballo latinoamericana, che l’Alligatore giustamente detesta), ma ne sprigiona comunque i segni: ex contrabbandiere, quindi criminalità onesta vecchio stile, niente a che fare con la droga, frequentatore di night come certi vecchi bluesmen lo erano dei bordelli. La fotografia è blues, calda, pastosa, con un tono elegantemente vintage. E lui, l’Alligatore in persona, è un bluesman bianco di pura razza: indossa un vecchio giubbotto di pelle, cammina dinoccolato, ride solo se è indispensabile, parla poco; ha un berretto che abbiamo già visto sulla testa di John Lee Hooker, e occhiali per niente alla Terminator, ma anni ’70, barbetta castana, capelli mediamente lunghi; ha un’aria vissuta quanto basta, infatti è appena uscito di galera, dove ha scontato alcuni anni per essersi rifiutato di tradire un amico finito nei guai.
Pertanto non possiamo che fare i complimenti a tutto lo staff, i registi, gli sceneggiatori (tra i quali lo stesso Massimo Carlotto, che compare anche in un cameo), i costumisti, gli scenografi, il tecnico della fotografia, il responsabile della colonna sonora, per la creazione di un’estetica blues italiane credibile e sincera, e di storie avvincenti, anche per l’efficienza dei personaggi, interpretati da attori dotati e attraenti.
A questo punto il lettore pensa: Ok, ma quando arriva il “ma”?
E’ arrivato infatti.
Ma.
Ci sono dissonanze, segni scaleni che stridono e graffiano. Alcuni sono dettagli, perdonabilissimi in una serie zeppa di complicanze e beghe da risolvere, come tutte le opere gialle. Ma altri sono più gravi, o addirittura molto gravi, che inquinano la purezza cristallina che li precede.
Beniamino per esempio. E’ la spalla dell’Alligatore, ma non si capisce perché collabori con lui in quel modo, rischiando la vita. Almeno il suo capo potrebbe pagarlo, visto che riceve spesso delle buste con robuste mazzette di banconote. Nel primo episodio l’Alligatore lo obbliga a seguirlo nella sua indagine in nome della vecchia amicizia con un compagno di prigione, e da lì in poi lo troviamo in ogni episodio, pronto, affidabile, fedele.
Ma questo è, appunto, un dettaglio quasi insignificante. Beniamino c’è, è importante, è il braccio dell’Alligatore, non stiamo a spaccare il capello in quattro con tutte le gatte da pelare che hanno gli sceneggiatori.
Poi i dialoghi. Ridotti all’essenziale, e questo va bene; le ultime mode sono rivolte alla sottrazione, alla pulizia e la sintesi. Ma ad ogni domanda l’Alligatore, e non solo lui, per rispondere impiega una quantità di secondi, tanto che lo spettatore rimane col fiato sospeso e si chiede: “Risponderà?” D’accordo, una delle interfacce del nuovo cinema italiano è la lentezza. Per dire, La belva è senz’altro il film più lento che mai sia stato girato. Però quando si esagera si esagera.
Ma c’è di peggio, molto di peggio.
L’abuso di superalcolici per esempio, con una modalità ossessiva che risulta incomprensibile. Come nei film americani certi personaggi belli palestrati si versano in gola bicchierate scurrili di whisky come niente, così l’Alligatore svuota bottiglie di Calvados (il nuovo liquore super cool?) praticamente in tutti gli episodi. Se qualcuno gli offre un bicchiere d’acqua dice “non sono mica una pianta”, e giù col Calvados. Non si capisce l’esigenza narrativa di una tale insistenza. Se ci mettiamo anche le sigarette, che si rolla quasi in continuazione, abbiamo uno stereotipo vecchio, in un’opera che si avventura in uno stile antico rielaborandolo per ricavarne un prodotto innovativo e originale.
Ma anche qui lo spettatore usa la pazienza e tira avanti, apre i nuovi episodi e ritrova i suoi eroi, i suoi fratelli, e li segue nelle avventure e nei loro piccoli grandi amori.
Ma purtroppo c’è di peggio, molto, molto di peggio.
Nel quarto episodio l’Alligatore e Beniamino in un momento di pausa cuociono viva un’aragosta. Crediamo – speriamo – che non avvenga davvero, ma sia solo finzione (il fuoco sotto la pentola sembra spento), poiché esiste una norma nel codice penale (art. 727) che vieta di provocare sofferenze agli animali per esigenze di scena. Ma questo non è importante. E’ il messaggio che conta. E’ l’affermazione della mentalità che sta alla base della rovina del pianeta che ci dà da vivere: io sono il padrone, io ho il diritto di appropriarmi di tutto, perché tutto mi appartiene. Anche la vita e le sofferenze di tutti gli esseri viventi. Cosa c’è di più arcaico, di più reazionario? La cosa che stupisce è che la serie vuole avere anche una valenza ecologista. Un altro collaboratore dell’Alligatore, un hacker, denuncia il businness dei rifiuti clandestini, liquami che vengono sversati nei terreni e nei fiumi da rispettabili faccendieri padovani. Fa anche indagini e rischia grosso per contrastare la violenza degli allevamenti intensivi, veri e propri lager. Che ecologia c’è in un’azione sadica che riduce in polvere ogni affermazione di rispetto e compassione verso tutte le forme viventi? Forse questo gesto, sommato all’alcolismo cool e al tabagismo compulsivo, dovrebbe qualificare i nostri due eroi come trasgressivi e fighi? In realtà li presenta per quello che, purtroppo, li hanno fatti diventare: il contrario della trasgressione, una coppia di tristi, pre-moderni energumeni.
A questo punto ci manca solo che vadano a caccia per sport, o alla corrida. O a mangiare il fegato grasso dallo “chef” scannatore di agnelli Vissani. E non è detto che ciò non accada nei prossimi quattro episodi, ma ormai il lavoro lungo e accurato fin qui realizzato è rovinato da questa sciatta caduta.
E allora un malinconico adieu all’Alligatore, a quello che avrebbe potuto essere, perché la serie termina qui.

