Marx – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 14 Jun 2025 20:00:29 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Schiacciati per aver deciso di combattere. Ancora su Haymarket Square, Chicago e la memoria di classe https://www.carmillaonline.com/2025/06/11/schiacciati-per-aver-deciso-di-combattere-ancora-haymarket-square-ancora-chicago-ancora-la-memoria-della-lotta-di-classe/ Wed, 11 Jun 2025 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88777 di Sandro Moiso

Martin Cennevitz, Verrà il giorno. La origini del Primo maggio, Elèuthera 2025, pp. 200, 18 euro

Right behind you, I see the millions On you, I see the glory From you, I get opinion From you, I get the story (Tommy – Pete Townshend & the Who, 1968)

In tempi di insignificanti concertoni per il Primo Maggio, in cui la miseria culturale e musicale si traveste da impegno politico e sindacale, vale la pena di girare ancora il coltello nella piaga per ricordare gli eventi da cui lo show televisivo nazionale trae origine, probabilmente senza nemmeno lontanamente [...]]]> di Sandro Moiso

Martin Cennevitz, Verrà il giorno. La origini del Primo maggio, Elèuthera 2025, pp. 200, 18 euro

Right behind you, I see the millions
On you, I see the glory
From you, I get opinion
From you, I get the story

(Tommy – Pete Townshend & the Who, 1968)

In tempi di insignificanti concertoni per il Primo Maggio, in cui la miseria culturale e musicale si traveste da impegno politico e sindacale, vale la pena di girare ancora il coltello nella piaga per ricordare gli eventi da cui lo show televisivo nazionale trae origine, probabilmente senza nemmeno lontanamente conoscerli.

Una giornata di lotta e mobilitazione più che una festa, quale almeno dovrebbe essere, che affonda le sue radici nella radicale determinazione degli operai immigrati, quasi tutti di origine tedesca o irlandese, che alla fine dell’Ottocento si opposero, con ogni mezzo necessario, ad uno sfruttamento capitalistico che disvelava il vero volto di quella che avrebbe dovuto essere la Land of Freedom.

Il romanzo saggio, o il saggio “romanzato”, di Martin Cennevitz appena pubblicato da Elèuthera, ma uscito in Francia nel 2023 con il titolo Haymarket. Récit des origines du 1er Mai che rende meglio l’idea di racconto che lo pervade, porta il lettore a toccare con mano sia i presupposti che lo sviluppo degli avvenimenti che portarono alla condanna e all’esecuzione di coloro che sarebbero passati alla storia come i “martiri di Chicago”: Albert Parsons, Louis Lingg, August Spies, Adolph Fischer e George Engel. Ai quali occorre aggiungere i tre condannati all’ergastolo, e in seguito graziati: Michael Schwab, Oscar Neebe e Samuel Fielden.

Per raggiungere questo obiettivo, l’autore, che lavora come insegnante a Tours, in Francia, si è avvalso degli appunti autobiografici scritti in carcere dagli stessi condannati mentre erano in attesa dell’esecuzione, oltre che di un’attenta ricostruzione dei fatti storici che formano l’ossatura della sua ricerca, dando in questo modo vita ad una narrazione corale che inizia ben prima dei fatti di Haymarkket.

La storia della città fenice, come Chicago è stata denominata dopo la sua ricostruzione in seguito al grande incendio del 1871 che ne distrusse gran parte, affonda le sue radici in un processo di spossessamento che ha inizio con la cacciata dei nativi Potawatomi che abitavano quei territori da ben prima che i Wasi’chu, gli uomini bianchi, si affacciassero sulle rive dei lago Michigan sulle cui sponda sudoccidentale sarebbe sorta.

Nel 1833 Chicago contava trecentocinquanta abitanti. Sette anni dopo, ce ne sono quattromila in più […] Nel 1850 a Chicago risiedono trentamila persone, e in città cominciano ad arrivare immigrati tedeschi […] Nel 1860, piu di centomila persone abitano in città. Ventimila sono tedeschi. Chicago è sempre più rumorosa […] Via via che il paese si copre di binari, strade, ponti, veicoli, manifatture e fabbriche, le foreste arretrano e la selvaggina scompare. La città si libera ogni giorno di tonnellate di rifiuti che discendono su chiatte i fiumi Chicago e Calumet per essere gettati nel lago Michigan. Nel porto galleggiano pesci morti.
[…] Potawatomi significa «Coloro che conservano il fuoco». Il fuoco, quell’antichissimo segreto che aveva illuminato il cuore della nazione amerindia, che ora brucia nei forni e nelle caldaie di Chicago. Il fuoco che portando a ebollizione l’acqua produce il vapore e aziona le turbine. Il fuoco che aggregando le particelle di argilla in mattoni permette di erigere edifici. Il fuoco che fondendo il minerale dà forma ai ponti, alle ferrovie, agli attrezzi, alle macchine. Le acciaierie hanno bisogno del fuoco primordiale. Ma hanno bisogno anche dell’acqua. E del carbone che si estrae dalla terra. Occorrono sempre più fabbriche, acqua e miniere per fondere, trasformare, edificare, produrre, vendere…per plasmare un nuovo mondo.
Siamo nel 1870. La città si è espansa ancora. Ora raggiunge le trecentomila persone. E questa crescita sembra inarrestabile. Ma nell’ottobre 1871 Chicago si trasforma in un immenso braciere. Le case di legno bruciano come fiammiferi. La popolazione fugge precipitosamente davanti alle fiamme. L’incendio devasta la citta, uccide un centinaio di persone e ne lascia piu di centomila in mezzo alla strada, perlopiù lavoratori poveri. Il sindaco Roswell B. Mason dichiara la legge marziale per impedire sommosse e saccheggi. La solidarietà si mobilita, soprattutto in Europa. La Chicago Relief and Aid Society raccoglie 5 milioni di dollari. Ma alcuni ricchi industriali, come George Pullman o Marshall Field, vengono accusati di distoglierne una parte a profitto delle loro imprese. Il cinismo trionfa. Chicago e il grande Athanor1 del capitalismo. Vi si forgiano le più grandi fortune. E proprio come la fenice, Chicago non puo perire. Il fuoco l’ha fatta nascere. Il fuoco la farà rinascere.
La città diventa un immenso cantiere. Verrà ricostruita in pochi anni. Attenendosi alla loro concezione igienista e razionalista, gli urbanisti tracciano le strade a scacchiera, lasciandosi alle spalle la sporcizia dei vecchi quartieri. Ma i venti, gli stessi che avevano attizzato le fiamme del grande incendio, si ingolfano in quelle strade e sembra che non facciano altro se non portare freddo. Perché l’aria di Chicago rimane viziata. I porti e i macelli fanno planare sulla citta un odore nauseabondo. Il fumo grigiastro e la fuliggine hanno nuovamente invaso la città, sporcando tutto, ingrigendo le facciate, ostruendo i polmoni. Nel 1873 una nuova crisi colpisce il paese. La banca Jay Cooke & Co. fallisce, migliaia di fabbriche chiudono, la disoccupazione esplode. Con 5 centesimi al giorno, a malapena gli operai riescono a sopravvivere. Talvolta i salari non vengono neppure versati. E quelli che sbuffano vengono immediatamente rimpiazzati. L’inverno del 1873 è particolarmente rigido. Un vento glaciale soffia sull’Illinois. Ma un altro vento spazza Chicago. A dicembre, quasi ventimila persone convergono verso il municipio per reclamare il denaro della Chicago Relief and Aid Society che è stato rubato. Alcuni striscioni minacciano: «Pane o sangue». Vogliono cibo, vestiti, alloggi… riceveranno manganellate. Il sindaco manda la polizia e la manifestazione viene dispersa con la violenza. Gli operai comprendono ben presto che non ci si può limitare a chiedere quella dignità e quel futuro migliore che reclamano2.

E’ un quadro, quello tratteggiato da Cennevitz, che non può non rinviare immediatamente a La situazione della classe operaia in Inghilterra di Friedrich Engels (1845), al di là delle differenti posizioni teoriche del francese e del sodale di Karl Marx e in cui al posto di Chicago si parla di Manchester. Ma occorre partire da questa ricostruzione, in cui la distruzione dell’ambiente, che quasi sempre ricade principalmente sulle spalle dei poveri, si accompagna a quella dei nativi e delle vite dei proletari immigrati in nome dell’accumulazione capitalistica, per comprendere le origini di un movimento operaio combattivo e determinato cui sia lo Stato che i padroni e i loro infami giornali dichiararono una guerra spietata e senza quartiere ec he proprio con i fatti di Haymarket Square raggiunse il culmine.

Gli operai e i loro rappresentanti coinvolti e condannati in seguito erano tutti, escluso Albert Parsons, immigrati giunti negli Stati Uniti dopo la Guerra di secessione, forse attratti, oltre che dalla promessa di trovar lavoro, anche dalla diffusione di un’idea di libertà individuale e sociale che una volta giunti sul suolo americano avrebbero rapidamente scoperto essere nient’altro che una miserabile invenzione, un’autentica, con linguaggio odierno, fake news.

Mentre Marx ed Engels avevano chiesto ai rappresentanti dei lavoratori e agli operai tedeschi emigrati in America del Nord di combattere in funzione dell’evoluzione di un più moderno sistema di relazioni sociali e di lavoro3, questa non aveva fatto altro che ingigantire gli appetiti degli industriali del Nord senza l’obbligo di mantenere in seguito alcuna promessa. Compresa quella, fatta agli schiavi “liberati” di donare loro «quaranta acri di terra e un mulo» per dare inizio ad una nuova vita come piccoli proprietari e coltivatori di terre, di cui invece si sarebbero appropriati i carpetbagger4. Come scoprirà Samuel Fielden, dopo aver percorso in lungo e in largo gli stati del Sud alla ricerca di un lavoro giornaliero.

Le sue speranze si scontrano rapidamente con la dura realtà. Dopo aver lavorato per qualche tempo in una fabbrica di cappelli di Brooklyn e in un’officina tessile di Providence, finisce poi in una fattoria dell’Ohio per raggiungere infine Chicago, dove partecipa alla costruzione dell’Illinois and Michigan Canal. […] Nell’autunno successivo, s’imbarca su un battello a ruota e scende lungo il Mississippi verso sud, dove l’inverno offre più opportunità di guadagnare un po’ di denaro come
lavoratore giornaliero. Missouri, Tennessee, Arkansas, Mississippi, Louisiana… quello che era un fervente antischiavista scopre che da nessuna parte l’ex schiavo ha ottenuto i 40 acri e il mulo promessi dagli unionisti. Molti anni dopo, racconterà l’esperienza di un nero da poco liberato che aveva incrociato in Tennessee. Come molti altri, anche lui aveva proposto i suoi servizi a un proprietario terriero nella speranza di una giusta remunerazione. Una volta effettuato il lavoro, l’ex schiavo aveva dovuto rimborsare il prestito e il cibo degli animali da tiro, la locazione del terreno e gli attrezzi, così che si era ritrovato debitore ed era stato costretto a lavorare gratuitamente per il suo ex padrone. Il mito della grande nazione libera e fraterna crolla. Samuel Fielden riparte per Chicago. Al suo ritorno, lavora alla ricostruzione della città in gran parte devastata dall’incendio del 18715.

I miti di giustizia, uguaglianza e libertà connessi all’immagina dell’America si sgretolano in fretta agli occhi di chi debba sopportarne leggi (inique) e rapporti e orari di lavoro. Ed è in questo contesto che si svilupperà un vasto movimento di richiesta dela giornata lavorativa di otto ore che sarà uno dei primi ad unificare una classe operaia ancora divisa per nazionalità, categorie e sindacati di mestiere più simili alle corporazioni medievali che a quelli moderni, che da lì prenderanno le mosse. Nulla da stupirsi quindi se tra i “martiri” l’americano Parsons6 sarà anche membro della Massoneria cui erano collegati i Knights of Labor, una delle prime organizzazioni dei lavoratori americani, di cui faceva parte.

Durante la guerra di Secessione, dal 1861 al 1865, Chicago diventa un centro nevralgico dell’economia e le sue fabbriche si dimostrano indispensabili per sostenere lo sforzo bellico degli unionisti. Il Nord ha bisogno di viveri e di armi per le sue truppe; di carne e di acciaio. Ha bisogno della carne dei mattatoi di Chicago per arrivare alla vittoria. E gli stabilimenti Armour lo aiuteranno. In tempi rapidi, l’uomo d’affari Philip Armour mette in piedi un sistema che assicurera una redditività massima alla sua impresa.
[…] Le mobilitazioni operaie si vanno addensando in varie fabbriche, ma soprattutto in questi mattatoi. Grazie alla guerra di Secessione e al suo imperioso bisogno di viveri, i padroni hanno ceduto qualche acro di terra. Bisogna pur mostrare che la guerra non serve solo ad arricchire i Vanderbilt, gli Armour, i Carnegie, i Rockfeller o i Morgan. Occorre provare che non si muore per niente sui campi di battaglia. E’ necessario che la vittoria dell’Unione sia quella del popolo che lavora per una certa idea di America, per una certa idea di giustizia e libertà. Così, dopo la vittoria del Nord, molti Stati adottano ufficialmente la giornata di otto ore, incluso il Congresso per tutti i dipendenti statali. Ma queste misure non diventeranno mai esecutive 7.

Il riferimento ai macelli di Chicago è importante sia dal punto di vista economico che politico e, forse soprattutto, simbolico. Non soltanto lì si sviluppò nei fatti il lavoro “a catena” che poi avrebbe raggiunto la sua forma più smagliante con la catena di montaggio di Taylor e Ford, ma anche perché da lì sarebbero scaturite le mobilitazioni, e la repressione poliziesca, che avrebbero portato ai fatti di Haymarket Square del 4 maggio 1886. Ma il fatto che ancora oggi rappresentino uno dei luoghi di lavoro più pericolosi per numero di incidenti tra i dipendenti di tutto il territorio degli Stati Uniti non fa altro che rafforzare l’immagine di uno sviluppo capitalistico che è sempre passato come un rullo compressore su ogni forma di vita, umana e animale, senza alcun rispetto per l’ambiente e la società.

Anche per questa chiarezza di visione, forse, il movimento de lavoratori statunitensi, ancor prima di darsi organizzazioni politiche e sindacali comuni, si attrezzò militarmente dando vita a milizie armate aventi il compito sia di proteggere le manifestazioni e gli scioperi che di reagire adeguatamente alla violenza dello Stato, delle milizie private e della polizia.

Negli Stati Uniti, l’appartenenza a una milizia era una cosa piuttosto comune dopo la guerra d’Indipendenza e testimoniava del patriottismo dei suoi aderenti. A Chicago, le milizie operaie tedesche, irlandesi o ceche prendono slancio dopo il grande sciopero del 1877, in risposta alla repressione feroce condotta dalle guardie private assoldate da Marshall Field o George Pullman. Soltanto a Chicago, la Lehr und Wehr Verein8 conta diverse centinaia di membri suddivisi in quattro sezioni che si riuniscono ogni settimana per la formazione, per le esercitazioni e talvolta persino per le simulazioni di scontri. Su pressione degli imprenditori piu ricchi, la Corte suprema dell’Illinois vieta le sfilate armate che non abbiano avuto l’autorizzazione del governatore. Alcuni gruppi vengono sciolti e altri passano alla clandestinità9.

E’ anche per questo che i giornali di Chicago più vicini agli interessi degli industriali si scatenano, in ogni occasione, nell’indicare i militanti rivoluzionari come individui da eliminare oppure giungendo a suggerire di avvelenare i poveri per superare la crisi suscitata dall’eccessiva disponibilità di manodopera impossibilitata a trovare impiego.

Così, ogni volta, l’azione degli agenti della Pinkerton, della polizia o della guardia nazionale si fa sempre più violenta, causando morti e feriti tra i manifestanti, Che pure vanno avanti con le loro richieste, adeguandosi al livello di scontro messo in atto dalla parte avversa. Ma anche se tra le differenti organizzazioni politiche e sindacali non c’è sempre accordo sull’uso o meno della violenza, non sarà questo a guidare i giudici nel condannare gli otto militanti cicagoani.

Perché per il padronato non si tratta soltanto di una questione di posizioni politiche espresse o di azioni effettivamente svolte, ma solo ed esclusivamente di classe. E chi appartiene a quella proletaria, se resiste agli abusi anche soltanto esprimendo le proprie idee, deve essere punito duramente, schiacciato, eliminato una volta per tutte. Come già era successo ai contadini tedeschi e al loro capo riconosciuto: Thomas Muntzer.

August Spies, ad esempio, secondo il procuratore che conduce l’accusa «sarebbe un “barbaro”, un “selvaggio”, un “analfabeta”, un “anarchico ignorante dell’Europa centrale” incapace di “comprendere lo spirito delle libere istituzioni americane”», così nella sua risposta, il militante di origini tedesche, oltre a citare Goethe, Paine, Jefferson ed Esopo «Fa riferimento anche a Muntzer che, accusato di aver capeggiato una “banda di contadini saccheggiatori e assassini”, pagò con la vita l’essere insorto contro l’ingiustizia. A distanza di secoli, gli stessi epiteti vengono ancora utilizzati dai potenti per calunniare coloro che hanno osato sfidarli»10.

Così il processo, condotta iniquamente e vergognosamente sotto lo sguardo attento dei maggiori imprenditori di Chicago, potrà avere un solo finale, nonostante i rinvii, gli appelli e le mobilitazioni oltre che lo sforzo degli avvocati difensori e in particolare dell’avvocato Black, eroe rispettato della Guerra di secessione. Forse, come oggi a Gaza, per aver per un attimo smascherato i potenti e i loro vili scherani.

Dopo l’esplosione dell’ordigno e la susseguente sparatoria su Haymarket Square: «I poliziotti sono scioccati. Quasi settanta agenti colpiti, sei dei quali gravemente, e uno di loro e morto sul posto. Sono stati colti di sorpresa. Sono andati in panico e hanno sparato in ogni direzione, colpendo anche i loro colleghi. Alcuni sono persino fuggiti. E ora, dopo l’umiliazione, in questi uomini abituati a essere temuti cresce il risentimento»11.

Fermiamoci qui, anche se la ricchezza di dati e di personaggi che circondano i protagonisti degli avvenimenti sono davvero tanti ed occorre ricordare come la lotta per la liberazione delle donne e la lotta di classe siano necessariamente e indissolubilmente intrecciate, come ha modo di riflettere Emma Goldman in una delle pagine di Cennevitz in cui viene descritta la sua visita, nel settembre del 1898, all’ormai morente Schwab, per la tubercolosi contratta durante la detenzione.

Sono ormai molti minuti che Emma Goldman tace. Anche lei ripensa alla sua giovinezza, quando all’età di tredici anni deve cominciare a lavorare, mentre avrebbe dovuto studiare […] Dovunque ritrova l’atmosfera feudale dei laboratori di manifattura nei quali le donne diventano prede. Quando, davanti agli occhi servili degli operai, che subito abbassano lo sguardo sul loro lavoro, qualche ragazzina viene trascinata via dal padrone, tutti sanno bene cosa significa. Una madre trattiene le lacrime sotto le palpebre affaticate, la mascella di un padre si contrae, un fratello stringe i pugni nelle tasche. Emma Goldman ha quindici anni quando un caporeparto la violenta. Lei pensa con disgusto a quell’ «incontro fisico brutale e doloroso»12.

La forma di romanzo-saggio permette a Cennevitz di dare vita a una ricostruzione storica di parte che non ha bisogno della presunta obiettività di una ricerca scientifica che troppo spesso ha dimostrato la sua parzialità e neppure di una oggettività paralizzante per il pensiero e per l’azione, contro la quale ha strenuamente lottato Emilio Quadrelli nel corso del suo lavoro13. Suggerendo così, indirettamente, che la storiografia di oggi e domani o sarà radicale e destrutturante oppure altro non potrà fare che certificare l’irrimediabile continuità del modo di produzione dominante. Una radicalità che non va, però, confusa con la semplificazione di carattere ideologico, ma rappresentare un punto di vista “altro” rispetto al discorso scientifico dominante. Anche nei confronti di quello che si pensa essere di “sinistra”.

Da questo punto di vista vale la pena di sottolineare, all’interno del libro di Cennevitz e dei fatti storici narrati, come i tre “ergastolani”, che tali furono per aver accettato di scrivere una lettera in cui prendevano le distanze non solo dall’attentati, cui tutti si dichiararono comunque estranei, ma soprattutto dalla professione di violenza esercitata in alcuni articolo e volantini pubblicati nei giorni precedenti il 4 maggio, mai furono visti dagli altri condannati e da buona parte del movimento anarchico dell’epoca come dei traditori. Prova ne sia la commossa visita di Emma Goldman al capezzale di Michael Schwab di cui si è già parlato poc’anzi. All’interno di un proletariato che ancora ricordava come fosse “l’arte della dissimulazione tanto necessaria nella vita” dei poveri14, motivo per cui una posizione intransigente nei confronti dell’avversario, ma ben diversa da quelle espresse frettolosamente dalle ideologie degli ultimi decenni per separare i “puri” dai traditori”, non poteva dimenticare che la militanza politica soggiace a leggi che sfuggono materialmente a quelle dell’ideologia e al suo preteso e freddo razionalismo etico.

