Mark Fisher – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Jul 2025 20:00:18 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Nemico (e) immaginario. L’orrore che avanza. Corpi mutanti e identità inquiete all’alba dello yuppismo anni Ottanta https://www.carmillaonline.com/2021/07/19/nemico-e-immaginario-lorrore-che-avanza-corpi-mutanti-e-identita-inquiete-allalba-dello-yuppismo-anni-ottanta/ Mon, 19 Jul 2021 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66954 di Gioacchino Toni

«Il mostruoso, il deforme, che suggerisce contaminazioni impossibili, deviazioni dalla norma, sono l’orrore massimo di una società che vede solo la strada dell’omologazione» (Edoardo Trevisani)

«Potrebbe essere l’Aids, il cancro, l’epatite, qualsiasi cosa. Potrebbe persino essere solo l’invecchiamento, il disfacimento del corpo. Solo all’inizio l’orrore arriva da fuori, come un virus, poi viene da dentro, è in noi» (Fabio Migneco)

Il fascino del genere horror deriva probabilmente dal suo mettere in scena una contrapposizione tra conosciuto e sconosciuto, tra il “normale” ed il diverso, offrendo allo spettatore la possibilità di [...]]]> di Gioacchino Toni

«Il mostruoso, il deforme, che suggerisce contaminazioni impossibili, deviazioni dalla norma, sono l’orrore massimo di una società che vede solo la strada dell’omologazione» (Edoardo Trevisani)

«Potrebbe essere l’Aids, il cancro, l’epatite, qualsiasi cosa. Potrebbe persino essere solo l’invecchiamento, il disfacimento del corpo. Solo all’inizio l’orrore arriva da fuori, come un virus, poi viene da dentro, è in noi» (Fabio Migneco)

Il fascino del genere horror deriva probabilmente dal suo mettere in scena una contrapposizione tra conosciuto e sconosciuto, tra il “normale” ed il diverso, offrendo allo spettatore la possibilità di identificasi in quell’alterità che la società ha represso e bandito in quanto “mostruoso”. Affascinato dal bizzarro, dal macabro, dal terrorizzante, l’essere umano individua nell’horror la possibilità di esperire paura e disgusto in un contesto non reale, dunque non fisicamente minaccioso. Probabilmente il vero oggetto dei film horror, come sostiene la studiosa Antonietta Buonauro, è «costituito dalla rappresentazione degli incubi culturali che la società occulta/censura, come fa il Super-io con certi contenuti onirici individuali: laddove il sogno e la fantasia sono espressione del represso, di tensioni tra norme sociali e desideri inconsci, l’horror, attraverso l’imago del mostro, mette in scena il socialmente inaccettabile, consentendo di accedervi senza pagarne le conseguenze1.

E negli Stati Uniti degli anni Cinquanta e Sessanta è proprio divorando film horror e di fantascienza, racconti di Poe e Lovecraft, oltre che fumetti in quantità industriale,  che alcuni ragazzini maturano l’idea di impugnare, non appena cresciuti, una macchina da presa per esplorare e dare immagine a nuovi incubi anche costo di entrare in rotta di collisione con l’immaginario manistream. Tra questi ragazzini c’è sicuramente John Howard Carpenter, nato nel 1948 a Carthage, New York, e cresciuto nel Kentucky in un ambiente famigliare artisticamente vivace da cui deriva l’amore per la musica e la passione per il cinema. È impugnando una Brownie 8 mm che il giovane Carpenter inizia a girare i suoi primi cortometraggi disseminandoli di riferimenti ai moster movie giapponesi ed ai western.

A passare in rassegna l’intera produzione cinematografica dello statuitene sono due recenti volumi: Edoardo Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo (Edizioni NPE, 2021) che, come suggerisce lo stesso titolo, ne mette in evidenza l’originalità e Fabio Migneco, Il corpo nel cinema di Carpenter (La case books, 2021), che invece si focalizza sul ruolo del corpo nelle opere del regista.

L’intera filmografia carpenteriana mette in scena l’inquietudine, la sensazione di pericolo imminente, la paura che si manifesta nelle modalità più diverse e che travolge i protagonisti delle sue opere e con esse il pubblico. Da questo punto di vista uno dei film più inquietanti realizzati dal regista, su cui entrambi i volumi inevitabilmente si soffermano, è La Cosa (The Thing, 1982) che può essere considerata tra le pellicole che, sull’onda delle montanti paure identitarie del periodo, hanno saputo portare sugli schermi un nuovo immaginario [su Carmilla].

I due autori ricostruiscono la genesi del film a partire dall’idea della Universal di riprendere La cosa da un altro mondo (The Thing from Another World, 1951) di Christian Nyby (e forse lo stesso Howard Hawks), per trarne un film più fedele al racconto Who goes There? di John W. Campbell pubblicato nel 1938. Se nel racconto sono facilmente individuabili riferimenti al pericolo nazista, il film del 1951, allinenadosi all’immaginario statunitense dell’epoca, sposta la minaccia riferendosi al comunismo. Nell’opera di Nyby, sottolinea Trevisani, oltre al pericolo rosso, è al contempo ravvisabile,

come spiega Stephen King in Danse Macabre, l’espressione di una forte sfiducia nei confronti degli scienziati e dei politici progressisti insieme a loro, pieni di grandi idee, ma incapaci di vere e proprie azioni risolutive in tempo di crisi. Nel film di Hawks e Nyby di fronte al pericolo alieno tutti gli abitanti della base sono pronti a fare fronte comune e a collaborare, a eccezione professor Carrington, malato di superomismo, che è pronto a tutto pur di salvare la creatura per scoprire i suoi segreti2.

La stesura della sceneggiatura per il nuovo film risulta travagliata; le difficoltà ruotano attorno alla natura dell’entità aliena che Campbell descrive come essere che muta la sua forma appropriandosi dei corpi degli esseri con cui viene a contatto seminando così il terrore tra gli umani. Nel film del 1982 che vede John Carpenter alla regia e Kurt Russell nei panni del protagonista McReady, dopo che Clint Eastwood, Jeff Bridges e Nick Nolte hanno rifiutano la parte, l’essere alieno si presenta come un microrganismo colonizzatore che, giunto al Polo a bordo di un’astronave in tempi remoti, assume le forme di vita con cui viene a contatto: è chiaro pertanto come il problema maggiore per la realizzazione della pellicola riguardi gli effetti speciali necessari a rendere l’atto della mutazione.

Sebbene alcune riprese siano realizzate tra i ghiacci dell’Alaska, buona parte della pellicola viene girata negli Studios della Universal in piena estate all’interno di un set refrigerato al fine di rendere visibile il fiato dei personaggi. Rob Bottin, addetto agli effetti speciali, racconta:

volevo che La Cosa fosse come un incubo. Quando ti svegli da un incubo e non ti ricordi bene cosa hai visto. Non ti è chiaro. È una cosa che cambia nell’ombra. Ecco come avevo pensato alla “cosa”. Volevo qualcosa di diverso dal solito uomo dentro un costume di gomma, qualcosa di completamente alieno, più alieno di Alien. Ho iniziato a pensare e ho concluso che forse il segreto era proprio nel titolo del film. […] perché non trovare un qualcosa che può cambiare quando lo desidera e davanti ai tuoi occhi, e di cui non sai quale sia la forma originale?3.

