Marshall McLuhan – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 01 May 2025 23:18:21 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Estetiche del potere. La (tele)dittatura del divertimento https://www.carmillaonline.com/2023/10/12/estetiche-del-potere-la-teledittatura-del-divertimento/ Thu, 12 Oct 2023 20:00:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79306 di Gioacchino Toni

A metà degli anni Ottanta del secolo scorso negli Stati Uniti e in maniera analoga, seppure in leggera differita, in buona parte dell’Occidente, mentre sugli schermi televisivi imperversavano Dynasty, Dallas, The A-Team, Cheers e Hill Street Blues, i telepredicatori facevano il pieno di ascolti e alla sobrietà della tv dei decenni precedenti si sostituivano sguaiate risate registrate e fragorosi applausi a comando, quanti avevano letto Nineteen Eighty-Four (1949) di George Orwell potevano rallegrarsi del fatto che, giunti al fatidico 1984, la società in cui vivevano non aveva assunto le sembianze della distopia prospettata dal romanzo.

A trarre un [...]]]> di Gioacchino Toni

A metà degli anni Ottanta del secolo scorso negli Stati Uniti e in maniera analoga, seppure in leggera differita, in buona parte dell’Occidente, mentre sugli schermi televisivi imperversavano Dynasty, Dallas, The A-Team, Cheers e Hill Street Blues, i telepredicatori facevano il pieno di ascolti e alla sobrietà della tv dei decenni precedenti si sostituivano sguaiate risate registrate e fragorosi applausi a comando, quanti avevano letto Nineteen Eighty-Four (1949) di George Orwell potevano rallegrarsi del fatto che, giunti al fatidico 1984, la società in cui vivevano non aveva assunto le sembianze della distopia prospettata dal romanzo.

A trarre un sospiro di sollievo potrebbero però essere stati soltanto coloro che non avevano letto, o avevano nel frattempo rimosso, il meno celebre Brave New World (1932) di Aldous Huxley in cui la tirannia anziché essere esercitata per via coercitiva aveva saputo rendersi desiderabile.

Insomma, negli anni Ottanta, in Occidente, anziché avverarsi la distopia orwelliana, a compiersi, in sordina, era quella huxleyana, rivelatasi più in linea con le esigenze di una società votata alla mercificazione e al consumismo più sfrenati.

Sebbene nella stretta contemporaneità, segnata da un insistito ricorso a stati emergenziali, i due scenari distopici sembrino non di rado intrecciarsi, si tende a individuare il modello orwelliano, contraddistinto da un tipo di oppressione imposta dall’alto deprivante il popolo della propria memoria e autonomia, nei sistemi esplicitamente dittatoriali, mentre invece quello huxleyano, in cui il potere riesce a far amare al popolo il proprio oppressore e a sostenere le tecnologie tese ad annullare la capacità di pensiero, nei sistemi più democratici.

Convinto dell’importanza delle tecnologie e dei media nella costruzione della realtà, nella definizione delle percezioni, nell’organizzazione delle esperienze e delle relazioni emotive e nell’azione sociale degli individui, in Amusing Ourselves to Death (1985), analizzando gli effetti socioculturali del medium televisivo, il sociologo statunitense Neil Postman ha colto proprio in esso lo strumento principale di attuazione della pratica di dominio prospettata da Huxley nei primi anni Trenta, agli albori di quella che si sarebbe rivelata l’era televisiva.

In occasione dell’uscita di una nuova edizione italiana del volume di Neil Postman, Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo, prefazione di Matteo Bittanti e traduzione di Leone Diena (Luiss University Press, 2023), vale la pena evidenziare come diverse riflessioni espresse dal sociologo statunitense, che sarebbero poi in parte da lui stesso riprese e sviluppate nel successivo Technopoly. La resa della cultura alla tecnologia (Bollati Bornighieri, 1993), nonostante facciano riferimento a un panorama mediatico ormai decisamente cambiato, restino assolutamente valide ai giorni nostri segnati dall’affiancamento di internet al mezzo televisivo.

Gli anni Ottanta sono passati alla storia come il decennio della superficialità, della frivolezza, del trash e dell’usa e getta, un periodo, come ha sostenuto Tommaso Ariemma (Dark Media. Cultura visuale e nuovi media, Meltemi 2022)1, caratterizzato non tanto dalla sensazione di “mancanza di futuro”, quanto piuttosto dal “futuro già presente” derivata in buona parte dall’estetica della simulazione diffusasi con le nuove tecnologie informatiche, grazie soprattutto al Mac, votata alla celebrazione della sola “superficie visuale”.

All’individualismo degli anni Ottanta si è affiancata, in parte anche in reazione ad esso, una spinta all’isolamento in un universo fittizio in cui si è cercato rifugio in seguito alla delusione indotta dal mondo reale rivelatosi incapace di soddisfare le aspirazioni dei più giovani. Un ripiegamento votato al primato della sensazione, dell’immediato, del mero “significato di superficie”, anticipando di fatto quella web culture che avrebbe finito per sostituire alle relazioni amicali il desiderio del sentire e, come efficacemente sostenuto da Mario Perniola (Del sentire, Einaudi 1991), all’ideologia, socializzazione dei pensieri, la “sensologia”, socializzazione dei sensi.

L’analisi del medium televisivo proposta da Postman in Divertirsi da morire, nel suo porsi, scrive Matteo Bittanti nella prefazione al volume, come sintesi nella dialettica che vede Gli strumenti del comunicare (1964) di Marshall McLuhan e La società dello spettacolo (1967) di Guy Debord occupare rispettivamente il ruolo di tesi e di antitesi, ha il grande merito di mostraci oggi come le premesse della web culture siano ravvisabili nel medium televisivo degli anni Ottanta, nella sua «forma di comunicazione basata unicamente sull’intrattenimento e sullo svago – entertainment, infotaiment, amusement – introducendo un’estetica squisitamente spettacolare».

Un mezzo di comunicazione votato dunque a promuovere contenuti visuali leggeri, trasmessi in rapida e frammentata successione, mercificati, dunque progettati per attrarre e intrattenere il pubblico divertendolo ben oltre i generi storicamente votati a tale compito. Come ha avuto modo di segnalare Carmine Castoro (Clinica della TV, 2015)2, l’inarrestabile flusso casuale di comunicati decontestualizzati supporta pratiche di seduzione consumistica e di istupidimento deprivanti l’essere umano di capacità critica, intrattenendolo attraverso un flusso soporifero di immagini.

Il divertimento/intrattenimento che plasma la televisione degli anni Ottanta, in tutti i suoi programmi, notiziari compresi, si pone per certi versi alla base di quei processi di ludicizzazione3 che si dispiegheranno nel web nei decenni successivi e, più in generale, di quella logica che ha saputo rendere costantemente produttivi gli utenti di internet facendo loro percepire il lavoro non pagato a cui si sottopongono come mera attività ludica.

Se è usuale individuare nella storia statunitense una città che, più di altre, può essere vista come incarnazione dello spirito americano del tempo, per gli anni Ottanta, sostiene Postman, questa è sicuramente Las Vegas e lo è perché in essa vive esclusivamente il divertimento, esattamente come nella televisione. Il problema, sottolinea il sociologo, non è certo dato dall’offerta di divertimento da parte della televisione, quanto piuttosto dal fatto che tutto in essa sia dia all’insegna del divertimento, che l’intrattenimento sia l’inderogabile “superideologia” di ogni discorso televisivo.

“Ed ecco a voi…” è probabilmente una delle frasi più ricorrenti in televisione, tanto da fungere quasi da punteggiatura volta a mettere un punto fermo dopo quanto visto fino a quel momento per aprire un discorso totalmente nuovo. «La frase è fatta apposta per mettere in luce il fatto che il mondo così com’è descritto dai frettolosi mezzi elettronici non ha nessun ordine e nessun senso e non deve essere preso troppo sul serio. Non c’è assassino così efferato, terremoto cosi disastroso, guaio politico così grave […] che non possa essere cancellato dalla nostra memoria con un: “Ed ecco a voi…”».

Con tali parole viene suggerito ai telespettatori che quanto visto fino a quel momento non merita ulteriore spazio, approfondimento o riflessione e che è giunto il momento di proiettarsi su un nuovo frammento di notizia o di pubblicità, che poi così diverse non sono. Certo, il modello “Ed ecco a voi…” non è stato inventato dalla televisione, che lo ha derivato dal connubio tra telegrafo e fotografia, ma sicuramente, sostiene Postman, è stata la tv a condurlo alla sua «attuale perversa maturità» ed è proprio nel telegiornale che tale modello «si mostra nella sua forma più sfrontata e imbarazzante» finalizzata unicamente all’intrattenimento.

Nel suo susseguirsi di frammenti non solo slegati uno dall’altro ma anche neganti importanza al precedente di turno, di cui si palesa la necessità di abbandono frettoloso, la televisione minimizza ogni notizia; per quanto grave possa sembrare, questa sarà presto seguita da una di minor gravità, o da una pubblicità, che provvederà a banalizzarla.

Si è «ormai talmente assuefatti all’universo di “Ed ecco a voi…” – un universo a frammenti, in cui i vari fatti se ne stanno da soli strappati da ogni connessione col passato, o col futuro, o con altri fatti – che sono vanificate tutte le presunzioni di coerenza. E quindi anche ogni contraddizione. Nel contesto di nessun contesto, per così dire, la contraddizione semplicemente svanisce».

Sebbene non sia possibile incolpare esclusivamente la televisione di tutto ciò, afferma Postman a metà degli anni Ottanta, di certo tale medium rappresenta «il paradigma della nostra concezione di informazione» e visto che la pubblicità televisiva si presenta come «la forma più vistosa di comunicazione pubblica nella nostra società», continua il sociologo, «era inevitabile che gli americani dovessero […] accettarla come forma normale e plausibile di discorso».

Occorre aggiungere che se, come sostiene Postman, negli anni Ottanta l’intrattenimento televisivo era indubbiamente fondato sul divertimento, nei decenni successivi l’intrattenimento si sarebbe avvalso anche della “tv del dolore” contraddistinta, come argomenta Carmine Castoro (Il sangue e lo schermo, Mimesis 2017)4, da un’iconografia della paura costruita su pandemie, calamità naturali e attentati spalmati sul nulla di ore e ore di dirette attraversate da narrazioni ripetitive, opinionisti improvvisati, inviati e video amatoriali trasmessi in un estenuante e ansiogeno ripetesi di immagini di soccorritori e di disperazione in un loop di etichette ripetute come un mantra: “crimine efferato”, “tragedia immane”, “apocalisse”, “disastro epocale” e via dicendo.

In chiusura di libro, riprendendo la distopia prospettata da Brave New World5,  Postman sottolinea come ciò che Huxley aveva cercato di dirci è che ciò che affliggeva gli abitanti del mondo nuovo tratteggiato dal suo romanzo «non era ridere anziché pensare, ma non sapere per che cosa ridessero e perché avessero cessato di pensare». Verrebbe da dire che se si pensava di seppellire lor signori con una risata, è finita che oggi si ride davanti agli schermi – televisivi o degli smartphone – senza sapere di cosa e perché e, soprattutto, avendo mandato (da tempo) in vacanza il cervello.

In una contemporaneità tecnocratico-liberista in cui, come denuncia Bittanti nella prefazione al volume, in ambito accademico l’analisi dei media si riduce al funzionalismo applicato, all’ottimizzazione dei motori di ricerca e alle strategie di gamification volte a generare profitto, «Divertirsi da morire rappresenta un’anomalia tanto anacronistica quanto preziosa». Quello di Postman è un libro che non ha bisogno di like, ma di essere letto e preso sul serio.


Estetiche del potere – serie completa


  1. Cfr. Gioacchino Toni, Dark Media, in “Carmilla online”, 26 giugno 2023. 

  2. Cfr. Gioacchino Toni, Estetiche del potere. Virtualizzazione, estetizzazione, neutralizzazione ed altre patologie virali del Tele-Capitalismo, in “Carmilla online”, 4 maggio 2016. 

  3. Cfr. Gioacchino Toni, Gamification e controllo comportamentale, in “Pulp Magazine”, 22 febbraio, 2023; Matteo Bittanti, A lezione di Pokémon Go. Da A(lfie Bown) a (Shoshana) Z(uboff), Università Iulm, 18 novembre 2022. 

  4. Cfr. Gioacchino Toni, Estetiche del potere. Il sangue e lo schermo. La mercificazione della paura nell’era dei media spacciatori di assenze, in “Carmilla online”, 29 dicembre 2017. 

  5. Cfr. Gian Paolo Serino, Aldous Huxley e la distopia, in “Carmilla online”, 8 settembre 2003. 

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Il destino del corpo elettrico https://www.carmillaonline.com/2022/09/14/il-destino-del-corpo-elettrico/ Wed, 14 Sep 2022 20:01:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73614 di Sandro Moiso

Antonio Caronia, Il corpo virtuale. Dal corpo robotizzato al corpo disseminato nelle reti, a cura di German A. Duarte e con una postfazione di Marcel-lí Antúnez Roca, Krisis Publishing 2022, pp. 220, €18,00

Canto il corpo elettrico, le schiere di quelli che amo mi abbracciano e io li abbraccio, non mi lasceranno sinché non andrà con loro, non risponderà loro, e li purificherà, li caricherà in pieno con il carico dell’anima. E’ mai stato chiesto se quelli che corrompono i propri corpi nascondono se stessi? E se quanti [...]]]> di Sandro Moiso

Antonio Caronia, Il corpo virtuale. Dal corpo robotizzato al corpo disseminato nelle reti, a cura di German A. Duarte e con una postfazione di Marcel-lí Antúnez Roca, Krisis Publishing 2022, pp. 220, €18,00

Canto il corpo elettrico, le schiere di quelli che amo mi abbracciano e io li abbraccio, non mi lasceranno sinché non andrà con loro, non risponderà loro, e li purificherà, li caricherà in pieno con il carico dell’anima.
E’ mai stato chiesto se quelli che corrompono i propri corpi nascondono se stessi? E se quanti contaminano i viventi sono malvagi come quelli che contaminano i morti? E se il corpo non agisce pienamente come fa l’anima? E se il corpo non fosse l’anima, l’anima cosa sarebbe? (Walt Whitman – I Sing the Body Electric)

Sono passati più di centocinquant’anni dalla prometeica intuizione contenuta nei versi di Walt Whitman ed inserita nella sua unica raccolta di poesie, «Foglie d’erba», pubblicata per la prima volta nel 1855 e in seguito rivista ed ampliata più volte. Eppure soltanto oggi è forse possibile comprendere appieno il significato di quella comunanza dei corpi “fisici” e la loro intrinseca e specifica bellezza e diversità esaltata allora dal poeta americano.

E’ stato Antonio Caronia (1944-2013), in un saggio edito per la prima volta nel 1996 e oggi ripubblicato dalle sempre meritorie edizioni Krisis Publishing di Brescia, a sviluppare in senso attuale quel “canto”.
Anche se lo ha fatto in prosa e con un testo che analizza nel dettaglio le trasformazioni del corpo fisico e della specie avvenute in seguito allo sviluppo delle diverse tecnologie a disposizione delle differenti e successive società umane, nel tentativo di proiettarsi nella comprensione del destino futuro delle funzioni e dello sviluppo dello stesso una volta inserito nel magma della comunicazione elettronica.

L’autore, saggista, docente di Comunicazione all’Accademia di Brera e figura di spicco della critica letteraria fantascientifica italiana fra gli anni settanta e ottanta, attraverso una cavalcata che, sulle orme di Marshall McLuhan e dei più importanti innovatori della letteratura fantascientifica e del cinema corrispondente (da Asimov a Ballard e da Dick a Sterling e Gibson fino a Cronenberg), ci porta dall’avvento della scrittura alla Rete e oltre. Ci fa riflettere sulla progressiva esternalizzazione delle funzioni cognitive, ma non solo, svolte dal nostro corpo “naturale” a favore di tecnologie che se da un lato ingigantiscono le nostre capacità di gestire dati, dall’altra sembrano trasformare e condizionare sempre più il nostro immaginario e il corpo “sociale”.

Come afferma il curatore:

La prima edizione di questo volume è apparsa nel periodo in cui si andavano consolidando le narrazioni utopiche che hanno accompagnato lo sviluppo delle tecnologie digitali e della rete […] La rete, in particolare, sembrava poter dare voce al singolo cittadino, e molti leggevano questa sua potenzialità come la capacità, insita nel digitale, di determinare processi sociali complessi. Ed era fuor di dubbio, all’interno della narrazione utopica, che tutti questi processi fossero avviati verso una democrazia diretta, o quantomeno più partecipativa.
[…] Negli stessi anni, però, il panorama democratico e quello liberale cominciavano ugualmente a mutare. Progressivamente, quegli stessi scenari si trasformavano in un laboratorio per le multinazionali e le corporations che regnano nel mediascape contemporaneo. E’ infatti proprio nel momento più alto dell’ondata libertarianista che, in forma embrionale, le corporations hanno trovato terreno fertile, minando progressivamente questi spazi di libero scambio di idee, d’informazione e di merci, e appropriandosene successivamente a livello planetario1.