Così, più che il Primo Maggio ufficiale, oggi devastato e prostituito dall’azione dei sindacati ufficiali e dai media, a ricordare i martiri di Chicago possono essere piuttosto azioni come quelle citate, tra le tante altre, alla fine del libro.

5 ottobre 1970. In piena notte, una violenta detonazione frantuma centinaia di vetri nella zona intorno a Union Park. Un anno dopo un precedente attentato con caratteristiche simili, i Weathermen attaccano di nuovo a colpi di dinamite la statua che omaggia i poliziotti caduti a Haymarket Square. L’esplosivo recide di netto una gamba di bronzo che viene ritrovata cento metri piu in la, mentre la statua giace sul dorso lungo la strada, rivolgendo il suo ridicolo gesto di autorità alle impassibili stelle.

1° maggio 2020. A Islamabad i manifestanti non sono numerosi quel giorno. A causa della pandemia di coronavirus, ma anche perché ci vuole molto coraggio per scendere in strada in Pakistan. Alla testa del raduno, una decina di donne rimangono immobili in un piccolo cerchio di gesso bianco tracciato sull’asfalto. Alcune sono velate, altre no. Tutte indossano un’ampia djellaba e una mascherina chirurgica, e inalberano un cartello su cui campeggia uno slogan o il ritratto di un prigioniero politico del quale chiedono la liberazione. Una di quelle donne brandisce un grande pannello rosso sul quale compaiono otto volti che vengono dal passato, quelli di Parsons, Spies, Schwab, Fielden, Neebe, Fischer, Engel e Lingg.
Perché anche nel crepuscolo di un venerdi nero appare sempre un orizzonte luminoso su cui s’intravedono forme di vita piu degne ancora da conquistare.


  1. Athanor (o Atanor) in alchimia è il termine che viene usato per designare il forno il cui calore serve a eseguire il procedimento della digestione alchemica [N.d.T.].  

  2. M. Cennevitz, Verrà il giorno. La origini del Primo maggio, Elèuthera 2025, pp. 12-16  

  3. In proposito si vedano: K.Marx, F. Engels, De America vol.1°. La guerra civile, a cura di E. Forni, Silva Editore, Roma 1971; K. Oberman, Joseph Weydemeyer. Pioniere del socialismo in America 1851- 1866, Edizioni Pantarei, Milano 2002; F. A. Sorge, Il movimento operaio negli Stati Uniti d’America 1783–1892, Edizioni Pantarei, Milano 2002 e H. Schlüter, La prima internazionale in America. Un contributo alla storia del movimento operiao negli Stati Uniti, edizioni Lotta Comunista, Milano 2015.  

  4. Carpetbagger, letteralmente colui che porta una borsa di tessuto dozzinale, è un peggiorativo usato dagli abitanti del Sud degli Stati Uniti per descrivere gli opportunisti e i profittatori che dopo la guerra civile calarono come avvoltoi dal Nord e che furono percepiti come sfruttatori della popolazione locale per il proprio guadagno finanziario, politico o sociale, approfittando dello stato caotico dell’economia locale dopo la guerra. Di fatto, il termine carpetbagger fu spesso applicato a tutti i “nordisti” che erano presenti nel sud durante l’era della Ricostruzione (1865-1877).  

  5. M. Cennevitz, op. cit., pp. 178-179.  

  6. Albert «era fiero dei suoi antenati, passeggeri del secondo viaggio del Mayflower, e dei suoi avi eroi della guerra di Indipendenza. Suo padre dirigeva una modesta fabbrica di scarpe a Montgomery, in Alabama, e aveva sposato una metodista devota che gli avrebbe dato dieci figli. Albert era il più giovane, e quando all’età di cinque anni diventerà orfano, sarà suo fratello William, di vent’anni più vecchio, ad accoglierlo nella sua casa. Sarà l’amorevole zia Esther, una schiava che lo alleva come una madre, a occuparsi di lui,[…] ed è dunque in Texas che Albert crescerà.» (Cennevitz, p. 20)  

  7. Ibidem, pp. 55-57.  

  8. Milizia composta da operai di origine tedesca e militanza socialista o anarchica  

  9. Cennevitz, op. cit., p. 114.  

  10. Ibidem, pp. 135-136.  

  11. Ivi, p. 122.  

  12. Ibid., pp. 88-89.  

  13. Si veda in particolare: E. Quadrelli, György Lukács, un’eresia ortodossa introduzione a G. Lukács, Lenin, DeriveApprodi, Bologna 2025.  

  14. Citazione tratta dalle memorie di un affittuario agricolo francese del diciannovesimo secolo ora in J. C. Scott, Il dominio e l’arte della resistenza, elèuthera editrice 2021, p. 17.  

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Il nuovo disordine mondiale / 29: morto un papa, se ne fa un altro? https://www.carmillaonline.com/2025/05/22/il-nuovo-disordine-mondiale-29-morto-un-papa-se-ne-fa-un-altro/ Thu, 22 May 2025 20:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88591 di Sandro Moiso

Forse no, verrebbe da dire. Proprio per evitare quell’indifferentismo politico che, spacciandosi per radicalismo, non fa altro che impoverire il pensiero critico e le sue riflessioni. Oltre che la potenziale azione di classe. Proprio come Karl Marx si era già preoccupato di denunciare nel 1873, con il suo articolo Contro l’indifferenza in materia politica, scagliandosi contro Proudhon e i suoi seguaci che ritenevano possibile stabilire quali fossero, una volta per tutte, le forme organizzative e le modalità della lotta di classe. Legali e illegali.

Classe considerata in sé, ma che per sé deve poter trarre insegnamenti e [...]]]> di Sandro Moiso

Forse no, verrebbe da dire. Proprio per evitare quell’indifferentismo politico che, spacciandosi per radicalismo, non fa altro che impoverire il pensiero critico e le sue riflessioni. Oltre che la potenziale azione di classe. Proprio come Karl Marx si era già preoccupato di denunciare nel 1873, con il suo articolo Contro l’indifferenza in materia politica, scagliandosi contro Proudhon e i suoi seguaci che ritenevano possibile stabilire quali fossero, una volta per tutte, le forme organizzative e le modalità della lotta di classe. Legali e illegali.

Classe considerata in sé, ma che per sé deve poter trarre insegnamenti e lezioni, sia dalle proprie sconfitte che da quelle dell’avversario e delineare linee di tendenza e successivamente di condotta, sia dallo sviluppo delle contraddizioni nel campo avverso come all’interno del proprio. Perché è una partita solo e sempre a 360 gradi quella che si gioca con il conflitto di classe, in cui non si possono lasciare spazi esclusivi all’avversario.

In questo senso l’occuparsi da antagonisti di scienza, geopolitica, arte militare, cultura e tecnologia e della loro evoluzione non riduce l’opposizione di classe a culturalismo o a dibattito salottiero, ma piuttosto, se non si perde di vista il fine della lotta, ne rafforza e solidifica immagine e compiti. Così vale anche per campi apparentemente avulsi, come quello religioso o dell’elezione di un nuovo pontefice, ma di cui occorre tener conto per comprendere la fase con cui occorre fare politicamente i conti.

Questo, naturalmente, non per rincorrere gli individui e l’Io fetentissimo con cui l’ideologia borghese vorrebbe continuare a determinare l’immaginario e l’azione sociale proponendoli come idoli oppure al pubblico ludibrio. No, non è l’individuo in sé che deve interessare, o peggio ancora affascinare, i futuri affossatori del modo di produzione dominante, ma ciò che l’ha prodotto e le cause materiali delle sue, quasi sempre, prevedibili e inevitabili azioni. Papa o re, primo ministro o rivoluzionario, generale o dittatore oppure presidente degli Stati Uniti che questo sia. Poiché, in fin dei conti, non potrà mai essere una morale dettata dalla classe avversa a determinare il giudizio e la valutazione politica di chi dovrà, comunque, sbarazzarsene.

Ecco allora perché vale la pena di spendere qualche parola sul cambio ai vertici della chiesa cattolica con il passaggio dal pontificato di Francesco I a quello di Leone XIV. Tenendo sempre a mente sia l’insegnamento di Lenin sull’attenzione per la religione (qui) che, a sua volta, traeva spunto dalle riflessioni di Marx sul medesimo argomento.

La miseria religiosa è da una parte l’espressione della miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, l’anima di un mondo senza cuore, così com’è lo spirito di una condizione di vita priva di spiritualità. Essa è l’oppio per il popolo. La soppressione della religione quale felicità illusoria del popolo è il presupposto della vera felicità. La necessità di rinunciare alle illusioni circa la propria condizione è la necessità di rinunciare ad una condizione che ha bisogno dell’illusione. La critica della religione è, quindi, in germe la critica della valle di lacrime di cui la religione è l’aureola sacra (K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione).

Quello, però, che l’individuo borghese non potrà mai comprendere è la dialettica inerente alle due definizioni che Marx dà della religione nel testo appena citato, l’essere “oppio dei popoli” e, allo steso tempo, il “sospiro”, oppure come si dice in altre parti il “gemito”, della creatura oppressa. Dialettica in cui resta sotteso che la scomparsa della religione dall’orizzonte degli oppressi non può appartenere soltanto ad un atto volontaristico o ad un editto di un governo borghese, ma al rovesciamento dell’oppressione materiale che diventerà anche stravolgimento dell’oppressione intellettuale. Senza il primo non può avvenire il secondo, pena la rivolta degli ultimi contro chi pretenderebbe di liberarne la coscienza senza liberarli dalle condizioni materiali di sfruttamento e miseria, sia economica che culturale.

Anche se ad un lettore poco attento questo potrebbe sembrare lontano dal “sentire” attuale di ciò che si vuole definire antagonismo, in realtà ha molto a che fare con il cambio della guardia che è avvenuto ai vertici della chiesa con la morte di Bergoglio. Papa di cui già in passato ci si era occupati su Carmilla (qui), proprio per le perplessità suscitate sia in ambito ecclesiastico che politico dalla sua ferma opposizione alla guerra, o alle guerre, del capitale, senza aggettivi e senza distinzioni di lana caprina tra pace o guerra giusta oppure tra guerre di difesa o di aggressione.

Un tema di cui si è occupato anche, in tempi più recenti, uno scritto apparso dopo la sua morte (qui), largamente condivisibile soprattutto per quanto riguarda la valutazione “politica” dell’opposizione espressa da una parte importate della base cattolica nei confronti della guerra. Ma tutto questo, naturalmente, non prelude ad una celebrazione del papa appena scomparso o ad una sua agiografica rivalutazione ideale. Tutt’altro, poiché l’analisi, come si diceva in apertura, dell’azione di un singolo individuo, per quanto significativo sul piano politico e/o culturale, non può mai prescindere dalle forze che l’hanno prodotto e di cui è manifestazione.

A differenza di tanta sinistra “smarrita” che, ad ogni piè sospinto, cerca di individuare un nuovo punto di riferimento, un nuovo modello se non un nuovo ipotetico leader che sappia dire o fare ciò che altrimenti non sarebbe più in grado di fare essa stessa, l’interesse per la figura di Francesco I si limita, almeno per chi qui scrive e anche se non è certamente cosa da poco, alla sua valutazione come strumento per l’opposizione alla guerra imperialista in tempi in cui si rende necessario marcare un’obbligatoria separazione tra coloro che credono che quest’ultima costituisca una questione dirimente per la lotta di classe e coloro che, con distinguo e peana per la libertà basata sugli ideali dell’Occidente liberale, altro non fanno che travestire da pacifismo ciò che altro non è che schieramento con uno dei fronti imperialisti in guerra.

Di tutt’altro avviso sembra essere invece, anche se mascherato dai media e dallo stesso nuovo pontefice come continuatore del pontificato precedente, l’inizio di Leone XIV la cui intronizzazione è stata immediatamente accompagnata da un entusiasmo mediatico ed europeista che non può far altro che far arricciare il naso ad un osservatore attento. A partire da quell’esaltazione di una sua presunta presa di posizione anti-trumpiana, utile sicuramente ai volenterosi di questi giorni e della sua preparazione di carattere teologico dovuta alla sua provenienza dalle fila degli agostiniani.

Certamente non tocca all’autore di queste righe disquisire sulla preparazione o meno del suddetto papa dal punto di vista della dottrina, ma ciò che occorre sottolineare è che le stesse caratteristiche sono state in precedenza attribuite a Benedetto XVI, papa sicuramente di tendenze e posizioni molto distanti da quelle del suo successore Francesco I, che provenendo dalle fila dei gesuiti non poteva comunque essere certamente meno edotto in materia di dottrina e cultura cattolica.

Basti qui osservare che il contenuto dell’omelia dell’intronizzazione non ha riguardato la fine della guerra tout court, ma il raggiungimento di una pace giusta in Ucraina. Formula che, come ha già in precedenza spiegato bene Domenico Quirico sulle pagine della «Stampa», non può preludere ad altro che a una continuazione della guerra considerato che la pace raggiunta per porre fine ad un conflitto non può essere giusta o sbagliata, ma soltanto avere inizio da un cessate il fuoco sulle linee raggiunte dai contendenti nel corso di un conflitto.

Conflitti in cui, di solito, c’è un vincitore e un vinto, indipendentemente dalle simpatie che possano ispirare i due a chi ne studia le mosse. Se non si tiene conto di questa “regola aurea” della diplomazia bellica non vi può essere alcuna trattativa possibile, perché se da un lato testimonia la volontà, in questo caso cieca, di continuare il conflitto da parte del vinto, dall’altra non può che acutizzare la tendenza dall’avversario a continuare la guerra “di conquista”.

Mai abbiamo sentito, tra le parole del papa precedente, la definizione di pace giusta, ma soltanto inviti alla pace ad ogni costo. Lezione già appresa e sviluppata da un uomo ben distante dalla fede religiosa come Lenin che, nel 1918, a Brest-Litovsk, accettò condizioni di pace che lasciavano alle truppe degli imperi centrali un’ampia porzione di territorio russo, pur di raggiungere l’obiettivo che, sostanzialmente, aveva costituito l’elemento cardine della rivoluzione di ottobre: quello della cessazione immediata della guerra, dei suoi massacri e delle sue distruzioni.

Eppure, eppure…una figura tutt’altro che equidistante, a differenza di Francesco I, dalle parti coinvolte nella guerra1 viene oggi entusiasticamente indicata dai media italiani come possibile “mediatore” per il conflitto in corso ai confini orientali d’Europa

Dovrebbero bastare questi pochi riferimenti per comprendere come l’attuale coro di lodi per la figura del nuovo papa sia per lo meno sospetta e, anzi, come sia in corso, a pochi giorni dalla sua scomparsa, una sorta di rimozione dell’opera del predecessore, travestita da elogio al suo pontificato, confuso però con le premesse di quello attuale. Mentre è stata proprio quella posizione, sostanzialmente la più radicale, di Francesco a decretarne fondamentalmente la solitudine degli ultimi anni, destinata a metterlo a tacere e costringerlo a fare “il gran rifiuto”, cui si è testardamente sottratto fino alla fine, ancor prima della morte.

Certo, né l’uno né l’altro dovrebbero influenzare la pratica militante dell’anti-militarismo di classe, ma è certo che l’attuale differenza di governance della Chiesa potrebbe influire in maniera sostanziale su quell’immaginario diffuso, spesso cattolico, che fa sì che un parte significativa e maggioritaria di cittadini italiani ed europei si opponga ancora sia al conflitto che a un coinvolgimento diretto nello stesso.

Diventa, in questo caso, l’azione papale uno strumento di pressione che, pur ammantandosi di equità chiedendo anche una pace giusta per Gaza e i palestinesi, ma senza avere effetto alcuno sulla strage di gazawi portata avanti da Netanyahu e dal suo governo criminale, è sostanzialmente orientato a convincere una parte del fedeli, oggi in gran parte ancora contrari alla partecipazione al conflitto in Ucraina, della necessità di volgersi in direzione di una pace diversa da quella possibile e, quindi nella sostanza, ad una continuazione della stessa attraverso una partnership più marcata, di quanto già non sia, e attiva sul piano militare come quella su cui puntano i guerrafondai Macron, Starmer e Merz. Che, dopo aver assistito al diniego di Trump nei loro confronti e delle proposte di maggior impegno della NATO, oggi cercano una giustificazione al loro bellicismo nascondendosi sotto le bianche sottane pontificali.

Questo e nient’altro deve spingere gli antagonisti a guardare con sospetto sia al nuovo pontefice che al tentativo di presentarlo come un continuatore delle politiche di quello precedente che pur ebbe almeno sempre il coraggio di parlare di Terza guerra mondiale a pezzi, quasi fin dall’inizio del suo pontificato. In un momento in cui, come qui chi scrive ha ripetutamente affermato, la questione della guerra imperialista, della sua estensione e del rifiuto della stessa diventa dirimente, indipendentemente dalle simpatie per le differenti parti, governi e nazioni coinvolte.


  1. In una una intervista del 2022, rilasciata a un canale tv locale peruviano, il nuovo Papa Leone XIV parlava tra le varie cose della guerra tra Ucraina e Russia. Affermando: “Vengono fatte tante analisi, ma dal mio punto di vista – diceva Prevost – si tratta di un’autentica invasione imperialista in cui la Russia vuole conquistare un territorio per motivi di potere e per ottenere vantaggi per sé”. E proseguiva sostenendo che “si stanno commettendo crimini contro l’umanità”. Prevost predicava anche la necessità di essere “molto chiari”, perché “alcuni politici, anche del nostro paese, non vogliono riconoscere gli orrori di questa guerra e il male che la Russia sta commettendo in Ucraina”. Fonte: https://www.virgilio.it/notizie/cosa-diceva-papa-leone-xiv-della-guerra-tra-ucraina-e-russia-quando-era-vescovo-le-parole-di-prevost-1677934  

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Economia neoclassica: una rete che non prende pesci https://www.carmillaonline.com/2025/05/21/economia-neoclassica-una-rete-che-non-prende-pesci/ Tue, 20 May 2025 22:01:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88585 di Luca Cangianti

Francesco Schettino, Socializzare i profitti. Le leggi generali dell’economia politica nell’era dell’Antropocene, pref. Clara E. Mattei, Meltemi, 2025, pp. 262, € 20,00.

Alcune parti del pensiero di Karl Popper sono sicuramente discutibili, specialmente in ambito politico. Però la metafora delle teorie scientifiche che sarebbero reti gettate sul mare della realtà per afferrare i «fatti» mi sembra suggestiva. Certo, è stato detto che a ben vedere i «pesci» stessi sarebbero prodotti (piuttosto che pescati) da tali reti, e che, a seconda della rilevanza del pesce, i pescatori sarebbero indotti a mutar metodo di pesca. Fatto sta che intorno al 1870 gli [...]]]> di Luca Cangianti

Francesco Schettino, Socializzare i profitti. Le leggi generali dell’economia politica nell’era dell’Antropocene, pref. Clara E. Mattei, Meltemi, 2025, pp. 262, € 20,00.

Alcune parti del pensiero di Karl Popper sono sicuramente discutibili, specialmente in ambito politico. Però la metafora delle teorie scientifiche che sarebbero reti gettate sul mare della realtà per afferrare i «fatti» mi sembra suggestiva. Certo, è stato detto che a ben vedere i «pesci» stessi sarebbero prodotti (piuttosto che pescati) da tali reti, e che, a seconda della rilevanza del pesce, i pescatori sarebbero indotti a mutar metodo di pesca. Fatto sta che intorno al 1870 gli economisti hanno cambiato le loro attrezzature di pesca e oggi si insegna quasi esclusivamente il paradigma neoclassico. Tutto il resto è relegato nei pressi dello sgabuzzino delle scope e dileggiato come «eterodossia». Gli eretici però esistono e ciclicamente tornano all’attacco, perché il pesce portato a tavola è piuttosto insipido. In tale contesto, Socializzare i profitti di Francesco Schettino è una scialuppa di salvataggio per tutti i lettori curiosi di capire meglio cosa c’è dietro i manuali patinati che si studiano nelle facoltà di economia di tutto il mondo.