Dopo aver mostrato, durante i titoli di testa, un disco volante che si schianta su un pianeta, che si scoprirà presto essere la Terra, il film si apre con un cane che nel fuggire dagli spari provenienti da un elicottero torva rifugio presso una base di ricerca scientifica statunitense tra i ghiacci. Scesi a terra armi in pugno con l’ossessione di dover assolutamente eliminare il cane, gli inseguitori restano uccisi nel corso di un conflitto a fuco ingaggiato con gli uomini della base. Questi ultimi, intenzionati a capire quanto accaduto, scoprono, oltre ai corpi dei compagni degli assalitori congelati in circostanze misteriose, un nastro che documenta il ritrovamento di un’astronave sepolta tra i ghiacci da parte di scienziati scandinavi. L’animale giunto alla base statunitense si comprenderà poi essere la forma assunta dalla “cosa dall’altro mondo” per propagarsi velocemente come un’infezione all’interno di una comunità umana in cui ormai nessuno si fida più di nessuno. Scrive a tal proposito Migneco che, a ben guardare, tra i messaggi che «la condizione umana è già contaminata, ancora prima che sia la Cosa a farlo. I personaggi sono diffidenti tra do loro e nel gruppo non c’è una grande coesione, anzi, e l’avvento della Cosa rende solo più esplicito il tutto»4.

Primo capitolo di quella che sarebbe poi stata definita la Trilogia dell’Apocalisse, – composta da La cosa (The Thing, 1982), Il signore del male (Prince of Darkness, 1987) e Il seme della follia (In the Mouth of Madness, 1994) –, quello di Carpenter è un film pessimista, claustrofobico, che non concede speranze al pubblico che, terminata la visione, non può che uscire dalla sala in preda ad un senso di disagio. Probabilmente il motivo principale dell’insuccesso di pubblico alla sua uscita, secondo Trevisani è da ricercarsi nella

estrema impietosa lucidità con cui [Carpenter] descrisse l’alba degli anni Ottanta. Mentre la gente preferiva farsi cullare dalla favola fantascientifica di E. T. di Spielberg, che era in sala in contemporanea con La Cosa, e dal suo ottimismo nei riguardi del prossimo, Carpenter aveva già compreso quali paure stavano dilaniando la coscienza dell’America. Se La Cosa da un altro mondo di Hawks è il racconto di un’umanità unita contro la minaccia esterna, quella di Carpenter è un’umanità divisa dall’individualismo, dalla paura e dalla diffidenza, in sostanza per Carpenter la “cosa” è quel germe che sta sgretolando la società. Era qualcosa che già il regista avvertiva sin dai tempi di Distretto 13, solo che ora quelle premesse raggiungono il pieno compimento5.

È come se il Male, dismessa la maschera di Halloween, avesse indossato quella di qualsiasi essere umano, continua Trevisani; quasi ad esplicitare che chiunque può essere il mostro.

Il film insiste sul rapporto tra spazio interno e quello esterno: al primo appartiene l’ambientazione claustrofobica della piccola base isolata dal resto del mondo e abitata da una dozzina di uomini costretti ad ingannare alla meglio il tempo che sembra non passare mai; al secondo, minaccioso e sconfinato, appartengono tanto le infinite distese di ghiaccio del paesaggio polare quanto lo spazio attraversato dall’astronave aliena prima di precipitare sulla terra.

Si torna alle premesse di Dark Star, volendo, solo che il rapporto dentro fuori riguarda i corpi e le identità e il senso di questo assedio inevitabilmente assume un peso politico non indifferente. La Cosa esce nei cinema agli inizi degli anni Ottanta, l’epoca dell’edonismo, del rampantismo, della reaganomics. A un irrigidimento politico reazionario e a una sempre maggiore precarizzazione delle classi lavoratrici corrisponde l’esaltazione del corpo e il culto dell’apparenza6.

Da lì a poco, ricorda l’autore, gli schermi televisivi – e non solo statunitensi – sarebbero stati occupati dai corsi di aerobica di Jane Fonda che invitano a sentirsi responsabili nel caso il corpo che ci si ritrova non sia quello desiderato. All’immaginario yuppie improntato sul culto del corpo e dell’apparire, un piccolo filone del cinema horror degli anni Ottanta risponde pensando e mostrando il corpo in altro modo.

In una società in cui la decadenza del corpo è trattata alla stregua di un peccato capitale, di un sacrilegio, Carpenter si permette di dare in pasto i corpi a un alieno la cui strategia di sopravvivenza è l’imitazione, la riproduzione perfetta delle sembianze umane, ma che trova la forma più estrema di offesa nella deformazione, nel deturpare il fisico, nel trasformalo in incubo. Il mostruoso, il deforme, che suggerisce contaminazioni impossibili, deviazioni dalla norma, sono l’orrore massimo di una società che vede solo la strada dell’omologazione7.

Dell’unità tra umani che permetterà la vittoria nei confronti dell’essere alieno del film del 1951, nella versione del 1982 non c’è traccia; a dominare sono piuttosto la diffidenza e la rivalità. «È la paranoia del contatto, che viene fuori alla vigilia del contagio dell’AIDS, ma è anche qualcosa di più, è la costatazione che nessun corpo è autonomo e che nessuno può decidere solo ed esclusivamente per se stesso»8. Alla faccia della sociofobica Iron Lady insediatasi a Downing Street: “you know, there’s no such thing as society. There are individual men and women and there are families”. Mark Fisher9, ricorda Trevisani, ricorre proprio al film di Carpenter per spigare la natura di quel capitalismo che ama presentarsi come entità astorica dunque priva di alternative (lo slogan “There Is No Alternative” è stato ripetuto talmente tante volte da Margaret Thatcher da finire per essere soprannominata con l’acronimo “TINA” da un suo collega di partito):

entità che appartiene a una dimensione senza tempo e senza spazio, preesistente ai sistemi politici come, una sorta di abominio che le società primitive e feudali tentavano di tenere a distanza e dotata della capacità di integrare continuamente il differente, la protesta, il trauma, rielaborandole ininterrottamente, rubandone l’aspetto e sostituendone la natura: “un’entità mostruosa, plastica e infinita capace di metabolizzare e assorbire qualsiasi oggetto con cui entra in contatto”10.