Proprio in ciò che è sottolineato da German Duarte sta l’estremo interesse insito nella riedizione del testo di Caronia, ovvero nella possibilità di mettere a confronto ciò che un quarto di secolo fa si poteva intravedere nello sviluppo dei media e delle tecnologie digitali con ciò che è effettivamente avvenuto, poiché la problematica costituita da ciò che avrebbe potuto essere e ciò che effettivamente è stato era già, in qualche modo, presente nel lavoro di Caronia, soprattutto quando nelle sue pagine «ci mette ripetutamente in guardia contro il possibile “tecnopolio” incarnato dalla Microsoft , nella persona di Bill Gates»2.

Lo sguardo dell’autore non era alimentato infatti soltanto del discorso “utopico” e fantascientifico, oltre che tecnologico e artistico sull’uso delle nuove tecnologie, ma anche dall’attenzione per i contraddittori processi sociali, cognitivi e politici messi in moto dal capitale in tutte le sue stagioni di esistenza. Anche se la sua attenzione si spingeva fino all’età neolitica, con l’invenzione dell’agricoltura e di società complesse, organizzate intorno al lavoro. Età neolitica in cui, nonostante la Rivoluzione industriale, secondo lo stesso, saremmo ancora inseriti proprio per la centralità costituita dal lavoro produttivo.

Agricoltura che ha segnato i primi passi della società umana verso quella trasformazione o “artificializzazione” del paesaggio e dell’ambiente che oggi regna incontrastata, nella realtà e nell’immaginario. D’altra parte la progressiva artificializzazione del corpo, dalle protesi alle medicine quotidianamente ingerite per gli scopi più disparati fino alla costruzione di identità fittizie in rete, sui social e nella Realtà Virtuale (RV), non può essere separata da quella del mondo che circonda l’individuo sociale. Come aveva già ben compreso James Ballard.

Il cyborg di Ballard non ha bisogno di impiantare fisicamente la tecnologia all’interno del proprio corpo. Quest’ultima, diffusa nel suo ambiente, agisce in lui direttamente a livello mentale, si inscrive nel suo sistema nervoso, con uno scambio tra l’interno e l’esterno che riattiva un processo simbolico a livello di tutto il corpo. Ma la civiltà industriale matura vive nell’apoteosi dell’esteriorizzazione prodotta dalla società mediatizzata e informatizzata, si crogiola nel trionfo della separazione analitica tra mente e corpo, coltiva l’illusione delirante di riunificare il mondo sotto un unico principio, lo sguardo oggettivo e impersonale della scienza, la logica dell’equivalenza astratta. In queste condizioni ogni riattivazione di un processo simbolico a livello del corpo non può avere che una conseguenza: l’impossibilità di leggere in modo “socialmente corretto” i codici di scrittura del comportamento, la rottura della “normalità sociale”, l’insorgere di quella che la medicina ufficiale chiama “malattia mentale”. E così è con i personaggi di Ballard, che, come spesso in Dick, solo attraverso la malattia, la perdita dell’identità, la confusione tra io e mondo, possono tentare di dare un senso alla propria vita e a tutto ciò che li circonda. Ma Ballard (e questo è uno dei suoi meriti) non descrive questi processi collocandosene al di fuori, non assume alcun punto di vista morale o nostalgico. Al contrario, mostra come tutto ciò non sia effetto di una logica estranea e alternativa, ma sia conseguenza ineluttabile dello sviluppo delle tecnologie e dei media, che nella loro ipertrofia aprono una contraddizione insanabile con i fondamenti della società che li ha prodotti3.

In realtà la separazione tra mente e corpo e l’unione tra corpo e macchina inizia ben prima dell’età dei media elettronici e della realtà virtuale. E’ stato Marx a sottolineare il processo di estraniazione e alienazione che ha accompagnato lo sviluppo industriale e la progressiva sottomissione del lavorato alla macchina, alla scienza applicata e al capitale. Motivo per cui l’idea del cyborg e del robot (termine slavo con cui si indica il lavoro mentre con robotnik si indica l’operaio) affonda le sue radici nello sviluppo della rivoluzione industriale e delle sue conseguenze sociali, economiche, politiche e culturali.

Oggi sappiamo però anche che lo sviluppo della RV è andato molto più a rilento di quanto potessero immaginarsi Caronia o Ballard4, mentre lo sviluppo dei social media e dell’uso degli smartphone ha contribuito a creare un’autentica realtà “esterna”, in cui tutti gli utenti della rete possono diventare protagonisti e attori di un mondo virtuale dove tutto può accadere, essere vero e credibile all’interno di un sistema dato, anche se non del tutto definito, in cui tutte le informazioni possono essere o possono trasformarsi in fake news.

Ci accorgiamo che contemporaneamente al “declino” delle RV in quanto tali, c’è stata invece l’ascesa dell’aggettivo “virtuale”. “Virtuale” è una delle parole chiave di questi anni […] Che la vita dell’uomo, e tanto più quella dell’uomo contemporaneo, è a ogni istante sospesa fra l’attimo appena trascorso e una pluralità di eventi possibili, che non sta solo a noi, certo, trasformare in eventi “attuali”, ma il cui accadere ci appare molto più di prima legato alle nostre scelte […] Una cosa è certa: incomparabilmente più di quelle del passato, queste tecnologie [digitali] sono “tecnologie del possibile”: nel senso che rendono sempre più possibili eventi che sino a ieri apparivano impossibili, ma anche nel senso che tendono a “derealizzare”, a togliere alla “realtà” tradizionale, in primo luogo a quella materiale, quell’aura di unicità e di immodificabilità con cui ogni essere vivente su questo pianeta si scontra dalle origini della vita5.

Un sistema relazionale e diffuso in cui il corpo, attraverso i selfie e l’ostentazione continua dell’immagine di sé, diventa “virtuale” nel suo volersi mostrare giovane, affascinante, sensuale, aggressivo o disponibile all’incontro, all’avventura momentanea e alla notorietà fittizia. Una condizione in cui a trionfare è più Andy Warhol con i suoi 15 minuti di celebrità per ognuno che non le raffinate teorie estetiche degli artisti estremi del corpo e della realtà virtuale che si incontrano tra le pagine del libro di Caronia.

Il corpo è diventato “disseminato”, esattamente come titola uno dei capitoli del testo, l’ultimo, ma in forme diverse da quelle previste ventisei anni fa. Cosa che ancora si stenta a comprendere se, non accettando la definizione borghese di “Io”, si continua dimenticare il possibile utilizzo del pronome plurale “noi” per sostituirlo con la rivendicazione di infiniti “ii”. Come avviene, ad esempio, nel testo Cosa vuole Luther Blisset citato all’epoca da Caronia (p.192)

Come afferma Marcel-lí Antúnez Roca, nella sua postfazione:

L’era del lavoro si era aperta quando l’estendersi della rivoluzione neolitica aveva creato un sovrapprodotto sociale di dimensioni tali da richiedere la nascita di funzioni specifiche per la sua gestione e di gruppi separati addetti a tali funzioni cognitive e delle basi etiche su cui si fondava la convivenza degli aggregati umani […] Le “televisioni interattive”, i cinquecento canali, il “digitale” nella sua versione fieristica e industriale, non sono il primo passo per uscire dal neolitico, ma l’ultimo sussulto di un sistema di comunicazione gerarchico e funzionale a una società la cui perpetuazione significherebbe la bancarotta dell’umanità. Sarebbe una ben misera prospettiva se il corpo disseminato non fosse che lo sgabello con cui Bill Gates si issa sulla schiena del resto dell’umanità6.

Se quello della transizione dal corpo “naturale” e quello “virtuale”, in tutte le sue possibili declinazioni, costituisce il tema centrale del testo appena ripubblicato, in realtà la ricchezza dell’opera di Caronia apre ad una infinità varietà di argomenti, temi e critiche che, inevitabilmente, costringeranno il lettore ad aprire gli occhi, e la mente, su tutte le possibili conseguenze dell’artificiale ampliamento delle funzioni dello stesso. Sia a livello individuale che sociale.


  1. German A. Duarte, Prefazione a A. Caronia, Il corpo virtuale, Krisis Publishing 2022, pp. 11-12  

  2. G. A. Duarte, op. cit., p. 12  

  3. A. Caronia, op. cit., pp. 105-106  

  4. Per le idee di Ballard sulla RV si veda: J. Ballard, All That Mattered Was Sensation, intervista e prefazione a cura di Sandro Moiso con un saggio di Simon Reynolds, Krisis Publishing 2019  

  5. A. Caronia, op. cit., p. 157  

  6. Marcel-lí Antúnez Roca, Postfazione a A. Caronia, op. cit., pp. 197-201  

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Wagner, la rivoluzione e l’irresistibile sound delle chitarre elettriche https://www.carmillaonline.com/2021/08/09/rocknroll-gods-wagner-e-lirresistibile-sound-delle-chitarre-elettriche/ Mon, 09 Aug 2021 20:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67339 di Sandro Moiso

When I hear music I fear no danger. I am invulnerable, I see no foe. I’m related to the earliest time, and to the latest. (Henry David Thoreau, cit. in Hear Me Talkin’ to Ya – Nat Hentoff)

E’ il dio Pan che si manifesta nella Rivoluzione. Il dio Pan è la Rivoluzione (da un banchetto socialista del 1848)

Per troppo tempo non si è compreso come i movimenti antagonisti giovanili degli anni Sessanta e Settanta siano forse scaturiti più dalla scintilla scatenata dalle chitarre elettriche che non dal [...]]]> di Sandro Moiso

When I hear music I fear no danger.
I am invulnerable, I see no foe.
I’m related to the earliest time, and to the latest.

(Henry David Thoreau, cit. in Hear Me Talkin’ to Ya – Nat Hentoff)

E’ il dio Pan che si manifesta nella Rivoluzione.
Il dio Pan è la Rivoluzione

(da un banchetto socialista del 1848)

Per troppo tempo non si è compreso come i movimenti antagonisti giovanili degli anni Sessanta e Settanta siano forse scaturiti più dalla scintilla scatenata dalle chitarre elettriche che non dal libretto rosso di Mao o dai sacri testi di Marx, Engels e Lenin. Anche se quest’ultimo, predicendo che il comunismo sarebbe derivato dall’applicazione dell’uso della corrente elettrica al socialismo, un po’ ci aveva azzeccato.

Ad anticipare l’importanza del sound (che non è soltanto dato dagli strumenti suonati seguendo uno spartito oppure dal suono “naturale” degli stessi o, ancora, dalla voce che canta intonata seguendo una melodia definita) come mezzo o media per far breccia nella corazza, anche inconsapevole, dell’Io, fu, nel XIX secolo, soltanto Richard Wagner (1813-1883), sia attraverso la costruzione delle sue opere musicali che in un suo scritto della metà dell’Ottocento, L’opera d’arte dell’avvenire. Il musicista tedesco è stato infatti il primo a cogliere l’importanza comunicativa del respiro, del sospiro e del fiato, della furia e del brusio delle voci e dell’uso e del ronzio di suoni e strumenti non convenzionali (ad esempio gli incudini destinati a sostituire i timpani in alcune parti orchestrali dell’Anello dei Nibelunghi) oppure difficilmente ammessi dai canoni estetici e musicali che avevano governato la musica e il dramma lirico fino ad allora1, in un contesto musicale considerato “colto”.

Nella concezione wagneriana il sound costituiva un’integrazione della parola cantata, superandola nell’intento di “significare” e coinvolgere gli spettatori/ascoltatori:

Come quando Sigfrido ascolta Brünnhilde o come quando Kundy parla «roca» e «a tratti, come nel tentativo di ritrovare la parola»2, il discorso si riduce alle modalità fisiologiche della voce: rumori appena udibili, svincolati dalla bocca che li emette e dalla volontà di colei che li pronuncia, aumentano fino a «risuonare possenti» o assoluti e viaggiare poi per lo spazio e il tempo sotto forma di sound che «riecheggia lontano».
E’, questo, un effetto acustico che né il Medioevo dei protagonisti dell’opera né il XIX secolo di Wagner avrebbe potuto realizzare, ma che le nostre orecchie conoscono a memoria: notte dopo notte gli impianti di amplificazione della musica rock (amplificatori e delay, equalizzatori e mixer) producono questi suoni stereofonici, tracce di voce e rimbombi. In altre parole, quelle di Jimi Hendrix: la Elsa di Wagner è la prima abitante di Electric Ladyland e ciò che lei descrive con incredibile precisione tramite i termini «risuonare», «aumentare» e «rimbombare» ha poco a che fare con le preghiere e il credo cristiano, ma anticipa semplicemente la teoria del feedback positivo e degli oscillatori.
Non potendo, con i requisiti tecnici dell’epoca, realizzare questo feedback sonoro, Wagner lo compose3.

L’effetto suscitato dal sound wagneriano è quello del superamento della parola (che ricordiamolo sempre era, nei libretti d’opera, “parola scritta” così come “scritta” era anche sempre la partitura), ma anche della norma stabilita dal canto gregoriano che aveva disciplinato l’espressione musicale vocale per i secoli passati. E’ un ritorno alla Natura e ai suoi suoni che i nastri magnetici nel XX secolo permetteranno di inserire direttamente insieme agli strumenti e alle voci nella musica registrata ed incisa. Valga per tutti l’esempio di un brano dei Pink Floyd, Grantchester Meadows, compreso nel doppio album Ummagumma.

Sempre secondo Kittler: «poiché in Wagner testo e partitura si motivano sempre a vicenda, l’oscillare del libretto tra rumore naturale e strumento dell’orchestra, tra random noise (rumore casuale) e segnale di caccia» gli permette di dare vita ad effetti proibiti «fin tanto che la musica è stata dominata dalle partiture e le partiture dalla scrittura. Ma il nuovo medium di Wagner, il sound, fa saltare in aria seicento anni di dominio della lettera, ovvero di letteratura»4. E di dominio del cristianesimo in ambito artistico e morale, andrebbe aggiunto, poiché

ciò che è qui in gioco è la libertà della musica: per la prima volta nella storia della composizione occidentale, il Ring congeda il dio cristiano la cui celebrazione, a partire dal canto gregoriano, ha limitato tutti gli eventi sonori. Il poeta Wagner cessa di […] compiere solenni pellegrinaggi a Roma per invocare invece nuovamente gli antichi dei e dee, mentre il musicista compone il Padre Reno come inizio pre-razionale in cui armonia dei sovratoni e brusio, arte e natura sono indissolubilmente legati5.

Se salta però il dominio della lettera/partitura e della concezione cristiana dell’armonia del mondo diventa evidente che a saltare ben presto sarà, più in generale, l’ordine del mondo, non soltanto artistico e religioso. E non è certo un caso che due delle opere teoriche più importanti di Richard Wagner, Arte e rivoluzione e L’opera d’arte dell’avvenire, siano state scritte nel 1849, quando l’eco della primavera dei popoli che tra il 1848 e il 1849 aveva scosso l’ultima Europa aristocratica e imperiale non si era ancora spento dopo l’apparizione sulla scena del teatro del mondo di un nuovo, titanico protagonista: il proletariato, di fabbrica e non.

Portatore, oltre tutto, di un nuovo immaginario legato alla fabbrica, alle sue lotte, al suo “rumore” che soltanto poco più di sessant’anni dopo il futurista italiano Luigi Russolo avrebbe contribuito a far penetrare nell’estetica musicale e artistica moderna. “Rumore innaturale” (macchine, tram, caos metropolitano e della guerra) che avrebbe affiancato nel nuovo paesaggio urbano e artistico il “rumore naturale” inseguito da Wagner. Rumore di una tragedia annunciata (guerre, inquinamento, sfruttamento delle macchine e del capitale sull’uomo, la specie e la natura) che l’arte degli inizi del XX secolo non avrebbe più potuto ignorare, costretta com’era a copiarne ormai anche gli aspetti più devastanti.

Con buona pace dei “delicati”, su cui avrebbe poi ironizzato Louis Ferdinand Céline, il nuovo paesaggio dello scempio entrava a far parte del mondo letterario, figurativo e sonoro. Paesaggio cui l’avvento dell’elettricità avrebbe dato un contributo devastante e determinante dal punto di vista del suono (registrato o prodotto che fosse). Ecco dove, forse, l’utopia leniniana del socialismo più l’elettricità si sarebbe maggiormente avvicinata all’avverarsi, escludendone la sempre indeterminata e confusa nozione di “comunismo”.