Il libro si prefigge di smontare il paradigma ortodosso e mostrare cosa non va. L’oggetto dell’economia neoclassica è costituito dall’efficienza, ovvero dall’allocazione ottima di risorse scarse. L’autore a tal proposito mette in evidenza una omomorfia tra la teoria e il suo oggetto: il capitalismo, «pur avendo… impresso una accelerazione “mostruosa” alla produzione di merci a livello mondiale, trae origine e incrementa il suo sviluppo quando non c’è abbondanza. In effetti, se si osserva la genesi storica del modo di produzione, e si guarda, in particolare, al processo della cosiddetta accumulazione originaria… ci si accorge che alla sua base c’è stato un processo che ha smantellato la disponibilità diffusa di beni comuni, creando artificialmente la scarsità di possibilità economiche, attraverso le enclosures».
L’unità d’analisi del paradigma dominante è costituita dagli individui-consumatori che agiscono secondo criteri di razionalità soggettiva. Il capitalista possessore di stock di capitale viene posto allo stesso livello del possessore di capacità imprenditoriali, del rentier e del possessore di forza-lavoro. Ognuno dà il suo contributo alla produzione. La scuola neoclassica riduce gli elementi della spiegazione a un comune denominatore, all’essere utili o disutili e quindi scambiabili. Ciò rende possibile l’applicazione diffusa del ragionamento algebrico. Il prezzo ha natura relativa, mentre il valore è trattato soggettivamente e dipende dall’intensità del desiderio; è una relazione mentale tra individuo e merce e, ovviamente, astrae dai processi sociali.
Con questo tipo di rete, valore, distribuzione, crisi e sfruttamento – oggetti delle ricerche degli economisti appartenenti alla precedente scuola classica (Smith, Ricardo e Marx) – scivolarono via nelle profondità oceaniche. Contemporaneamente le nozioni di razionalità, di concorrenza perfetta e allocazione ottimale delle risorse offrirono un tono di scientificità positivista. Fu così che dalla political economy (come sociology, history e psychology) si passò all’economics (come physics e mathematics). Ciò che restava di politico era l’occultamento della dimensione politica dell’economia: la scienza economica, malgrado i progressi tecnici che la svolta neoclassica apportò, subì un impoverimento esplicativo. Schettino infatti mette in evidenza come l’approccio meanstream fallisca nello spiegare i fenomeni socio-economici più rilevanti che abbiamo di fronte agli occhi: le strutturali crisi cicliche, il prosperare dei monopoli a detrimento della tanto decantata concorrenza, l’assurda – ma funzionale dal punto di vista del dominio politico – polarizzazione economica tra ricchissimi e poverissimi in un mondo di crescente abbondanza, l’assottigliarsi dei ceti medi, le guerre commerciali e quelle fatte con i missili e i droni.

Nel quinto capitolo, infine, l’autore sfida il Moloch del Tina (there is no alternative) e abbozza arditamente alcune caratteristiche che una società postcapitalista dovrebbe avere per affrontare le catastrofi contemporanee (sfruttamento, polarizzazione sociale, disoccupazione, monopoli, degrado ambientale, tendenza strutturale alla guerra). Tale nuova formazione economico-sociale dovrebbe basarsi principalmente su cinque elementi: «a) il passaggio a un’economia in cui il valore d’uso sia prioritario e dunque al centro della produzione economica; b) riduzione dell’orario di lavoro anche per migliorare la qualità della vita; c) modificare la divisione standardizzata del lavoro, riportando creatività sul posto di lavoro, coerentemente con quanto sosteneva Marx (1891) nella Critica al programma di Gotha per cui la società futura non vedrà più i lavoratori “schiavi della divisione del lavoro” che diverrà “la principale necessità vitale e non solo un mero mezzo di sostentamento”; d) democratizzazione del processo produttivo anche rallentando l’economia; in altre parole in luogo del dispotismo del capitale si porrebbe la cooperazione e l’associativismo tra lavoratori; e) fornire la corretta rilevanza ai lavori essenziali come quelli di assistenza e cura.»
Lo strumento principe per conseguire questi obiettivi viene individuato in una pianificazione capace di coordinare a priori le decisioni d’investimento e non a posteriori come fa il mercato mediante le fluttuazioni dei prezzi relativi. Ciò limiterebbe le storture legate alla massimizzazione del profitto e permetterebbe di tener conto dei bisogni sociali.

Schettino mette bene in chiaro che si tratta di esperimenti mentali e non «ricette per l’osteria dell’avvenire». Lo sviluppo storico della conflittualità sociale, sia nel bene che più spesso nel male, è sempre più incredibile della più azzardata proiezione fantascientifica e le nuove istituzioni (rivoluzionarie o reazionarie che siano) nascono nel corso della lotta. Ecco perché è difficile scrivere ricette prima di accendere i fuochi sotto le padelle.

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György Lukács, un’eresia ortodossa / 4 – Il partito e la dialettica marxiana https://www.carmillaonline.com/2025/02/02/gyorgy-lukacs-uneresia-ortodossa-4-il-partito-e-la-dialettica-marxiana/ Sun, 02 Feb 2025 21:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85799 di Emilio Quadrelli

Il terzo paragrafo del breve saggio è dedicato alla questione del partito e alla sua funzione direttiva nel processo rivoluzionario, qui Lukács offre la più chiara e nitida esposizione della teoria leniniana del partito che il movimento comunista abbia mai elaborato. Ma proprio detta esposizione sarà oggetto di non poche critiche e censure. Perché? Lukács, in piena continuità con Lenin, non fa altro che subordinare la forma partito alla dialettica marxiana. In altre parole, considerando, e non potrebbe essere altrimenti, il partito un prodotto storico lo pone continuamente al vaglio dell’unica forma di sovranità che la dialettica [...]]]> di Emilio Quadrelli

Il terzo paragrafo del breve saggio è dedicato alla questione del partito e alla sua funzione direttiva nel processo rivoluzionario, qui Lukács offre la più chiara e nitida esposizione della teoria leniniana del partito che il movimento comunista abbia mai elaborato. Ma proprio detta esposizione sarà oggetto di non poche critiche e censure. Perché? Lukács, in piena continuità con Lenin, non fa altro che subordinare la forma partito alla dialettica marxiana. In altre parole, considerando, e non potrebbe essere altrimenti, il partito un prodotto storico lo pone continuamente al vaglio dell’unica forma di sovranità che la dialettica marxiana riconosce: la lotta di classe. Non avevano forse detto Engels e Marx che l’unica scienza che riconoscevano era la scienza storica? Ma questa scienza non scientista non era forse determinata dai conflitti delle classi? Non era forse la soggettività di classe a essere l’elemento costitutivo e costituente della scienza marxiana? Ma questo, allora, non significa, senza ambiguità di sorta: la strategia alla classe, la tattica al partito? Questo il nocciolo della questione. Il partito non può chiamarsi fuori dalla dialettica storica, quindi non può rimanere separato e immune da ciò che, in maniera spontanea, la classe pone all’ordine del giorno.

Ciò che Lukács pone al centro di questo paragrafo è esattamente il legame dialettico tra partito e classe. Una relazione che, di fatto, negano tanto le concezioni riformiste e revisioniste alla Bernestein, quanto quelle rivoluzionarie alla Luxemburg, tutte incentrate sulla spontaneità. Ma cosa lega ciò che, in apparenza, appare non solo distante ma addirittura incommensurabile? Perché, andando al sodo, riformismo e spontaneismo non sono che due facce della stessa medaglia? Ciò che qui entra immediatamente in gioco, ancora prima della concezione del partito (questa alla fine ne sarà solo un semplice riflesso) è la visione del processo storico. Da un lato, quello che possiamo individuare come asse riformismo–spontaneità, vi è un’idea sostanzialmente evoluzionista del divenire storico per l’altra, quella riconducibile alla teoria leniniana, la storia è sempre frutto di conflitti di classe aperti e mai storicamente già determinati. Da un lato, quindi, il determinismo scientista, dall’altro la determinatezza della soggettività. Da una parte la scienza marxiana dall’altra lo scientismo positivista. Per Bernstein la funzione del partito, in piena coerenza con il suo evoluzionismo determinista e positivista, non può che limitarsi al ruolo dell’accompagnatore. In un percorso storicamente già tracciato, il compito del partito non può che essere quello del gestore di quanto già esplicito dentro la realtà. Il partito, quindi, non deve esercitare alcun surplus politico, farlo vorrebbe dire avere la pretesa di forzare il cammino storico e anteporre il treno della soggettività all’oggettività della storia. Da questo, e in fondo con piena coerenza, l’accusa a Lenin di blanquismo e giacobinismo1.

Accuse che, pur se apparentemente con segno diverso, ritroveremo nella critica luxemburghiana e, in maniera ancora più marcata, da parte di tutto quel filone comunemente noto come consiliare o comunista di sinistra2. Certo, tanto Luxemburg quanto i comunisti di sinistra non negano la necessità della rivoluzione e fanno interamente loro l’assioma marxiano: La violenza è l’ostetrica della storia, ma, proprio in virtù di ciò, considerano il partito di Lenin inutile e persino dannoso. Centrale in tutto ciò è la classe la quale, nella sua evoluzione/trasformazione spontanea, governa autonomamente il processo storico–rivoluzionario. Se per i riformisti l’evoluzione storica conduce oggettivamente, e potremmo aggiungere spontaneamente, al socialismo per Luxemburg e comunisti di sinistra la classe, attraverso una sua maturazione, arriva spontaneamente e unitariamente, il che non è poi così concettualmente distante dall’evoluzionismo riformista, alla rivoluzione e, a quel punto, la funzione del partito diventa inutile, almeno sotto il profilo della direzione politica poiché la classe si dirigerà da sola. Non solo. Questo processo sarà talmente diffuso e di massa, ovvero i livelli di coscienza di classe saranno così generalizzati e sostanzialmente uniformi, che l’esercizio della forza, ovvero la dittatura rivoluzionaria e il terrore rosso organizzati intorno al partito, saranno un fatto obiettivamente controrivoluzionario e qui non vi sono divergenze politiche ma presupposti filosofici diversi. Il problema e le differenze stanno a monte poiché diversi, distanti e incommensurabili sono i presupposti che stanno alla base della teoria leniniana e quelli che fanno da sfondo a tutti i suoi critici. In tutto ciò la diversa articolazione di una linea politica non è frutto di alcuna contingenza temporanea che, in qualunque momento, potrebbe portare a ritrovate unità, bensì la diversità incommensurabile propria di punti di vista non conciliabili. Il modo in cui, tanto da destra quanto da sinistra, i critici si posizioneranno nei confronti dell’ottobre e del coevo terrore rosso3. mostreranno come non la forza delle idee ma la materialità delle cose siano all’origine della suddivisione dei campi dell’amicizia e dell’inimicizia.

La linea di demarcazione è quanto mai rigida: da una parte il meccanicismo e l’oggettivismo di riformisti e comunisti di sinistra, dall’altro la dialettica storica marxiana. Da questa, in fondo, occorre sempre partire. La solitudine in cui Lenin il più delle volte si ritrova sarà, come vedremo a proposito della guerra imperialista, pressoché assoluta e racconta qualcosa di non secondario: la sua è la solitudine del punto di vista proletario dentro un mondo egemonizzato da tutti i punti di vista delle diverse sfaccettature del mondo borghese: è la solitudine della filosofia della prassi in lotta mortale con tutta la filosofia.

Se l’importanza di Lenin, come i suoi adulatori e critici hanno continuamente provato a evidenziare, si limitasse alla sfera politica, a distanza di anni non saremmo ancora qui a ragionare su di lui ma ciò che vale per Marx, vale per Lenin. Se Marx fosse stato un semplice economista, uno storico di valore o un politico particolarmente arguto ma non avesse segnato il mondo con una filosofia in grado di indicare per intero e per sempre il tempo storico, nessuno, se non per fini puramente dottrinali ed eruditi, prenderebbe in continuazione le sue opere tra le mani. Se ciò accade è perché questo pensiero, che non è mai un pensiero individuale ma sempre storico, ha offerto strumenti o meglio ancora, un metodo la cui attualità non decade. Paradossalmente, ma forse solo per chi lo approccia in maniera superficiale e non ne coglie così il portato complessivo, la battaglia di Lenin per il partito è quanto di meno organizzativo e pratico e quanto di più teorico e filosofico, vi sia.

La polemica di Lenin con tutto il movimento socialdemocratico e operaio dell’epoca non fa altro che reiterare le radicali divergenze di Marx ed Engels con i socialisti a loro coevi e la loro polemica verso questi fu, in apparenza, non solo puntigliosa ma persino ossessiva così come, e questo ancor più indicativo, la polemica con tutto quel mondo progressista fuoriuscito dal movimento hegeliano occupò non poco del loro tempo4. Ma quello che, a uno sguardo distratto, poteva apparire un gusto al limite del maniacale per la schermaglia intellettuale, celava una battaglia di ben altro tenore e spessore. In gioco vi era la messa a punto di uno strumento teorico–filosofico che doveva supportare tutto un moto storico il cui senso si cominciava appena a cogliere. In quel contesto dovevano essere messe a punto quelle armi della critica senza le quali la critica con le armi è destinata a soccombere. Se osservata sotto questa luce, allora, tutta la battaglia di Lenin per il partito assume una veste che si emancipa velocemente dagli orizzonti puramente organizzativi poiché, attraverso il partito, si tratta di mettere in relazione le armi della critica con la critica con le armi e pertanto porre l’accento sulle armi della critica diventa persino ovvio. Questa la distanza incommensurabile tra Lenin e tutti gli altri. La partita è tra la dialettica marxiana e la sua negazione, non su quanta importanza debba avere il Comitato Centrale. Chiuso questo prolungato ma doveroso inciso, torniamo a osservare il dibattito intorno al partito.

Per gli anti leniniani si potrebbe dire che il partito serve nella fase prerivoluzionaria come fattore illuminante, ma che decade nel momento in cui la classe approda alla rivoluzione. A caratterizzare entrambe queste due ipotesi è l’evoluzione oggettiva e spontanea in cui il passaggio storico viene a darsi. Insieme a ciò, e questo molto di più tra i cultori della spontaneità rivoluzionaria che tra gli esegeti del gradualismo riformista, vi è un’idea monolitica e sostanzialmente idealista della classe, questa, infatti, in seguito a una condizione storica determinata, approda a una coscienza di classe rivoluzionaria in blocco e, in virtù di ciò, sarebbe in grado di portare a termine il processo rivoluzionario autonomamente senza dover ricorrere a una qualche forma di direzione che non sia la direzione della classe stessa. In questo modo, palesemente, viene fatto rientrare dalla finestra quanto era stato cacciato dalla porta. A diventare essenziale, in pieno stile menscevico, diventa il livello medio della coscienza di classe poiché, accettando tale ottica, solo questa condizione mediana è in grado di unire la classe. A non essere compreso è quanto, all’interno delle dinamiche del conflitto di classe, a essere determinanti siano comunque e sempre i settori avanzati della classe e non la sua media statistica.

Da sempre, in ogni situazione di conflitto, è solo e unicamente una minoranza significativa a prendere l’iniziativa e a trascinare le masse medie. Le rivoluzioni sono sempre opera di una minoranza di massa ma una minoranza in grado di cogliere l’occasione che un determinato contesto offre5. Di più: l’azione di questa ha sempre i tratti di un cominciamento e non quelli di un millimetrico progetto studiato a tavolino. “Si comincia… poi si vede!” Appunto, ma ciò che in questa concezione viene soprattutto elusa è la funzione cosciente del partito la quale, è tale, proprio perché poggia sulla triade marxiana prassi/teoria/prassi. Questo, a conti fatti, sembra essere il vero nocciolo della questione e non si tratta certo di cosa da poco. Solo comprendendo ciò, e assumendolo completamente come mostra Lukács, diventa possibile andare al fondo della teoria leniniana del partito. Lenin sicuramente, come si è visto, non nega che la strategia sia sempre appannaggio della classe mentre ciò che spetta al partito è la dimensione propria della tattica. Volendo si potrebbe risolvere la triade prassi/teoria/prassi in strategia/tattica/strategia e, con ciò, forse le cose diventano più chiare. Dalla prassi che è ciò che le masse esprimono in potenza, attraverso alcune pratiche, ed è quindi riconducibile alla messa in atto di una prospettiva strategica, la teoria, ovvero il partito in quanto elemento cosciente, ricava una tattica la quale viene rimessa nella prassi quindi dentro la strategia della classe che a sua volta rimette in campo una prassi. Ciò che gli spontaneisti non colgono è come questo passaggio dalla prassi alla prassi non può darsi in maniera lineare ed evoluzionista ma necessita di un intermezzo in grado di rendere esplicito e organizzato ciò che la strategia ha posto, ma solo in potenza, all’ordine del giorno. Il partito è l’anello di congiunzione permanente che consente alla prassi di compiere un salto qualitativo.

Quando il partito rimette nella prassi ciò che ha appreso dalle masse lo fa avendo trasformato quella potenzialità politica in tattica insurrezionale ed è questo passaggio politico che restituisce alla classe. In questo modo, e solo in questo, il partito assolve la sua funzione direttiva; ma non solo: centrale, nel ruolo e nella funzione che il partito deve assolvere, è la capacità di leggere, dentro i fatti prodotti dalla classe, la tendenza. Esattamente qui si pone la netta e rigida contrapposizione tra la teoria leniniana del partito e il codismo6 che, pur se in maniera diversa, ne accomuna i critici. Proprio perché la classe non è un tutto omogeneo e i suoi comportamenti assolutamente non lineari e fautori di un unico livello di scontro, occorre saper comprendere, interpretare e visualizzare entro quale tendenza questi si pongono. Si tratta di applicare la dialettica marxiana dentro il conflitto di classe e farlo tenendo sempre a mente che, come ricorda Marx: “É dall’anatomia dell’uomo che si ricava l’anatomia della scimmia”. Ciò significa che, in relazione al conflitto di classe, la tendenza va colta a partire dal punto più alto della conflittualità. Quello e solo quello indica dove si colloca la strategia della classe.


  1. Queste accuse furono rivolte a Lenin da gran parte della socialdemocrazia del tempo. Lo stesso testo Che fare? non risultò immune da tali critiche.  

  2. Le migliori esposizioni teoriche di questa opposizione teorica all’impostazione leniniana rimangono, K. Korsch, Marxismo e filosofia, Edizioni Pgreco, Milano 2012, A. Pannekoek, Lenin filosofo, Edizioni Pgreco, Milano 2016. Per una buona e documentata ricostruzione storica di questa tendenza si veda, E. Rutigliano, Linkskommunismus e rivoluzione in occidente. Per una storia del Kapd, Edizioni Dedalo, Bari 1974.  

  3. Sull’esercizio del Terrore rosso come risposta ai suoi critici di destra e di sinistra rimane insuperabile, L. Trockij, Terrorismo e comunismo, Sugar, Milano 1964.  

  4. K., Marx, F. Engels, La sacra famiglia, Editori Riuniti, Roma 1967.  

  5. Al proposito il modo in cui prese forma la Rivoluzione francese è quanto mai esemplificativo. L’attacco alla Bastiglia, l’evento che diede il la a una delle più grandi rotture storiche, fu opera di circa un migliaio di persone. Cfr., A. Mathiez, G. Lefebrve, La rivoluzione francese, Vol. I, Einaudi, Torino 1997.  

  6. Sul codismo si vedano le argomentazioni di G. Lukács in, Coscienza di classe e storia. Codismo e dialettica, cit.  

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La rivoluzione come una bella avventura / 4: Germania e Stati Uniti 1918-1934 (e oltre) https://www.carmillaonline.com/2025/01/15/la-rivoluzione-come-una-bella-avventura-4-germania-e-stati-uniti-1918-1934-e-oltre/ Wed, 15 Jan 2025 21:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86478 di Sandro Moiso

Paul Mattick, La rivoluzione. Una bella avventura, Asterios Editore, Trieste 2020, pp. 174, 18 euro

Si spiega in questa occasione la scelta del titolo di una serie di articoli che, probabilmente, ha fatto arricciare il naso a diversi elettori. L’accostamento di Rivoluzione e Avventura può infatti aver dato l’idea di una forzatura letteraria ed ideologica nei confronti di un tema serio, o almeno ritenuto tale da coloro che del grigiore politico hanno fatto uno schema esistenziale immemore di tutta la gioia, la passione e di tutto il coraggioso slancio soggettivo insiti e necessari all’interno di un reale [...]]]> di Sandro Moiso

Paul Mattick, La rivoluzione. Una bella avventura, Asterios Editore, Trieste 2020, pp. 174, 18 euro

Si spiega in questa occasione la scelta del titolo di una serie di articoli che, probabilmente, ha fatto arricciare il naso a diversi elettori. L’accostamento di Rivoluzione e Avventura può infatti aver dato l’idea di una forzatura letteraria ed ideologica nei confronti di un tema serio, o almeno ritenuto tale da coloro che del grigiore politico hanno fatto uno schema esistenziale immemore di tutta la gioia, la passione e di tutto il coraggioso slancio soggettivo insiti e necessari all’interno di un reale e vitale movimento rivoluzionario.