Nella versione degli anni Cinquanta, ambientata in una base aerea statunitense in Alaska, soggiace il timore di un possibile attacco sovietico dal polo ed è sospettando un coinvolgimento dei russi che, saputo di un disastro aereo vicino al polo, il capitano Pat Hendry decide di indagare sull’accaduto, salvo poi trovarsi poi di fronte ad un essere alieno simile ad una pianta che si nutre di sangue. Nonostante la ritrosia dello scienziato Carrington che, al pari di tanti altri suoi colleghi che si incontrano nella fantascienza, non esita a sacrificare vite umane per poter condurre le sue ricerche, l’equipaggio statunitense decide di eliminare l’entità aliena. Di fronte all’invulnerabilità di quest’ultima alle pallottole spetta a Nikki Nicholson, l’unica donna del gruppo, proporre una soluzione alternativa: se l’alieno è una pianta, allora non resta che provare a “cuocerlo”.

Questa opposizione tra logica pura (maschile) e intuizione (femminile) è un elemento fondamentale nel dibattito della fantascienza sull’essenza dell’umanità. Anche se la science fiction si risolve quasi sempre con la forza, sono spesso gli attributi femminili di emozione e intuizione che segnano la differenza tra uomini e alieni, e permettono la vittoria umana11.

Se i protagonisti dei film degli anni Cinquanta si mostrano certi della netta distinzione tra se stessi e gli alieni, nella versione di Carpenter gli umani sono alla ricerca di conferme circa il loro essere restati tali. Mentre la minaccia nella prima pellicola è identificabile con un nemico esterno (i sovietici), agli albori di un mondo che, perdendo le sue certezze, sembra avviarsi verso trasformazioni che condurranno alla globalizzazione e alla digitalizzazione, i timori derivano piuttosto dalla difficoltà di definire “cosa” stia divenendo l’umano. È forse questa l’angoscia a cui allude la difficoltà e l’urgenza dei protagonisti di distinguersi dagli alieni.

La base statunitense nel film di Carpenter è abitata da uno spaccato di umanità – di soli uomini – a cui è precluso – o che si preclude – il contatto, in balia dalle proprie nevrosi. Una dozzina di uomini costretti a vivere in spazi angusti non sembrano riuscire a fronteggiare chi ha capacità di riprodursi e diffondere la propria specie..

Per molti versi La cosa è uno slasher movie, segue molti dei meccanismi del genere, solo che alcuni circuiti sono interrotti, i rapporti a un certo punto risultano sfalsati e forse fu anche questo a disorientare il pubblico. L’alieno è sostanzialmente l’assassino che in uno spazio chiuso, in un’arena, fa fuori i personaggi uno dopo l’altro, il problema è che viene a mancare il consueto motivo sessuale implicito, o meglio viene sovvertito. In più manca l’atto per eccellenza dello slasher, l’omicidio, anzi, è come se la morte perdesse di significato nel film di Carpenter, non esiste più, dato che l’annientamento del personaggio coincide con la colonizzazione e la distruzione effettiva è affidata ai componenti ancora umani del gruppo12.

La Cosa non si mostra mai direttamente, la si “percepisce” soltanto attraverso le forme che assume di volta in volta e quando coincide con l’essere umano è ormai troppo tardi e l’ossessione del controllo – “Voglio tenervi tutti sotto controllo” afferma McReady rivolgendosi ai colleghi –, non può fermare il contagio che, invisibile, fuori campo, conduce insormontabilmente alla temuta mutazione. Il mondo della razionalità scientifica che ha, sin dalle sue origini, a che fare con il controllo visivo, si mostra incapace di individuare l’alterità aliena che invece riesce a controllare e ad appropriarsi degli esseri umani.

Secondo Migneco il film può anche essere interpretato come la rappresentazione del timore della malattia e della morte.

Potrebbe essere l’Aids, il cancro, l’epatite, qualsiasi cosa. Potrebbe persino essere solo l’invecchiamento, il disfacimento del corpo. Solo all’inizio l’orrore arriva da fuori, come un virus, poi viene da dentro, è in noi e infatti l’unico modo per sapere se i personaggi sono ancora umani o cose, è un’analisi del sangue […], perché “l’analisi del sangue che determina cosa stia davvero succedendo dentro il corpo umano”. […] Corpo e sangue. Identità, La Cosa priva i protagonisti dell’ultima certezza, quella della propria identità, del proprio essere. Chi è umano e ch no? Di chi ci si può fidare?13

Nel film si potrebbe scorgere, continua Migneco, anche un approfondimento relativo alla paranoia, agli effetti della paura, una vicenda in cui il male distrugge l’interiorità per poi ri/crearne una a sua immagine. Più ai personaggi, il film sembra sembra riferirsi a di chi, seduto su una poltronicina, lo sta guardando al cinema. Dai primi anni Ottanta messi, a suo modo, in scena da Carpenter è passato parecchio tempo; “la cosa” nel frattempo non ha smesso di diffondersi… mentre ci si continua a ripetere con McReady, ma forse con sempre meno convinzione: “I know I’m human”…


Nemico (e) immaginario serie completa


  1. A.  Buonauro, Horror film e estetica masochistica: piacere visivo e dinamiche dell’identificazione, in DWF. Donna Woman Femme: Rivista internazionale di studi antropologici storici e sociali sulla donna, 2008, n. 1, vol. 77, pp. 40-57. 

  2. E. Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo, Edizioni NPE, Battipaglia (SA), 2021, p.93. 

  3. G. D’Agnolo Vallan, R. Turigliatto, John Carpenter, Lindau, Torino 1999, pag. 147. Brano riportato in E. Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo, op. cit., pp. 95-96.  

  4. Fabio Migneco, Il corpo nel cinema di Carpenter, La case books, 2021, p. 64. 

  5. E. Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo, op. cit., p. 99. 

  6. Ivi. 100. 

  7. Ivi, p. 101. 

  8. Ibid. 

  9. M. Fisher, Capitalist Realism: Is There No Alternative?,  Zero Books, UK, 2009, tr. it.: M. Fisher, Realismo capitalista, Produzioni Nero, Roma, 2018. 

  10. E. Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo, op. cit., pp. 101-102. 

  11. Nicholas Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale, Meltemi, Milano, 2021, p. 303. 

  12. E. Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo, op. cit., p. 202 

  13. F. Migneco, Il corpo nel cinema di Carpenter, op. cit., pp. 65-66. 

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Scommessa psichedelica, magia e favole per la rivoluzione https://www.carmillaonline.com/2021/01/25/scommessa-psichedelica-magia-e-favole-per-la-rivoluzione/ Mon, 25 Jan 2021 21:30:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64655 di Piero Cipriano

Molti libri ho letto mentre l’anno infausto volgeva al termine e io smaltivo la penetrazione del virus nelle mie vie aeree. La febbre ne ha confuso perfino i confini, e in una inattesa book dissolution talvolta un libro o un autore si sconfinava nell’altro e diventava un solo testo.

 

Questi tre libri entrano a pieno titolo nel redivivo dibattito sulla psichedelia.

 

La scommessa psichedelica (Quodlibet) ormai fa il paio con Come cambiare la tua mente di Michael Pollan. Se quello è stato definito una sorta di bibbia, questo, [...]]]> di Piero Cipriano

Molti libri ho letto mentre l’anno infausto volgeva al termine e io smaltivo la penetrazione del virus nelle mie vie aeree. La febbre ne ha confuso perfino i confini, e in una inattesa book dissolution talvolta un libro o un autore si sconfinava nell’altro e diventava un solo testo.