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I desaparecidos del Mediterraneo e La via del pepe di Massimo Carlotto e Alessandro Sanna https://www.carmillaonline.com/2015/04/28/i-desaparecidos-del-mediterraneo-e-la-via-del-pepe-di-massimo-carlotto-e-alessandro-sanna/ Mon, 27 Apr 2015 22:01:53 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=22096 di Simone Scaffidi L.

«Ma come, la Morte sa raccontare storie?» domandò Amal.

Qualche giorno prima dell’eccidio del 19 aprile 2015, che ha visto la scomparsa di oltre 800 persone nelle acque del Mediterraneo, ho letto La via del pepe: finta fiaba africana per europei benpensanti scritto da Massimo Carlotto e illustrato da Alessandro Sanna per le edizioni E/O. Poche parole e colori essenziali: tinte azzurre come il mare che diventa abisso e una storia leggera come un corpo che fluttua verso i fondali del Mediterraneo. I protagonisti di questa finta [...]]]> di Simone Scaffidi L.

«Ma come, la Morte sa raccontare storie?» domandò Amal.

Qualche giorno prima dell’eccidio del 19 aprile 2015, che ha visto la scomparsa di oltre 800 persone nelle acque del Mediterraneo, ho letto La via del pepe: finta fiaba africana per europei benpensanti scritto da Massimo Carlotto e illustrato da Alessandro Sanna per le edizioni E/O. Poche parole e colori essenziali: tinte azzurre come il mare che diventa abisso e una storia leggera come un corpo che fluttua verso i fondali del Mediterraneo. I protagonisti di questa finta fiaba sono il mare, la morte e Amel, che in arabo significa «speranza». Amel porta chiusi stretti nel pugno cinque grani di pepe donatigli dal nonno Boubacar Dembélé, «guaritore, saggio, poeta, narratore delle storie della settima via del sale e custode dei segreti del foggara, l’arte di scavare i pozzi nel deserto». Quei grani rappresentano la speranza di una salvezza, da stringere forte per non cadere dalla prua del peschereccio Firouz e per resistere, una volta caduti, alle onde. Lampedusa è vicina ma nello specchio di mare che separa le coste africane dall’isola che un tempo fu porto franco per marinai e pirati, cristiani e musulmani, si nascondono le migliaia di fuochi fatui che alimentano la fiaccola della Santissima dei Naufragati. Una santa dal grembo azzurrissimo e dal viso nero come l’ebano.

Qualche giorno prima dell’eccidio del 3 ottobre 2013, che ha visto la scomparsa di circa 400 persone nelle acque del Mediterraneo, leggevo invece Le irregolari. Buenos Aires Horror Tour di Massimo Carlotto, edito sempre dalle edizioni E/O. Un libro terribile che scava lo stomaco, un viaggio nelle atrocità della dittatura argentina e nel vuoto clinico creato dalla sistematizzazione delle pratiche di desaparición, probabilmente il miglior libro in italiano sul regime militare e la resistenza delle donne argentine alla repressione. Ma cosa c’entra l’Argentina con il Mediterraneo?