I Greci avevano un dio che abitava nel regno dell’acustica. Quando i pastori sognavano e si rompeva la calma del meriggio, Pan rimbombava improvvisamente nelle orecchie di tutti. [Ora] si dice che il grande Pan sia defunto, ma gli dei delle orecchie non possono morire: ritornano sotto la maschera dei moderni impianti di amplificazione. Ricompaiono in forma di canzone rock6.

Lacan ha affermato che: «Le orecchie sono, nel campo dell’inconscio, il solo orifizio che non possa chiudersi»7, da qui deriverebbe il fatto che gli argini stabiliti dall’ordine, qualunque esso sia, si rompono prima di tutto nella testa ad opera di un suono, di una parola, di un rumore o di un urlo. Come afferma ancora Kittler: «Nessuna parola, nessun muro e nessun argine tra dentro e fuori possono resistere al sound, perché questo costituisce ciò che in musica non si può mettere per iscritto»8.

Il sound è la manifestazione immediata di ciò che si può ottenere dalla tecnologia che la musica ha a disposizione per esprimersi, a seconda delle epoche.

The Dark Side of the Moon, ha venduto otto milioni di dischi dal 1973, anno di uscita, al 1979 e, secondo le ultime stime (2011), ha ormai sfiorato le 45 milioni di copie […] E pensare che tutto era iniziato in modo così semplice. Roger Waters, Nick Mason e Richard Wright, tre studenti di architettura nell’Inghilterra degli anni Sessanta, si esibivano con le loro chitarre nei teatri di periferia suonando vecchi classici di Chuck Berry. Si chiamavano The Architectural Abdabs, un gruppo che oggi nessuno ricorda più. Un bel giorno di primavera del 1965, si unì a loro un chitarrista e cantante che inventò il marchio Pink Floyd, cioè il nome della band e il sound che la caratterizza: amplificatori sovramodulati, mixer come quinto strumento, suoni vorticanti nello spazio e tecnologia delle basse frequenze combinata con l’optoelettronica fino ai limiti del possibile. Con buchi neri al posto degli occhi, Syd Barrett apre al rock’n’roll il dominio dell’astronomia, Astronomy Domine […] Poi, l’uomo che ha inventato i Pink Floyd sparisce da tutti i palchi e sprofonda in una terra di nessuno medica tra psicosi da LSD e schizofrenia, mentre il suo gruppo trova un altro chitarrista e insieme a lui la formula del successo9.

Anche se è vero che i dati di vendita e i flussi di denaro della macchina discografica capitalistica vengono nutriti dal flusso decodificato dell’alienazione sociale, è pur sempre vero che essa si affida ad una legge non scritta che territorializza la normalità e prescrive ai folli di rimanere su terreni ben definiti e soprattutto extra moenia: è la legge dei grandi architetti della giurisdizione sociale, della salute mentale, delle istituzioni politiche e delle regole del lavoro salariato.
Tutto dovrebbe fondersi in una sorta di circolo virtuoso in cui l’ascolto musicale costituisce soltanto un aspetto importante di un ben congegnato panem et circenses, attraverso cui controllare i flussi dell’immaginario di massa.
Ma, come afferma ancora Kittler (1943-2011) nel suo testo:

I cosiddetti Sessantottini che oggi svolazzano per i media soltanto perché hanno influenzato la mia generazione sono infatti delle chimere ipocrite: non era necessario intonare ruggiti da Vietcong o ricorrere alle armi per battere il ritmo del nostro tempo: c’era […] la musica pop. Ma quest’ultima, una volta tanto, non giunse dai maledetti Usa. Non sarebbe stato possibile altrimenti, nel 1964, quella che gli americani ammirarono e allo stesso tempo temettero: la British Invasion. Di fronte ai Beatles Elvis Presley abdicò alla sua corona. Potenti come lo era stato un tempo il dio Dioniso, giovani voci e chitarre sfondarono il muro del rigido sistema di regole della Federal Communication Commission. A differenza del piccolo sassone Wagner, queste star potevano ergersi in tuttala loro bellezza su un palco illuminato da lampi. Cantavano di amore e di guerra, dai prati intorno a Cambridge, ma soprattutto di musica, perché sapevano bene quel che facevano: per un breve ma storico momento i musicisti pop inglesi spazzarono via tutte le barriere e tutti i muri che l’industria musicale capitalistica (per non dire statunitense) aveva eretto anche solo per vietare l’amore. Non esistevano più l’autore dei testi e il compositore, l’arrangiatore e l’orchestra, la partitura e l’evento sul palcoscenico come sfere separate l’una dall’altra: c’erano solo quattro musicisti che suonavano, cantavano e regolavano da soli i propri microfoni, gli echi e le tracce sul nastro, fino a ripetere l’opera d’arte totale. Così divennero eroi […] persino dei. Il prezzo da pagare per la nuova Grecia l’ha chiamato inequivocabilmente per nome Jim Morrison, la più selvaggia e geniale di quelle stelle:
«Cancel my subscription to the resurrection! / Send my credentials to the house of detention, / I’ve got some friends inside.10»11.

«Speech has become, as it were, immortal.» Queste furono le parole di Edison quando presentò alla stampa, nel 1877, una sua nuova invenzione: il fonografo. Ma da allora non solo le parole, ma tutti i tipi di musica, sound e rumore, sono divenuti immortali. L’inventore rese riproducibile tutto ciò che si può incidere: sulle rive dello Swanee River, tanto per fare un esempio, il fonografo di Edison immortalò non solo l’omonimo blues e i neri che lo cantavano; anche i rumori delle macchine della nave a vapore e il fiume stesso erano udibili.
[…] Cos’, il disco ha prodotto il jazz. Non poter scrivere o leggere le note non era più una ragione di morte per la musica, anche se per il miracolo di nome Swinging London ci voleva qualcosa di più. Prima il Rhythm & Blues nero doveva attraversare l’Atlantico insieme a centinaia di migliaia di soldati yankee e preparare nell’Inghilterra meridionale lo sbarco in Normandia; e dozzine di registratori a nastro della Wermacht dovevano finire, come bottino di guerra, negli studios di Abbey Road a Londra prima che la Seconda guerra mondiale potesse ritornare sotto forma di musica pop.
Invenzione e innovazione avvengono sempre nei punti nevralgici di connessione, sia tecnica che culturale: né il jazz né il rock’n’roll avrebbero mai potuto da soli dare il la alla Swinging London e alla British Invasion degli Stati Uniti. A esplodere tra amplificatori Marshall, chitarre soliste e mormorii di microfoni fu il feedback continuo tra tecnologia europea, armonia musicale romantica e analfabetismo musicale americano. Per scrivere canzoni pop non è necessario imparare da giovani il pentagramma, anche se male non fa; è però fondamentale che l’ingegnere del suono e i registratori siano all’altezza del compito12.

La rivoluzione tecnologica delle pedaliere, dei distorsori, dei wah wah, delle Fender Telecaster e Stratocaster stava avvenendo però, all’insaputa di tutti, nei laboratori in cui tecnici del suono come Dick Dale e altri cercavano nuovi strumenti per ridurre il numero di membri di ogni singolo gruppo (il distorsore e il fuzz uccisero la presenza dei saxofonisti nei gruppi strumentali e surf dei primi anni Sessanta), aumentare il fascino del sound ispirato agli echi e ai flussi delle onde dell’Oceano ed evitare l’uso costoso di studi di registrazione in cui aggiungere artificialmente suoni che non era prima possibile realizzare con gli strumenti normali anche se elettrificati.

Furono i ragazzi delle periferie americane ed europee, a scoprire in quelle nuove apparecchiature gli strumenti di un suono che avrebbe danneggiato cervelli e norme sociali ben più al di là delle parole, delle strofe o degli slogan, pubblicitari e politici. Mentre Barrett inventava il suono cosmico a Londra, dall’altra parte dell’Atlantico e ancora sulla costa del Pacifico un giovane afro-americano di Seattle, Jimi Hendrix, assolutamente privo di educazione musicale, si preparava ed iniziava a stravolgere il suono delle chitarre e il sound del secolo (e di quelli a venire). E così pure iniziavano a fare chitarristi come Pete Townshend, Jeff Beck, Jimmy Page, Jerry Garcia, John Cipollina, Jorma Kaukonen ed infiniti altri, poi ripresi da centinaia di migliaia di ragazzi che suonavano, improvvisavano, distorcevano e storpiavano suoni e parole di canzoni che avrebbero dovuto rimanere innocui inni all’amore, alla gioventù o, al massimo, ai suoi problemi di solitudine affettiva. Il Brain Damage collettivo era stato ormai fatto e il medium era diventato l’autentico messaggio. Come aveva già affermato il sociologo e filosofo canadese Marshall Mc Luhan.

Lo testimoniano cronache come quella dei primi anni Settanta che qui riportiamo, che dimostrano come nelle città industriali l’elettricità avesse portato un nuovo modo di intendere l’arte, la musica, la cultura e, soprattutto, il ruolo sociale dei giovani.

E’ sabato pomeriggio alla Difiore’s House of Music, situata nel West Side di Cleveland, Ohio. Quindici ragazzi delle scuole superiori stanno provando varie chitarre Les Paul, suonando, attraverso gli amplificatori Marshall, Peavey e Fender, ognuno fuori tempo rispetto agli altri, cercando di riprodurre al meglio i riff preferiti rubati a Jimi Hendrix, Jeff Beck e Leslie West. Nel rumore prodotto nulla sembra avere senso. Uno dei ragazzi, che indossa una giacca dell’esercito, sta cercando di suonare uno standard blues, un altro ha appena capito che, se riuscirà a far tirar fuori i soldi al padre per una Les Paul Deluxe, forse riuscirà a suonare correttamente tutti i break di Black Dog dei Led Zeppelin, mentre un altro ancora ha appena fatto conoscenza con un pedale WAH WAH e sta cercando furiosamente un accordo, con il piede destro che pesta sul pedale cercando di ottenere l’effetto più potente possibile come se si trattasse di un martello pneumatico munito di turbo compressore.

Nulla sembra avere più qualsiasi senso. Persone sensibili che hanno portato lì i loro figlioletti di sei anni dopo averli accompagnati alla lezione di tromba stanno artigliando le porte cercando di uscire fuori il più in fretta possibile per trovare sollievo da quel baccano infernale! I tecnici e i commessi stanno buttando giù aspirine come se fossero caramelle e guardano disperati gli orologi. Niente ha più senso. Il suono prodotto dalla brigata di Les Paul continua a crescere sempre più forte e i ragazzi sembrano scoprire ulteriori e ancor più potenti dispositivi da testare per il tramite di banchi di amplificatori dal costo complessivo molto superiore alle loro possibilità economiche, mentre i trasformatori modificano le fasi e i wah wah stanno urlando come bambini affamati e le distorsioni fanno rizzare i peli nell’atmosfera carica di elettricità. Qualcun altro ha scollegato una chitarra e l’ha lasciata sul pavimento a ronzare sulle corde a tutto volume mentre altri ragazzi accorrono sempre più numerosi e iniziano a suonare anche se i commessi cercano di strappare loro di mano le chitarre, urlando “Fuori i soldi prima!”, ma ormai ci sono troppi ragazzi, forse più di cinquanta, e adesso non solo hanno impugnato tutte le Gibson e le Fender disponibili ma anche le loro copie giapponesi di costo molto inferiore. Un tizio ha collegato in serie due amplificatori Peavey e le vetrine iniziano a tremare come per un terremoto, mentre nel locale di servizio assistenza due lavori di riparazione sono stati rovinati poiché le mani dei tecnici tremano troppo forte per poter fare delle saldature accurate e nel negozio vicino il barbiere ha rischiato di tagliare la gola di un cliente per lo stesso motivo e il volume continua a crescere sempre di più, sempre più forte e ancora di più e ancor più ragazzi arrivano fino al momento in cui ogni amplificatore ed ogni chitarra del negozio risulta in uso da parte di qualcuno e anche se LA POLIZIA E’ STATA CHIAMATA, MA NON PUO’ ARRESTARE TUTTO CIO’ CHE STA AVVENENDO, QUALUNQUE COSA SIA!13

Complici la guerra in Vietnam, le proteste studentesche e per i diritti degli afro-americani e di tutte le altre minoranze, la tecnologia del suono si vide stravolta nell’uso e nel senso del suo prodotto. Come le trombe suonate dai sacerdoti davanti alle mura di Gerico avrebbero contribuito a farle crollare, così il sound delle chitarre elettriche contribuì a far crollare ben altri muri, dentro e fuori la psiche dei ragazzi, ricreando quella specie di mente bicamerale, in cui era possibile percepire uditivamente e collettivamente oltre le parole la voce degli dei, di cui avrebbe parlato Julian Jaynes in un suo celebre studio del 197614.

Lo comprese Bob Dylan, in anticipo su tutti, quando abbandonò già a metà degli anni Sessanta il suono acustico per abbracciare, con grande scandalo e disagio dei custodi della tradizione folk di sinistra, quello elettrico, impugnando egli stesso sul palco, come avrebbe fatto per tutti gli anni a venire, una grintosa chitarra elettrica.

Tutto ciò però, sul medio periodo, creò anche alcuni imprevisti e paradossi. Ad esempio, qui nell’italietta di San Remo, un’intera generazione di giovani potenziali rivoluzionari (scazzati da famiglia, lavoro, scuola e festival televisivi) iniziò a scambiare ogni rocker elettrico straniero per un ”compagno”.
Ricordo ancora perfettamente come ad un concerto dei Family, a Milano, il pubblico esplodesse in una salva di slogan e pugni chiusi sollevati quando il cantante, Roger Chapman, si asciugò il viso dal sudore con un asciugamano rosso. Lui stava facendo solo quello, ma il pubblico lo scambiò per ben altro segnale.

E così pure gli scontri del Vigorelli per i Led Zeppelin o a Torino per i Santana o, ancora, quelli per contrastare i concerto organizzati dal “sionista” David Zard, impresario musicale che voleva impossessarsi della “nostra” musica “commercializzandola”. Bufale ideologiche megagalattiche che tendevano a nascondere che quella musica che ci parlava così tanto profondamente era nata dal e per il mercato discografico, anche se gli scontri nascevano spontaneamente dalla furia di migliaia di giovani che non avevano affatto bisogno della provocazione ”fascista” per scatenare la loro rabbia, così come i perbenisti e gli sbirri dell’Unità o del Manifesto invece amavano e amano ancora raccontare (come nel caso dei fatti del G8 di Genova del 2001), per cercare di unire fattivamente sound e vita quotidiana.

Eravamo giovani, potenziali delinquenti e le schitarrate e le distorsioni davano voce a qualcosa che non sapevamo ancora esprimere a parole e che, forse, soltanto i situazionisti avevano saputo già esprimere politicamente, anche se in forme meno spontanee e già pronte per essere ricodificate dalla pubblicità futura. Poiché, alla faccia anche di Guy Debord, solo la vera rivoluzione e la sua forma più spontanea ed immediata, l’insurrezione e l’insorgenza di massa anche priva di parole, will not be televised (come aveva già affermato il grande poeta e musicista afroamericano Gil Scott-Heron nel 1971). Esprimevamo negli atti una sorta di general intellect spontaneo di cui una miriade di maestri, filosofi e professori universitari tentò di impadronirsi, soffocandolo e rinchiudendolo sotto l’ala di improbabili cappelli ideologici.

Per quella generazione, per la mia generazione si può parlare, a proposito di quegli anni, più che di coscienza di classe di una pre-coscienza che superava il limite formale della coscienza di classe per ricollegarci, inconsapevolmente, a richiami più antichi e liberatori provenienti dall’intera storia della specie e dalle sue esigenze primarie più profonde e rimosse dall’ordine giudaico-cristiano e borghese in cui eravamo cresciuti e di cui costituivamo il prodotto “degenerato”. In questo forse si andava delineando un comunismo più concreto e più riconducibile alle esigenze dell’intera specie umana e alle sue esperienze. Come affermò Amadeo Bordiga in quegli stessi anni, ben lontano dall’accettare i capelloni e gli urlatori (come li avrebbe definiti ancora in un pessimo articolo del 1968):

Le violente scintille che scoccarono tra i reofori della nostra dialettica ci hanno appreso che è compagno militante comunista e rivoluzionario chi ha saputo dimenticare, rinnegare, strapparsi dalla mente e dal cuore la classificazione in cui lo iscrisse l’anagrafe di questa società in putrefazione, e vede e confonde se stesso in tutto l’arco millenario che lega l’ancestrale uomo tribale lottatore con le belve al membro della comunità futura, fraterna nella armonia gioiosa dell’uomo sociale15.