 

Questi tre libri entrano a pieno titolo nel redivivo dibattito sulla psichedelia.

 

La scommessa psichedelica (Quodlibet) ormai fa il paio con Come cambiare la tua mente di Michael Pollan. Se quello è stato definito una sorta di bibbia, questo, curato da Federico Di Vita, è considerato un po’ un vangelo, non lo so se è proprio il vangelo della psichedelia in Italia, senz’altro è un libro da leggere e rileggere, perché i contributi sono tanti, e gli evangelisti sono tutti formidabili.

Inizia Federico Di Vita con una efficacissima Breve storia universale della psichedelia. Così anche chi non ne sa niente entra nell’argomento. Suddivide in un’età dell’oro (quella dei pionieri Hoffmann, Huxley, Leary per capirci), un Medioevo psichedelico (dagli anni Settanta al nuovo secolo, dove personaggi più o meno sotterranei come Terence McKenna mantengono acceso il fuoco psichedelico sotto la cenere) e un rinascimento psichedelico (che si fa cominciare nel 2006, coi nuovi studi scientificamente ineccepibili dei vari Griffiths, Nutt, Carahart-Harris). Beppe Fiore racconta cos’è un trip report. Francesca Matteoni racconta una cerimonia sciamanica con ayahuasca che si svolge non in Amazzonia ma sulle colline toscane. Ilaria Giannini racconta perché tre o quattrocento milioni di depressi nel mondo (la popolazione degli Stati Uniti, per capirci) potrebbero giovarsi di psilocibina o microdosing di Lsd piuttosto che di farmaci SSRI da assumere a vita senza guarigione. Gli psichedelici, sostiene, riprendendo David Foster Wallace, potrebbero essere l’estintore che spegne l’incendio del grattacielo che induce le persone depresse a gettarsi di sotto per sottrarsi alle fiamme. Agnese Codignola, già autrice di LSD, altro importante volume sull’argomento, racconta, con la solita accuratezza, perché, tra molte molecole psichedeliche, l’ex presidente Trump si era fissato con la più scarsa di tutte: l’esketamina, la forma levogira della (più efficace) ketamina. Marco Cappato in Psichedelia e politica, ribadisce l’ineccepibile idea radicale: “il punto di vista libertario, in base al quale sono da rifuggire tutte le norme che limitano ingiustificatamente l’autodeterminazione individuale e mirano a imporre uno Stato Etico, per il quale ciò che è considerato moralmente giusto o opportuno da parte di chi detiene il potere può essere imposto con la forza a tutti i cittadini”. Lo leggevo e mi domandavo come si concilia il pensiero di Cappato con l’attuale pronunciamento di Emma Bonino in favore dell’obbligo di vaccinazione Covid. Vanni Santoni pone l’accento sul rischio concreto che il sistema (per mezzo di Big Pharma), non potendo più reprimerle, si risolva per inglobare le molecole psichedeliche. E, come ha fatto con la canapa light, depotenziata della visionarietà grazie alla sottrazione di Thc (la psichiatria accademica lo considera schizofrenogeno) lasciando l’innocuo cannabidiolo, possa arrivare “al paradosso degli psichedelici non visionari”: vale a dire togliere la visionarietà a psilocibina o ibogaina o Dmt. Per addomesticarle, farle diventare mero farmaco e non più tecnologia sofisticatissima in grado di cambiare coscienze e società. Operazione che, secondo Giorgio Samorini, denota non aver capito niente di psichedelia (togli la visionarietà, hai tolto la possibilità dell’estasi) oppure, dico io, vuol dire averla capita e volerla, proprio per questo, caricare a salve. Silvia Del Dosso e Noel Nicolaus scrivono di internet e psichedelia e magia, non dico altro perché non l’ho capito del tutto. Devo leggerlo meglio. Carlo Mazza Galanti suggerisce una serie di opere narrative che hanno parlato di droghe e grazie a lui ho appena iniziato a leggere Roma senza papa di Guido Morselli, una specie di Mondo nuovo dove i religiosi, non più celibi, invece che liquori alle erbe producono enteogeni. Federico Di Vita scrive di wahnstimmung nei festival di psytrance e Chiara Baldini racconta perché i festival psichedelici rappresentano una “versione moderna di qualcosa di molto antico” ovvero gli antichi culti misterici. Gregorio Magini, nel suo Pseudoglossario psichedelico, tra i vari temi affronta la morte dell’ego, il mito dello psiconauta, tutti ne parlano ma pochi forse hanno capito cosa sia ‘sta ego dissolution.

Gnosticismo acido, di Edoardo Camurri, è forse il saggio più difficile, molti ammettono di non averlo capito, alcuni gliel’hanno perfino confessato: Camurri, che hai scritto? E lui: mangia un po’ di fungo e rileggi.

A me pare dica questo (più o meno, ma senz’altro devo rileggere). Ci sono due eserciti gnostici, quelli buoni, noi, i maghi bianchi, dell’apertura, la cui tecnologia è la psichedelia, e quelli cattivi, i maghi neri, tra cui gli ingegneri lisergici cresciuti a pane e microdosi a Silicon Valley, la cui tecnologia è il medium digitale, ovvero l’imitazione della psichedelia.

La corrente ascensionale di dati, di informazioni, che vanno ad alimentare la macchina algoritmica che è il dio, e la corrente in discesa di dati, che ci confermano di essere ciò che siamo, ovvero il gatto di Canetti che gioca col topo (o meglio il topo giocato dal gatto), è nient’altro che la riedizione della doppia corrente, di discesa e ascesa delle anime, del pensiero gnostico: un dio veterotestamentario demiurgo omicida e irresponsabile ha creato un mondo carcere, dove forse nemmeno lui sa di avere, sopra la sua testa (essendo lui nient’altro che un “tirato a sorte tra gli angeli”, direbbe Cioran) il Dio supremo, il vero Dio, talmente trascendente da non essere conoscibile. Dunque, questa nostra anima, per azione di Demiurgo e delle sue potenze arcontiche, si incarna nei corpi, dimenticandosi la propria origine divina. Un mondo terribile e crudele. Ma grazie alla gnosi della propria origine divina, l’illuminato esce dal tempo, esce dalla storia, si risveglia, il suo tempo diventa eterno presente, ecco che la sua morte non esiste più.

Dunque, nella attualizzazione camurriana della dicotomia Demiurgo-Dio vero: il dio macchina è il dio demiurgico che crede di essere illimitato invece è, come quello della Genesi, una specie di i-dio-t savant, e Camurri, con Mark Fisher, propone di recuperare la tecnologia sciamanica (che questo è la psichedelia, nient’altro che una delle tecnologie, la più sbrigativa, se vogliamo, dell’arte sciamanica) questa ingegneria che sembra fuori dalla scienza, ingegneria che i signori del limite ovvero gli sciamani sanno usare, per democratizzare gli stati di coscienza espansi, e dunque la gnosi (che era poi l’obiettivo di Leary e non quello di Huxley, Huxley voleva illuminare le élite, Leary tentò di accendere tutti proprio tutti, e qui bisognerebbe passare direttamente all’altro contributo, quello di Andrea Betti, ma ci arrivo tra poco).