Le irregolari e La via del pepe sono due libri e due storie distanti solo geograficamente. La forma differisce perché l’autore, per il primo, ha ritenuto più funzionale all’emersione dei significati la testimonianza e il racconto d’inchiesta, e per il secondo la fiaba – che per l’appunto è finta ed è africana solo per gli europei benpensanti. Entrambe le esperienze infatti, quella dei desaparecidos argentini e quella dei desaparecidos africani, sono narrate da Carlotto attraverso la medesima operazione: scavare nell’oblio della storia per disseppellire la memoria di persone che scompaiano nel nulla, nel silenzio e con la complicità delle democrazie occidentali. Se il regime dittatoriale argentino pianificava nei minimi dettagli la scomparsa degli oppositori, i regimi democratici europei pianificano da almeno vent’anni la sistematica scomparsa dei migranti africani nel mar Mediterraneo.

Da un giorno all’altro, a cavallo tra gli anni ’80 e gli anni ’90, le democrazie occidentali hanno deciso che la gente del sud del mondo doveva starsene a casa propria, le frontiere si chiudevano ancor di più e i visti si negavano. Non c’era nessuna emergenza, le guerre in Africa ci sono oggi come allora e prima di allora, e si sono moltiplicate a dismisura quando l’uomo bianco ha deciso che quelle terre andavano saccheggiate e quelle popolazioni soggiogate. «Il deserto avanza perché l’uomo bianco mangia ananas e banane ma non sa coltivare la terra, la fa morire e i giovani se ne vanno. L’uomo bianco è così sventato che avvelena il cielo, e il sole e la pioggia sono diventati strani, e i giovani se ne vanno. L’uomo bianco le sue guerre le combatte a casa nostra, e i giovani se ne vanno». I giovani prima degli anni ’90 se ne vanno in aereo dall’Africa, con mille difficoltà perché il loro è un passaporto di serie Z ma se ne vanno via cielo. Lavorano sodo, si guadagnano il necessario per comprarsi il biglietto aereo, richiedono un visto, fanno la valigia e vanno in aeroporto. Proprio come fa l’uomo bianco. Ma l’Italia o la Svezia o l’Australia decidono che «la legge della settima via del pepe, che affermava il diritto naturale di ogni donna e uomo a vivere dove desiderava» non ha più valore. E allora niente visti, neanche per Amel, niente aereo ma un lungo viaggio per terra e per mare della durata di quanto? Per qualcuno dura una vita, che si spezza tra le mille insidie che s’incontrano sul cammino, per altri dura anni di frontiere e lavoro e carcere e botte, altri ancora sono più fortunati e magari ci mettono soltanto mesi per raggiungere le coste libiche e tentare la traversata verso la Fortezza Europa.

«Fortunati» mi sono trovato a pensare il pomeriggio del 19 aprile, tornato a casa da una partitella a calcio al parco con chi è sopravvissuto alla traversata e appresa la notizia dell’eccidio di 800 migranti. «Fortunati» ho pensato di loro che giocavano a calcio con me, straniero tra i superstiti, e mi sono vergognato. Solo un europeo benpensante può credere che questi ragazzi e ragazze che raggiungono l’Europa vivi siano «fortunati». Più di 21.000 uomini e donne hanno provato a raggiungere le coste europee dal 1988 ad oggi, almeno 18.000 sono morti in mare, di questi più di 10.000 sono tecnicamente desaparecidos, i loro corpi non sono mai stati ritrovati. Nella tavola a pagina 11 de La via del pepe, magistralmente illustrata da Alessandro Sanna, undici corpi danzano negli abissi del mare. Per arrivare a 18.000 bisognerebbe riprodurre quella singola pagina 1637 volte. Le braccia, le gambe e la testa formano tante stelle deformi su uno sfondo blu. Stelle che non brillano e non rispettano l’ordine del cerchio, ma rappresentano con più profondità la bandiera dell’Unione Europea.

Senza il talento e la sensibilità del tratto di Sanna La via del pepe non avrebbe la stessa forza semantica ed espressiva. Carlotto come un foggara del deserto disseppellisce una storia che restituisce la dignità della vita alla morte, acqua nel deserto. Sanna s’immerge nel pozzo e attraverso il segno e il colore delinea non un volto ma dieci, cento, mille vite desaparecidas. «Resto in apnea fino a quando il foglio imbarcato non si rapprende e si asciuga» spiegava il disegnatore nel suo capolavoro dedicato al fiume Po (Fiume lento. Un viaggio lungo il Po, Rizzoli, 2013). Ne La via del pepe Sanna riesce a trasportare l’apnea che prova nella creazione delle immagini, sinestesia tra colore e silenzio mai più azzeccata.

Il risultato dell’intreccio di immagini e parole dei due autori è una fiaba leggera – a dispetto del contesto trattato – e piena d’umanità, adatta ai bambini e alle bambine, che non faranno nessuna fatica a comprendere il viaggio di Amel. Il dubbio, evidente, sarà l’intelligibilità dello stesso viaggio da parte degli uomini e delle donne adulte.

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