Le spoglie mortali di Jim Morrison giacciono oggi sepolte a Parigi, nel cimitero di Père Lachaise. L’ultimo autentico sacerdote del dio Pan, che nel 1969, durante il cosiddetto Miami Incident, invitò gli ascoltatori, mischiandosi poi tra di loro, a spogliarsi e ad amarsi per liberarsi da ogni giogo mentale, sociale, politico e culturale16, ha chiuso idealmente il cerchio ricongiungendosi al ricordo degli ultimi caduti della Comune presso il cosiddetto “muro dei federati” e ai più coraggiosi e visionari insorti dell’Ottocento che avevano brindato allo stesso dio durante i loro banchetti rivoluzionari.


  1. Si legga in proposito: Friedrich Kittler, Preparare la venuta degli dei. Wagner e i media senza dimenticare i Pink Floyd, L’orma editore, Roma 2013  

  2. Richard Wagner, Tutti i libretti, UTET, Torino 1996, p. 732  

  3. Friedrich Kittler, Respiro del mondo. Tecnologia dei media in Wagner, ora in F. Kittler, op. cit., pp. 27-28  

  4. F. Kittler, op. cit., pp. 30-31  

  5. F. Kittler, Preparare la venuta degli dei, in op. cit., p. 88  

  6. Friedrich Kittler, Il dio delle orecchie in F. Kittler, op.cit., pp. 47-48  

  7. Jacques Lacan, Il seminario. Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), Einaudi, Torino 2003 (prima edizione 1973), p. 190  

  8. Ivi, p. 51  

  9. Ibid., pp. 49-50  

  10. The Doors, When the Music’s Over, 1967  

  11. Friedrich Kittler, Preparare la venuta degli dei, in op. cit., pp. 97-98  

  12. Ivi, pp. 94-95  

  13. Peter Laughner (poi chitarrista dei seminali Pere Ubu di Akron, Ohio), recensione del long playing, di Lou Reed, Rock’n’Roll Animal in “Zeppelin Magazine”, 7 febbraio 1974.  

  14. Julian Jaynes, Il crollo della mente bicamerale e la nascita della coscienza, Adelphi, Milano 1984  

  15. Amadeo Bordiga, Considerazioni sull’organica attività del partito quando la situazione generale è storicamente sfavorevole, 1965  

  16. «Siete solo una massa di fottuti idioti! Vi fate dire quello che dovete fare. Per quanto tempo volete andare avanti così? Per quanto ancora vi farete calpestare? Forse vi piace, forse vi fate calpestare volentieri. Vi piace, forse, che qualcuno vi ficchi la testa nella merda. Siete tutti una massa dis chiavi che si fa calpestare […] Cosa volete fare per opporvi a questo? Che cosa intendete fare? […] Ah, vorrei vedere un po’ più di nudità qui! Spogliatevi e amatevi!» cit. in R. Kittler, op. cit. p. 110, che continua poi ancora ricordando che il batterista dei Doors, John Densmore, vide subito dopo il cantante balzare giù dal palco tra il pubblico della sala da ballo. «Le danze si fecero sempre più frenetiche, l’abbigliamento sempre meno appropriato. Il giorno dopo quando l’esercito dell’impresa di pulizie entrò nel Dinner Key Auditorium trovò abiti da teenager sparsi dappertutto per la sala concerti e li ammucchiò in un angolo fino a che la pila non raggiunse il metro e mezzo di altezza e i tre metri di diametro, come se l’usanza, per nulla greca, di celebrare vestiti gli dei avesse finalmente trovato la sua giusta fine […] Jim Morrison, il colpevole, dovette comparire di fronte a una giuria di Miami (per l’accusa di atti osceni) che lo condannò a sei mesi di reclusione; il giudice fu più benevolo e commutò la sentenza in un’ammenda di 500 dollari». (Kittler, op. cit., pp. 110-111)  

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Vite interconnesse. Relazioni sociali e identità nell’età della mediatizzazione profonda https://www.carmillaonline.com/2019/09/13/vite-interconnesse-relazioni-sociali-e-identita-nelleta-della-mediatizzazione-profonda/ Thu, 12 Sep 2019 22:01:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54575 di Gioacchino Toni

La rapida trasformazione del cellulare utilizzato esclusivamente per telefonare e inviare brevi messaggi, diffusosi sul finire degli anni Novanta, nello smartphone, introdotto circa un decennio dopo, ha rimodellato l’esperienza sociale degli individui che ne fanno uso, contribuendo, inoltre, a concretizzare l’idea dei media come estensioni del corpo umano, espressa verso la metà degli anni Sessanta del secolo scorso da Marshall McLuhan.

Attorno allo smartphone si sono inevitabilmente sviluppate discussioni oscillanti tra la fascinazione per le potenzialità offerte dal nuovo dispositivo e i timori di chi ne denuncia gli effetti nefasti sulle relazioni e sull’equilibrio psicologico degli utenti. Sin [...]]]> di Gioacchino Toni

La rapida trasformazione del cellulare utilizzato esclusivamente per telefonare e inviare brevi messaggi, diffusosi sul finire degli anni Novanta, nello smartphone, introdotto circa un decennio dopo, ha rimodellato l’esperienza sociale degli individui che ne fanno uso, contribuendo, inoltre, a concretizzare l’idea dei media come estensioni del corpo umano, espressa verso la metà degli anni Sessanta del secolo scorso da Marshall McLuhan.

Attorno allo smartphone si sono inevitabilmente sviluppate discussioni oscillanti tra la fascinazione per le potenzialità offerte dal nuovo dispositivo e i timori di chi ne denuncia gli effetti nefasti sulle relazioni e sull’equilibrio psicologico degli utenti. Sin dalla metà degli anni Novanta vi sono studiosi che hanno insistito su come i media digitali producano una diminuzione della capacità di conversare e interagire in maniera piena con gli altri; la tendenziale sostituzione dell’interazione parlata in presenza con il ricorso a una mediata da messaggi determinerebbe una comunicazione decisamente più superficiale, controllata e costruita in base a come il soggetto desidera essere. Su questa linea, ad esempio, si è pionieristicamente espressa la studiosa Sherry Turkle.1

Più recentemente, a proposito dello smartphone, studiosi come Marsha Barry e Max Schleser2 si sono focalizzati sulla sua capacità di espandere la condizione di co-presenza oltre la tradizionale interazione faccia-a-faccia, sottolineando come ciò produca nuove forme di socialità e di relazioni e incida sulle modalità con cui ci si rapporta con lo spazio e i luoghi. Jaine Vincent e Leslie Haddon,3 nell’analizzare le esperienze vissute dagli utilizzatori di smartphone, hanno messo in luce la particolare versatilità di questo dispositivo, mentre Nick Couldry e Andreas Hepp4 si sono soffermati sul passaggio da un consumo mediale basato su una comunicazione intermittente, che distingue nettamente tra mass media e media interpersonali, a una tendenziale disponibilità online continuativa.

Nonostante il corposo dibattito circa le conseguenze che l’uso dello smartphone comporta sulla vita delle nuove generazioni cresciute con esso, esistono poche mappature del come gli individui utilizzino concretamente tali dispositivi e sul tipo di immaginario che vi gravita attorno. Un contributo volto a colmare tale lacuna è dato dal lavoro di Michela Drusian, Paolo Magaudda e Cosimo Marco Scarcelli, Vite interconnesse. Pratiche digitali attraverso app, smartphone e piattaforme online (Meltemi 2019). La ricerca empirica alla base del libro è stata condotta tra il 2016 e il 2018, con approccio socio-antropologico, su un campione di giovani ragazzi e ragazze di età compresa tra i 18 e i 30 anni. L’obiettivo principale è stato quello di «interpretare come cambia il rapporto tra giovani, relazioni sociali e contenuti mediali attraverso le applicazioni utilizzabili in mobilità e, dunque, rispetto alle nuove possibilità e i vincoli di gestione del tempo, dello spazio e relazioni offerto da queste tecnologie» e, più in generale, di «mappare le forme di uso delle applicazioni degli smartphone per costruire una panoramica in relazione a tre differenti questioni: la rappresentazione del sé e la costruzione dell’identità online; le relazioni attraverso le app, con particolare riferimento alla capacità delle piattaforme di incorniciare le pratiche dei giovani; l’articolazione delle forme di consumo, sia per quanto riguarda la messa in mostra e condivisione delle scelte e i gusti, sia rispetto alle pratiche di fruizione e di acquisto di beni di consumo» (p. 13).

Gli autori sottolineano come l’analisi degli usi dello smartphone contribuisca a cogliere il ruolo sempre più importante assunto dalle diverse piattaforme social nell’ambito dei servizi del capitalismo digitale indagato da studiosi come Nick Srnicek5. Studiosi come José van Dijck, Thomas Poell e Martijn de Waal parlano di platform society per evidenziare come si sia avviati verso «una società “in cui i flussi sociali ed economici sono crescentemente incanalati in un ecosistema di piattaforme online globali (per la stragrande maggioranza private) guidato da algoritmi e alimentato da dati” e in cui “le piattaforme non sono né neutrali né imparziali, ma emergono con norme e valori specifici inscritti nelle loro architetture”»6.

Dunque, sostengono gli autori di Vite interconnesse, «puntare l’attenzione sulla costruzione dell’esperienza incentrata sullo smartphone ci permette di indagare in dettaglio alcune delle sfaccettature di come i media digitali siano diventati estremamente pervasivi nella vita contemporanea, una condizione che i sociologi Nick Couldry e Andreas Hepp hanno recentemente definito come una “mediatizzazione profonda”, in cui “gli stessi elementi e blocchi fondativi a partire da cui costruiamo il nostro senso del sociale diventano essi stessi parte di un processo di mediazione basato sulle tecnologie”.7 In questa rinnovata condizione di “mediatizzazione profonda”, in cui lo smartphone è divenuto una protesi tecnologica centrale nella costruzione della nostra realtà quotidiana, sono diventati crescenti anche gli allarmi legati a come queste nuove tecnologie stiano incidendo sulla personalità e le identità delle nuove generazioni» (p. 9).

Al fine di realizzare una mappatura degli usi e delle pratiche che le giovani generazioni italiane hanno sviluppato attorno a queste nuove tecnologie, gli autori si sono concentrati su sei questioni, affrontate in altrettanti capitoli: il ruolo dello smartphone come tecnologia; il suo uso nelle relazioni interpersonali; le pratiche fotografiche; l’ascolto della musica; il mondo dei consumi; i discorsi dei giovani attorno alla “dipendenza” dallo smartphone.

A partire dalla disamina delle retoriche legate alle forme di dipendenza da smartphone, l’ultima parte del volume «mette in evidenza le difficoltà di definizione dei comportamenti “dipendenti”, ma anche il rilievo che questa idea ha assunto nei discorsi sull’uso dello smartphone. Quello che emerge è che i soggetti intervistati sono consapevoli della complessità del fenomeno, conoscono il senso comune collegato ai vari pericoli della dipendenza ed esprimono opinioni in linea con una visione apocalittica della pervasività delle tecnologie nella vita quotidiana» (p. 17).

Oltre alla molteplicità delle esperienze quotidiane dei giovani interconnessi, la ricerca di Michela Drusian, Paolo Magaudda e Cosimo Marco Scarcelli ha il merito di evidenziare come «le pratiche tecnologiche incentrate sullo smartphone costituiscono un terreno di costante ridefinizione di queste stesse esperienze: un terreno in cui vincoli tecnologici, bisogni e interessi, cornici culturali condivise e forme di appropriazione creativa interagiscono costantemente nella costruzione di nuove modalità relazionali nel mondo profondamente mediatizzato in cui viviamo» (p. 18).

I giovani creano un legame affettivo con lo smartphone e ciò che può veicolare e conservare, un legame che essi stessi spesso leggono come forma di dipendenza ma la ricerca dimostra come, prima di elaborare granitiche sentenze su questo dispositivo, ci sia «molto di più da capire e comprendere oltre la retorica della dipendenza tecnologica» (p. 157).


  1. S. Turkle, La vita sullo schermo, Apogeo, 1997. 

  2. M. Barry, M. Schleser (a cura di), Mobile media making in an age of smartphones, Palgrave Macmillan, 2014. 

  3. J. Vincent, L. Haddon (a cura di) Smartphone cultures, Routledge, 2018. 

  4. N. Couldry, A. Hepp, The mediated construction of reality, Polity Press, 2017. 

  5. N. Srnicek, Capitalismo digitale. Google, Facebook, Amazon e la nuova economia del web, Luiss University Press, 2017. 

  6. J. van Dijck, T. Poell, M, de Waal, The Platform Society, Oxford University Press, 2018, p. 3 

  7. N. Couldry, A. Hepp, The mediated construction of reality, Polity Press, 2017, p. 7. 

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Nemico (e) immaginario. I media dei morti viventi del/nel neoliberismo https://www.carmillaonline.com/2016/08/23/nemico-immaginario-media-dei-morti-viventi-delnel-neoliberismo/ Tue, 23 Aug 2016 21:30:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32359 di Gioacchino Toni

ds345Dopo aver analizzato, attraverso la metafora dello zombie, le pulsioni autodistruttive dell’essere umano incapace di sognare un mondo migliore [su Carmilla], dopo esserci soffermati sulla narrazione/costruzione del nemico nel cinema di fantascienza statunitense [su Carmilla] ed a proposito di come sulla figura dell’alieno (“dell’altro”) spesso vengano proiettate le peggiori caratteristiche dell’umanità [su Carmilla], è il caso di affrontare ancora alcuni aspetti del dilagare contemporaneo della figura del morto vivente. L’invasione zombie che ha occupato una parte importante dell’immaginario contemporaneo non può essere ricondotta soltanto [...]]]> di Gioacchino Toni

ds345Dopo aver analizzato, attraverso la metafora dello zombie, le pulsioni autodistruttive dell’essere umano incapace di sognare un mondo migliore [su Carmilla], dopo esserci soffermati sulla narrazione/costruzione del nemico nel cinema di fantascienza statunitense [su Carmilla] ed a proposito di come sulla figura dell’alieno (“dell’altro”) spesso vengano proiettate le peggiori caratteristiche dell’umanità [su Carmilla], è il caso di affrontare ancora alcuni aspetti del dilagare contemporaneo della figura del morto vivente. L’invasione zombie che ha occupato una parte importante dell’immaginario contemporaneo non può essere ricondotta soltanto alla comparsa nella fiction di un’orda di living dead. Vi sono almeno altri due ambiti in cui, in forma metaforica, si manifesta la figura dello zombie: il mondo del lavoro, nelle sue forme di alienazione e sfruttamento, ed il mondo dei media tanto nella “narrazione-produzione” di morti viventi (basti pensare a come vengono quotidianamente presentati i migranti), quanto nel suo stesso palesarsi come mondo sospeso tra la vita e la morte, nel suo proiettarsi oltre il luogo, lo spazio ed il tempo. Insomma, come vedremo, i media costruiscono e sono morti viventi.

Al fine di approfondire tali tematiche ci viene in aiuto il nuovo libro di Federico Boni, The Watching Dead. I media dei morti viventi (Mimesis 2016), ove lo studioso analizza la figura dello zombie come metafora che riguarda i media dal punto di vista produttivo, delle modalità di rappresentazione del potere da essi attuate e delle forme di consumo dei contenuti da parte del pubblico. La metafora dei morti viventi viene dunque indagata dall’autore facendo riferimento ai lavoratori delle imprese mediatiche, ai potenti messi in scena dai media ed ai pubblici.

La figura dello zombie sembra mettere in scena le paure e le ansie che abitano l’immaginario occidentale contemporaneo. Secondo diversi studiosi i morti viventi che popolano i media contemporanei rappresentano una sorta di reazione culturale alle ingiustizie sociali e politiche del momento. Quel che è certo è che quella dello zombie è una figura decisamente malleabile e ciò la rende supporto metaforico per inquietudini diversificate.

«Nel nostro percorso ci capiterà di imbatterci in orde di morti viventi, a seconda vittime o carnefici di un sistema neoliberista che riduce le persone a una non-vita. Incroceremo i loro sguardi, spesso interrogativi, e cercheremo di interrogarli a nostra volta» (p. 11).

A proposito dei morti viventi che popolano le produzioni audiovisive, Boni ne ricostruisce le principali fasi di sviluppo a partire dalla loro comparsa sul grande schermo negli anni Trenta e Quaranta quando, in linea con le sue origini haitiane, la figura dello zombie rimanda alla rappresentazione dello “schiavo senz’anima” delle piantagioni con evidenti riferimenti alle condizioni della working class americana negli anni della Grande Depressione. I film di questo periodo, inoltre, non mancano di esplicitare il timore degli occidentali di venire prima o poi dominati e “colonizzati” dai discendenti degli schiavi deportati dall’Africa. Se negli anni Cinquanta e Sessanta, la figura del morto vivente, oltre a richiamare le atrocità della guerra da poco terminata, rinvia al terrore per un’eventuale invasione comunista, successivamente, attraverso una nuova generazione di zombie, inaugurata da George Romero con La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1968), si sviluppano riflessioni sul razzismo, sull’imperialismo e sul consumismo.