Per cui sì: se non puoi cambiare la storia, cambia il cervello di quante più persone. Rendere le persone dei comunisti acidi (dice Fisher) o degli gnostici acidi (dice Camurri) o dei mistici selvaggi (direi io) o, perché no, degli anarchici psichedelici (dico ancora io).

Ha ragione Camurri: la gnosis è autocoscienza, gli gnostici sono dei salvati per natura, la conoscenza libera, soprattutto (ecco il misticismo che consegue allo gnosticismo) libera l’amore, quello stato dell’essere che è la naturale conseguenza della gnosis.

Accade però che mentre sto per scrivere questo, e sto per scrivere qualcosa di Lucia la figlia di Joyce, e sto per scrivere qualcosa del Finnegans Wake (oddio, pure Biden l’ha citato), mi chiama Lucia, davvero, nel senso che mi chiama Gloria, la “schizofrenica” più florida e invasa di voci che io abbia mai conosciuto (e provato a curare). E mi attacca la ramanzina della telepatia, della telecinesi, del tempo, che in realtà – mi assicura – siamo nel 2039 e che di notte quelli vengono a farle visita (Chi? Gli esseri? Sembra vittima di una abduction notturna, Gloria). Ecco, dopo la telefonata di Gloria ripenso a Lucia la figlia di Joyce, e ciò che Joyce disse a Jung, ovvero che lui e sua figlia si erano saputi collegare (come spieghi se no l’anticipazione di parole future, google nike tigerwood) (Philip K. Dick, che la sapeva lunga su queste cose, l’aveva capito) con una coscienza cosmica, con un campo akashico direbbe Ervin Laszlo, o meglio con un campo morfogenetico direbbe quell’altro genio di Rupert Sheldrake (il padre di Merlin Sheldrake l’autore di un altro libro, L’ordine nascosto, di cui dovrei parlare ma non c’è tempo), per prendere parole che a noi, i coetanei, sembrano incomprensibili, glossolaliche, xenoglossia pura, ma che esistevano già, nel futuro. E Lucia, la schizofrenica figlia di Joyce, forse sa pescare nel futuro, nel registro akashico, ancora di più del padre. E l’insetto forbicina? Ma non faceva questo Burroughs col suo cut-up? Ma non facciamo tutto ciò, noialtri che scriviamo, non stiamo facendo gli insetti scrivani forbicina? Camurri ha sforbiciato Culianu Fisher Joyce io sforbicio Camurri Sheldrake Gloria, siamo tutti Earwicker. Noi infettati, parassitati, dal virus del linguaggio.

Gli schizofrenici sono (Joyce e sua figlia Lucia insegnano), forse, quelli che si sono spinti più in là, sono ormai fuori, sono salvi dalla macchina algoritmica, sono i salvati del secolo in corso però sono anche i sommersi del secolo scorso e di quello precedente, gli internati, troppo avanti erano, sono. Entronauti (direbbe Piero Scanziani) internati.

Lo stesso i dementi senili, pensateci, i parenti anziani degli schizofrenici (che dementi precoci venivano chiamati, a fine Ottocento, da Emil Kraepelin), entrambi fanno a meno della Default Mode Network (o huxleyana valvola della riduzione, che è più semplice) e riprendono possesso del cervello limbico e rettiliano o meglio dell’intero network gelatinoso di un chilo e mezzo per connettersi con gli altri mondi. Nietzsche, per esempio, che dicono impazzito per la demenza da treponema. Siamo sicuri che non abbia scelto di andare da Dioniso dopo averne così tanto scritto?

Siccome non c’è spazio e non c’è tempo vorrei dire qualcosa dello scritto di Andrea Betti, ex psiconauta che adesso non si arrischia perché non sa se la sua cardiopatia potrebbe risentire di un blotter pacco in cui non c’è Lsd ma chissà cosa. Lui mi piace molto, mi ci trovo proprio nel suo quasi fastidio per i rinascimentali, i rinascimentali che si sono svegliati ora e vorrebbero consegnarsi agli scienziati che fanno le ricerche ora sì ben fatte altro che quelle caciarone degli anni Sessanta, quelle sono da buttare, ricominciamo daccapo, i rinascimentali che danno addosso a Timothy Leary il più buffone di tutti, l’irresponsabile che voleva dare acido a tutti, e non soltanto alla “casta sacerdotale scientifica e letteraria che controlla, sintetizza e centellina il farmaco miracoloso ai ceti subalterni, microdosandoli” per garantirne la performance, la produttività macchinica. Giustamente, sottolinea Betti, qui è restaurazione altro che rinascimento. Ce l’ha con Michael Pollan, Andrea Betti, e io pure, quando ho letto il suo compito libresco ben fatto, tutto polarizzato sulla linea genealogica “aristocratico-farmaceutico-mistica” di Hofmann-Huxley-Osmond (diamo le molecole psichedeliche alle élite, sostengono i tre), minimizzando (o perfino biasimando) la linea genealogica “controculturale-rivoluzionaria” che fa capo a Artaud-Ginsberg-Leary-Kesey (accendiamo quanti più umani è possibile, e cambiamo la storia).

Rende giustizia, Betti, al genio di Antonin Artaud che nel 1936, in Messico, nel paese dei Tarahumara non ci va per guarirsi la dipendenza da laudano, e non ci va per incontrare Gesù Cristo, ma per trovare se stesso, ovvero Artaud, ovvero Dio. E sembra davvero che Artaud sia l’alfa della scommessa psichedelica laddove Mark Fisher sia l’omega. Questi due non proponevano un impiego di queste molecole per addomesticare gli umani e “creare persone docili in comunione col cosmo” ma (ecco Fisher) se non puoi cambiare la realtà del capitalismo, puoi cambiare la tua realtà, la tua coscienza, il tuo spazio-tempo, e ecco che la storia muta in ucronia. Questo fu l’esperimento magico degli anni Sessanta di cui dice Camurri, la psichedelia non era una novità, c’è sempre stata, da millenni, ma controllata da sciamani e alchimisti, negli anni Sessanta invece di colpo si democratizzò, la possibilità di modificare la propria coscienza e dunque la percezione della realtà fu un fenomeno accessibile a tutti.