A far comprendere tutto ciò cui si è appena accennato è proprio l’”autobiografia” di Paul Mattick uscita alcuni anni or sono per l’editore triestino Asterios nella collana “in folio” con il numero 21 e precedentemente pubblicata in Francia nel 2013 con il titolo La Révolution fut une belle aventure. Des rues de Berlin en révolte aux mouvements radicaux américains (1918- 1934). Edizione da cui è tratta la postfazione di Laure Batier e di Charles Reeve dell’edizione italiana curata da Antonio Pagliarone che è anche autore della prefazione alla stessa. Prima di addentrarci nella lettura dell’avventura rivoluzionaria di Mattick occorre però inquadrare il comunista tedesco nel periodo in cui visse.

Paul Mattick (Slupsk, 13 marzo 1904 – Boston, 7 febbraio 1981) può essere collocato all’interno del comunismo di sinistra, in cui rappresentò uno dei maggiori esponenti di quello cosiddetto consiliarista, critico infatti sia del bolscevismo che dello stesso Lenin il cui pensiero e azione politica erano stati rivolti, a suo dire, sostanzialmente all’ascesa di un capitalismo di stato, controllato attraverso le maglie di uno stato estremamente autoritario e, per certi versi, prossimo al fascismo.

Nato nella Pomerania polacca, al tempo facente parte dell’impero guglielmino, crebbe a Berlino in una famiglia operaia sindacalizzata e politicizzata. A 14 anni, entrò a far parte della Freie Sozialistiche Jugend, la frazione giovanile della Lega di Spartaco fondata da Rosa Luxemburg e Karl Liebnecht. Ed è a questo punto, agli albori della cosiddetta rivoluzione tedesca, che la narrazione delle sue “avventure” ha inizio. Così, nella conversazione con Michael Buckmiller pubblicata in parte come ottavo capitolo del testo, Paul Mattick, a proposito di quei primi anni di militanza giovanile, afferma:

Nel mio percorso non c’è stata nessuna rottura. Come se ci fossero in un primo momento la pratica e il gusto dell’avventura e poi, una volta soddisfatte le condizioni materiali, il lavoro teorico. No, tutto si limitava ad una questione di tempo. Ci mancava proprio questo per capire di più le cose. […] C’era la pratica, ma c’era anche la teoria. Non si entrava nell’organizzazione Freie Sozialistiche Jugend come se si andasse ad un club di ginnastica. […] Comunque sia, se avessimo avuto più tempo per noi, se non avessimo dovuto lavorare molte ore1, è certo che saremmo stati molto più maturi sul piano teorico. Abbiamo cercato, nelle condizioni che ci venivano imposte, di crescere intellettualmente. Ma, nello stesso tempo, c’era un movimento operaio reale, di cui facevamo parte, e che cercava la sua via rivoluzionaria2.

Sono significative queste affermazioni di uno dei più importanti teorici del comunismo di sinistra sull’importanza del legame tra lavoro teorico e prassi rivoluzionaria e su come il primo sia spesso appannaggio di coloro che non devono prestare molte ore alla fatica del lavoro di fabbrica o salariato. Una separazione che troppo spesso ha visto riflettersi anche nelle organizzazioni rivoluzionarie la separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale tipica dell’organizzazione del lavoro di stampo capitalistico. Separazione che soltanto una pratica rivoluzionaria attiva e in un contesto favorevole al suo sviluppo può superare, di cui la pratica consiliarista fu certamente espressione.

In realtà tutto il testo si basa principalmente, come spiegano Laure Batier e Charles Reeve nella Postfazione, su quanto riportato da due interviste concesse da Paul Mattick, a Claudio Pozzoli, il 7 ottobre 1972 ad Amsterdam, e al già citato Michael Buckmiller, dal 21 al 23 luglio 1976 nel Vermont dove risiedeva fin dai pri anni ‘50. Interviste riorganizzate tra di loro, grazie anche al sostegno del figlio del comunista tedesco-americano, Paul Mattick Jr.

Dopo le prime “avventure” giovanili durante le quali il giovane Paul, dopo aver aderito al KAPD (Kommunistische Arbeiterpartei Deutschlands), il Partito comunista operaio tedesco nel quale iniziò a militare nelle fila dell’organizzazione giovanile Rote Jugend scrivendo per il suo giornale, rischiò di essere ancora più volte arrestato e ucciso, rimasto senza lavoro e impossibilitato a trovarlo per motivi “politici” e deluso dalla normalizzazione seguita all’avvento della Repubblica di Weimar il nostro, nel 1926, si vide costretto ad emigrare negli Stati Uniti. Da dove continuò comunque a mantenere i rapporti sia con il KAPD che con l’AAUE (Allgemeine Arbeiter-Union – Einheitsorganisation), l’organizzazione sindacale “unitaria” fondata da Otto Rühle, all’interno della quale aveva precedentemente stabilito contatti con intellettuali, scrittori e artisti che lavoravano per la stessa.

Giunto negli Stati Uniti Mattick avrebbe ritrovare là un’occupazione come operaio, sia dedicarsi agli studi e a quel lavoro teorico che lo avrebbe portato nel giro di qualche decennio a diventare uno dei maggiori esponenti del comunismo di sinistra e dei consigli. Nel fare questo, però, non si allontanò mai dal lavoro organizzativo che si manifestò sia attraverso il tentativo, una volta giunto a Chicago sul finire degli anni Venti, di unire le diverse organizzazioni di lavoratori tedeschi, cercando di far rivivere nel 1931, ma senza successo, il «Chicagoer Arbeiter-Zeitung», un giornale carico di tradizione, sia attraverso il suo avvicinamento, per un certo periodo, agli IWW, gli Industrial Workers of the World, unico sindacato rivoluzionario unitario al di sopra delle differenziazioni di mestiere, categoria o appartenenza nazionale e razziale.

Nel 1934 Mattick, con alcuni apparteneti agli IWW e alcuni militanti espulsi dal PPA, Partito Proletario d’America, fondò il Partito dei Lavoratori Uniti (United Workers Party), poi ribattezzato Gruppo dei Comunisti dei consiglio (CCG). Organizzazione che rimase in stretto contatto con i gruppi i della sinistra comunista sopravvissuti in Germania e pubblicò l’«International Council Correspondence», giornale in cui erano pubblicati articoli e dibattiti provenienti dall’Europa insieme alle analisi economiche ed i commenti politici critici di temi d’attualità negli USA e in altre parti del mondo. Poiché nella seconda metà degli anni trenta il comunismo dei consigli europeo fu costretto a darsi alla clandestinità per poi scomparire formalmente, dal 1938 Mattick cambiò il nome della rivista, di cui era il principale collaboratore, in «Living Marxism» e, dal 1942, in «New Essays».

Nonostante il fallimento dei suoi tentativi di riorganizzare il movimento operaio di quegli anni, Mattick ebbe comunque il modo sia di avvicinarsi maggiormente alle opere di Henrik Grossman sulla teoria della crisi in Marx3, sia di stringere amicizia e collaborare con Karl Korsch, altro teorico della sinistra comunista e non leninista, proprio per il tramite della rivista «New Essays»4.

Fu però, in quegli anni, proprio per l’esperienza prima a fianco del vasto movimento dei disoccupati creatosi negli Stati Uniti a partire dalla Grande crisi del 1929 e negli anni successivi e poi in seguito ai provvedimenti economici e sociali del New Deal roosveltiano, che Mattick maturò e affinò maggiormente le sue analisi sul movimento operaio e la critica al pensiero economico di Keynes e la sua applicazione in chiave riformistica e neo-capitalistica, redigendo una serie di note critiche e articoli contro la teoria e la pratica keynesiane. Lavoro in cui sviluppò ulteriormente la teoria dello sviluppo capitalista di Marx e Grossmann al fine di rispondere criticamente ai nuovi fenomeni e forme del capitalismo moderno..

Pur escluso dai circoli intellettuali legati alle Università e pur trovandosi nuovamente, a partire dal 1940, in gravi difficoltà sia economico-lavorative che personali, Paul riuscì a continuare ostinatamente e, si potrebbe dire, in direzione contraria sia alla fiducia nel riformismo del piano di Roosvelt che del leninismo ormai trasformato in marxismo-leninismo dallo stupro teorico e politico operato in quegli anni dallo stalinismo, a sviluppare un lavoro teorico che ancora alla fine degli anni Sessanta e all’inizio degli anni Settanta lo avrebbe fatto riscoprire sia dai movimenti studenteschi che da quelli radicali di classe sia al di qual che al di là dell’Oceano Atlantico5. E proprio nell’intervista a Lotta Contimua del 1977, egli avrebbe saputo sintetizzare al meglio la sua critica al keynesismo, inquadrandola nella crisi economica della seconda metà degli anni Settanta.

“Prima del 1930 ai periodi di depressione si rispondeva con procedure deflazionistiche, cioè lasciando che le “leggi del mercato” svolgessero il loro compito nell’aspettativa che prima o poi il declino dell’attività economica avrebbe finito col ripristinare l’equilibrio perduto tra domanda e offerta e rilanciato così la redditività capitale. La crisi del 1930, tuttavia, era troppo profonda e troppo estesa per permettere ai modi tradizionali di affrontarla. Si rispose con procedure inflazionistiche, cioè con interventi governativi nel meccanismo di mercato, fino al punto di giungere a una ristrutturazione dell’economia mondiale attraverso una centralizzazione forzata dei capitali nazionali più deboli che con una vera e propria distruzione di una frazione cospicua dei capitali nazionali sia nella forma monetaria che in quella fisica. Finanziato mediante disavanzi pubblici, cioè, con metodi inflazionistici, i risultati erano ancora deflazionistici, ma su un piano molto più ampio di quanto non fosse stato realizzato in precedenza facendo affidamento passivo sulle “leggi del mercato”. Il lungo periodo di depressione e la seconda guerra mondiale, e il conseguente enorme distruzione di capitale, hanno così creato le condizioni per un periodo straordinariamente lungo di espansione del capitale nelle principali nazioni occidentali.
Sia la deflazione che l’inflazione hanno portato quindi allo stesso risultato, una nuova ripresa dei capitali, e successivamente e alternativamente utilizzati nel tentativo per garantire la stabilità economica e sociale appena conquistata. Indubbiamente, è possibile tramite il finanziamento del deficit, cioè attraverso il credito, ravvivare un’economia stagnante. Ma è non è possibile mantenere in questo modo il saggio di profitto sul capitale e quindi perpetuare le condizioni di prosperità. Era quindi solo questione di tempo prima che il meccanismo di crisi della produzione di capitale si ripeta. Ormai è ovvio che la mera disponibilità di credito per espandere la produzione non è una soluzione alla crisi, ma un una politica di ripiego fugace con effetti “positivi” soltanto temporanei. Che, se non seguito da una vera e propria ripresa dei capitali basata su maggiori profitti, deve obbligatoriamente crollare su sé stessa. Il “rimedio keynesiano” ha portato semplicemente a una nuova situazione di crisi con crescente disoccupazione e crescente inflazione, entrambe ugualmente dannose per il capitalismo”.

Sempre allineato con la difesa dell’iniziativa spontanea e cosciente dei lavoratori e contrario all’intervento esterno in chiave partitico-settaria all’interno del movimento operaio, Mattick, nella stessa intervista avrebbe criticato l’ideologia e la pratica della lotta armata, senza rinnegare però la violenza necessaria per la difesa degli interessi di classe oppure per il ribaltamento offensivo delle condizioni dello sfruttamento capitalistico e della sua organizzazione sociale.

“La violenza è immanente al sistema e quindi una necessità sia per il lavoro che per il capitale. La borghesia può governare solo in virtù del suo controllo sui mezzi di produzione, quindi deve difendere questo controllo con mezzi extra-economici, attraverso il suo monopolio sui mezzi di soppressione. Già il rifiuto di lavorare svuota di significato il possesso dei mezzi di produzione, poiché è solo il processo lavorativo che produce il profitto capitalistico. Una “pura” la lotta “economica” tra lavoro e capitale è quindi fuori questione; la borghesia completerà sempre questa lotta con la violenza, dovunque essa minacci seriamente la redditività del capitale. Non consta ai lavoratori di scegliere tra metodi non violenti e violenti di lotta di classe. È la borghesia, in possesso dell’apparato statale, che determina quale sarà in qualsiasi occasione particolare. Alla violenza si può rispondere solo con la violenza, anche se le armi sono estremamente disuguali. Non entra qui in gioco alcuna questione di principio, ma solo la realtà della struttura sociale di classe e dello sviluppo delle sue contraddizioni.
Tuttavia, la domanda che ci si pone è se gli elementi radicali delle lotte anti-capitalistiche dovrebbero prendere l’iniziativa nell’uso della violenza, invece di lasciare la decisione alla borghesia e ai suoi mercenari. Potrebbe esserci situazioni, certo, che trovano la borghesia impreparata e dove uno scontro violento con le sue forze armate potrebbe favorire i rivoluzionari. Ma tutta la storia del radicalismo mostra chiaramente che tali eventi accidentali non sono di alcuna utilità. In ambito militare in termini di condizioni, la borghesia avrà sempre il sopravvento, a meno che il movimento rivoluzionario non sia assume proporzioni tali da incidere sullo stesso apparato statale, scindendo o sciogliendo le sue forze armate. È solo in concomitanza con grandi movimenti di massa, che disgregano totalmente il tessuto sociale, che diventa possibile strappare i mezzi di produzione e con questo giungere alla soppressione delle classi dominanti.
È per questo motivo che è così pericoloso insistere sulla non violenza e fare della violenza il privilegio esclusivo del classe dirigente. Ma qui parliamo di situazioni molto critiche, non come quelle che esistono attualmente nei paesi capitalistici, e anche di forze grandi e sufficientemente armate in grado di condurre la loro lotta per un periodo di tempo considerevole. In mancanza di tale situazioni critiche, tali azioni non sono altro che un suicidio collettivo, non sgradito alla borghesia. Possono essere apprezzati in termini morali o anche estetici, ma non servire al corso della rivoluzione proletaria, se non entrando nel folklore della rivoluzione.”

Tra le sue opere di maggior rilievo vanno infine ricordate Marx and Keynes. The Limits of Mixed Economy del 19696, che venne tradotta in diverse lingue, così come Critique of Herbert Marcuse: The one-dimensional man in class society, saggio sulla celebre opera di Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione (1964), in cui Mattick respinse con forza la tesi di Marcuse secondo la quale il “proletariato”, così come Marx lo aveva inteso, era diventato un “concetto mitologico” nella società capitalista avanzata.

Chi scrive si è allontanato dalle pagine del libro di Mattick e sulla sua esperienza, ma ciò che è indubitabile è il fatto che fino alla fine dei suoi giorni il rivoluzionario comunista guardò il mondo tanto con uno sguardo “oggettivo” rivolto alla comprensione critica dell’esistente e delle difficoltà insite in esso per lo sviluppo di un movimento rivoluzionario quanto con quello limpido e “soggettivo” di chi sogna la più grande e irrinunciabile delle avventure.


  1. Il riferimento è al fatto che Paul Mattick era entrato giovanissimo come apprendista alla Siemens e successivamente, all’età di 17 anni, alla Klöckner-Humboldt-Deutz di Colonia, dove rimase fino al suo licenziamento a causa dell’organizzazione degli scioperi e della partecipazione ai moti insurrezionali che condussero anche al suo arresto.  

  2. P. Mattick, La rivoluzione. Una bella avventura, Asterios Editore, Trieste 2020, pp. 124–125.  

  3. H. Grossman, Il crollo del capitalismo. La legge dell’accumulazione e del crollo del sistema capitalista, Jaca Book, Milano 1976 (ed.originale Das Akkumulations- und Zusammenbruchsgesetz des kapitalistischen Systems. (Zugleich eine Krisentheorie) – 1929.  

  4. Si vedano gli scritti contenuti in P. Mattick, K. Korsch, H. Langerhans, Capitalismo e fascismo verso la guerra. Antologia dai «New Essays» (scritti 1934–1943), a cura di G. Bonacchi e C. Pozzoli, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1976.  

  5. Per quanto riguarda l’Italia, oltre a uelli già citati, si vedano Ribelli e rinnegati. Il ruolo degli intellettuali e la crisi del movimento operaio, (a cura di C. Pozzoli), Musolini editore, Torino 1976; Crisi e teorie della crisi (testi di Paul Mattick, Christoph Deutschmann e Volkhard Brandes; trad. it. di Giuseppe Mininni), Dedalo, Bari 1979; Critica dei neomarxistii (trad. it. di Giuseppe Mininni), Dedalo, Bari 1979 e Il marxismo ultimo rifugio della borghesia? Scritti scelti (a cura di Antonio Pagliarone), Sedizioni, Milano 2008, si veda l’intervista pubblicata sul quotidiano Lotta Continua ancora nell’ottobre 1977 (qui)  

  6. P. Mattick, Marx and Keynes. The limits of the mixed economy, Boston, Porter Sargent Publisher, 1969 (edito in Italia come Marx e Keynes. I limiti dell’economia mista, trad. it. di Luigi Occhionero, De Donato, Bari 1969)  

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Africa nera, rossa e “bianca” https://www.carmillaonline.com/2024/12/11/africa-nera-rossa-e-bianca/ Wed, 11 Dec 2024 21:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85662 di Sandro Moiso

Kevin Ochieng Okoth, Red Africa. Questione coloniale e politiche rivoluzionarie, con una Postfazione di Carlo Formenti. Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 170, 16,00 euro.

“Mi sono convinta che la nostra comune condizione di neri è attraversata dagli effetti delle specifiche condizioni nazionali, di classe e di genere. Schiavismo e colonialismo forniscono il terreno storico sul quale razza, genere e nazionalità hanno scritto diverse versioni di soggettività nera. […] Questa qualità intrinsecamente multipla della soggettività nera richiede attenzione rispetto agli specifici sviluppi storici e discorsivi che hanno generato strategie sociali di subordinazione razziale”. (Denise Ferreira da Silva, “Facts [...]]]> di Sandro Moiso

Kevin Ochieng Okoth, Red Africa. Questione coloniale e politiche rivoluzionarie, con una Postfazione di Carlo Formenti. Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 170, 16,00 euro.

“Mi sono convinta che la nostra comune condizione di neri è attraversata dagli effetti delle specifiche condizioni nazionali, di classe e di genere. Schiavismo e colonialismo forniscono il terreno storico sul quale razza, genere e nazionalità hanno scritto diverse versioni di soggettività nera. […] Questa qualità intrinsecamente multipla della soggettività nera richiede attenzione rispetto agli specifici sviluppi storici e discorsivi che hanno generato strategie sociali di subordinazione razziale”. (Denise Ferreira da Silva, “Facts of Blackness. Brazil is Not Quite the United States… And Racial Politics in Brazil?”, marzo 1998 )

Il testo, appena pubblicato nella collana «Visioni eretiche» della casa editrice Meltemi, ha sicuramente diversi meriti, ma mostra anche alcuni limiti di carattere politico, anche se, per iniziarne la lettura, conviene sicuramente illustrare i primi e presentare l’autore.

Kevin Ochieng Okoth è uno scrittore e ricercatore afro-inglese, fino ad ora mai pubblicato in Italia. Fa parte del Salvage Editorial Collective e collabora con il «London Review of Books». Ha conseguito un PhD in Teoria politica presso l’Università di Oxford e partecipa a conferenze, intervenendo su temi legati all’antimperialismo e ai movimenti anticoloniali del ventesimo secolo. Oltre a ciò, è uno dei fondatori di «Nommo Magazine» e, come si può intendere, fin dalle prime pagine del testo uscito il 22 novembre, il suo intento è principalmente quello di riportare il dibattito e la riflessione sulla moderna “tradizione” dei Black Studies e la Blackness, non soltanto afro-americana, sui binari della lotta di classe, dell’anti-imperialismo e dell’interpretazione marxista delle medesime, enormi e per troppo tempo sottostimate contraddizioni derivanti dalla differenziazione razziale insita nella società capitalistica fin dalle sue origini.

Per raggiungere il suo scopo, l’autore inizia dal “tramonto” dello “spirito di Bandung” – la conferenza tenutasi sull’isola di Giava nell’aprile del 1955, che mirava a costruire un fronte unito dei popoli africani, asiatici e latinoamericani per l’emancipazione dall’oppressione e dallo sfruttamento capitalistici – e dalle susseguenti illusioni create dalla decolonizzazione e i danni provocati dal dominio postcoloniale, per capire se resta oggi ancora una cultura rivoluzionaria nei paesi africani e delle condizioni di un suo possibile rilancio. Anche in un Occidente in cui un certo afro-pessimismo, di origine intellettuale e cattedratica, sembra voler negare qualsiasi possibile risoluzione dei problemi creati da una società profondamente razzializzata.