Nelle più recenti produzioni audiovisive di zombie, in cui è diventato sempre più difficile distinguere nettamente la condotta dei morti viventi da quella dei sopravvissuti, oltre che a dare immagine all’ansia contemporanea determinata dalla mancanza di stabilità e sicurezza, si insiste sul tema del contagio e su questioni bioetiche. L’ultima generazione di zombie si lega «a una dimensione che potremmo ricondurre alla patologizzazione e alla medicalizzazione della società, la cui diffusione planetaria suscita tutti i nostri timori relativi ai processi della globalizzazione neoliberale […] I morti viventi diventano così la rappresentazione fin troppo realistica del proletariato contemporaneo, dei flussi migratori e della estrema facilità con cui è sempre più possibile per le persone finire in uno status di “non-persone”, veri e propri morti viventi» (p. 19).

Riprendendo il discorso sul mito sviluppato da Roland Barthes (Miti d’oggi), secondo Boni «il morto vivente costituirebbe una categoria dell’immaginario nella quale la nostra società trasferisce le proprie vittime sacrificali […] La furia e la soddisfazione che si provano nell’eliminare definitivamente uno zombie nei film e nelle fiction […] tradiscono questa funzione di capro espiatorio […], ma va sempre ricordato che, originariamente, esso è uno schiavo, “che ha perso l’anima per il lavoro imposto dal capitalista. Ogni mito conserva la propria origine, nascondendola, tramutandola in sintomo. Se ciò è vero gli schiavi sono sempre schiavi, anche oggi, come in origine, sono loro che il mito nasconde”. Insomma: lo zombie è un mito, ma queste orde di morti viventi esistono davvero, sono tristemente reali» (p. 27).

Attraverso il mito del morto vivente le vittime vengono trasformate in mostri, dunque diviene lecito, oltre che divertente, eliminarle. Scrivono a tal proposito Martino Doni e Stefano Tomelleri: «Gli zombi sono coloro che, nella loro difformità relativa, sono trasformati in difformi assoluti da un modo di produzione che ha perso ogni traccia di anima, che predica egualitarismo estremo e fa erigere mura difensive e ingaggia guerre preventive per accaparrarsi fonti energetiche. Gli zombi sono uomini, donne e bambini massacrati per mare e per terra, ogni giorno, con spietata e immonda regolarità, nel torpore delle estati occidentali […]. Noi guardiamo loro e vediamo degli zombi: vediamo cioè tutto ciò che noi non vorremmo mai essere. Questa è la vera proiezione. Lo zombi è il non-me […]. La nostra piccola sicurezza quotidiana è garantita dal mito che non muore mai: quello della vittima che è sempre pronta a farsi uccidere, infinitamente, tanto è già morta» [M. Doni, S. Tomelleri, Zombi. I mostri del nuovo capitalismo, pp. 70-71] (p. 28).

sociologie-boni-watching-dead-1Lo zombie, oltre a definire il campo discorsivo del neoliberismo politico ed economico e gli stessi corpi dei suoi protagonisti, si presenta anche come metafora degli effetti della “necropolitica” applicata sui corpi degli individui. I morti viventi vengono presentati come massa informe ma, sostiene l’autore, questi “ultimi degli ultimi” sono anche i rifiuti, gli scarti, della società neoliberista, sono l’immagine di quelle “vite di scarto” di cui parla Zygmunt Bauman (Vite di scarto). I morti viventi non sono soltanto gli operai zombificati dallo sfruttamento neoliberista, essi sono anche «i lavoratori-consumatori, una sorta di “proletariato inattivo” e inutile per cui non solo il lavoro è un ricordo, ma anche lo stesso consumo delle merci è una sorta di istinto inconscio e quasi inconsapevole e involontario. Sono molti gli studiosi che hanno individuato soprattutto ne L’alba dei morti viventi […], di George Romero, una metafora neanche troppo velata del consumismo contemporaneo, dove orde di zombie si assiepano intorno a un mall (riuscendo infine a entrarvi, spinti da un ricordo o da un istinto al consumo fine a se stesso)» (pp. 55-56).

A proposito di consumo, Rocco Ronchi sostiene che nello zombie è possibile scorgere una “nuova forma di proletarizzazione” che «consiste nella organizzazione del consumo come “distruzione del saper-vivere”, al fine di creare un astratto potere d’acquisto. Come il capitalismo classico si reggeva su di una forza lavoro astratta così il capitalismo postmoderno si regge sulla compulsione al consumo, vale a dire su di un vivente ridotto il più possibile alla sola funzione astratta di consumatore di merci» [R. Ronchi, Zombie outbreak, p. 59] (p. 57).

Nel saggio vengono affrontati i fenomeni della “mediatizzazione dello zombie” e della “zombificazione dei media”. Nel primo caso l’autore fa riferimento a come la figura dello zombie venga prodotta all’interno dei media, dunque a come essa sia un discorso mediatico, nel secondo caso a come gli stessi media possano essere letti come morti viventi.

A proposito della “mediatizzazione dello zombie”, Boni sostiene che lo zombie è una figura costitutivamente mediatizzata derivando da un processo di produzione e riproduzione di testi interni ai diversi media. I morti viventi mediatizzati, continua lo studioso, sono soprattutto “ri-mediati” e “crossmediali”, derivanti dal passaggio dei contenuti di un medium in un altro. Inoltre, la figura dello zombie investe praticamente tutti i generi cinematografici e televisivi e, in generale, tocca tutti i mezzi di comunicazione nelle loro più svariate produzioni, dalla narrativa agli audiovisivi artistici e musicali, dai videogame ai fumetti.

Per quanto riguarda la “zombificazione dei media” l’autore porta alcuni esempi di produzioni audiovisive che palesano tale fenomeno. Nel film Pontypool. Zitto… o muori (Pontypool, 2009) di Bruce McDonald, il contagio si propaga attraverso la trasmissione radiofonica e telefonica: «la zombificazione corrisponde al linguaggio, anzi alla lingua inglese – più precisamente ancora, al significato delle parole inglesi. Per eliminare il virus è necessario uccidere la parola – ucciderne il significato –, ripetendola finché non diviene incomprensibile» (p. 73). Di fatto, ricorda l’autore, tutti i mondi mediati elettronicamente dalle telecomunicazioni tendono ad evocare il soprannaturale ed il mostruoso, abitando, tali media, una zona liminale, tra la vita e la morte, proprio come gli zombie. Se i mezzi di trasmissione delle comunicazioni proiettano oltre il luogo e lo spazio, quelli di registrazione consentono anche di andare oltre il senso del tempo. I media possono allora essere letti come morti viventi.

Secondo lo studioso Erik Bohman (Zombie Media) nelle opere di Romero è possibile individuare la metafora del medium come morto vivente: nei suoi film i media sono mostrati come agenti di zombificazione, dunque come zombie essi stessi. Boni mette in evidenza come La notte dei morti viventi (1968) di Romero giunga nelle sale pochi anni dopo la pubblicazione di Gli strumenti del comunicare (1964) di Marshall McLuhan, saggio in cui lo studioso canadese sostiene che la specializzazione derivante dall’utilizzo di tecnologie sempre più sofisticate riduce le persone ad automi ed i mezzi di comunicazione elettronici determinano un nuovo tribalismo che si esplicita nella forma del “villaggio globale”. «La notte dei morti viventi ci mostra questo tribalismo nei suoi effetti più devastanti, sia nella sua declinazione nella figura dello zombie (che da poche unità diviene poi una massa minacciosa) sia nella sua articolazione nei sopravvissuti asserragliati all’interno di una fattoria, le cui azioni sono peraltro orientate dalla radio e della televisione, i cui annunci tuttavia nel corso della vicenda perdono sempre più di credibilità e affidabilità» (p. 76).

Nel lungometraggio Le cronache dei morti viventi (Diary of the Dead, 2007) di Romero, «assistiamo alla pervasività (e alla disfatta) dei media: nel film un gruppo di studenti documenta l’apocalisse zombie attraverso le loro cineprese e i loro telefonini, e vediamo spesso immagini tratte da telecamere di sicurezza e altri sistemi di controllo e vigilanza […] Tuttavia, a onta di tutto il materiale di immagini che viene raccolto nel corso della vicenda, i protagonisti sono consapevoli della sostanziale inutilità di quella documentazione. Se già a livello testuale è possibile verificare il delinearsi della metafora dei media come morti viventi – capaci di zombificare i loro consumatori –, a un ulteriore livello di analisi è possibile vedere come la stessa grana delle immagini mediatiche che rappresentano i cadaveri in disfacimento degli zombie restituisca le tracce della loro mediazione e rimediazione, rinvenibili negli effetti di distorsione e negli interventi digitali sulle immagini[…] è possibile parlare di zombie media poiché il corpo dello zombie (reso con tutte queste tecniche) e il corpo dei media (la qualità stessa delle loro immagini) sono connessi metaforicamente in una relazione reversibile. A questa sorta di “ontologia” dei media si unisce una “fenomenologia” dei media, “nella quale i piaceri e le paure associati al guasto dei media sono veicolati dallo spettacolo della disintegrazione del corpo dello zombie”» (pp. 78-79).

I mezzi di comunicazione, esattamente come i corpi umani, si corrompono, sono soggetti all’invecchiamento ed alla decadenza. Inoltre, continua lo studioso, i media divengono presto obsoleti (dead media) e la riattivazione di questi, attraverso processi di manipolazione, permette di farli tornare in vita, come accade agli zombie. «In questo modo, gli zombie media mostrano come degli scarti tecnologici (gli stessi scarti che abbiamo visto costituire uno degli aspetti principali della rappresentazione del morto vivente) possano “tornare in vita”, perché “i media non muoiono mai» (p. 80). Anche i più recenti media digitali sono duri a morire; Angela M. Cirucci (The Social Dead: How Our Zombie Baggage Threatens to Drag Us into the Crypts of Our Past) a tal proposito ricorda come i dati pubblicati sui social network, anche quando si pensa di averli definitivamente cancellati, possano “ricomparire” in contenti imprevisti.

dead-set-poster-09La metafora dello zombie è utilizzata dai media anche per rappresentare il mondo del lavoro dei mezzi di comunicazione. Al fine di indagare tale ambito, lo studioso prende in esame la serie televisiva Dead Set (2008) ideata da Charlie Brooker, autore della serie documentaria How TV Ruined Your Life (2001) e della serie Black Mirror (dal 2011). Dead Set narra di un’epidemia zombie che si diffonde sia nel paese che all’interno del cast e dell’equipe che lavora alla realizzazione del reality inglese Big Brother. A partire da tale esempio, Boni «si concentra sulla metafora dello zombie come di un “morto che lavora”, in un’epoca in cui il campo professionale delle grandi imprese mediatiche è sempre più caratterizzato dalla precarietà e dallo sfruttamento. Le “videopolitiche” diventano qui davvero delle “necropolitiche” lavorative, dove la flessibilità, la mobilità e il rischio costituiscono i fattori centrali che presiedono alle pratiche professionali di chi lavora all’interno degli apparati dei media, e delle stesse celebrità – effimere, undead – che vengono prodotte» (p. 10). Nella serie di Brooker tutti sono rappresentati come zombie: i partecipanti al reality, i produttori ed il pubblico sono ormai privi di qualsiasi funzione celebrale. Gli esseri umani sono soltanto propensi al consumo di immagini, carne umana, celebrità a loro volta zombificate.

David McNally (Monsters of the Market. Zombies, Vampires and Global Capitalism) sostiene che nel presentare gli zombie come consumatori compulsivi, molte produzioni recenti hanno finito per celare il mondo della produzione, dello sfruttamento del lavoro e delle diseguaglianze di classe che rendono possibile tale consumo. Dunque, secondo lo studioso, molti film sugli zombie contemporanei si limitano a criticare il consumismo senza mai affrontare di petto il capitalismo a partire dai processi lavorativi che zombificano i lavoratori. La serie Dead Set può essere vista come rimedio a tale limite, visto che oltre al processo di zombificazione dei consumatori dei media, affronta anche quello dei lavoratori dei media.

A ben guardare gli stessi spettatori sono messi al lavoro (labouring audience) e contribuiscono alla produzione dei media. Lo studioso Dallas Smythe (On the Audience Commodity and Its Work) sostiene che il pubblico si sta trasformando in un bene di consumo venduto dai media agli inserzionisti pubblicitari; la tv produrrebbe telespettatori per poi venderli agli sponsor. «Nel capitalismo contemporaneo il pubblico costituisce così la “forma-merce” dei prodotti della comunicazione […] una “merce” molto particolare, che produce da sé il proprio valore: e questa è appunto la teoria della labouring audience, secondo cui il pubblico elabora attraverso i messaggi pubblicitari (ma non solo) la propria ideologia consumistica. La nostra “storia” di consumatori, cioè di pubblico dei messaggi pubblicitari, è molto lunga […] e questo fa di noi non solo un pubblico competente in ordine ai consumi, ma dei veri e propri “stacanovisti” del consumo, una merce che lavora incessantemente per valorizzare sempre più il proprio ruolo – il proprio pregio – di ascoltatori, spettatori o lettori. Con le proprie ricerche sul pubblico, i media non cercherebbero quindi di ottenere prodotti migliori per il pubblico stesso, ma punterebbero a sfruttare quest’ultimo con una vera e propria forma di lavoro» (p. 87).

Visto che le ricerche di Smythe risalgono alla fine degli anni Settanta, alcuni studiosi hanno pensato di aggiornarle facendo riferimento al panorama dei social media contemporanei, ove gli utenti sono divenuti anche produttori di contenuti. «A completare la metafora dello zombie come lavoratore alienato asservito agli interessi e allo sfruttamento dell’industria dei media, abbiamo l’analogo concetto di free labour, dove i riferimenti alla zombificazione sono piuttosto espliciti: gli utenti di Internet sono definiti “NetSlaves” (schiavi della rete) – un riferimento piuttosto sinistro alle origini culturali dello zombie –, e la loro attività costituisce uno “sweatshop elettronico”, in funzione 24 ore al giorno e sette giorni su sette. Altro che consumattori: laddove alcuni amano vedere in queste nuove figure un’élite culturale, altri vi vedono semplicemente un’inedita forma di lavoro proletarizzato, un nuovo, “terrificante mostro”. Il free consumer è uno spettro, un non-morto sfruttato e sottoposto a una nuova forma di governamentalità. E – ciò che è peggio – si tratta di una schiavitù di cui non si è nemmeno consapevoli, dal momento che viene associata a una piacevole attività, spesso svolta tra le pareti domestiche» (pp. 89-90).

In Dead Set, come si diceva, anche i lavoratori intenti alla realizzazione del reality divengono zombie; si tratta di lavoratori in balia di quella flessibilità e precarietà caratteristiche del lavoro e della vita contemporanea che il sistema produttivo degli audiovisivi ha da tempo introdotto. Una ricerca di inizio anni Duemila di Gillian Ursell (Working in the Media), ha messo in luce «come le imprese mediali abbiano di fatto trasferito la maggior parte dei rischi, dei costi e dei compiti di management ai lavoratori stessi, ma si trovino allo stesso tempo minacciate da nuove imprese produttive che impiegano lavoro flessibile sulla base di singoli progetti, magari offrendo migliori condizioni» (p. 93). Dunque, i lavoratori dei media risultano sempre più «sottopagati e sottoposti a un regime di auto-imprenditorialità all’insegna dell’“ognuno per sé”, che indebolisce peraltro i legami tra colleghi» (p. 93).

I lavoratori dei media, del tutto in linea con le politiche neoliberiste, si presentano come una moltitudine di lavoratori ridotti al precariato lavorativo ed esistenziale, obbligati all’auto-sfruttamento, all’auto-commercializzazione, all’auto-formazione, al “presentismo produttivo” anche quando non sono fisicamente sul posto di lavoro (ormai estesosi a dismisura nel tempo e nello spazio), all’identificazione con l’azienda che, masochisticamente, porta ad amare l’essere sfruttati.. «Come gli zombie, i freelance dell’industria dei media sono orde, masse di lavoratori assolutamente sostituibili; come gli zombie, gli stagisti che lavorano nella produzione della reality tv sono stretti in una morsa da parte della stessa reality tv, che li sfrutta succhiando loro le competenze professionali e le energie lavorative» (p. 95). Gli stessi partecipanti ai reality non solo si trovano ad essere le più effimere tra le celebrità, dalla durata sempre più limitata, ma hanno anche rinunciato contrattualmente ad avere vita ed identità proprie. Inoltre costoro incarnano un tipo di celebrità disprezzata dal pubblico borghese che assiste alle loro performance con sufficienza, come di fronte ad un freak show. Sono personaggi visti come reietti, scarti umani… morti viventi.