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A quel punto, però, il gioco psichedelico finì. E perché il gioco psichedelico finisce, verso la fine degli anni Sessanta, ce lo racconta un altro degli scapestrati protagonisti di quegli anni, Robert Anton Wilson detto RAW, in Sex, Drugs & Magik, libro che uscì la prima volta nel 1973 e che è stato appena ripubblicato da Spazio Interiore (a proposito, nella attuale celebrazione psichedelica c’è pochissimo spazio, in Italia, quasi niente anzi, per Spazio Interiore, ma questa casa editrice, in tutti questi anni di Medioevo psichedelico, è stata l’unica in Italia, insieme a Shake e Stampa Alternativa, a tenere accesa la fiammella, con le sue decine di pubblicazioni, da Stanislav Grof a Rick Strassman e, soltanto negli ultimi 3-4 anni, ha editato diversi testi importanti, ne cito solo alcuni: Frontiere della coscienza psichedelica di David J. Brown, Frammenti di un insegnamento psichedelico di Julian Palmer, o il bellissimo La via del fulmine dello sceneggiatore spericolato Marco Saura). Questo libro di RAW, come Il volo magico di Ugo Leonzio pure lui da poco ripubblicato per il Saggiatore, esce nei primi anni Settanta, subito dopo la messa al bando delle molecole brucia-cervello. Scrive RAW che il suo libro è “una storia informale di come certe pratiche segrete e a lungo nascoste […] si siano insinuate nel mondo occidentale durante il Medioevo, per essere schiacciate e/o ricondotte nel sottosuolo dalla Santa Inquisizione, e venire gradualmente riscoperte a partire dal 1900 circa”. “Esse sono emerse all’improvviso come una forza socio-rivoluzionaria negli anni Sessanta, per poi essere di nuovo schiacciate e ricondotte nel sottosuolo”. RAW pensa di aver compreso “il motivo per cui queste tecniche segrete di programmazione della mente siano state tenute nascoste così accuratamente e perché diventino oggetto di una persecuzione così feroce ogni volta che ne viene a conoscenza una più ampia fetta di popolazione in qualunque luogo del mondo”. Il Tantra, per esempio, “è riuscito a sopravvivere in Oriente proprio perché teneva nascosti i suoi segreti e non tentò mai di diventare una forza rivoluzionaria che avesse come conseguenza una qualche forma di cambiamento sociale. I tantristi, come gli altri buddisti, ritengono che liberarsi della coscienza o meglio imparare a modificare la coscienza tramite un atto di volontà sia possibile solo per una persona per volta, e che cercare di liberare il mondo intero sia controproducente”.

E’ l’errore di Leary, secondo RAW. Ammesso lo si voglia considerare un errore. E aggiunge: “Può darsi che non siamo ancora morti, ma solo ipnotizzati da filosofie morbose e moribonde. Forse i poteri della mente umana non si sono mai sprigionati pienamente a causa dei giochi paleolitici, neolitici, feudali, capitalisti o socialisti”. Insomma, deve ancora arrivare l’era buona perché gli esseri umani possano esercitare (per dirla con l’antipsichiatra Thomas Szasz) il “diritto all’autoprescrizione”. Diritto all’autoprescrizione grazie al quale tutti possano accedere alla grazia gratuita (direbbe Huxley) o a una peak experience (direbbe Maslow) o al satori (direbbero i buddisti zen) o al samadhi (direbbero gli indù) o al risveglio (direbbe Gurdjieff).

Questo si incaricò di fare Timothy Leary. Sottrarre queste tecnologie prodigiose ai pochi, per informare il mondo che “Dio era vivo e stava bene”.

E questo (torno allo scritto di Camurri) è un discorso puramente gnostico. Sono gli gnostici, che nei primi secoli della nostra era, propongono che l’uomo possa avere accesso ( ovvero conoscenza diretta) al paradiso, già da vivo, non solo da morto. Questo discorso gnostico, scrive RAW, non è mai venuto meno, ma si è trasmutato (alchemicamente) nel socialismo, nel comunismo, nell’anarchismo. Trovando l’acme proprio nella rivoluzione psichedelica degli anni Sessanta. Rivoluzione accesa da quegli “sciamani birichini e maliziosi” che furono Timothy Leary, Alan Watts, Aldous Huxley, Allen Ginsberg, William Burroughs, John Lilly, Humphrey Osmond e Ken Kesey. Sono questi moderni sciamani ad aver convinto milioni di esseri umani a diventare gnostici psichedelici capaci di penetrare l’Eden non per la porta principale (che per quella bisogna essere senza peccato, dice il Cristianesimo) ma per quella di servizio, non per la porta di Cristo, dunque, ma per quella di Dioniso.

Conclude RAW: il genocidio psichedelico che si è prodotto a partire dagli anni Settanta non è stato un caso unico nella storia, ma è soltanto l’ultimo episodio di caccia alle streghe. Perché “è in corso una guerra religiosa, ed è il pregiudizio teologico, più che l’obiettività scientifica” ad avere l’ultima parola.

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Il libro di Stefania Consigliere è dedicato all’antropologo David Graeber, “diplomatico fra mondi reali e possibili e poeta dell’anarchia”, ora in viaggio in un altro mondo possibile, ed è “dedicato a chi ha avuto una volta sentore di un altro mondo fuori dalle mura di un diverso stato del tempo”. Per cui ho pensato, mentre lo leggevo, che Favole del reincanto (Derive Approdi) era dedicato anche a me.

Qualche mese fa, qui su Carmilla, non fui molto gentile col libro (Psicotropici, edito Meltemi) di un importante antropologo francese, Jean-Loup Amselle, perché? Perché aveva maltrattato, irriso perfino, quegli occidentali che erano andati ai tropici a bere l’ayahuasca. Mi aveva infastidito il modo con cui scherniva i suoi colleghi antropologi che, dopo aver bevuto l’ayahuasca, avevano in qualche modo lasciato l’antropologia e si erano sciamanizzati (Michael Harner è forse l’esempio più noto). Lo so, mi ero fatto prendere la mano in difesa degli antropologi maltrattati da Amselle (quelli che non ce l’hanno fatta a fare la sua carriera, scriveva lui) e l’avevo maltrattato (perché lui non ce l’aveva fatta a bere, scrivevo io). Mi dispiace. Non lo farò più.

Ma come faceva a non rendersi conto che l’Amazzonia è ciò che per oltre un millennio era stata Eleusi, dove “intere generazioni di uomini e donne, schiavi, padroni” andavano per essere iniziati ai Misteri. Dove, dopo aver bevuto il kikeon, vedevano. Eleusi fu, per i greci, “un dispositivo iniziatico di massa”. Di cui noi occidentali, nei secoli successivi, siamo stati privati, “i roghi delle streghe”, “le istituzioni totali”, “i genocidi, i totalitarismi, la depressione di massa”, malattia degli occidentali. Dov’è, ora, Eleusi? Là dove è andata Stefania Consigliere, l’antropologa che si spinge oltre la barriera della superstizione (superstitio: eccessivo timore delle divinità, ciò che non è cristiano è pagano, dunque è superstizione, o, potremmo dire oggi, ciò che non è scientifico, razionale, ateo, è superstizione), in una maloca, la grande capanna rituale, dove il taita prepara lo yagé, a bere il doppio decotto, e dopo fare il “lungo corpo a corpo con la pianta”, parlare a tu per tu con l’abuelita.