Infatti, a giudizio di chi qui scrive, è proprio la parte riguardante la critica di certi studi accademici condotti da universitari afro-americani e della concezione ontologica della blackness a costituire il contributo migliore dello studioso afro-inglese tra quelli contenuti nel testo, costituendone la parte forse più ampia. In cui viene sottolineata l’originaria idea di negritudine che ebbe origine tra gli intellettuali africani e antillani o caraibici di lingua francese, emigrati in Francia intorno alla metà del XIX secolo, come base della successiva riflessione sulla condizione “nera”.

Ispirati inizialmente dall’esistenzialismo e amati dagli intellettuali “bianchi” francesi, quasi tutti, dai surrealisti come i coniugi Cesaire fino a Frantz Fanon, dovettero fare i conti con una società che, pur nata sulle basi della Grande Rivoluzione, li trattava o li vedeva ancora e di fatto come ex-schiavi o rappresentanti di una società altra e primitiva, forse ancora pericolosa.

Da quelle annotazioni, che attraversano l’esperienza e la produzione dei teorici dell’iniziale negritudine, uscirono parole di odio e rivolta contro l’ordine “bianco” di cui si erano inizialmente, almeno intellettualmente, fidati. Ma, tutto sommato, escluso forse il caso di Fanon, non la rivolta materiale che toccò sempre, come fin dai tempi della rivoluzione haitiana condotta da Toussaint Loverture contro i dominatori francesi in epoca rivoluzionaria, alle masse sottomesse e sfruttate, uomini e donne che in quanto sauvages per l’ordine costituito riuscivano mettere in crisi l’ordine del discorso dei savants, sviluppatosi a partire dall’illuminismo.

Ed è proprio questo il filo rosso che, dalle origini del colonialismo bianco ed europeo fino agli anni Sessanta e Settanta del Novecento e ancora fino ad oggi, si dipana attraverso le tesi di Kevin Ochieng Okoth, distinguendo lo sforzo di rovesciare materialmente il mondo che ha creato e usato la differenziazione razziale per il proprio ineguale sviluppo da certi pruriti intellettuali, lungamente elencati e le cui tesi sono dettagliatamente illustrate, che vedono nella condizione Nera e nella contraddizione Nero/Bianco un elemento di irreparabile condizione schiavile del popolo africano e delle sue diaspore nei vari continenti in cui fu inizialmente e brutalmente deportato.

Finendo nella maggioranza dei casi col far sì che la protesta intellettuale finisca di rinchiudersi in quello che l’autore definisce come un nuovo afro-pessimismo (AP2.0) oppure di riscoprire in sé una nostalgia per un’Africa idealizzata e mai realmente esistita. Entrambe concezioni a-storiche che non sanno e, forse, non vogliono fare i conti con la Storia e con lo sfruttamento di classe, razza e genere che nella stessa affonda le sue radici.

Il rischio attuale, per l’autore, è infatti costituto dal fatto che il rimuginio di frange consistenti dell’intellettualità accademica, soprattutto afro-americana, sulle proprie condizioni all’interno delle istituzioni e sulle radici schiavistiche del proprio essere sociale e storico, assolutizzate una volta per tutte, finisca col rimuovere, più o meno coscientemente, qualsiasi ipotesi di rovesciamento dell’esistente in nome di una condizione, di fatto, monumentalizzata e resa astratta.

Una posizione lontana sia dall’esperienza del Black Panther Party che da quelle dei movimenti anticoloniali e antimperialisti che tra gli anni Sessanta e Settanta, soprattutto, misero fino al dominio coloniale europeo in Africa e diedero inizio a esperimenti, solo e sempre presuntamente, socialisti all’interno dei nuovi stati sorti da quelle feroci battaglie, politiche e militari, per il raggiungimento dell’indipendenza “nazionale”. L’esperienza, insomma, di tutte quelle iniziative rivoluzionarie che da Kevin Ochieng Okoth sono raccolte sotto la definizione di Red Africa.

Ed è in questa seconda parte del discorso che l’autore mostra una debolezza, propria, nella promozione di una concezione nazionalistica del socialismo “possibile”, che sorge, purtroppo, proprio dalle esperienze e analisi politiche di quel periodo, ancora fortemente influenzato dalla esperienza dei due blocchi, dalla Guerra Fredda e dalla persistente influenza dell’URSS e della Cina su un marxismo che si definì, sull’onda di Stalin degli anni Trenta, marxismo-leninismo e affezionato ancora all’idea del “socialismo in un paese solo”.

Esperienza che servì a travestire delle malferme rivoluzioni borghesi e nazionali da esperimenti socialisti, ma che, nei fatti, deluse e tradì le aspirazioni di liberazione collettiva e uguaglianza economica che avevano spinto gli appartenenti alle classi sociali e ai gruppi etnici meno favoriti ad una lotta che richiese, troppo spesso, grandi sacrifici e contributi di sangue.

Una sorta di illusione che non è possibile attribuire del tutto ad un marxismo originario, non marxista-leninista, che era rimasto troppo spesso all’interno di un’ottica eurocentrica non avendo fatto abbastanza i conti con la condizione coloniale dei popoli sfruttati dall’imperialismo e colonialismo occidentale, poiché sia per Marx, soprattutto, ma anche per altri rappresentanti del pensiero rivoluzionario materialista, la questione era stata tutt’altro che secondaria1.

Certo, come notano oggi gli studiosi, la rigida interpretazione del susseguirsi dei modi di produzione aveva spinto spesso il marxismo verso una concezione unilineare della Storia in cui un’autentica teleologia dello sviluppo e del progresso aveva spinto nel dimenticatoio le forme di produzione, sociali ed economiche, che contro quel modello di sviluppo si erano battute, talvolta con un certo successo. Ma, in fin dei conti, proprio in quella concezione affondavano le loro radici le rivoluzioni degli anni delle grandi lotte anticoloniali, facendo rientrare dalla finestra (lo sviluppo nazionale del mercato e delle attività economiche) ciò che era uscito dalla porta (attraverso la promessa di un’economia più egualitaria basata sulle tradizioni locali).

Kevin Ochieng Okoth fa molto bene a rimarcare più volte come ogni tratto culturale, sociale ed economico-politico, compreso quello delle differenti forme di schiavitù e delle loro conseguenze in ambiti diversi, siano state e siano tutt’ora conseguenza di diversi fattori storici e sociali, ma finire col rinchiudere tale giusta prospettiva in una sorta di rimpianto per il periodo dei paesi non allineati successivo alla conferenza di Bandung, cui si accennava all’inizio, e far ricader ogni responsabilità per i tradimenti delle rivoluzioni sulla pervasività dell’imperialismo americano e occidentale significa chiudere gli occhi su elementi altrettanto importanti per comprendere le successive sconfitte di quei progetti.

Intanto Bandung fu una conferenza di fatto a guida indonesiana e di un Sukarno che giusto dieci anni dopo, nel 1965, avrebbe dato vita ad uno dei più feroci massacri di civili e militanti comunisti dell’intero continente asiatico, certo con l’aiuto americano ma anche per sfrenato interesse nel mantenere il potere proprio e della borghesia indonesiana2.

Inoltre l’autore non fa cenno al fatto che gran parte delle rivoluzioni nazionali africane avvennero nei limiti dei confini geografici imposti fin dalla conferenza di Berlino del 1884/1885 che di fatto regolò la spartizione dei poteri e dei commerci occidentali nell’Africa Sub-sahariana. Confini che non tenevano conto delle divisioni tra lingue, culture ed etnie che caratterizzavano il continente e su cui spesso, ancora negli ultimi decenni gli interessi imperialistici occidentali, ma non solo, hanno potuto giocare.

L’unico rivoluzionario a cercare, forse, di superare tali limiti in un paese, il Congo belga, che prima di raggiungere l’indipendenza nel 1960 e denominarsi Repubblica democratica del Congo, copriva una superficie di 2.344.858 km quadrati pari o superiore a quella dell’Europa occidentale dal Portogallo alla Germani e dalla Gran Bretagna all’Italia, fu Patrice Lumumba con la sua idea di indipendenza e di unità africana che fu brutalmente soppressa, insieme a lui nel 1961 quando era primo ministro, liberamente eletto, di un paese di cui i belgi non volevano certo la piena indipendenza, vista anche l’enorme quantità di materie prime, minerali e metalli preziosi di cui era, e rimane, depositario.

Era toccato a Lumumba, il 30 giugno 1960, pronunciare lo storico “discorso dell’indipendenza” per un paese in cui una buona parte dell’amministrazione e i quadri dell’esercito restavano belgi, ma sfidò l’ex potenza coloniale decretando l’africanizzazione dell’esercito. Il Belgio rispose inviando truppe in Katanga (la regione mineraria) e sostenendo la secessione di questa regione. A settembre il presidente Joseph Kasa-Vubu revocò Lumumba e gli altri ministri nazionalisti. Lumumba dichiarò che sarebbe rimasto in carica e su sua richiesta il parlamento, acquisito alla sua causa, revocò il presidente Kasa-Vubu. La politica di Lumumba era antisecessionista, anticolonialista, antimperialista, filocomunista e mirava a diminuire il potere e l’influenza delle tribù ed a una maggiore giustizia sociale e autonomia del paese. In dicembre il generale Mobutu, succeduto a Kasa-Vubu, con un colpo di Stato fece arrestare Lumumba che il 17 gennaio1961 insieme a due suoi fedeli (Maurice Mpolo, ministro degli Interni, e Joseph Okito, presidente del Senato) fu giustiziato la sera stessa alla presenza di tutti i dirigenti del Katanga secessionista, mentre a partire dall’indomani molti dei suoi sostenitori furono eliminati con l’aiuto dei mercenari belgi3.

L’autore delle presenti righe si scusa per essersi dilungato su una vicenda che nell’economia del libro occupa poco spazio ed è narrata soltanto attraverso la testimonianza negativa della femminista anticoloniale Andrée Blouin, che svolse un importante lavoro come guida di organizzazioni femminili e come collaboratrice di vari governi del continente, tra cui quello di Lumumba, diventando una figura chiave nel movimento indipendentista congolese come stretta consigliera dello stesso Lumumba.

Verso la fine della sua autobiografia, ripercorre gli eventi che rappresentano il climax della sua vita politica: la crisi congolese, in particolare l’assassinio di Lumumba nel gennaio del 1961, che pose fine alle speranze di liberazione nazionale del paese. Blouin è al centro dell’azione mentre tenta di superare i dissidi fra le diverse fazioni per aiutarle a collaborare alla realizzazione di obiettivi comuni. Ma presto si rende conto che “i nostri fratelli lavoravano per il tradimento dell’Africa”: il rivale di Lumumba, il centrista filo-occidentale Joseph Kasavubu, che era strettamente legato agli Stati Uniti, ignora il mandato di Lumumba per formare il governo, tentando invece di formarne uno guidato da lui.

[…] Questo è, in qualche modo, un racconto scontato del tramonto della liberazione nazionale. Ma ciò che è interessante nell’analisi di Blouin sulla crisi congolese è il duro giudizio su Lumumba, che descrive spesso come troppo accomodante, timido e talvolta ingenuo. Il suo ritratto di Lumumba lo fa apparire sotto una nuova luce. Descrive vividamente il momento in cui Lumumba si costituisce dopo l’arresto della moglie – un momento drammatico non solo per la sua famiglia ma per i neri radicali del mondo intero. Per Blouin, la sua incapacità di mettere le esigenze della nazione al di sopra di quelle famigliari, come lei aveva spesso fatto, rappresenta niente di meno che un tradimento della liberazione nazionale. Blouin trasmette decisamente la sensazione che la rivoluzione africana, per usare una frase di Fanon, sarebbe stata più radicale se le donne che l’avevano innescata avessero trovato spazio nei governi post-coloniali, o se fossero state più intimamente coinvolte nel processo formale di decolonizzazione4.

Ma al di là di queste interessanti considerazioni sul ruolo che le donne avrebbero potuto avere nel processo di liberazione africana che il tentativo di Lumumba di limitare il potere delle tribù in un contesto, quello africano, in cui sono presenti almeno ottocento lingue diverse di cui soltanto due scritte (il copto e lo swahili), lasciando libero spazio alle lingue dei dominatori (inglese, francese, portoghese, spagnolo e arabo moderno), considerate lingue di lavoro, avrebbe sicuramente contribuito ad aumentare e definire con più forza dal punto di vista dell’autonomia politico-culturale e che invece l’esaltazione della “tradizione” contribuì a limitare.

Una politica che i differenti leader delle varie rivoluzioni africane quasi mai perseguirono pienamente, rivendicando invece tradizioni nazionali spesso in conflitto tra di loro e delle cui divisioni approfittarono non soltanto l’imperialismo occidentale ma anche le politiche espansive dei rivali russi e cinesi, come ancora oggi si può rilevare in tutta l’Africa Sub-shariana. Politiche che in alcuni casi, come nelle colonie portoghesi e soprattutto in Angola, misero a dura prova l’esistenza dei neonati governi a causa delle rivalità tra russi e cinesi. Alla faccia della comune causa marxista -leninista.

Una confusione per cui, ancora oggi, una volta dimenticato il semplice fatto che sono le contraddizioni di classe ad essere trasversali sia alle questioni di “razza” che di nazione e genere, i paesi dei Brics, potenzialmente antagonisti economico-politici e militari dell’imperialismo occidentale, possono essere scambiati per non allineati e “socialisti”, negando nei fatti la storia degli ultimi settant’anni e le contraddizioni che ne sono conseguite.


  1. Si vedano in proposito gli scritti antropologici di Marx e sul colonialismo in India e in Cina oltre che sulla guerra civile americana, così come quelli sicuramente più tardivi di Amadeo Bordiga, pubblicati su «Prometeo» e «Battaglia comunista» e, dopo la scissione del Partito comunista internazionalista nel 1952, su «Il programma comunista» sulle questioni, come si diceva allora, “di razza e nazione” (qui).  

  2. Si veda: V. Bevins, Il metodo Giacarta, Giulio Einaudi Editore, Torino 2021.  

  3. Sulla figura e sulle idee di Patrice Lumumba si vedano: A. Aruffo, Lumumba e il panafricanismo, Erre emme edizioni, Roma 1991; D. Van Reybrouck, Congo, Feltrinelli Editore, Milano 2014 e G. F. Venè, Uccidete Lumumba, Fratelli Fabbri Editori, Milano 1973.  

  4. K. Ochieng Okoth, Red Africa. Questione coloniale e politiche rivoluzionarie, Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 135-137.  

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L’Occidente dal trionfo alla cannibalizzazione https://www.carmillaonline.com/2024/11/27/occidente-carnevalizzato-e-cannibalizzato/ Wed, 27 Nov 2024 21:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85470 di Sandro Moiso

Jean Baudrillard, Carnevale e cannibale / Il male ventriloquo, Meltemi editore, Milano 2024, pp. 110, 10 euro.

Jean Baudrillard (1929-2007), sempre in bilico tra filosofia, sociologia e critica (rivisitata) dell’economia politica, è stato sicuramente uno dei punti di riferimento della critica radicale dell’esistente dai primi anni Settanta fino alla sua morte. Affascinato dalla patafisica di Alfred Jarry, egli ha applicato, spesso ribaltandoli e rivisitandoli funambolicamente, alcuni aspetti della critica marxiana del valore applicandoli alla critica della società dei consumi, dell’alienazione e del simulacro rappresentato dalla promessa di democrazia e libertà all’interno di un organismo sociale interamente sottomesso, [...]]]> di Sandro Moiso

Jean Baudrillard, Carnevale e cannibale / Il male ventriloquo, Meltemi editore, Milano 2024, pp. 110, 10 euro.

Jean Baudrillard (1929-2007), sempre in bilico tra filosofia, sociologia e critica (rivisitata) dell’economia politica, è stato sicuramente uno dei punti di riferimento della critica radicale dell’esistente dai primi anni Settanta fino alla sua morte. Affascinato dalla patafisica di Alfred Jarry, egli ha applicato, spesso ribaltandoli e rivisitandoli funambolicamente, alcuni aspetti della critica marxiana del valore applicandoli alla critica della società dei consumi, dell’alienazione e del simulacro rappresentato dalla promessa di democrazia e libertà all’interno di un organismo sociale interamente sottomesso, in realtà, all’imperativo categorico della produzione di merci,

Anche se è stato considerato vicino a Edgar Morin e a Roland Barthes, soprattutto per la sua attenzione critica ai differenti aspetti della semiologia, in realtà ha dato vita ad una critica irrimediabile della società capitalistica, negandone qualsiasi valore assoluto e qualsiasi bisogno (valore d’uso) che non sia artefatto e finalizzato soltanto al consumo di massa1, che ha ritenuto l’autentico fondamento della medesima a differenza del marxismo che lo ha, invece, sempre individuato nella produzione. Motivo per cui è possibile avvicinarlo, per molti versi, all’analisi della società dello spettacolo teorizzata da Guy Debord fin dal 1967.

Una critica che dalla iniziale critica dalla merce lo ha portato2 progressivamente a destrutturare l’intero impero dei segni che regola la società, che rimarrà nella sua visione solo e sempre luogo di apparenze e simulacri.

I due brevi testi appena pubblicati da Meltemi nella collana Melusine, entrambi inediti in lingua italiana, sono stati originariamente pubblicati in Francia nel 2004 il primo come saggio e nel 2008 il secondo, come trascrizione di una conferenza tenuta dall’autore. In entrambi, come afferma il traduttore Dario Altobelli:

lo straordinario percorso intellettuale dello studioso trova in questi due testi una brillante e si direbbe memorabile dimostrazione di quanto egli fosse stato acuto interprete del tempo corrente, fieramente e caparbiamente sempre contro ogni conformismo intellettuale e politico, soprattutto liberal-progressista, ma non solo, e più ampiamente delle varie forme della “Sinistra divina” e del “politically correct”3.

Appartenenti, come si è visto, all’ultima parte della produzione di Jean Baudrillard i due interventi si caratterizzano per un taglio polemico e provocatorio di estrema attualità. In cui l’analisi impietosa della società globale dei consumi e dello spettacolo, giunta allo stadio estremo e simulacrale, e la critica serrata al conformismo intellettuale e politico di ogni colore – vere e proprie cifre dell’opera dell’autore francese –, sono gettati come sassi nelle acque apparentemente rassicuranti del dominio politico e tecnoscientifico di un Occidente in fase terminale.

Cosa rimarcata con forza soprattutto nel primo dei due interventi, in cui l’Occidente, pensatosi all’apice del suo successo per il tramite della globalizzazione non coglie la semplice verità rappresentata dal fatto che la diffusione dei suoi valori e idealili consumistici non contribuisce a null’altro che alla sua carnevalizzazione e cannibalizzazione da parte dei suoi concorrenti, un tempo “sottosviluppati”.

Si può cominciare dalla famosa formula di Marx sulla storia che si produce una prima volta come evento autentico per ripetersi poi come farsa. Si può concepire così la modernità come l’avventura iniziale dell’Occidente europeo, poi come un’immensa farsa che si ripete su scala planetaria, a tutte le latitudini dove si esportano i valori occidentali, religiosi, tecnici, economici e politici. Questa “carnevalizzazione” passa per gli stadi, essi stessi storici, dell’evangelizzazione, della colonizzazione, della decolonizzazione e della globalizzazione. Ciò che si vede meno è che questa egemonia, questa impresa di un ordine mondiale i cui modelli – non solamente tecnici irresistibili, si accompagna a una reversione straordinaria da cui questa potenza è lentamente minata, divorata, “cannibalizzata” proprio da quelli che essa carnevalizza. Il prototipo di questa cannibalizzazione silenziosa, la sua scena primordiale per così dire, sarebbe questa messa solenne a Recife, in Brasile, nel XVI secolo, dove i vescovi venuti espressamente dal Portogallo per celebrare la conversione passiva degli Indiani sono da questi divorati – per eccesso di amore evangelico (il cannibalismo come forma estrema dell’ospitalità). Prime vittime di questa mascherata evangelica, gli Indiani si spingono spontaneamente al limite e oltre: essi assorbono fisicamente coloro che li hanno assorbiti spiritualmente.

È questa doppia forma carnevalesca e cannibalesca che vediamo riverberata ovunque su scala globale, con l’esportazione dei nostri valori morali (diritti umani, democrazia), dei nostri principi di razionalità economica, di crescita, di performance e di spettacolo. Ovunque ripresi con più o meno entusiasmo, ma in una totale ambiguità, da tutti questi popoli sfuggiti alla buona parola dell’universale, “sottosviluppati”, dunque fertile terreno di missione e di conversione forzata alla modernità, ma molto più che sfruttati e oppressi: ridicolizzati, trasfigurati in una caricatura dei Bianchi – come quelle scimmie che un tempo venivano mostrate alle fiere in costume da ammiraglio.