La metafora dello zombie viene sempre più spesso applicata anche ai personaggi politici messi in scena dai media. A tal proposito Boni si focalizza sulla rappresentazione mediatica del corpo di Silvio Berlusconi. Secondo lo studioso «possiamo vedere come di fatto il campo discorsivo mediatico dello zombie rispetto alla figura politica di Berlusconi si declini nella doppia accezione di body politic e di body politics. La doppia valenza di questa metafora – che restituisce l’immagine di un leader non solo mostruoso carnefice ma anche vittima della zombificazione – la rende particolarmente efficace per restituire diverse caratteristiche di Berlusconi e del “berlusconismo” di questi ultimi vent’anni: il sistematico ritorno alla politica anche (soprattutto) quando dato “politicamente morto”; la “serialità” e la “viralità” della sua immagine caleidoscopica, che contiene e allo stesso tempo contraddice tutte le sue rappresentazioni […]; il “berlusconismo” come commodification e lifestyle politics, “specchio” di un’avvenuta trasformazione socio-culturale dell’Italia degli ultimi decenni; pericoloso e mostruoso cannibale, affamato non solo delle vite dei cittadini ma anche delle carni di donne giovani e procaci; cadavere la cui putrefazione rimanda alla corruzione di un intero sistema politico ed economico; mummia […] che si sottopone a macabre cure per sconfiggere la vecchiaia e la morte; infine, un caricaturale mostro tutto italiano, nel suo farsesco machismo di altri tempi» (pp. 130-131).
Se il leader arcoriano invitava i suoi venditori a considerare il pubblico come una moltitudine di decerebrati guidati solo dal consumo compulsivo di merci ed immagini, il Berlusconi mediatico, mette in guardia Boni, vittima e carnefice al tempo stesso, rischia di uscire di scena “cannibalizzato” dallo stesso popolo-zombie. Si tratta pur sempre di un prodotto dei media e come tale soggetto al consumo.

dead_set222Focalizzandosi sul pubblico si può facilmente notare come, tradizionalmente, questo venga rappresentato come una massa amorfa totalmente acritica. Ciò avviene anche nella serie inglese Dead Set, visto che la metafora dello zombie qua si estende al pubblico che circonda minacciosamente il set ove viene prodotto il Grande Fratello. A tal proposito Boni compara l’attrattiva per il centro commerciale degli zombi de L’alba dei morti viventi di Romero con l’attrattiva per la “Casa” del reality della serie Dead Set: dal consumo dei beni materiali al consumo dei media. Nella serie inglese però le battute tra i personaggi del set circondati dal “pubblico-zombie” denotano la pessima considerazione che il mondo della tv ha dei telespettatori tanto che il “caro vecchio pubblico inglese” viene identificato come un’orda di voraci morti viventi pronti a consumare anche da morti le immagini, i corpi ed i luoghi della televisione.

Secondo Boni le stesse viralità e velocità di trasmissione del contagio, messe in scena da Dead Set, possono essere lette come metafora della facilità con cui si ritiene che i media infettino il pubblico rincretinendolo (zombificandolo, appunto). La questione del “contagio” operato dai media è stata, sin dalle origini, al centro della communication research. Nella cosiddetta “magic bullet theory” i media sono visti come strumenti persuasivi che agiscono direttamente su di una massa totalmente passiva ed inerte. Nella teoria “degli effetti limitati” si sostiene che, tutto sommato, i media si limitano a rafforzare le opinioni che gli individui già hanno. Paul Felix Lazarsfeld, uno dei principali teorici degli effetti limitati, ritiene però sia possibile collegare gli effetti dei media ai tempi di esposizione a cui si sottopone il pubblico; lo studioso affronta l’influenza dei media come si trattasse di un’epidemia tanto da focalizzarsi sull’effetto cumulativo dell’esposizione “contaminante”.
Parallelamente a tali ricerche americane, in Europa si sviluppa la “teoria critica” della Scuola di Francoforte che affronta i media, come l’intera industria culturale, inserendoli all’interno di una più estesa strategia di manipolazione dei cittadini. I Cultural studies anglosassoni, rielaborando la teoria critica francofortese, da un lato limitano la portata manipolatrice dei media e dall’altro affiancano all’analisi del consumo quella della produzione. La Scuola di Birmingham insiste particolarmente sul ruolo attivo degli spettatori.

In epoca più recente alcuni studiosi hanno invece ripreso visioni più apocalittiche; Paul Virilio (Lo schermo e l’oblio), ad esempio, connette lo schermo all’oblio e, ricorda Boni, l’essere un corpo senza memoria è proprio una delle caratteristiche dello zombie. Ad insistere sull’assenza di memoria del pubblico è anche Stefano Tani (Lo schermo, l’Alzheimer, lo zombie. Tre metafore del XXI secolo), studioso che definisce la visione contemporanea un “vedere senza pensiero”. «Il telespettatore è in balia delle immagini che gli vengono somministrate […] “è diventato un utente, cioè qualcuno che crede di usare qualcosa non sapendo di essere usato”. In questa “falsa coscienza”, l’utente televisivo “è un compulsivo consumatore del nulla”. Soprattutto, è un consumatore senza memoria: provvisto al limite di “quella sorta di istinto” che lo fa tornare, da morto – o meglio da non-vivente – al centro commerciale o ai cancelli della “Casa” del Grande Fratello» (pp. 140-141). L’individuo contemporaneo si sottopone anche ad altri schermi oltre a quello televisivo e, sostiene Tani, sul Web esso è privato della propria identità, è uno zombie a cui è stato rubato tutto facendogli credere di poter acquistare.

Boni affronta quel processo che può essere definito di “romanticizzazione dell’audience”, in buona parte costruito sull’idea di “pubblico-attivo” e sulle “capacità critiche del pubblico”. Nel primo caso, sostiene lo studioso, se ci si accontenta del fatto che uno spettatore televisivo “processa ed elabora” ciò che fruisce, allora si è di fronte ad una tautologia; la questione cruciale, come ricorda Roger Silverstone (Televisione e vita quotidiana), non risiede nel fatto che un’audience sia attiva ma piuttosto se quell’attività abbia un senso. Circa i limiti dell’idea di “pubblico-attivo”, diversi studiosi che si rifanno alla cosiddetta “ipotesi dell’agenda setting”, segnalano come se è pur vero che i media non ci dicono che opinione dobbiamo avere, ci impongono però l’argomento, l’agenda, su cui dobbiamo esprimere un’opinione. Secondo tale ipotesi i media sarebbero i principali costruttori di realtà sociale.
Nel caso delle “capacità critiche del pubblico”, «assumere che lo spettatore sia “critico”», secondo diversi studiosi, «non significa per ciò stesso che esso dia una lettura oppositiva del testo mediale fruito, né tanto meno, come vorrebbero alcuni autori, che tale lettura “critica” sia un “atto politico”, in grado di ridefinire codici culturali dominanti in chiave antagonista» (p. 143). Inoltre, secondo alcuni studiosi, focalizzarsi eccessivamente sulla capacità del pubblico di leggere criticamente il contenuto dei media rischia di deresponsabilizzare i media e di far dimenticare il fatto che le pratiche di consumo passivo rappresentano le modalità di fruizione dominanti.

La spettacolarità e la retorica dell’“interattività” contribuiscono a costruire un’immagine falsata del pubblico che in realtà mette in atto spesso un “consumo distratto” dei media. Secondo Landi Raubenheimer (Spectatorship of screen media; land of the zombies?) si può paragonare il consumo automatico di immagini sullo schermo da parte del pubblico, alla “sete di sangue” dei morti viventi che sbranano chi incontrano senza averne necessità. Secondo lo studioso, in molti casi, ci si trova davanti allo schermo senza una necessità specifica e senza consapevolezza.

Volendo insistere sul pubblico-attivo si possono prendere in esame casi in cui il pubblico si è mostrato in grado di appropriarsi dei testi mediatici per farne un uso nuovo e differente. Un caso emblematico a cui fa riferimento il saggio è quello delle zombie walks, quelle sfilate in cui la gente ama travestirsi da morti viventi per mettere in scena l’apocalisse zombie nel cuore delle città, non di rado come forma di protesta, come è accaduto nell’ambito di Occupy Wall Street a New York. «Zombificati dagli orrori del capitalismo e del neoliberismo, i “pubblici-performer” che si impadroniscono delle vie e delle piazze delle città finiscono per mettere in scena in realtà una “de-zombificazione”» (pp. 154-155). Questi morti viventi deambulanti lungo le vie cittadine appaiono come «il perturbante “inconscio” della città, tutto ciò che si cerca di allontanare e che torna per rivendicare quelle stesse strade da cui era stato cacciato» (p. 155).

Molte descrizioni delle zombie walks però, sostiene Boni, tendono a ricordare le retoriche consolatorie diffuse dalle letture “romanticheggianti” dei pubblici di cui si è parlato prima. «Nel loro trarre materiali dall’industria dei media e ri-significarli in senso oppositivo e sovversivo, le sfilate dei morti viventi dovrebbero rappresentare il massimo dell’attività dei pubblici-performer, e tuttavia la loro incapacità di indicare soluzioni alternative a quelle contro cui protestano ci parla di una sostanziale passività, che ricorda da vicino l’eterno presente in cui “vive” – o meglio ancora non-vive – lo zombie. In questo senso, le zombie walks e le zombie parades non sono solo appropriate per il tentativo di movimenti come Occupy di richiamare l’attenzione sull’organizzazione dello spazio urbano nell’epoca del capitalismo neoliberista, ma rappresentano anche un riflesso (forse inintenzionale e inconsapevole?) dell’assenza di una possibile alternativa» (p. 157).

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Il reale delle/nelle immagini. L’onda mediale https://www.carmillaonline.com/2016/03/15/il-reale-dellenelle-immagini-londa-mediale/ Tue, 15 Mar 2016 22:30:11 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28830 di Gioacchino Toni

onda-mediale_coverAndrea Rabbito, L’onda mediale. Le nuove immagini nell’epoca della società visuale, Mimesis, Milano – Udine, 2015, 462 pagine, € 25,00

L’onda mediale rappresenta l’ultimo volume della monumentale tetralogia, di circa milleduecento pagine complessive, dedicata da Andrea Rabbito alle illusioni create dalle nuove immagini. Gli studi di Rabbito rappresentano un contributo fondamentale per chi voglia approfondire le peculiarità delle immagini proprie della contemporaneità ed i rapporti che si vengono a creare tra queste e gli spettatori più o meno attivi nei loro confronti. L’ultimo saggio, qua preso in esame, riparte da [...]]]> di Gioacchino Toni

onda-mediale_coverAndrea Rabbito, L’onda mediale. Le nuove immagini nell’epoca della società visuale, Mimesis, Milano – Udine, 2015, 462 pagine, € 25,00

L’onda mediale rappresenta l’ultimo volume della monumentale tetralogia, di circa milleduecento pagine complessive, dedicata da Andrea Rabbito alle illusioni create dalle nuove immagini. Gli studi di Rabbito rappresentano un contributo fondamentale per chi voglia approfondire le peculiarità delle immagini proprie della contemporaneità ed i rapporti che si vengono a creare tra queste e gli spettatori più o meno attivi nei loro confronti.
L’ultimo saggio, qua preso in esame, riparte da quel confronto di teorie e prassi artistiche su cui si era concentrato il precedetene volume (Il moderno e la crepa. Dialogo con Mario Missiroli, 2012), che a sua volta rifletteva su questioni analizzate nei primi due saggi (Il cinema è sogno. Le nuove immagini e i principi della modernità, 2012 – L’illusione e l’inganno. Dal Barocco al cinema, 2010).

Nell’ultimo volume pubblicato, Rabbito sostiene che lo spettatore, di fronte alle nuove immagini, si viene a trovare in una situazione del tutto simile a quella del surfista che deve concentrarsi per mantenere l’equilibrio sull’onda ed al contempo assecondarla. È per questo che l’autore parla, a proposito delle nuove immagini, di un’“onda mediale” che impone allo spettatore «un certo atteggiamento in cui l’essere incantato da ciò che sta vivendo viaggia in parallelo con una particolare attenzione all’onda che lo trascina e lo spinge nell’Oltremondo» (p. 104). Lo spettatore concentrandosi sul film risulterebbe distratto «non solo dall’influenza che riceve dalla connotazione data alla realtà rappresentata, dal suo immedesimarsi con l’apparecchio e con i personaggi, ma anche dal fatto che lo stesso scorrere del flusso non gli offre tempo di riflessione» (pp. 106-107). Inoltre, tendenzialmente, è lo stesso spettatore a non essere interessato a riflettere attentamente su quanto avviene in quanto il suo ruolo richiede di “stare al gioco”.

Il voler stare sull’onda, pertanto, sostiene l’autore, richiederebbe sia la capacità di lasciarsi trasportare dagli avvenimenti che di analizzarli criticamente. Senza un’adeguata formazione, i processi mentali dello spettatore finiscono con l’assecondare il movimento del flusso e le sensazioni provate risultano quelle suggerite dall’onda. «Questo assecondare si traduce così in un’accettazione di ciò che vediamo, della connotazione data al reale, dell’assimilazione del sapere e dei messaggi insiti nell’onda; diventiamo passivi e facili ad assorbire le informazioni offerte mediante le nuove immagini audiovisive» (p. 107). Secondo Rabbito lo spettatore delle nuove immagini audiovisive tende ad accontentarsi di scegliere tra due modalità di visione: una visione incantata, che non gli permette di leggere criticamente i vari aspetti della rappresentazione, ed una visione disinteressata. In entrambi i casi, in assenza di competenze che permettano di gestire adeguatamente l’onda mediale, lo spettatore risulta in balia dell’onda.

Al fine di affrontare adeguatamente L’onda mediale, occorre ricostruire le premesse su cui si basa il lavoro dello studioso che, per analizzare le nuove immagini, parte da lontano, dal ruolo per certi versi anticipatorio svolto dalle poetiche barocche. Già Erwin Panofsky (Tre saggi sullo stile), aveva individuato nel Barocco secentesco l’ingresso nella modernità; quel mutamento nel percepire il reale avrebbe aperto le porte a problematiche ed a modalità di rappresentazione di stretta attualità e di ciò hanno avuto modo di riflettere, tra gli altri, studiosi come Luciano Anceschi, Carlo Argan, Gilles Deleuze, Paul Virilio, Jean Baudrillard e lo stesso André Bazin che giunge ad indicare nella fotografia il compimento del Barocco.

il_moderno_e_la__5139c723c290aSull’onda di tali riflessioni, Rabbito individua il paradosso che vede da un lato il Barocco come fondamento delle nuove immagini mentre, dall’altro, queste sembrano prendere decisamente le distanze dalla logica secentesca. «Questo perché il Barocco, attraverso la sua ricerca per la resa del doppio del reale, cercava di far riflettere sulla fallibilità dei sensi, sull’inganno delle apparenze della realtà, e di conseguenza sulla fallacità delle rappresentazioni e su come queste creino illusioni, ci confondano e ci influenzino. Le nuove immagini invece creano un doppio del reale portando ad un risultato opposto: ovvero quello di affidarci al reale, alla nostre percezioni e alle rappresentazioni, e viene accentuato particolarmente il piacere ludico e spettacolare delle illusioni che queste immagini creano, dimostrando disinteresse verso quelle riflessioni profonde che tali immagini possono far scaturire» (p. 16). L’illusorietà dell’immagine nel Barocco intendeva mettere in discussione la realtà e le rappresentazioni, l’illusione serviva a far riflettere sull’illusione, le nuove immagini tendono invece ad offrirsi come realtà vera e propria. Recuperare la logica barocca, secondo l’autore, risulta utile al fine di strutturare una visione complessa del reale, capace di opporsi alle illusioni.