Non sappiamo, scrive Stefania Consigliere, “quando i popoli amazzonici hanno iniziato a usare la banisteriopsis caapi” bollirla insieme alla psicotria viridis o altre piante visionarie per produrre questa bevanda che apre la “scorza psichica” degli umani e li rimette in connessione con le piante, con gli spiriti, con gli animali (li reincanta, dunque, li guarisce dal disincanto). Sarebbe bello che fosse avvenuto proprio quando la missione reincantatrice di Eleusi è venuta meno, il testimone è passato all’altro emisfero. Perché, scrive, “Yagé nights e riti eleusini si affiancano”, si rassomigliano proprio per questa “squalifica etica, epistemologica e ontologica che la cosmovisione moderna vi getta sopra”. Abbiamo rimosso dalla Grecia, per renderla razionale e logica, Eleusi e Orfeo, Dioniso e le baccanti, gli oracoli e il daimon di Socrate.

Perché una delle caratteristiche della modernità è “non pensarsi etnica, popolo fra altri popoli, ma universale”. Ecco, eventualmente, un limite del discorso di Mark Fisher: non c’è alternativa al capitalismo, scrive. Dove? Nel mondo moderno, occidentale, là dove c’è storia. In altri mondi, fuori dalla storia e fuori dalla modernità e dove c’è spazio per altri stati della coscienza: hai voglia, quante alternative. Gli spiriti, gli antenati, i morti, ridono del capitalismo. E ridono della storia.

Per avere la certezza di ciò, basta fare l’esperienza che ha osato Stefania Consigliere e ha ricusato Jean-Loup Amselle: “Lo yagé porta visioni di una precisione assurda”. “La possibilità di stare contemporaneamente in due mondi”, all’improvviso è possibile. Ecco il reincanto.

Questi “misteri sono una liturgia” (infatti in gergo vengono chiamati cerimonie), sono “un servizio”, che “serve a far funzionare il mondo in modo accettabile”. Adesso mi viene da pensare che le cerimonie sono riti di cura incredibilmente più efficaci del rito stanco e ormai unicamente polarizzato sul dio psicofarmaco (il dio occidentale non è diventato malattia, è diventato psicofarmaco), che si svolge nei Centri di Salute Mentale, nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, e pure negli sterminati studioli privati di psicoterapeuti e psicanalisti (dove lo psicofarmaco serve da doping alla terapia parlata). Un dio psicofarmaco che restringe la coscienza e ottiene esattamente l’effetto opposto della molecola o pianta o bevanda che fa psiche + delos, allarga inverosimilmente il campo della coscienza. E super-incanta.

Il disincanto, che il mondo moderno ha prodotto, ha separato gli umani dal mondo, oltre all’Homo sapiens sembra che nient’altro ci sia, di pari dignità, nel cosmo: “Ninfe e spiriti scompaiono dai boschi”, “piante e animali smettono di interloquire”. Ovvio che un pianeta così depersonalizzato, si presti a essere depredato.

Scrive Stefania Consigliere che nel pamphlet di Jean-Loup Amselle “qualcosa non torna”: lui “racconta di gringos annoiati, hipsters alla ricerca di sensazioni forti, cowboy dello sballo”. Invece, la maggior parte delle persone che lei ha incontrato nella selva, le sono parse alla ricerca di qualcosa che, “a casa”, in occidente, non si riesce nemmeno a nominare. “Molti lavorano nelle istituzioni dei paesi ricchi, nei laboratori di ricerca, nelle università” (non sono tutti scappati di casa come nella narrazione di Amselle), sono “intellettuali raffinati addestrati allo scetticismo e al metodo scientifico”. E però sono andati nella selva, hanno partecipato alle yagé nights, per riconoscersi parte di un’esperienza iniziatica, che immaginavano antidoto al disincanto. O alla stregoneria capitalistica.

E non è forse stregoneria, magia nera, questo accumulo di ricchezza e potere che non viene rimesso in circolo? E non ha fatto proprio questo tipo di magia nera il capitalismo: sostituire la povertà (povertà è dove ancora c’è una quantità di beni materiali e c’è, ancora, la possibilità di procurarsi ciò che serve: coltivare il cibo o costruirsi la casa) con la miseria? Questo, dunque, è il capitalismo: magia nera. In Africa è stregone chi usa i propri poteri per il potere e la ricchezza, il plusvalore è magia nera.

Allora: perché si va nei luoghi dell’estasi, perché ci si affida agli sciamani signori del limite? Non certo per “scambiare l’ekstasis per il fine”, perché questo sarebbe molto triste, sarebbe nulla di più di una “mezz’ora d’aria concessa a chi acconsente alla gabbia”. “Non si va dove gli angeli esitano per aggiungere una tacca sull’atlante dell’esotico, per sballo o per darsi arie una volta tornati a casa”. Nella dimensione ek-statica occorre astuzia, metis e saggezza. Si va in quanto “rappresentanti di un gruppo” a cercare una notte di “preveggenza”, a “negoziare con le forze che, dentro di noi, ci piegano al meno peggio e all’acquiescenza”.

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Attualità dell’imposto(re) https://www.carmillaonline.com/2020/02/18/attualita-dellimpostore/ Tue, 18 Feb 2020 22:01:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57941 di Paolo Patuelli

[Nonostante sia cosa abbastanza insolita per Carmilla, viene ripreso qui di seguito un breve ed efficace intervento sulle elezioni in E.R., già comparso on line nella rubrica Il rovescio del sociale a cura di Paolo Patuelli. S.M.]

Dopo il voto emiliano romagnolo, imperversano le analisi. Naturalmente tutte sbagliate e tutte corrette in quanto frutto di riflessioni su qualche cosa che non si mostra e mai potrà mostrarsi alla luce del sole: il nome e cognome sulla scheda elettorale sulla quale il cittadino votante ha lasciato il suo segno. Di [...]]]> di Paolo Patuelli

[Nonostante sia cosa abbastanza insolita per Carmilla, viene ripreso qui di seguito un breve ed efficace intervento sulle elezioni in E.R., già comparso on line nella rubrica Il rovescio del sociale a cura di Paolo Patuelli. S.M.]

Dopo il voto emiliano romagnolo, imperversano le analisi. Naturalmente tutte sbagliate e tutte corrette in quanto frutto di riflessioni su qualche cosa che non si mostra e mai potrà mostrarsi alla luce del sole: il nome e cognome sulla scheda elettorale sulla quale il cittadino votante ha lasciato il suo segno. Di lui non si può dire: vaga anonimo e indisturbato per le strade tra la via Emilia e il West.

In questi giorni in ufficio, dal negoziante e negli spogliatoi del calcetto del venerdì sera reciprocamente gli sguardi si sono fatti indagatori: tutti insieme a cercare di capire dove il collega, l’amico e il compagno di giochi abbia tracciato il suo segno domenica 26 dello scorso mese. La questione interessa perché in questa tornata elettorale o si era pro o si era contro. Più che di una elezione (con i programmi, le proposte, le soluzioni…) si trattava di un plebiscito per salvare la patria dal nemico. Quindi niente sfumature, nessuna possibilità di deviare dal compito: o di qua o di là.