[…] Ma c’è da chiedersi se questi Bianchi qui, il principale, la guardia, il generale, questi Bianchi “originali” non siano già figure mascherate, se non siano già una caricatura di sé stessi –confondendosi con le loro maschere. I Bianchi si sarebbero così carnevalizzati, e quindi cannibalizzati, molto prima di esportare tutto questo nel mondo. È la grande parata di una cultura in preda a uno spreco di risorse e che si offre alla propria consumazione: divoramento di se stessa, di cui il consumo di massa e di tutti i beni possibili è la forma più attuale.

[…] Che tutte le popolazioni adornate dei segni del biancore e di tutte le tecniche venute da altrove ne siano al contempo la parodia vivente e la derisione: è questo che è semplicemente ridicolo, ma che noi non possiamo più vedere. È nella loro estensione su scala globale che si svela la frode dei valori universali. Se davvero c’è stato un primo evento, storico e occidentale, della modernità, noi ne abbiamo esaurito le conseguenze, ed essa ha preso per noi una svolta fatale, una svolta da farsa. Ma la logica della modernità ha voluto che l’imponessimo al mondo intero, che il fatum dei Bianchi fosse quello della razza di Caino, e che nessuno sfuggisse a questa omogeneizzazione, a questa mistificazione della specie.

Quando i Neri tentano di sbiancarsi, non sono che lo specchio distorto della negrificazione dei Bianchi, automistificati fin dall’inizio dalla propria maestria. Così l’intero arredo della moderna civiltà multirazziale non è altro che un universo in trompe l’oeil in cui tutte le singolarità di razza, di sesso, di cultura saranno state falsificate fino a diventare una parodia di se stesse.
Tanto che è l’intera specie che, attraverso la colonizzazione e la decolonizzazione, si autoparodia e si autodistrugge in un gigantesco dispositivo di simulazione, di violenza mimetica in cui si esauriscono sia le culture indigene che quella occidentale. Perché quella occidentale non trionfa in alcun modo: ha perso la sua anima molto tempo fa. Essa stessa si è carnevalizzata, aggiungendovi ancora il ridicolo di organizzare con grandi spese il museo mondiale degli orpelli di tutte le culture 4.


  1. Valore di scambio che domina sul primo di fatto annullandone l’importanza attribuitagli sia nell’opera di Marx che in quella di Adam Smith.  

  2. Si vedano in proposito alcune delle sue opere più importanti: Le Système des objets (1968) tradotto in Italia come Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano1972; Pour une critique de l’économie politique du signe (1972) trad. it. di Mario Spinella, Per una critica dell’economia politica del segno, Mazzotta, Milano 1974 e, in seguito a cura di Pierre Dalla Vigna, Per una critica dell’economia politica del segno, Mimesis, Milano-Udine 2012; La Société de consommation (1970) trad. it. La società dei consumi, il Mulino, Bologna 1976 e L’Échange symbolique et la mort (1976) trad. it. di Girolamo Mancuso, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 1979. Solo per citare le più importanti.  

  3. D. Altobelli, Nota del traduttore in J. Baudrillard, Carnevale e cannibale / Il male ventriloquo, Meltemi editore, Milano 2024, pp. 8-9.  

  4. J.Baudrillard, Carnevale e Cannibale, ovvero il gioco dell’antagonismo globale, in J. Baudrillard, op. cit., pp. 45–50.  

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György Lukács, un’eresia ortodossa / 2 — Affinità elettive https://www.carmillaonline.com/2024/11/24/gyorgy-lukacs-uneresia-ortodossa-2-affinita-elettive/ Sun, 24 Nov 2024 21:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85181 di Emilio Quadrelli

Se decliniamo, infatti, il tema della alienazione dentro l’ambito coloniale avremo la netta sensazione di come le argomentazioni lukácsiane abbiano ben poco di datato, e ancor meno di erudito, ma colgano esattamente la questione essenziale di un’epoca. Ciò apre qualcosa di più che un semplice ponte tra Lukács e Fanon poiché, tra i due, le affinità non sembrano essere secondarie. Il fatto che, nei nostri mondi, questa affinità non sia stata colta mostra, più che una disattenzione, la diffidenza che la stessa intellettualità radicale, con un occhio però sempre attento ai dispositivi posti in campo dall’ortodossia, abbia [...]]]> di Emilio Quadrelli

Se decliniamo, infatti, il tema della alienazione dentro l’ambito coloniale avremo la netta sensazione di come le argomentazioni lukácsiane abbiano ben poco di datato, e ancor meno di erudito, ma colgano esattamente la questione essenziale di un’epoca. Ciò apre qualcosa di più che un semplice ponte tra Lukács e Fanon poiché, tra i due, le affinità non sembrano essere secondarie. Il fatto che, nei nostri mondi, questa affinità non sia stata colta mostra, più che una disattenzione, la diffidenza che la stessa intellettualità radicale, con un occhio però sempre attento ai dispositivi posti in campo dall’ortodossia, abbia continuato a nutrire verso tutto ciò che continuava a essere in odor di eresia e, aspetto forse ancora più significativo, verso quella teoria politica, come nel caso di Fanon, che nel marxismo ortodosso individuava un non secondario tratto colonialista. Mentre l’oggettivismo imperante dentro il mondo comunista non poteva che essere un elemento di rafforzamento dello status quo, tanto a ovest come a est, l’umanesimo marxiano di Lukács apriva verso quel mondo colonizzato il quale, proprio nei suoi aspetti più radicali e rivoluzionari, si appropriava interamente della sovversione marxiana giovanile. Va da sé che, in un simile contesto, l’attualità della rivoluzione non può che essere l’attualità di una prassi. La riscoperta di Lukács coincide con la riscoperta della attualità della rivoluzione e di quel passaggio dalla preistoria alla storia che sempre fa da sfondo all’insorgenza dei subalterni. In fondo quel tratto escatologico che aveva contrassegnato la rivista eretica “Kommunismus” è proprio di tutte le ere rivoluzionarie, il riscatto è sempre alla fonte della lotta di classe. Ma torniamo al nostro pamphlet.

Il testo su Lenin è tanto più stupefacente se teniamo a mente che, nel momento in cui viene scritto, l’autore è ben distante dal conoscere gran parte della produzione leniniana, della quale ha, però, una profonda conoscenza empirica. È un Lenin conosciuto nella prassi, dentro quel turbinio di fatti che il treno della rivoluzione scandiva a ogni suo passaggio. Un treno dove le fermate e le ripartenze e la stessa velocità di crociera non poteva essere predeterminata. Solo il fuoco della lotta di classe, di tutte le classi sociali in lotta, offriva il combustibile alla locomotiva. Guerra imperialista, crisi, insurrezione popolare, ancora guerra imperialista, crisi, insurrezione proletaria e contadina, presa del Palazzo d’Inverno, vittoria della rivoluzione, sua crisi e arretramento, dispiegamento della guerra civile, costruzione dell’esercito rosso, vittoria sulla controrivoluzione interna e accerchiamento imperialista sono le varie stazioni che accompagnano il percorso per nulla lineare e scontato del treno bolscevico. È il Lenin che si muove dentro questo percorso, il vero ispiratore del testo lukácsiano; il pamphlet su Lenin è il pamphlet della e sulla prima rivoluzione immediatamente internazionale.

Sono anni in cui rivoluzione e controrivoluzione si affrontano senza più alcuna sorta di mediazione. La gurra civile internazionale è la cornice concreta dell’epoca.1. Per quattro lunghi anni l’ottobre ha dovuto sostenere un conflitto armato contro la reazione bianca e l’intervento imperialista internazionale. La rivoluzione ha conosciuto insieme vittorie momentanee, accompagnate da catastrofiche sconfitte. La rivoluzione, purtroppo, non si è diffusa, contrariamente a quanto fatto sperare inizialmente. La marcia verso Varsavia è stata interrotta, la repubblica sovietica in Ungheria è stata spazzata via, la socialdemocrazia tedesca ha liquidato manu militari l’insorgenza proletaria, i pur eroici tentativi austriaci non hanno avuto seguito, mentre in Italia la sconfitta operaia spalanca le porte al fascismo. Sono anni contrassegnati da una frenetica attività dove, per i militanti rivoluzionari, la linea di confine tra la vita e il patibolo è quanto mai sottile2 e Lukács è attore protagonista di tutto ciò.

Il testo su Lenin, pertanto, non può che risentire e assumere interamente lo spirito del tempo. Paragrafo dopo paragrafo Lukács affronta tutte le questioni che attraversano il movimento rivoluzionario riportando continuamente il concreto dentro l’astrazione. Per questo, alla fine, il pamphlet risulta un testo teoricamente denso dove, in ogni pagina, è possibile cogliere, oltre all’immensa erudizione dell’autore, l’insieme di domande che, volta per volta, il movimento rivoluzionario è costantemente obbligato a porsi. Di più; nel breve saggio Lukács va, senza fronzoli di sorta, al cuore delle questioni che, non solo contestualmente, il movimento comunista si trova ad affrontare. Composizione di classe, forma partito, la questione dello stato, la cornice politica propria dell’imperialismo e via dicendo lo rendono un testo che ha ben poco di datato. Consegnare e rinchiudere questo saggio nell’ipotetico scaffale dei pensatori del passato come tributo al mondo di ieri significa non avere compreso nulla di Lukács e ancor meno del suo Lenin (e in fondo di Lenin stesso), ed è forse qui che la questione lascia i panni della schermaglia teorica per farsi battaglia politica a tutto tondo del e sul presente. Qui si pone la rigida contrapposizione tra l’attualità della rivoluzione e i suoi becchini. Qui si pone la drastica cesura tra la soggettività dei rivoluzionari e l’oggettivismo e il determinismo dei socialdemocratici di ieri e di oggi. Qui si pone la differenza tra l’essere e lo stare sul filo del tempo della rivoluzione e l’assunzione del tempo reificato del capitale come unica dimensione possibile.

In coerenza con ciò questo breve saggio cercherà di esserne all’altezza. Paragrafo per paragrafo si proverà così a stare sul filo del tempo nel tentativo di cogliere nel presente, quanto la complessità del testo è in grado di suggerirci. Nessun accademismo comunista ma una guida per l’azione. Ci sembra infatti che, pur con le ovvie tare del caso, nel mondo attuale le questioni poste da Lukács siano tutt’altro che datate. Qual è il contesto storico in cui ci troviamo? Come si definisce la classe nel presente e in che modo questa è in grado di farsi egemone nei confronti di tutti i subalterni, cristallizzando in tal modo attorno a sé il popolo nella sua concretezza? Quale forma organizzativa deve assumere la soggettività politica nel presente. In che modo l’imperialismo si è trasformato, passando per la centralità della questione dello stato che, detto per inciso, è stata a lungo accantonata dai movimenti rivoluzionari, sino ad arrivare alla complessità che gli scenari geopolitici contemporanei pongono di fronte ai movimenti di classe? Sono tutti temi che mostrano quanto attuale sia la ripresa tra le mani di questo testo. La sua rilettura parte da questa consapevolezza, nell’augurio che tutto ciò possa contribuire a dare qualche traccia di risposte agli interrogativi del presente. Interrogativi che non poco hanno a che vedere con la stringata premessa attraverso cui Lukács presenta il suo Lenin.

Il saggio apre con un breve paragrafo introduttivo tutto incentrato sull’attualità della rivoluzione in quanto unità di misura della fase storica. All’inizio può apparire un punto di vista tanto banale quanto generico: Lenin, cioè, si sarebbe limitato a dire e osservare che il contesto storico in cui vive è gravido di rivoluzioni. A una lettura solo poco più attenta le cose si mostrano in ben altro modo e dietro quella apparente banalità è racchiuso tutto il senso cristallino della dialettica storico materialista interamente restaurata. Proviamo a darne ragione. Lukács, non a caso, apre il suo Lenin con una breve quanto mai densa nota epistemologica. Lenin è il restauratore della teoria marxiana che la Seconda Internazionale ha non tanto modificato e rivisto, ma completamente mistificata. Cosa ha fatto in sostanza la Seconda Internazionale? Una cosa molto semplice: ha scorporato Marx e la filosofia della prassi in un insieme di categorie scientifiche proprie della modellistica nella quale la borghesia cataloga il sapere. Così, volta per volta, Marx si fa filosofo, sociologo, storico, economista mentre, del Marx politico, si tende a eluderne il portato. Operazione, quest’ultima, sicuramente sensata poiché il Marx politico rende pressoché impossibile la precedente classificazione3.

Scomponendo e ascrivendo Marx nei vari ambiti disciplinari, di fatto, lo si ascrive dentro le retoriche proprie del sapere della borghesia e quindi lo si azzera. In questo modo l’inizio della rivoluzione storica marxiana presente sin dalla nota tesi numero undici delle Tesi su Feuerbach: “I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo ma si tratta di trasformarlo.”, è ridotta alla stregua di un curioso aneddoto. Con ciò si oscura l’inizio della rivoluzione della quale, la filosofia della prassi, ne è tanto l’incipit quanto il programma. La Seconda Internazionale mentre da un lato assumeva il marxismo come sua dottrina politica, dall’altro lo collocava nel tranquillizzante ambito della storia delle idee e, con ciò, lo depurava del suo portato storico e sovversivo. Ne esorcizzava la rottura filosofica che, alla scala della storia, incarna l’irrompere politico di una classe in guerra aperta e totale contro l’ordine esistente. Non aveva avuto, forse, un ruolo simile la filosofia dei Lumi nei confronti del mondo antico? Non aveva forse questa scompaginato complessivamente tutta la cornice filosofica del mondo antico? Con la decapitazione del Re non veniva forse decapitato tutto l’ordine discorsivo di un’era? La filosofia della Grande Rivoluzione non si contrapponeva come insieme di saperi ad altri saperi ma rompeva con tutto un modello epistemico. Tra la vecchia e la nuova filosofia non vi era uno scontro di conoscenza bensì uno scontro di potere. La ghigliottina risolse la diatriba. Attraverso quel passaggio la borghesia iniziò a plasmare il mondo a sua immagine e somiglianza4.

La filosofia della prassi, alla scala della storia, si pone come la filosofia della nuova classe, la filosofia del proletariato. Il suo compito non è competere con la storia, l’economia, la filosofia della borghesia ma esattamente spezzare il dominio di queste discipline. Se Marx si fosse pensato in veste di economista avrebbe potuto titolare il suo capolavoro come critica dell’economia politica? Avrebbe potuto criticare, dove critica significa sparare ad alzo zero, l’economia politica se quella, ovvero la scienza economica, fosse stata veramente la sua dimensione? Se Il capitale, come l’ortodossia socialdemocratica prima e quella comunista dopo hanno continuamente sostenuto, fosse stata un’opera di scienza economica è immaginabile che Marx si sarebbe preso così gioco degli economisti e, per farlo, avrebbe utilizzato un’arma così poco scientista ed economica come la dialettica5? Evidentemente no. Non per caso Marx pone l’accento sulla critica per enfatizzare esattamente il senso della sua operazione. Paradossalmente, trasformare il marxismo in una scienza, è quanto di meno ortodosso si possa fare poiché il problema di Marx non è farsi scienziato ma critico radicale di quello scientismo che è stato posto a fondamento dell’ordine capitalista. La presunta neutralità della scienza è una leggenda che socialdemocrazia e ortodossia comunista hanno coltivato proprio contro Marx.

Qualcosa di ancor più chiaro lo troviamo nella nota asserzione: “Noi (Engels e Marx) riconosciamo una sola scienza: la scienza storica”6. Cosa c’è di meno storico, nel senso di comunanza con la disciplina storica di questa asserzione che, in una sola frase, racchiude un mondo? La scienza storica di Marx ed Engels è la scienza della lotta di classe, la scienza della soggettività di classe. Potrà mai questa essere tranquillamente riposta nell’ambito delle discipline storiche? Evidentemente no poiché, questa scienza storica, non è altro che la scienza della rivoluzione. Non una filosofia tra le molte, non una scuola storica tra le altre, non una teoria economica tra le tante, bensì la critica storico–politica di questi saperi. La critica sovversiva e unitaria della società borghese e dei suoi saperi codificati questa è la filosofia della prassi. Tutto ciò è stato bellamente rimosso dalla Seconda Internazionale in un’operazione di addomesticamento del marxismo tuttora in atto. Lenin rompe esattamente tutto ciò restituendo alla teoria marxiana la sua funzione di radicale rottura storica. Se non si comprende questa operazione rimane impossibile accostarsi a Lenin. Questa è la puntualizzazione e la premessa indispensabile che, come corposo incipit, è posto da Lukács al suo Lenin.

Ma cosa c’entra la dialettica storico–materialista con l’attualità della rivoluzione? Perché Lenin li lega in maniera indissolubile? Perché proprio su ciò Lukács pone un’attenzione quasi maniacale? Perché il metodo, quindi il piano astratto della teoria, ha così tanto a che fare con il concreto storico e quindi con la politica rivoluzionaria? Per un motivo tanto semplice quanto complesso: il metodo consente di leggere la totalità del processo storico e ricavare pertanto ciò che l’analisi separata degli eventi non è assolutamente in grado di cogliere ed è qui che Lukács evidenzia il dato centrale della restaurazione leniniana quella di, grazie alla dialettica storico–materialista, non soffermarsi a quel post festum che la dialettica hegeliana aveva riconosciuto come limite insormontabile della conoscenza del divenire ma di saper cogliere la tendenza. Esattamente dentro questa relazione, lettura dialettico–materialista della storia e la totalità degli eventi storici che si stanno concretamente evidenziando, Lenin coglie il senso dell’epoca, ovvero l’attualità della rivoluzione. Può farlo solo perché, a differenza dei più, è in grado di maneggiare sino in fondo la scienza storica marxiana. A partire da questa indispensabile premessa si snoda l’intero testo lukácsiano. La capacità di cogliere, in ogni circostanza, la totalità del processo in corso è quanto nelle pagine del Lenin verrà continuamente posto in evidenza. Perché battere così tanto su questa premessa filosofica, perché partire dalla necessità di ribadire la totalità come questione centrale della filosofia della prassi e quindi strumento indispensabile alla messa in forma della tattica di partito? Perché è solo questa che consente a Lenin di sovrastare tutti gli altri socialdemocratici i quali, per un verso o per l’altro, avevano amputato il marxismo proprio della totalità.

Scindere il marxismo in più ambiti disciplinari ha comportato perdere di vista il quadro d’insieme e, con questa, la possibilità di cogliere la tendenza. Scindere il marxismo in tanti particolari ha comportato l’impossibilità di leggere i fatti nella loro totalità, di legarli tra loro e comprenderne ciò che è in loro oltre il puro aspetto fenomenico. In questo modo il marxismo da scienza della rivoluzione diventa una delle tante scienze politiche e sociali le quali, a partire dalla loro particolarità, analizzano dei singoli fatti senza essere in grado di legarli tra loro. Un sociologo analizza il conflitto di una lotta ma, se rimane un sociologo, non è in grado di leggere che cosa, in potenza, quella lotta cela; un economista analizza una crisi ma non ne coglie la relazione con gli effetti politici che questa comporta; un politico osserva la guerra dal punto di vista della geopolitica ma non ne vede le forze sociali che quella guerra è in grado di determinare e mettere in movimento e così via. L’ostilità che la Seconda Internazionale nutre verso la rivoluzione è esattamente il frutto dell’impotenza teorica propria del riformismo. Per i più Lenin è solo un visionario e forse non sbagliano poiché lui è il solo ad avere una visione marxiana della realtà storica e quindi la capacità di leggere i fatti nel loro insieme invece che tenerli rigidamente separati. Al riformismo così attento ai fatti, così pragmatico e realista questi finiscono con il non raccontare nulla mentre, alla visionaria totalità leniniana, i fatti raccontano per intero il loro segreto: l’attualità della rivoluzione.

Al proposito non vi è molto da chiosare se non che oggi è proprio questa incapacità nel saper cogliere la totalità che si mostra come grande limite del movimento rivoluzionario. Senza teoria rivoluzionaria, niente movimento rivoluzionario, in fondo si torna sempre lì e quanto invece la teoria rivoluzionaria fosse costantemente a mente nell’agire di Lenin l’esposizione dei paragrafi del pamphlet ne offrirà una felice constatazione. A noi non resta che, sulla scia del Lenin di Lukács, cercare di riappropriarci della totalità ma ciò non fa che confermare quanto l’inattualità di questo testo sia drasticamente attuale e come risulti impossibile archiviarlo come altri hanno pensato di fare7, forse per non dover fare nuovamente i conti con l’attualità della rivoluzione, nel polveroso museo della storia comunista.