Al recupero della rappresentazione barocca può essere affiancata una concezione artistica brechtiana che vede nella forma epica un antidoto all’abbandonarsi del pubblico all’illusione messa in scena dalle immagini. Attraverso tale recupero, il regista Mario Missiroli, ad esempio, intende contrastare l’illusione ingannevole prodotta dalle nuove immagini e la loro semplificazione del reale. «La forma barocca e la forma epica brechtiana [sono in grado di] opporsi alle illusioni, a far riflettere il proprio spettatore, e a diffondere una visione complessa e moderna della realtà» (p. 18).
Ad essere indagate in questo saggio, L’onda mediale, sono proprio tali “forme di resistenza” inserite nelle opere cinematografiche. Nel saggio l’analisi si concentra su opere come Otello (1952) ed F for Fake (1973) di Orson Welles, Synecdoche, New York (2008) di Charlie Kaufman, La Vénus à la fourrure (2013) di Roman Polański, Dans la maison (2012) di François Ozon, Adieu au langage (2014) di Jean-Luc Godard e Gone Girl (2014) di David Fincher. In tali lungometraggi si evidenziano quelle illusioni, quelle riformulazioni del reale, create dalle immagini (classiche e nuove) che tanta influenza esercitano sullo spettatore.

Se, in generale, tutte le immagini hanno un ruolo importante nello strutturarsi del nostro immaginario, con ciò che ne consegue in termini di modalità con cui ci rapportiamo alla realtà, a maggior ragione ciò vale per le nuove immagini che, capaci come sono di offrirci una sensazione di duplicazione del reale, sembrano quasi in grado di farci percepire la presenza stessa dei soggetti rappresentatati.

Se già Max Horkheimer e Theodor W. Adorno (La dialettica dell’illuminismo) insistono su quanto l’immagine cinematografica influenzi il modo con cui gli spettatori osservano la realtà, le nuove immagini ed i nuovi strumenti di comunicazione non sembrerebbero limitarsi a ad offrire modelli ed interpretazioni del reale ma, secondo studiosi come Marshall McLuhan (La galassia Gutenberg – Gli strumenti del comunicare), Harold Innis (Le tendenze della comunicazione) e Joshua Meyrowitz (Oltre il senso del luogo), questi inciderebbero anche sui processi mentali degli individui, sul loro modo di pensare, comportarsi e riflettere.
Walter Benjamin stesso sostiene (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica) che nel rapporto tra nuove immagini e pubblico, si assiste da un lato ad un adeguarsi della realtà delle immagini e dei media alla massa e dall’altro ad un adeguarsi della massa alla realtà delle immagini e dei media.

cinema_sogno_coverLa particolare natura dei prodotti audiovisivi, il loro linguaggio apparentemente così intuitivo, tende a far credere all’osservatore di essere perfettamente in grado di leggerli tanto che, come ha osservato Walter Benjamin, gli individui non percepiscono affatto la necessità di decifrare la stratificazione di messaggi insiti negli audiovisivi. I linguaggi classici (es. pittura e scrittura), sostiene Rabbito, «propongono un tipo di partecipazione diversa da quella che realizzano i mass media e i new media, in quanto l’immagine che offrono i primi linguaggi al loro utente non è immediata e intuitiva come quella fotografica, cinematografica, televisiva, video» (p. 45), dunque, continua lo studioso, «avviene che l’immagine fotografica e cinematografica inducano ad avere l’illusione di presenza dell’oggetto immortalato, differentemente dai linguaggi classici che esplicitano la natura di rappresentazione della loro immagine» (p. 45). Il modello proposto non è “descritto o decantato: è rappresentato!”, sostiene Pier Paolo Pasolini a metà anni ’70 riferendosi alla televisione, a proposito di quella che, non a caso, all’epoca definisce la “rivoluzione antropologica” italiana.

La nuova immagine, nel suo illudere una perfetta duplicazione del reale, non provoca più la sensazione che in essa il rappresentante ceda il posto al rappresentato ma, piuttosto, l’assenza del rappresentante e la percezione di trovarci il rappresentato presente davanti agli occhi. «A partire dalla fotografia, la nuova immagine dimostra la forza suggestiva della sua magia di secondo grado: la costruzione artificiosa scompare, il soggetto ci appare mediante il supporto, e scomparendo tale supporto il soggetto si offre alla nostra vista in maniera apparentemente immediata, e si impone la sua presenza» (p. 55).
Edgar Morin (Il cinema o l’uomo immaginario) individua nel cinema il soddisfacimento del mito di Narciso di poter vedere la duplicazione del reale e di potervisi perdere in esso. «Volgiamo godere della vertigine del doppio […] vogliamo immetterci in questo simulacro, sottraendoci da quello reale» (p. 58). Indubbiamente il cinema ha portato il livello di illusione a livelli mai raggiunti prima e tale livello sarà consegnato tanto alla televisione quanto al video.

Relativamente alle nuove immagini, Rabbito propone di operare una distinzione tra nuove immagini statiche (fotografia) e nuove immagini audiovisive (cinema, tv e video) e, a proposito di queste ultime, diversi studiosi hanno messo in luce il livello superiore di coinvolgimento rispetto alle immagini statiche. Se Edgar Morin (Lo spirito del tempo) nel riferirsi agli audiovisivi parla di “involucro polifonico di tutti i linguaggi” e Paul Virilio (L’arte dell’accecamento) di “rivelazione multimediatica”, Rabbito sottolinea come già Sergej Michajlovič Ejzenštejn (Il montaggio) ne ha, ben prima, studiato la portata indicando, a tal proposito, la necessità di un “montaggio polifonico” in grado di tener presente i diversi linguaggi che compongono l’arte cinematografica.

Se la “magia di primo grado” rende manifesta la convivenza tra rappresentazione e rappresentato, nella magia di secondo grado, raggiunta da tutte le nuove immagini, tale convivenza scompare; ad apparire è soltanto il rappresentato. Rabbito sostiene che mentre l’illusione secentesca mirava a mettere in crisi le certezze dell’uomo, evidenziando come ogni espressione del mondo possa essere mendace, nelle nuove immagini lo spirito critico dell’illusione viene meno; ora lo spettatore tende a credere a ciò che vede senza mettere in discussione la realtà rappresentata.

Nei precedenti volumi Rabbito ha presentato tre livelli di finzione, ciascuno dei quali analizzato nei suoi tre gradi, minimo, parziale ed intenso. Vale la pena ricapitolare brevemente le differenze principali tra i tre livelli. La finzione primaria rappresenta «il carattere soggettivo, concettuale, relativo e trasformante della nuova immagine che modifica il senso originario del fenomeno immortalato» (p. 77) e la possiamo rintracciare nelle nuove immagini (statiche ed audiovisive) «che dichiarano di voler documentare la realtà in termini oggettivi» (p. 77). La finzione secondaria la ritroviamo nelle nuove immagini che intendono documentare il reale, solo che in questo caso «la trasfigurazione del senso originario che si realizza non è accidentale, ma voluto dall’autore, il quale intende stravolgere intenzionalmente la realtà dei fatti di ciò che registra, senza avvertire il suo spettatore della trasfigurazione, anzi spingendo a far credere che ciò è in immagine sia una documentazione attendibile e oggettiva del reale e non una sua mistificazione» (p. 79). La finzione terziaria si ha quando l’artificiosità delle immagini viene palesata, quando la costruzione fittizia viene dichiarata. Se negli studi precedenti Rabbito ha approfondito i primi due livelli di finzione, in L’onda mediale è il livello terziario ad essere indagato.

illusione_ingannoNei film di finzione, sostiene l’autore, si tende a credere in ciò che si osserva soltanto durante la visione ma, soprattutto se il film è coinvolgente, si può restare coinvolti in quella dimensione fittizia. Rabbito segnala come questa influenza esercitata sullo spettatore ben oltre il momento di visione dell’opera sia dovuta alla capacità degli audiovisivi di creare un forte legame tra influenza e credenza sia nei film di finzione, che comunque rimandano al mondo reale, che nei film ove il mondo rappresentato si discosta nettamente da esso. Nei casi in cui il livello di finzione è particolarmente esplicito (finzione terziaria di grado intenso ), ovviamente lo spettatore tende a prendere le distanze da ciò che viene rappresentato risultandone decisamente meno influenzato.

Riprendendo le analisi di John B. Thompson (Mezzi di comunicazione e modernità), Walter Benjamin (L’opera d’arte nell’epoca…) e Cesare Musatti (Psicologia degli spettatori al cinema), il saggio evidenzia come lo spettatore delle nuove immagini audiovisive sia «libero dagli attanti, dall’autore e dallo stesso pubblico. La quasi-interazione mediata, offerta dalle nuove immagini, si contraddistingue così per la sua libertà da alcun tipo di contatto, interferenza, con altri: ci permette di farci calare in una dimensione solipsistica e per certi versi ipnotica» (p. 93).
Lo spettatore, attraverso l’audiovisivo, si troverebbe a vivere una coinvolgente “quasi-esperienza” analoga ciò che si prova a livello onirico e, attraverso processi di immedesimazione e di proiezione, lo spettatore risulterebbe decisamente influenzato dalle nuove immagini che, secondo Cesare Musatti (La visone oltre lo schermo) inciderebbero direttamente sul suo inconscio. Dunque, secondo Rabbito, «ciò non può che influire profondamente sulla valutazione che realizza lo spettatore; ha l’illusione di poter essere un giudice competente, ma il più delle volte sarà influenzato dalle dinamiche che mettono in atto le nuove immagini audiovisive, le quali si dimostrano avere una forte incidenza sul giudizio che lo spettatore avrà. Riprendendo le parole di Benjamin possiamo scrivere che l’atteggiamento critico soggiace al piacere, il quale, quest’ultimo, soggiace ai processi che le nuove immagini audiovisive attivano» (p. 103).

A partire da tali premesse, il saggio di Andrea Rabbito passa ad analizzare alcuni esempi di film che dispiegano forme di resistenza all’onda mediale. A tali forme di resistenza daremo presto spazio su Carmilla.

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Quando l’immagine è politica https://www.carmillaonline.com/2015/09/21/quando-limmagine-e-politica/ Mon, 21 Sep 2015 21:30:53 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25110 di Massimiliano Coviello

cinema-uva-immagine-politicaChristian Uva, L’immagine politica. Forme del contropotere tra cinema, video e fotografia nell’Italia degli anni Settanta, Mimesis, Milano – Udine, 2015, 210 pagine, € 24,00

Il volume di Christian Uva prende avvio dalla riflessione sul politico, inteso come dimensione della vita pubblica nelle sue relazioni con il potere, svolta dallo storico e teorico del cinema Maurizio Grande in Eros e Politica. Sul cinema di Bellocchio Ferreri Petri Bertolucci P e V. Taviani (1995). A partire dalle pellicole girate negli anni Settanta da Bellocchio, Ferreri, Petri, Bertolucci e dai Taviani, [...]]]> di Massimiliano Coviello

cinema-uva-immagine-politicaChristian Uva, L’immagine politica. Forme del contropotere tra cinema, video e fotografia nell’Italia degli anni Settanta, Mimesis, Milano – Udine, 2015, 210 pagine, € 24,00

Il volume di Christian Uva prende avvio dalla riflessione sul politico, inteso come dimensione della vita pubblica nelle sue relazioni con il potere, svolta dallo storico e teorico del cinema Maurizio Grande in Eros e Politica. Sul cinema di Bellocchio Ferreri Petri Bertolucci P e V. Taviani (1995). A partire dalle pellicole girate negli anni Settanta da Bellocchio, Ferreri, Petri, Bertolucci e dai Taviani, Grande, che per diversi anni intrattenne un dialogo vivace con Gilles Deleuze e Carmelo Bene, utilizza l’aggettivo politico non tanto per quei film che sviluppano il loro intreccio a partire dalla rappresentazione di un particolare contesto politico (è il caso della politica messa in scena nei film legati alla cronaca o in quelli di propaganda), quanto piuttosto per individuare le opere che possiedono un senso politico e suscitano interrogativi politici.
L’immagine politica si appropria del paradigma inaugurato da Grande. Pertanto il volume di Uva non è una storia per immagini degli anni Settanta e delle lotte che li hanno segnati ma un’analisi che, a partire da un accurato studio storico e critico delle riviste cinematografiche e di quelle dei gruppi extraparlamentari, del cinema, del video e della fotografia militante, offre al lettore un’analisi del contropotere delle immagini, delle sue forme e della sua efficacia sociale, politica, nonché della sua capacità di imprimersi nell’immaginario collettivo.

Il contropotere, ossia «contestazione, rivoluzione, resistenza, antagonismo» (p. 10), messo in atto dalle e per il tramite delle immagini configura queste ultime come armi capaci di enunciare un discorso e di sprigionare un senso politico di natura antagonista ma anche di denunciare, ossia di offrire una risposta, quella della controinformazione, al malcontento crescente nei confronti degli organi di stampa e dei mass media in varia misura conniventi con il discorso istituzionale.

L’immagine politica ha una scansione cronologica che intreccia gli eventi alle trasformazioni tecnologiche, stilistiche e contenutistiche connesse alle immagini e ai loro medium di propagazione e diffusione sociale. Il volume prende avvio dalle lotte studentesche e operaie della seconda metà degli anni Sessanta, un periodo in cui si afferma il “cinema militante”, una fase «nella quale fiorisce una nutrita produzione di materiali di “servizio alla causa” di matrice fondamentalmente documentaria» (p. 15). Al centro della seconda sezione, dedicata agli anni Settanta, vi sono i linguaggi elettronici del video: la tecnologia elettronica esce dagli studi televisivi e diventa un strumento accessibili ai molti per supportare, sovvertendo i mezzi di produzione, l’attivismo politico e le istanze trasformatrici del periodo. L’ultima parte di questo percorso sul contropotere delle immagini negli anni Settanta è dedicata alla fotografia, un apparato di cattura che in quel periodo è al servizio di scopi e regimi discorsivi molto diversi, dalle Polaroid delle Brigate Rosse alle “immagini del movimento” di Tano D’amico.

Andiamo per gradi e proviamo a offrire una panoramica su ciascuna delle sezione di cui si compone L’immagine politica.

Fotogramma tratto da Ipotesi su Giuseppe PinelliA cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, il dibattito sullo specifico ideologico e linguistico del cinema politico imperversa su riviste come «Cinema&Film» «Ombre Rosse» e «Cinema Nuovo». A confrontarsi sono posizioni contrastanti a proposito della dimensione didattica del film, dell’accesso democratico al mezzo e alla grammatica cinematografica, della militanza e della rivoluzione culturale condotta attraverso il cinema. D’altra, parte anche la pratica del cinema militante si presenta come un coacervo di istanze produttive: dai gruppi extraparlamentari alle riviste come «Lotta Continua», dai collettivi studenteschi come il “Collettivo cinema militante Milano” a quelli operai e femministi, come il “Collettivo di Cinema femminista”, sino ai gruppi e ai comitati che riunivano registi e cineasti come il “Comitato cineasti italiani contro la repressione”, formatosi all’indomani della strage di piazza Fontana avvenuta il 12 dicembre 1969. Uno dei gruppi del comitato dei cineasti, realizza, con il coordinamento di Elio Petri, Ipotesi su Giuseppe Pinelli (o Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli). Le tre versioni sul presunto suicidio dell’anarchico milanese sono restituite allo spettatore grazie alla capacità attoriale di Gian Maria Volonté «nella funzione di persona/personaggio interna/esterna alle tre “narrazioni” che ricostruiscono, sfruttando le diverse e contraddittorie indicazioni fornite dalla Questura, i vari scenari dai quali emerge in definitiva l’impossibilità materiale della caduta volontaria o accidentale dell’anarchico dalla finestra» (p. 70).
A livello delle tecnologie usate dal cinema militante dell’epoca, tematiche e rivendicazioni vengono documentate e raccontate attraverso quei formati ridotti come l’8mm e il 16mm che consentivano l’alleggerimento dell’apparecchiatura e davano al cineoperatore, professionista o amatoriale, la possibilità di cogliere sul fatto le manifestazioni e le proteste, le assemblee e gli scioperi.
Tra le esperienze più fertili e riuscite di questa stagione si può ricordare la serie dei Cinegiornali Liberi realizzati da Cesare Zavattini a partire dal 1967, nei quali l’utilizzo del piano sequenza “adegua” l’estetica del pedinamento di matrice neorealista ad un cinema di analisi e di intervento, militante e di azione, «un cinema di tanti per tanti» (p. 42) che però prevede la presenza e il supporto di intellettuali e registi.
In pieno Sessantotto il Movimento Studentesco dell’Università “La Sapienza”, con il coordinamento del regista Silvano Agosti, realizza quattro cinegiornali sulle manifestazioni romane. Ben presto alcune immagini di questi cinegiornali (il ferimento di Oreste Scalzone, allora leader del Movimento Studentesco, le cariche violente della polizia contro i manifestanti che protestano per l’arresto di Piperno e Russo) vengono «fagocitate e reiterate in più momenti dalla televisione, diventando tout court il simbolo di quella stagione» (p. 49).
Matti da slegareCon l’arrivo degli anni Settanta il cinema militante inizia a produrre immagini e discorsi su due nuove direttrici che possono essere definite a partire da alcune parole chiave la prima è sintetizzata dalle rivendicazioni sociali delle minoranze, la seconda, sulla scorta dell’ascesa del terrorismo di destra e la strage di piazza Fontana, fonde le lotte studentesche e operaie al passato della Resistenza. Nella prima direttrice rientrano opere importanti come il documentario, girato nel 1975, tre anni prima della legge Basaglia, Matti da slegare di Silvano Agosti, Marco Bellocchio, Sandro Petraglia e Stefano Rulli. Gli autori di Matti da slegare mostrano gli spazi interni dell’ospedale psichiatrico di Colorno (Parma) e le strutture esterne di recupero in cui venivano impiegati alcuni dei ricoverati dismessi e soprattutto deliberatamente rifiutano «un ruolo puramente documentaristico o di informazione, optando piuttosto per un intervento diretto sulla realtà politica e sociale di uno spazio fisico che, nel frangente, è quello dell’emarginazione dei malati di mente» (p. 58).