(2continua)


  1. Ciò è molto ben argomentato in, C., Schmitt, Teoria del partigiano, Adelphi, Milano 2005.  

  2. Su ciò si veda in particolare, A. V. Tiskov, Dzerzinskij, Il giacobino proletario di Lenin. Una vita per il comunismo, Editore Zambon, Milano 2012.  

  3. Eppure, questo è il solo e vero Marx del quale si possa parlare. Marx è la politica della rivoluzione che non può essere scomposta dentro gli ordinamenti e le classificazioni del sapere borghese. La stessa filosofia marxiana è tutto tranne che una filosofia bensì il superamento stesso di questa.  

  4. Tutto ciò e molto ben descritto dal grande storico controrivoluzionario H. Taine, Le origini della Francia contemporanea. L’antico regime, Adelphi, Milano 2008.  

  5. Non è certo un caso che per il marxismo ortodosso e scientista ne Il capitale la dialettica occupi uno spazio estremamente limitato ossia quel paragrafo relativo al carattere di feticcio della merce dove, in una sorta di sfizio intellettuale, Marx avrebbe preso gusto a civettare con Hegel.  

  6. F. Engels, K. Marx, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 2018.  

  7. Significativa al proposito l’Introduzione attraverso la quale viene presentato questo testo nell’edizione dei tipi della Pgreco del 2017. Qua il testo lukacsiano è ridotto a puro cimelio storico una sorta di avventura del pensiero senza alcuna ricaduta concreta sul presente.  

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Avanti barbari!/7 – Contro lo Stato razziale integrale https://www.carmillaonline.com/2024/10/09/avanti-barbari-7-contro-lo-stato-razziale-integrale/ Wed, 09 Oct 2024 20:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84745 di Sandro Moiso

Houria Bouteldja, Maranza di tutto il mondo unitevi! Per un’alleanza dei barbari nelle periferie, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 168, 17,00 euro

A giudizio dell’autore di questa recensione, e nonostante i dubbi su alcune delle proposte contenute nel testo appena pubblicato da DeriveApprodi nella collana hic sunt leones, Houria Bouteldja, della quale proprio qui su Carmilla era stato recensito anche il precedente testo pubblicato in Italia I bianchi, gli ebrei e noi (qui), rappresenta una delle voci più interessanti tra tutti/e coloro che hanno deciso di fare i conti non soltanto con il fallimento delle proposte [...]]]> di Sandro Moiso

Houria Bouteldja, Maranza di tutto il mondo unitevi! Per un’alleanza dei barbari nelle periferie, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 168, 17,00 euro

A giudizio dell’autore di questa recensione, e nonostante i dubbi su alcune delle proposte contenute nel testo appena pubblicato da DeriveApprodi nella collana hic sunt leones, Houria Bouteldja, della quale proprio qui su Carmilla era stato recensito anche il precedente testo pubblicato in Italia I bianchi, gli ebrei e noi (qui), rappresenta una delle voci più interessanti tra tutti/e coloro che hanno deciso di fare i conti non soltanto con il fallimento delle proposte politiche ancorate alla critica del capitalismo e alla necessità di superamento dello stesso ad opera della lotta di classe, ma anche con i bagliori di razzismo ancora presenti all’interno dei medesimi percorsi di analisi politica.

Per iniziare occorre ricordare che «razza e razzismo sono le grandi questioni della modernità globale. Hanno forgiato il mondo per come lo conosciamo, con il suo carico di diseguaglianze, oppressione, discriminazioni, orrori.[…] La nuova collana prende di petto il tema, proponendosi di affrontarlo fuori da stereotipi e luoghi comuni, a partire da un presupposto: il razzismo non riguarda l’”altro”, ma ognuno di noi». Mentre il titolo italiano del testo traduce con il termine maranza quel Beaufs et barbares che ne costituisce il titolo originale francese. Come viene spiegato nella nota in apertura, se i barbari sono

i soggetti razzializzati e non addomesticabili delle banlieue, il termine beaufs – come viene argomentato nel libro – ha una forte specificità legata al contesto francese. Cosi vengono definiti, con uno stigma di classe, i proletari bianchi delle periferie, ancor più umiliati, impoveriti e marginalizzati dalla crisi. Se dovessimo trovare un termine italiano che, con altre radici storiche, si approssima a questa definizione, potremmo pensare a bifolchi. Mentre «Nel giro di pochi anni il termine maranza (neologismo nato a Milano dalla combinazione di «marocchino», nel gergo popolare sinonimo di immigrato, e «zanza», ossia «tamarro») è andato oltre l’identificazione «etnica», per definire quei ragazzi e quelle ragazze che, nel modo di vestire e di comportarsi, non si conformano ai codici della normalità sociale. Sono le nuove classi pericolose. Nel ribaltamento degli immaginari dominanti, l’essere maranza è tuttavia diventato una complessa, certo ambigua ma terribilmente concreta rivendicazione di potere da parte di chi, giovani neri e non delle periferie metropolitane, potere non ne ha mai avuto. Una rivendicazione non traducibile nel lessico della politica tradizionale.»(( Nota editoriale. Perché maranza in Houria Bouteldja, Maranza di tutto il mondo unitevi! Per un’alleanza dei barbari nelle periferie, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 7-8. )).

Ed è proprio in questo vuoto di rappresentanza del linguaggio politico tradizionale, soprattutto a sinistra, che si inserisce il discorso dell’autrice. Che fa della possibile e auspicabile alleanza tra bifolchi bianchi metropolitani e giovani e ribelli barbari immigrati il cuore della sua analisi e del suo programma. Una sfida di cui il titolo, che sostituisce il più tradizionale proletari con maranza, restituisce bene l’idea.

Un’analisi che si sviluppa, orizzontalmente, attraverso i concetti di razza, classe e genere per individuare come questi siano, nel contesto dell’attività di controllo del capitale sulla società e delle resistenze che gli si oppongono dal basso, perfettamente sovrapponibili. In un contesto in cui la razzializzazione è servita anche a definire i limiti di classe e di genere.

In senso verticale si sviluppa invece l’analisi storica di come il capitale sia riuscito, all’interno di una repressione diffusa di ogni tipo di resistenza e di impoverimento progressivo messo in atto nei confronti di interi continenti, popoli, donne e classi sociali deprivate di qualsiasi forma di effficace rappresentanza o di potere reale, per quanto limitato nel tempo e nello spazio, a separare tra di loro i soggetti e in particolare il proletariato bianco da quello proveniente da altri contesti culturali. Insomma di come sia riuscito a contrapporre i bifolchi ai barbari.

Un’analisi che inizia dall’espansione coloniale europea e dal susseguente sterminio di interi popoli oppure della loro riduzione in schiavitù e che vede, con Marx, come questa sia stata la base della modernità dello sviluppo capitalistico e non una permanenza del passato in una società che si voleva moderna. Una rilettura della Storia ormai assodata non solo dagli studi de-coloniali, cui si fa ampio riferimento, ma anche prima dalle interpretazioni più radicali, sia in ambito “bianco” che “nero”, delle trasformazioni avvenute, a vantaggio del capitalismo occidentale e coloniale, nel periodo intercorso tra il 1492, data simbolo della “scoperta” e conquista del continente americano, e la Rivoluzione industriale con tutti i suoi effetti sulle società sia nell’Ovest che nell’Est, nel Sud come al Nord del pianeta.

E’ un punto questo che chi qui scrive tiene particolarmente a sottolineare, poiché praticamente attraverso l’instaurazione dei confini, ma ancor prima dei diritti monarchici e imperiali, sia laici che ecclesiastici, tutto il pianeta e suoi abitanti sono stati progressivamente colonizzati dal capitale prima mercantile, poi industriale e, successivamente, finanziario proprio a partire da quello che, nell’immaginario storico-politico, è stato il principale beneficiario di quella espansione: l’Europa, prima, e l’Occidente Atlantico, poi.

Un processo in cui l’unione tra azione repressiva armata e religiosa di carattere inquisitoriale ha posto le basi di ciò che la Bouteldja definisce, sulla base dell’uso di alcune categorie gramsciane, come “Stato razziale integrale”. Una forma sociale di organizzazione e controllo, soprattutto della forza lavoro, in cui il razzismo non è un errore, ma uno, e forse il principale, degli elementi fondativi.

Elemento che, una volta avviati i processi di formazione, e contemporanea resistenza, della classe operaia o, più genericamente, del proletariato industriale e non, diventerà essenziale al fine di dividere ciò che, una volta unito, potrebbe diventare il definitivo affossatore del modo di produzione capitalistico e dei suoi funzionari in doppio petto e in divisa.

Questa divisione, che si affermerà nel tempo attraverso quello che l’autrice definisce come il “salario della bianchezza”, ovvero forme di vantaggio di carattere economico e politico-giuridico, ha inizio, si potrebbe dire, con la fine del capitalismo mercantile e l’inizio di quello prettamente industriale, di cui la rivoluzione della macchina a vapore e e quella francese segneranno l’inizio. Proprio la seconda, con tutti i suoi roboanti proclami a favore di Liberté, Égalité, Fraternité, affondava però le sue radici in una ricchezza accumulata con lo sfruttamento del lavoro schiavistico nelle colonie che in quell’epoca vide anche la magnifica, e per un periodo vincente, rivoluzione degli schiavi haitiani guidati di Toussaint Louverture.

Era chiaro che l’eventuale alleanza tra proletariato in formazione “bianco”, che già era stato protagonista delle spinte più avanzate della Grande rivoluzione1, e schiavi “neri” o, se si preferisce anche in questo caso, “proletariato in formazione razzializzato” avrebbe potuto rappresentare un pericolo mortale per l’emergente società della borghesia produttiva.

Ma, non a caso, sarà soltanto la Terza repubblica, sorta in Francia dopo la sconfitta di Sedan nel 1870 e l’esperienza della comune di Parigi, a rivelare la sua identità razziale e coloniale per eccellenza, sorta su quello che Sadri Kiari chiama il “patto razziale”.

Una repubblica che dà vita allo Stato-nazione, la sovrastruttura che condensa i nuovi rapporti di forza all’interno dello Stato, ripartiti come segue: predominio della borghesia sulle classi subalterne, predominio delle classi subalterne sulle razze inferiori. Da queste asimmetrie nasceranno poi le due grandi opposizioni al blocco borghese: con l’emergere della classe operaia, certamente integrata nel progetto nazionale ma economicamente antagonista al polo borghese, e con quella dei dannati della terra, esclusi dal progetto nazionale e antagonisti ai poli borghese e proletario in virtù della loro funzione nella divisione internazionale del lavoro2.

Un patto razziale che storicamente ha avuto origine, come già si accennava precedentemente, ancor prima delle Terza repubblica e che si è articolato attraverso una serie di “conquiste”, non solo in Francia, che daranno vita al “patto sociale” necessario per la diffusione dell’idea di “popolo sovrano” sorta dalla Rivoluzione francese.

L’unita nazionale è un imperativo economico, ma anche un imperativo di guerra. E’ proprio in questo periodo che all’interno delle metropoli coloniali si crea il patto sociale, corollario del patto nazionale, sotto forma di diritti sociali e politici. Si considerino dunque:
1789: Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino – Francia
1825: Riconoscimento dei sindacati – Gran Bretagna
1841: Divieto di lavoro per i bambini sotto gli 8 anni – Francia
1853: Limitazione della giornata lavorativa a 8 ore per donne e bambini – Gran Bretagna
1864: Diritto di sciopero – Francia
1875: Diritto di sciopero – Gran Bretagna
1884: Riconoscimento dei sindacati – Francia
1890: Riposo settimanale il sabato e la domenica – Gran Bretagna
1906: Un giorno di riposo settimanale – Francia
1910: Generalizzazione della giornata lavorativa di 10 ore – Francia3.

Ed è intorno a queste conquiste, pur dovute alle lotte dei proletari di fabbrica e non, che si articolerà il progetto di una democrazia razziale che vedrà esclusi i dannati della terra dai “privilegi” conquistati dai lavoratori e le lavoratrici bianchi/e. Sia nelle metropoli che nelle colonie. Una divisione che spingerà i lavoratori presunti nativi e bianchi a prendere sempre più le distanze dai loro fratelli “colorati” e a vederli come nemici e competitori proprio sulla base di salari e trattamenti destinati ad abbassare il costo di un parte della forza lavoro e forzatamente accettati.

Su questa differenziazione si creerà una situazione di presunta superiorità che i partiti dell’opportunismo socialdemocratico, alla fine del XIX secolo, e “comunisti”, nel corso del XX fino ed oltre la guerra d’Algeria, che soltanto la ripresa delle lotte generalizzate della fine degli anni ‘60, si pensi a quelle degli operai della Renault di Flins, avrebbe momentaneamente superato.

Proprio il 1945, data dell’ipotetica “liberazione” dal giogo nazista sulla Francia e sull’Europa e che aveva visto la subalternità d’azione delle forze della sinistra tradizionale agli interessi della borghesia nazionale, avrebbe segnato la data di un’ulteriore svolta nella storia del patto sociale/razziale.

L’8 maggio viene ripristinata la Repubblica, lo Stato di diritto succede a Vichy, ma si commettono ancora massacri coloniali, questa volta a Setif e Guelma in Algeria, che causano decine di migliaia di morti, cosi come in Siria e successivamente in Madagascar e in Camerun. Tutte le contraddizioni dello Stato razziale si cristallizzano in questa data dell’8 maggio 1945. Mentre i lavoratori francesi hanno ottenuto le ferie pagate nel 1936, il «piano completo» di sicurezza sociale volto a garantire a tutti i cittadini i mezzi di sussistenza in tutti i casi in cui non siano in grado di procurarseli mediante il lavoro, proposto dal Consiglio nazionale della Resistenza, viene adottato nell’ottobre 1945. Il preambolo della Quarta Repubblica riconosce a tutti il diritto alla protezione della salute, alla sicurezza materiale, al riposo e al tempo libero. Non c’è dubbio che la lotta di classe abbia pagato di fronte a un padronato indebolito da cinque anni di leale e zelante collaborazione con i nazisti (importanti movimenti di sciopero operaio si verificano soprattutto nel 1947), ma l’oppressione dei popoli colonizzati non viene messa in discussione, cosi come il privilegio della classe operaia bianca. Proprio come la Rivoluzione haitiana prima di esse, le Rivoluzioni vietnamita e algerina scuotono l’architettura dello Stato razziale senza tuttavia abbatterla4.

Privilegi e differenziazioni che, come spiega ancora bene l’autrice saranno progressivamente spazzati via dalla crisi di competitività del capitalismo occidentale e dalle politiche economiche dell’Unione Europea che si rivelerà, per un lato, un vero e proprio super-Stato razzial

L’Unione europea svolgerà un ruolo centrale nel rafforzare l’Europa bianca nel mondo. La modifica, il 10 settembre 2019, della denominazione della carica da “commissario europeo per la migrazione” a “commissario per la protezione del modo di vita europeo“ è stata una sorta di consapevole ammissione. Poiché questo è ciò che rappresenta il progetto di costruzione europea: un mezzo per gli Stati europei di trovare un’altra via per rafforzare e garantire la propria posizione egemonica nel mondo, mentre vedono svanire le loro colonie. Le istituzioni europee sono solo l’espressione cristallizzata delle classi dominanti nazionali, il cui potere e in parte trasferito a livello sovranazionale. […]. Il consolidamento economico e politico degli Stati nazionali europei passa quindi senza dubbio attraverso il consolidamento della Ue. I gruppi identitari mobilitati dietro lo slogan «Difendi l’Europa» non si sbagliano, la difesa della bianchezza non spetta più ai soli Stati nazionali. Pertanto, il rafforzamento del razzismo e dell’estrema destra nella Ue non avviene nonostante le politiche dell’Unione, ma proprio a causa di esse… Inoltre, l’estrema destra si accomoda perfettamente nella Ue, sperando addirittura di diventare maggioritaria (in Svezia, Polonia, Ungheria, Italia, forse in Francia…)[…] Diviene esplicito un aspetto già evidenziato negli anni Ottanta da René Gallissot, che ricordava come, di fronte ai processi di decolonizzazione e alle migrazioni, l’identità nazionale dovesse essere accompagnata da un’identità di “natura culturale”: «la difesa dell’identità francese è allo stesso tempo quella dell’identità europea, quella di una civiltà superiore la cui essenza è attribuita per eredità»5.

Mentre dall’altro, a fronte di un blocco occidentale in declino, per la prima volta:

Se esiste un doppio processo in atto nella costruzione europea, il rafforzamento da un lato di «questa identità intorno alla chiusura europea, bianca e cristiana» […] questo processo avviene a scapito del patto sociale. Se le borghesie nazionali erano finora riuscite a universalizzare i propri interessi associando la classe operaia a un patto sociale/razziale relativamente equilibrato, la Ue non permette più, nell’ambito della competizione serrata con le potenze capitalistiche emergenti, di offrire gli stessi vantaggi alle classi subalterne a livello europeo. La Ue è tecnocratica, antidemocratica e antisociale. In breve, essa mette in discussione il dispositivo generale dello Stato razziale integrale, che tra l’altro traeva legittimità anche dal suo braccio sociale. In tal modo, rompe il consenso che ha fatto la fortuna dello Stato-nazione e crea dissensi sia nell’estrema sinistra che nell’estrema destra dello spettro politico, cosi come all’interno delle classi sacrificate.
Lo Stato non si fonda più soltanto sul patto razziale, di cui i governanti lucidi temono l’usura. La nuova questione è: come mantenere il potere e proseguire la metodica demolizione del compromesso storico tra capitale e lavoro a vantaggio del primo, mentre cresce una rabbia sociale che prende di mira anzitutto la politica liberale del governo e le istituzioni dello Stato? Ecco la risposta: il razzismo6.

E proprio a questo punto può prendere avvio la proposta rivoluzionaria della Bouteldja ovvero quella di cercare di riunire beaufs e barbares, apparenti nemici per la pelle, soprattutto i primi nei confronti dei secondi anche al di fuori dell’Europa, per rivitalizzare un’unità di classe dal basso che sola potrà offrire qualche speranza di superamento dell’attuale esistente. E proprio qui sta l’interesse della proposta analitica dell’autrice e militante.

Purtroppo, a parere di chi scrive, tale proposta è inficiata a livello teorico e programmatico da alcune lacune non di poco conto. Prima di tutto il riferimento, per quanto riguarda l’interpretazione marxista, ad autori come Antonio Gramsci (per il passato) o Domenico Losurdo (per il presente) che dall’ambito del capitalismo nazionale e del socialismo nazionalistico non hanno mai saputo uscire, a differenza di altri come, mi perdonino i lettori la sua ennesima riproposizione, Amadeo Bordiga che già negli ‘50 e ‘60 aveva saputo trattare differentemente la questione dell’internazionalismo, del colonialismo e dei fattori di razza e nazione nell’ambito della Sinistra comunista7. Autore, Bordiga, rimosso dalla storiografia comunista proprio da quelle stesse forze che, in Italia col PCI togliattiano e il PCF in Francia, avevano così tanto aderito, così come i loro tremuli e liberali epigoni, al patto sociale erazziale criticato dalla Bouteldja.

Proprio questo può essere anche il motivo di una lettura sostanzialmente errata sia del ruolo della controrivoluzione nazista e fascista che più che spingere all’indietro la ruota della Storia, come pare di capire dalle righe che l’autrice franco-algerina dedica loro, costituirono invece potenti mezzi di ammodernamento e centralizzazione del capitale, di cui la “nazionalizzazione razziale delle masse” costituì un elemento con cui siamo costretti a fare i conti ancora oggi e non solo per merito delle scelte politiche della UE.

Politiche cui l’autrice guarda con un occhio ancora ispirato a un socialismo nazionale, ovvero affascinato dal mito del “socialismo in un solo paese”, che già ha impedito in passato alle rivoluzioni anti-coloniali di eliminare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla donna realizzandone soltanto le istanze borghesi e che, oggi, appare non più proponibile, e con l’altro influenzato da istanze elettorali portate avanti da compagini “politiche” improvvisate e prive di una chiara visione del divenire delle attuali contraddizioni interimperialistiche, capitalistiche e di classe, come la France insoumise di Jean-Luc Mélenchon e il fronte popolare ad essa riconducibile hanno dimostrato nelle recenti elezioni francesi che, dopo tanto berciare antifascista, hanno contribuito soltanto a mantenere ancora in sella un Macron già di per sé finito nella pattumiera della Storia.
Un’influenza, quella elettorale, che ha contribuito forse ad appannare lo sguardo, di solito estremamente lucido, della Bouteldja e l’efficacia di un testo comunque interessante e, per molti versi, necessario.