Fotogramma da Pagherete caro Pagherete tutto, la morte di ZibecchiLa seconda direttrice intrapresa dal cinema militante, a fianco di quella a vocazione sociale e femminista, è quella ideologica e militante. All’interno di questa direttrice, oltre al lavoro di Volonté e al già menzionato Ipotesi su Giuseppe Pinelli, rientrano operazioni di controinformazione militante che si impegna a offrire immagini e punti di vista sulle manifestazioni, sulle violenze della polizia e sul terrorismo nero opposti a quelli forniti dalla stampa e dalla televisione. Due titoli. Il primo è Pagherete caro pagherete tutto (1975) del Collettivo cinema militante Milano, «vero e proprio manifesto dell’antifascismo militante […], realizzato durante le “calde” giornate dell’aprile 1975» (p. 78). Pagherete caro pagherete tutto è il resoconto delle uccisioni compiute dall’estremismo di destra (l’omicidio di Carlo Varalli) e dalla polizia (Giannino Zibecchi, investito da una camionetta della polizia durante le manifestazioni per la morte di Varalli). Il secondo film è Filmando in città – Roma 1977, realizzato da Lotta Continua per documentare, con immagini fisse e in movimento, spesso a bassa definizione, la repressione di stato e le violenze della polizia. Uva, che nella sezione dedicata alla fotografia, analizzerà gli scatti realizzati da Tano d’Amico su quegli stessi eventi, in particolare l’arresto e il ferimento di Paolo Tommasini (Paolo) e di Leonardo Fortuna (Daddo), attribuisce alle immagini di Filmando in città la «funzione di inoppugnabili prove, tracce, indici di una violenza e di una criminalità di cui si intende responsabilizzare lo Stato» (p. 85).

Le tecnologie di ripresa e registrazione elettronica vengono impiegate per la prima volta al di fuori degli studi televisivi a metà degli anni Sessanta grazie a tre noti artisti, precursori della video arte: Andy Warhol, Les Levine e Nam June Paik. È soprattutto quest’ultimo a pensare e adoperare il video come strumento antagonista rispetto alla televisione e a sostenere la nascita di una controcultura fondata su questa tecnologia. Dal punto di vista tecnico, il video può essere considerata l’“arma” ideale per la militanza e la guerriglia urbana. Esso è in grado, seguendo la teoria e la pratica vertoviana, di cogliere e restituire la vita colta sul fatto, inoltre permette di produrre immagini facilmente rielaborabili in fase di post produzione, infine, come già accennato, l’utilizzo del video da parte delle controculture è in opposizione alla produzione televisiva con la quale condivide la stessa matrice tecnologica.
Nel 1964 il padre degli studi sui media, Marshall McLuhan, dà alle stampe Understanding Media: The Extensions of Man (Gli strumenti del comunicare). Nel volume McLuhan classifica come freddi i medium che hanno una bassa definizione e che quindi richiedono un’alta partecipazione dell’utente, in modo che egli possa riempire e completare le informazioni non trasmesse; i media caldi sono invece quelli caratterizzati da un’alta definizione e da una scarsa partecipazione. Leggerezza del dispositivo, bassa definizione dell’immagine e alto livello di partecipazione e coinvolgimento: il videoattivismo, cinquant’anni prima dell’avvento dei social media e del giornalismo partecipativo, sembra possedere, in misura maggiore rispetto al medium televisivo, tutte le caratteristiche per essere una di quelle pratiche mediali che McLuhan avrebbe definito come fredda.
Rispetto all’utilizzo coevo del mezzo televisivo e del cinema, la politicità dell’immagine video si esprime, in primo luogo a livello temporale. Il video, a differenza del cinema, non riproduce il tempo ma lo produce: l’immagine si genera e si trasforma mentre l’evento ha luogo. Inoltre, Uva rileva la centralità del flusso video che risponde a «quell’urgenza […] di porsi in presa diretta con la realtà» (p. 97). La registrazione in tempo reale e il long take ben si adeguano alle necessità di processualità, trasformazione e immediatezza che sono racchiuse nell’idea di rivoluzione permanente ritornata in auge negli anni Settanta.
In Italia, il termine “videoteppisti” compare in quello che potrebbe essere definito il manifesto del video militante: Senza chiedere permesso. Come rivoluzionare l’informazione, un volume a cura di Roberto Faenza, edito da Feltrinelli nel 1975. Accanto ad alcune importanti proposte programmatiche ed estetiche sull’uso del video per una comunicazione partecipata e paritetica, Senza chiedere il permesso istruisce i suoi lettori sulla tecnica e la pratica del mezzo che, a differenze delle compatte fotocamere digitali, era ancora un sistema composto da due dispositivi separati, la telecamera con il microfono e il videoregistratore, e aveva dei costi elevati. Pertanto Faenza, che è ben consapevole della valenza politica dei media e della necessità per il proletariato di conoscere e controllare i propri mezzi di comunicazione, promuove un uso collettivo del videotape per «controllare e non di farsi controllare dalla tecnologia» (p. 95). All’esaltazione, tipica del periodo, di una produzione partecipata dal basso spesso fondata sullo spontaneismo, Faenza accosta la riflessione sulla dimensione processuale che la tecnologia video garantisce sia in fase di registrazione (la vita colta sul fatto) sia in fase di fruizione (il flusso di immagini che può restituire l’evento nel suo farsi) e che si oppone e nasce per contrastare l’idea di ricezione passiva del prodotto televisivo.
Come per il cinema militante, anche nel caso delle esperienze video i temi delle lotte sociali si affiancano all’antagonismo politico. è il caso di Processo per stupro (1979) di Loredana Rotondo, prodotto dal movimento femminista per denunciare l’arretratezza della legislazione italiana in materia. Trasmesso dalla Rai e presentato in diversi festival del cinema, Uva definisce Processo per stupro un oggetto narrativo non identificato per il suo carattere ibrido, «a cavallo tra prodotto televisivo di servizio pubblico e video militante» (p. 111).
Tra le esperienze di video attivismo più importanti, sia dal punto di vista della militanza sia per la consapevolezza tecnica e teorica del mezzo, c’è quella di Videobase. Il collettivo nasce nel 1971 e comprende Anna Lajolo, Guido Lombardi e Alfredo Leo. Lottando la vita (1975), girato tra i lavoratori italiani a Berlino, e Il lavoro contro la vita (1979), un’inchiesta sul petrolchimico di Porto Marghera realizzato per Rai Tre, condensano, già a partire dai titoli, la proposta teorica, estetica e politica di Videobase. Se il video è in grado di catturare il flusso vitale degli eventi e degli esistenti, allora esso è anche capace di “dirottare” questo flusso al di fuori delle processi di irreggimentazione a cui la politica ha sottoposto la vita. Ad una società disciplinare, fondata sull’esercizio della violenza e della repressione poliziesca delle manifestazioni, Videobase contrappone una biopolitica affermativa che, pur non potendo prescindere dalle lotte, è «intesa come politica condotta in nome e a difesa delle forme di vita» (p. 130). Per Videobase non esiste un confine tra osservatore e osservatore: nella loro pratica, in cui è evidente il debito nei confronti del documentario etno-antropologico, vige una tendenza “immersiva” nei confronti dell’ambiente, spesso i testimoni e gli intervistati vengono inquadrati mentre guardano e dibattono su ciò che è stato girato in precedenza. Tali strategie permettono a Videobase di rafforzare la dimensione performativa e partecipativa del video.
Le strategie del controllo, le forme della sorveglianza, le pratiche dell’irreggimentazione: al centro della produzione di Alberto Grifi ci sono molte delle tematiche studiate da Michel Foucault (Surveiller et punir viene pubblicato nel 1975; due anni prima, Gilles Deleuze e Félix Guattari avevano scritto L’Anti-Edipo, incentrato sulla contrapposizione tra desiderio e capitalismo). Ne Il festival del proletariato giovani al Parco Lambro (1976) Grifi coordina la regia di quattro troupe di “videoteppisti” catturando, contro il parere degli organizzatori, tutte le contraddizioni e le proteste emerse durante il festival milanese. In Lia (1977), un piano sequenza di oltre venti minuti serve a raccogliere le parole dell’omonima studentessa che, durante un’assemblea sull’antipsichiatria, smonta la retorica dei collettivi di sinistra. Fotogramma tratto da Anna di GrifiMa è soprattutto in Anna (1972-1975) che le tematiche sopra elencate incontrano le immagini più intense, immagini capaci di articolare un complesso discorso sulla follia e la sessualità. Anna è un progetto talmente sperimentale che la forma di vita che esso tenta di raccontare – la cronaca di una minorenne sarda, ospitata dall’attore Massimo Sarchielli, che sul proprio corpo gravido reca i segni della contenzione e della tossicodipendenza– impone continue trasformazioni alle forme della rappresentazione: dalla pellicola al video, dalla creazione di una traccia di lavoro per il film alla scelta di registrare tutto ciò che accade prima e dopo e le scene, sino allo scavalcamento dello spazio che separa la troupe e il profilmico per mezzo del gesto compiuto dall’elettricista Vincenzo Marra che entra in campo per dichiarare, di fronte all’obiettivo, il suo amore per Anna.

I primi congegni di ripresa foto-cinematografica sono costruiti e lessicalizzati sul modello dell’arma da fuoco: uno degli esempi più noti è il fucile cronofotografico di Étienne Jules Marey, fabbricato alla fine dell’Ottocento, con cui era possibile mirare e fotografare un oggetto in movimento nello spazio. Mettiamo tutto a fuoco! Manuale eversivo di fotografia (1978) di Fabio Augugliaro, Daniela Guidi, Andrea Jemolo e Armando Manni, una sintesi delle buone pratiche per realizzare immagini della e per la lotta, è in perfetta continuità con la semantica e la pragmatica che legano le capacità scopiche, mediate dall’apparato fotografico, e la potenza di fuoco in ambito militare. Naturalmente, il manuale edito da Savelli compie un’operazione di parziale inversione, spostando “il fuoco” dal contesto bellico a quello delle lotte di piazza: «la messa a fuoco del soggetto su cui gioca il titolo del manuale si fa così lo strumento attraverso il quale l’atto fotografico diventa un vero e proprio atto politico» (p. 196). Come accade per altri volumi coevi – oltre al testo di Faenza già menzionato si può ricordare anche L’arma dell’immagine. Esperimenti di animazione sulla comunicazione, realizzato dal Laboratorio di Comunicazione Militante per fornire strumenti di analisi dell’immagine giornalistica capaci di svelarne il portato sensazionalistico e repressivo – l’educazione alla tecnica non è scindibile da quella politica.

giuseppe-memeoLa fine degli anni Settanta è caratterizzata dalla convivenza delle istanze vitali e desideranti che hanno animati i movimenti e la loro produzione audiovisiva, con una pulsione distruttiva e mortifera che trova nel terrorismo e nelle sue immagini fotografiche la fonte principale. Per questo Uva sottopone ad attenta analisi la nota istantanea dell’ “uomo che spara” (Giuseppe Memeo, esponente di Autonomia Operaia), scattata in via De Amicis a Milano il 14 maggio 1977, mostrandone le manipolazioni e gli ingrandimenti adoperati dai quotidiani dell’epoca, comparandola con le altre foto scattata durante quella giornata (Carmilla), rinvenendo le somiglianze e i rimandi tra questo corpus fotografico e i generi cinematografici all’epoca in voga, dal western al poliziottesco italiano, riportando il dibattito tra intellettuali che quella foto, fin da subito un simbolo (lavoroculturale), aveva scatenato. Pur ribadendo che con quella foto il terrorismo fa il suo ingresso nella cultura visuale italiana dell’epoca, Uva riconduce l’immagine dell’uomo che spara all’interno di una costellazione discorsiva più ampia, capace di individuare le molteplici ragioni che hanno trasformato via De Amicis nel set in cui si è consumato un momento importante per la capitolazione dei movimenti e l’esplosione della violenza terroristica.
Con l’arrivo del Settantotto l’immaginario è invaso dalle polaroid scattate dalle Brigate Rosse ad Aldo Moro. Nel formato scelto, che elimina le fasi di sviluppo e stampa della fotografia, e nelle modalità della messa in scena, la “prigione del popolo” nella quale campeggia la stella a cinque punte, il volto in primo piano del ministro che guarda in macchina, l’elemento metalinguistico e probatorio della prima pagina di Repubblica con il titolo cubitale del sequestro che compare in una delle polaroid, il modello «indiziario fondato sui canoni della fotografia segnaletica (denotante) e quello prettamente comunicativo-propagandisco (connotante) trovano una perfetta sintesi» (p. 205). Istantaneità dello scatto, efficacia indiziaria e persuasiva (il mezzo busto di Moro interpella lo spettatore alla stregua dello Zio Sam con suo il dito puntato e la didascalia “I want you”): la disfatta del corpo del potere immortalato nelle polaroid delle BR costruiscono un “canone” estetico per gran parte dell’iconografia terroristica coeva e di quella futura, sino a video diffusi su YouTube dall’IS (doppiozero).
Il poliziotto Giovanni Santone fotografato da DamicoChiude l’ultima sezione del volume il capitolo dedicato alla produzione di Tano D’amico (lavoroculturale) nella quale ritornano le istanze vitalistiche di cattura del flusso della vita e delle trasformazioni dei movimenti si legano alla necessità di denunciare le ingerenze del potere politico nelle sue bieche derive poliziesche. è il caso della fotografia che immortala l’agente di polizia Giovanni Santone infiltrato tra i disordini successivi al sit-in del maggio 1972, indetto a Roma dal Partito Radicale, in cui rimane uccisa Giorgiana Masi. Con gli scatti del fotografo siciliano si chiude il percorso intrapreso da L’immagine politica e il lettore può rivolgere il suo sguardo verso delle immagini disposte a raccogliere i volti e i sentimenti della storia dei movimenti. E D’Amico, seppur dietro l’obiettivo, si sente con fierezza parte in causa di questa storia.

Fotogramma da solo limoniLe immagini politiche analizzate da Uva custodiscono e sono ancora capaci di spigionare la loro efficacia? Queste immagini sanno offrire allo spettatore contemporaneo una risposta alla domanda di contropotere e di controinformazione? Queste domande sembrano emergere in filigrana in diverse parti de L’immagine politica e le risposte non risiedono esclusivamente nell’elevata accessibilità dei dispositivi di cattura e riproduzione digitale, quanto piuttosto nella volontà degli spettatori contemporanei di saper esporre e montare le immagini del presente assieme e a partire da quelle del passato, strappando queste ultime al fenomeno di fagocitazione degli immaginari legati alle contestazioni politiche spesso attuato dai media. Si tratta quindi di un processo di analisi, critica e storica, condotto attraverso le immagini che, per esempio, viene messo in evidenza dallo stesso Uva quando compara la frontalità del cadavere del militante antifascista Zibecchi, investito da una camionetta dei carabinieri durante le proteste milanesi dell’aprile del 1975, congelata in una delle inquadratura di Pagherete caro pagherete tutto con una delle tante immagini digitali del cadavere di Carlo Giuliani in Piazza Alimonda durante le manifestazioni contro il G8 di Genova del 2011. Un’altra risposta giunge nelle conclusioni di Uva dove, ancora una volta, sono le “immagini povere” che ancora oggi si rendono disponibili a un’apertura delle potenzialità autenticative e rielaborative rese possibili dalla bassa definizione. È il caso della produzione poetica e militante di Pippo del Bono, condotta attraverso lo smartphone, in opere come Amore Carne (2011), Sangue (2013) e La paura (2009) o di Giacomo Verde che Solo limoni (2001) (vimeo.com), rimonta le immagini del G8 per rivelare come lo schieramento antisommossa adoperato dalla polizia in seguito alla morte di Giuliani abbia principalmente un obiettivo scopico, quella di occludere la visione del cadavere.

 

 

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