  1. Si vedano il sempre utile A. Mathiez, Carovita e lotte sociali nella rivoluzione francese. Dalla Costituente al Terrore, Edizioni Res Gestae, Milano 2015 (ed. originale francese 1973 con il titolo La vie chère et le mouvement social sous le Terreur) e D. Guérin, Borghesi e proletari nella rivoluzione francese, Vol. I e II,La Salamandra, Milano 1979 (ed. originale francese 1973: Bourgeois et bras nus 1793-1795).  

  2. H. Bouteldja, op. cit., p.50.  

  3. Ivi, p. 52.  

  4. Ibidem, p. 55.  

  5. Ivi, pp. 56-57.  

  6. Ibid, pp. 57-58.  

  7. Si vedano soltanto, ma gli articoli sarebbero innumerevoli, A. Bordiga, I fattori di razza e nazione nella teoria marxista, serie di articoli comparsi sul quindicinale «il programma comunista» dal n. 16 (11-25 settembre) al n. 20 (6-20 novembre) del 1953 e in seguito raccolti in un volume dallo stesso titolo dalle Edizioni Iskra, Milano 1976.  

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Avanti barbari!/5 – Gang, merce, autodifesa. Note sul “fronte interno” e la guerra in permanenza (seconda parte) https://www.carmillaonline.com/2024/09/19/avanti-barbari-gang-merce-autodifesa-note-sul-fronte-interno-e-la-guerra-in-permanenza-seconda-parte/ Thu, 19 Sep 2024 20:00:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84117 di Emilio Quadrelli

Il doppio volto della merce Un secondo aspetto decisamente non trascurabile è il ruolo che le merci assumono tanto nell’immaginario quanto nella concretezza dell’esistente dei ragazzi albanesi. Se nella nota Critica della filosofia del diritto di Hegel Marx asserisce che la religione è, al contempo, l’oppio dei popoli e il gemito degli oppressi, possiamo realisticamente mutuare oggi questo enunciato in: la merce è l’”oppio dei popoli” e, al contempo, il “gemito degli oppressi”. Non si scandalizzino i cultori dell’ortodossia per questa trasposizione di Marx dagli scranni austeri della critica religiosa, alle vetrine dei Centri commerciali ma la [...]]]> di Emilio Quadrelli

Il doppio volto della merce
Un secondo aspetto decisamente non trascurabile è il ruolo che le merci assumono tanto nell’immaginario quanto nella concretezza dell’esistente dei ragazzi albanesi. Se nella nota Critica della filosofia del diritto di Hegel Marx asserisce che la religione è, al contempo, l’oppio dei popoli e il gemito degli oppressi, possiamo realisticamente mutuare oggi questo enunciato in: la merce è l’”oppio dei popoli” e, al contempo, il “gemito degli oppressi”. Non si scandalizzino i cultori dell’ortodossia per questa trasposizione di Marx dagli scranni austeri della critica religiosa, alle vetrine dei Centri commerciali ma la modesta ricerca empirica sembra fornire più di un indicatore per andare in questa direzione. Rimanendo nell’ambito della città di Genova chiunque, per quanto poco prono alla ricerca etnografica, potrà constatare, con piena soddisfazione persino per il più irriducibile fautore dello scientismo e del coevo empirismo di matrice funzionalista che gli fa da corollario, come il centro commerciale della Fiumara con il suo sfavillio di merci esposte sia una delle mete maggiormente frequentate e preferite dalle gang dei giovani albanesi.

Il potere attrattivo di tutte quelle merci in bella vista ha una attrazione al limite del mistico tanto che, quasi si trattasse di una novella Terra Santa, il diritto esclusivo a stazionare nei perimetri immediatamente adiacenti ai “monasteri delle merci” è stato duramente conteso e infine conquistato da questi a discapito di altre gang giovanili di provenienza nordafricana. Il numero non proprio irrilevante di risse tra giovani albanesi e marocchini per il “controllo del territorio” ne rappresenta un’eccellente esemplificazione. Le merci sembrano possedere un potere ipnotico e sopranaturale al quale è impossibile resistere. Ma cosa incarnano le merci e in particolare alcune di loro? Questa la domanda alla quale bisogna provare a rispondere.

A governare l’immaginario dei giovani albanesi sono, in prima istanza, quelle marche come Adidas e Nike le quali, da tempo, governano i gusti e gli “stili di vita” della gioventù subalterna internazionale. In seconda battuta a essere oggetto e soggetto delle bramosie delle gang sono tutti quei capi di abbigliamento i quali, per i motivi più diversi, sono diventati oggetti di moda. Ciò non deve stupire poiché, almeno da Simmel in poi, sappiamo quanto, nelle società di massa, la moda giochi un ruolo, al contempo, normativo e distintivo oltre a essere un veicolo di inclusione sociale non trascurabile. Proprio sul carattere inclusivo occorre soffermarsi. Ciò a cui aspirano i giovani albanesi è quel consumo medio socialmente necessario in grado di garantire loro una sorta di “egualitarismo estetico” in modo da non farli percepire come altro. Esattamente qua si colloca il ruolo normativo e al contempo distintivo della moda il quale, a sua volta, veicola socializzazione e inclusione tra il gruppo dei pari. Ecco che, allora, il vezzo delle merci abbandona l’apparenza dell’effimero che una critica, bianca e benestante, riserva al mondo delle merci per assumere una valenza politica della quale il più delle volte se ne elude il senso.

Un tratto, quello dell’anticonsumismo di maniera, certamente non nuovo che ha caratterizzato a lungo un certo radicalismo bianco e borghese il quale, tra l’altro, può vantare teorici e autori di non poco spessore. Basti ricordare, al proposito, Marcuse, vera e propria icona di parte del movimento studentesco americano e non, che proprio intorno alla società dei consumi ha costruito la critica alle società neocapitaliste. Una critica non proprio insensata la quale, però, mostrava tutti i limiti di una critica bianca a uso e consumo dei bianchi (e per di più benestanti). Non per caso Marcuse ignora la linea di condotta dei nigger i quali, attraverso le forme organizzate del Black Panthers Party o nelle pratiche spontanee del riot, mostravano, nei confronti delle merci, un approccio, per essere gentili, a dir poco diverso1.

Allora non si tratta di celebrare l’ennesimo plauso al mondo delle merci ma, più materialisticamente e marxianamente, cogliere la contraddizione, ossia la relazione dialettica, che dentro questo mondo si cela. Solo cogliendo i due lati della questione, oppio dei popoli e gemito degli oppressi, ci si emancipa da quella “critica illuminista” che ben poco ha a che vedere con la condizione materiale proletaria così come, più prosaicamente, è sempre opportuno ricordare che la povertà o la scarsità dei consumi può risultare accattivante a chi ha consumato troppo ma non per chi passa la vita a osservare con rancore il luccichio delle vetrine. In altre parole, un’esistenza a base di “pane e cerase” può risultare suggestiva e intrigante a chi è abituato a ingozzarsi ma sicuramente non lo è per chi, di “pane e cerase”, si è abitualmente nutrito. A fronte di ciò non del tutto incomprensibile si mostra l’“accanimento consumistico” ovvero il desiderio di possedere e ostentare le merci che anima i giovani albanesi.

Marciare o morire
Se le merci assolvono a questa imprescindibile ed esistenziale funzione sociale, averle diventa una questione di vita o di morte. In assenza di risorse non resta che rubarle ed è esattamente questa la linea di condotta delle giovani gang albanesi. Del numero di giovani albanesi denunciati per taccheggio nei Centri commerciali si è persino perso il conto. Tuttavia, sarebbe estremamente riduttivo perimetrare il tutto all’interno di una semplice questione economica. Nella pratica del furto e del taccheggio c’è qualcosa di ben poco riconducibile all’economicismo. Con buona pace dei meccanicisti o dei pavloviani di ritorno la linea di condotta dei giovani albanesi va oltre il nudo e puro dato economico.

Prima di proseguire vale la pena di evidenziare il tratto apertamente razzista che fa da sfondo alle spiegazioni economiciste. Queste, infatti, riducono l’insieme dei comportamenti subalterni, e ciò oggi è particolarmente vero nei confronti degli immigrati, al semplice soddisfacimento di un insieme di bisogni primari. Ciò che a una quota di popolazione viene bellamente sottratta è la dimensione della soggettività con tutto ciò che questa si porta appresso. Nessun immaginario e alcun desiderio animerebbe l’agire, in questo caso, dei giovani albanesi ma la semplice e “bestiale” necessità di soddisfare un bisogno elementare. A fronte di questa interpretazione oggettivista e meccanicista diventa invece decisivo cogliere gli elementi di soggettività che fanno da sfondo alle gang. Solo a partire da questi diventa possibile comprendere la complessità di significati alla base della forma gang. Con ciò entriamo direttamente nella parte conclusiva del ragionamento.

A prima vista le gang potrebbero apparire come una semplice struttura semi organizzata finalizzata al realizzo di una serie di attività illecite. A uno sguardo leggermente più attento le cose si mostrano più complesse e ciò che, in apparenza, appare come una micro-struttura criminale apre a un intero mondo sociale del quale, obiettivamente, sappiamo ben poco ma nei confronti del quale, il più delle volte, vengono adottati tutti i criteri possibili dello stigma. Si tratta, allora, di dare linguaggio a un mondo confinato perennemente nell’ambito della voce.

Partiamo, intanto, con il definire il perimetro della gang. Questo si pone radicalmente in opposizione, potremmo dire polemica, con il mondo adulto. In sostanza una forma di organizzazione e autodifesa dei “piccoli uomini” verso il mondo degli adulti. In primis, questo l’aspetto centrale e per lo più non osservato, il mondo adulto dei connazionali. Per comprenderlo dobbiamo partire dal modello sociale, pesantemente patriarcale, presente in Albania e tutto ciò che si porta appresso. Il maschio adulto, qui, esercita un potere politico pressoché assoluto sulle donne e i “piccoli uomini”. La dominazione delle donne e dei “piccoli uomini” appare talmente ovvio e scontato da assumere tratti al limite del naturalismo. Una dominazione che si reitera, e con ampio successo, anche dentro i percorsi migratori. La dipendenza dei “giovani uomini” dalle infinite pletore di zii, cugini o più semplicemente degli “amici di famiglia” è pressoché assoluta. Non si tratta di una dominazione fine a sé stessa ma di un dominio che comporta la messa al lavoro delle donne e dei “piccoli uomini” dentro una relazione non distante dalla dimensione coatta. Ciò è vero sia nel caso della messa al lavoro legale e ancor più nel caso di attività illecite.

Sullo sfruttamento del lavoro minorile si basano, infatti, una parte considerevole delle imprese a capitale albanese. Uno sfruttamento che, per molti versi, ricorda il modo in cui, nel corso della grande immigrazione interna dal sud a nord Italia, veniva reclutata mano d’opera meridionale de-contrattualizzata per quell’enorme indotto che faceva da corollario alle grandi fabbriche, sia pubbliche che private. Anche allora, giocando sullo stigma che accompagnava la figura dell’immigrato, parenti o anche semplici compaesani inseriti, sia come titolari o “caporali”, nei settori lavorativi propri della “classe operaia dura” reclutavano con fare palesemente “mafioso” tutta quella forza lavoro approdata al nord senza alcun tipo di reti protettive. Il compaesano che li inseriva dentro un qualunque lavoro e che su di loro si arricchiva diventava, però, anche l’unico personaggio in grado di offrire loro una qualche forma di protezione sociale e amicale. Ciò ha comportato, per tutta una fase, il reiterarsi di quel vincolo “di comunità” che la modernità sembrava, grazie all’affermarsi della “filosofia del denaro”, aver mandato in archivio. Una condizione di servaggio che sembrava tanto eterna quanto priva di emancipazione. Ci sono voluti anni, infatti, per mandare in frantumi l’insieme di questi vincoli e con loro i vari compari e comparielli che li sostanziavano. Le lotte dell’operaio-massa, mentre inceppavano i processi di valorizzazione e accumulazione, mettevano definitivamente fine a quell’insieme di “vincoli comunitari” all’origine della propria sudditanza.

Fatte le tare del caso tutto ciò si ripete attualmente con i giovani albanesi. Socialmente stigmatizzati ed esclusi trovano nell’inserimento lavorativo dello zio di turno la sola chance che gli viene offerta. Una chance che, a conti fatti, più che una felice articolazione di quel fiorire di opportunità che, secondo le retoriche neoliberiste, l’era cosiddetta globale si porterebbe appresso, assume molto più realisticamente i tratti della “forca caudina”. Proprio in questo lo “scarto antropologico” tra i “piccoli uomini” e i Millennial si mostra, ancora una volta, quanto mai radicale. Al mondo delle opportunità in permanenza di questi ultimi si contrappone il mondo della servitù in permanenza dei “piccoli uomini”. Di ciò la cornice lavorativa ne offre qualcosa di più di una semplice esemplificazione.

Ritmi, orari e salario sono variabili decise unicamente dal connazionale che incarna in tutto e per tutto la figura del padre/padrone così come, per altro verso, norme di sicurezza, assicurazione e via discorrendo non sono altro che chimere. Tutto ciò permette a queste aziende di essere estremamente competitive e di ritagliarsi quote di mercato di una certa, per quanto modesta, rilevanza nei mercati secondari dei nostri mondi. Un inserimento particolarmente caro agli abitanti della città legittima poiché, a usufruire di ciò è immancabilmente l’individuo-cittadino il quale, di queste aziende, si serve con non malcelato compiacimento. Provatevi a chiedervi, in maniera molto prosaica, quanti appartamenti, quante facciate dei palazzi, quanti impianti idraulici o elettrici, solo per fare gli esempi che immediatamente vengono a mente, di proprietà degli individui-cittadini, sono stati realizzati da ditte di questo tipo oppure quante ristrutturazioni di abitazioni sono state realizzate a prezzi estremamente economici.

Gran parte di questi lavori, in economia, sono possibili solo grazie allo sfruttamento intensivo di questa giovane forza lavoro socialmente esclusa e ascritta agli ambiti della marginalità. Sullo sfondo di questa gestione “mafiosa” e patriarcale della forza lavoro si staglia, in veste di primo attore, l’interesse dell’individuo–cittadino il che non è un caso. In ciò, questi, non fa che reimportare entro i confini nazionali la linea di condotta neocoloniale, e qua torna prepotentemente la continuità tra guerra interna e guerra esterna, esportata abitualmente attraverso quelle operazioni di polizia internazionale o guerre umanitarie che dir si voglia verso le popolazioni extracomunitarie.

Ecco che, allora, da quella che poteva apparire una semplice curiosità sociologica o un vezzo dell’antropologia culturale si approda velocemente dentro una condizione politica e materiale che non poche cose racconta intorno alla guerra, la sua gestione, le sue finalità. Se la guerra è principalmente guerra contro la popolazione al contempo è anche guerra per la popolazione. La messa al lavoro dei corpi subalterni, in condizioni estremamente vantaggiose per il comando del capitale è, se non il solo, uno degli obiettivi strategici della guerra in permanenza. Realisticamente l’anticolonialismo istintuale dei giovani albanesi che si traduce in insofferenza e odio verso il colonizzatore italiano sembra avere più che un grano di sensatezza. Dietro allo zio di turno compare sempre la macchina coloniale e questa macchina ha targa italiana.

Servitù o barbarie
La musica non cambia se dalle attività legali spostiamo lo sguardo verso i mondi illegali. Anche in questo caso, e forse in maniera ancora più dura, il mondo degli adulti sfrutta senza remore e parsimonia la condizione di sudditanza del “piccolo uomo”. Confidando sulla minore punibilità che la condizione di minore comporta, questi vengono impiegati in uno dei “lavori” più pericolosi: il micro-spaccio di strada. Il mestiere di “cavallo”, infatti, è una delle più frequenti attività alla quale le bande illegali adulte indirizzano i “piccoli uomini”. A ciò, in non pochi casi, va aggiunto il furto su commissione, specie in appartamento. Curiosamente, ma neppure troppo, anche in questo caso il lavoro illegale soggiace alle stesse regole salariali del lavoro legittimo. Sia i proventi dello spaccio che il bottino procacciato attraverso i furti non finiscono nelle tasche dei “piccoli uomini” ma in quelle dei rispettivi “datori di lavoro”. Ai “piccoli uomini” viene semplicemente corrisposto un modesto salario giornaliero. Tutto questo dentro un ambito gerarchico che non conosce modificazioni di sorta.

Di fronte a tutto ciò le gang costituiscono un elemento di difesa, solidarietà e socialità che concretizza un autentico spazio di autonomia. Difesa perché consente loro di porre in campo una forza, anche di tipo “militare”, in grado di contrapporsi collettivamente ai vari tipi di imposizioni e soprusi confidando sulla rimessa in circolo di quel: uno per tutti, tutti per uno che, nella storia dei subalterni, ha giocato un ruolo ben diverso da quel romanticismo di maniera in cui la morale borghese, per depotenziarlo, lo ha confinato. Essere uno per tutti e tutti per uno rimanda a quella idea di “forza di massa” che tanti brividi fa scorrere sulle schiene dei borghesi. Questo esistere come “collettività cosciente e compatta”, che è ben diverso dall’essere massa informe senza volto è, già di per sé, un elemento che rompe l’ordine sociale contemporaneo. Se c’è qualcosa che la borghesia, tutta la borghesia, non può tollerare è il riaffiorare di una forma collettiva fondata su complicità, solidarietà, senso dell’appartenenza, fratellanza e, in virtù di ciò, assolutamente non prona ad assoggettarsi alle diverse articolazioni del dominio.

La gang quindi si mostra come uno spazio autonomo e autogestito all’interno del quale è possibile sottrarsi alle imposizioni che il mondo degli adulti impone in continuazione ai “piccoli uomini”. Non l’edulcorato mondo dei Millenial e il loro essere giovani per sempre ma tutta la materialità di questa nuova “dura razza pagana” la quale, per non soccombere e servire, può solamente imparare a combattere e lo deve fare velocemente. Non il patinato mondo degli individui-cittadini ma tutta l’asprezza di chi, nell’economia globale, non può essere altro che massa senza volto e per emanciparsi deve trovare una qualche forma di esistenza collettiva. Non il rassicurante mondo degli inclusi globalizzati ma la dura condizione dei globalizzati in basso che, fuor di metafora, li ascrive nella dimensione dei dannati della metropoli 2.

A partire da ciò, allora, la gang diventa in prima istanza una forma concreta di quel riscatto al quale, da sempre i subalterni aspirano. Un luogo in qualche modo affrancato all’interno del quale, insieme al senso di appartenenza, si respira un’aria di eguaglianza e sodale fratellanza. Ciò consente di sottrarsi, o almeno provarci, alle relazioni di potere entro cui i giovani albanesi sono immessi. Essere una gang significa avere sufficiente forza e autonomia da poter contrapporsi all’imposizione del lavoro coatto tanto legale quanto illegale. Significa rompere con quella dimensione di solitudine e impotenza nella quale si è relegati. Significa soprattutto acquisire rispetto. Ciò comporta inevitabilmente una serie di atti di sfida, con tutto ciò che questo comporta, nei confronti dei vari poteri deputati a governarli. Non è un caso, quindi, che le gang siano entrate velocemente nel mirino degli specialisti della sicurezza. Ciò che obiettivamente inquieta non sono tanto i modesti reati che questi consumano ma la loro palese intenzionalità di sottrarsi al dominio. Questo il linguaggio che va restituito alle gang.

Come enunciato sin da subito queste sono solo semplici note. La materia è talmente ampia che meriterebbe sicuramente una trattazione di altro spessore. Tuttavia, a partire da queste note, si può se non altro iniziare a restituire una dimensione di dignità e legittimazione ai “piccoli uomini” i quali, con ogni mezzo necessario, cercano di sottrarsi alla dimensione dei dannati della metropoli. Come anticipato tutto ciò non è molto, sicuramente però è qualcosa e lo è, in particolare, per tutti coloro che si pongono il problema di porre in relazione guerra interna e guerra esterna. La condizione dei “piccoli uomini albanesi” è un frutto diretto dell’imperialismo contemporaneo, la loro riduzione a masse senza volto diretta conseguenza di quella pratica neocoloniale che informa per intero la forma guerra del presente. Obiettivamente, lo vogliano o meno, sono uno dei molteplici poli del “fronte interno”. Provarne a conoscerne, per lo meno, i tratti non è solo utile ma doveroso.

(Fine)


  1. Si veda al proposito il classico Jerry Cohen, William S. Murphy, Burn, Baby, Burn! The Los Angeles Riot, August 1965, Dutton, New York 1966.  

  2. Su questo aspetto si veda il bel lavoro di Andrea Staid, I dannati della metropoli. Etnografie dei migranti ai confini della legalità, Milieu, Milano 2014.  

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