Quel che allora qui, lungo la via Emilia, unisce l’analista (del voto altrui) e l’analizzante (il votante) è il setting: l’immaginario padano (con la p minuscola, per non scomodare i miti e i riti…).
Entrambi avvolti nella nebbia gelida come in una scena di Amarcord, gli analisti-opinionisti reali (imperiali a volte) strapagati e il resto del mondo civilizzato-analizzante, costantemente impegnato a spiare le mosse dell’altro sui social network, vagano alla ricerca della verità su ciò che è accaduto qui nella regione che unisce, a prescindere dal trattino che le divide, l’Emilia e la Romagna, la piadina e la mortadella, i cappelletti e i tortellini.

La verità non la sapremo mai. A questa tornata elettorale, la verità non si è vestita delle ideologie da sventolare in piazza assieme alle tessere in tasca da agitare senza vergogna al bisogno, ma si è travestita nell’adesione all’attualità imposta da chi qui governa (saldamente al centro del palcoscenico, guardando a destra e a sinistra) il discorso di oggi. E il discorso di oggi è: “O con Salvini o contro Salvini”.

Quindi se volete partecipare (la partecipazione, quella dei manuali più tristi di sociologia) e stare al passo con i tempi, scegliete di stare nell’attualità dell’imposto. State fermi, tenete la posizione. Accettando però la possibilità, probabilissima statisticamente, che nell’imposto ci stia nascosto l’imposto-re, un re per forza (di cose).

Nel 2005 l’inglese Mark Fisher si esprimeva così a riguardo del voto ai New Labour di Tony Blair come baluardo contro i conservatori:

“C’è ancora qualcuno che ama illudersi che un’amministrazione conservatrice sarebbe molto peggio del New Labour, al punto che degnarsi di votare per chiunque altro costituirebbe un lusso. Scegliere il meno peggio non significa soltanto prediligere questa opzione in particolare, ma anche scegliere un sistema che ti costringe ad accettare il meno peggio come il massimo in cui tu possa sperare. Naturalmente i difensori della dittatura dell’élite, forse ingannando addirittura se stessi, fanno finta che quello specifico cumulo di menzogne, compromessi e lusinghe che ci stanno spacciando è solo temporaneo. Che in un qualche definito momento del futuro le cose miglioreranno se sosteniamo l’ala progressista dello status quo. Eppure una scelta tra prendere o lasciare non è una vera scelta, e l’illusione del progressismo non è un vezzo psicologico, ma l’illusione strutturale su cui si fonda la democrazia liberale”.

Quindi per la politica, quella vera, bisognerà superare la logica imposta del (dal) meno peggio. In fondo qui, in terra emiliana, oggi non ci si può lamentare, o meglio ci si lamenta in tanti, ma con la speranza (la certezza) che qui c’è sempre e sempre ci sarà un piatto di tortellini da offrire a tutti, per chi ha fame e per chi semplicemente ha appetito.

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Aprire gli occhi, leggere la crisi https://www.carmillaonline.com/2019/02/07/conto-alla-rovescia-per-la-fine-di-un-modo-di-produzione-gia-esaurito/ Wed, 06 Feb 2019 23:01:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=50930 di Sandro Moiso

Countdown. Studi sulla crisi. Vol.III, Asterios Abiblio Editore, Trieste Novembre 2018, pp.160, euro 15,00

Secondo le stime dell’ufficio statistico federale, a novembre, in Germania la produzione di beni di consumo è diminuita di oltre il 4%, i mezzi di produzione di quasi il 2% e i beni intermedi dell’1%. Il calo della produzione è stato avvertito anche nel settore energetico e delle costruzioni e tutti questi problemi sono associati alle difficoltà incontrate dall’industria automobilistica del paese governato da Angela Merkel.

Se la cosiddetta locomotiva tedesca non si dimostra più così capace di trainare il trenino europeo, anche dall’altra [...]]]> di Sandro Moiso

Countdown. Studi sulla crisi. Vol.III, Asterios Abiblio Editore, Trieste Novembre 2018, pp.160, euro 15,00

Secondo le stime dell’ufficio statistico federale, a novembre, in Germania la produzione di beni di consumo è diminuita di oltre il 4%, i mezzi di produzione di quasi il 2% e i beni intermedi dell’1%. Il calo della produzione è stato avvertito anche nel settore energetico e delle costruzioni e tutti questi problemi sono associati alle difficoltà incontrate dall’industria automobilistica del paese governato da Angela Merkel.

Se la cosiddetta locomotiva tedesca non si dimostra più così capace di trainare il trenino europeo, anche dall’altra parte del mondo l’economia cinese inizia a dare i primi segnali di cedimento, mentre la guerra dei dazi tra USA e Cina aggiunge ulteriori preoccupazioni sullo stato “reale” dell’economia mondiale e allo stesso tempo per i titoli azionari statunitensi, il mese di dicembre scorso è stato il peggiore dal 1931, ovvero dalla Grande Depressione!1 Inoltre “le principali detenzioni estere di debito statunitense a ottobre sono calate di altri 26 miliardi […] Sempre in base a dati ufficiali riferiti allo scorso ottobre, gli investitori esteri hanno venduto altri 22,2 miliardi di dollari di titoli azionari statunitensi, il sesto mese di vendite di fila”.2 Così che al World Economic Forum di Davos, tra il 22 e il 25 gennaio, in sostituzione di tre rappresentanti assenti di altrettanti pezzi da novanta dell’establishment economico occidentale (Macron impelagato tra gilets jaunes e affaire Benalla; Theresa May incastrata tra un Parlamento ribelle e una possibile hard Brexit e Trump e la delegazione americana che hanno colto l’occasione dello shutdown federale per non prendervi parte), ha preso posto un’unica autentica convitata di pietra: la recessione mondiale.

Ma qui in Italia, dall’alba al tramonto, dalla lettura delle prime pagine dei giornali fatta da Roberto Vicaretti per RAI News24 fino a tutti gli zerbinotti del PD, di Confindustria, di Bankitalia e delle politiche economiche messe in atto dalla Banca Centrale Europea e dalla francesissima direttrice del Fondo Monetario Internazionale,3 Christine Legarde, tutti i media cartacei e non, imbeccati anche dal vicepresidente della Commissione europea Vladis Dombrovskis, sembrano soltanto preoccupati di far ricadere sulle spalle del governo gialloverde, tutt’altro che scevro da altre gravi responsabilità, non solo l’attuale crisi del sistema economico italiano, che nel mese di novembre ha visto una flessione del 2,6% della produzione industriale e che nell’ultimo trimestre del 2018 ha registrato un calo al -0,2% del PIL, ma addirittura quella dell’intero sistema economico europeo e mondiale.
D’altra parte quando negli Stati Uniti si vuole definire una situazione, quasi sempre in ambito politico, di chiara dissimulazione e creazione di una cortina fumogena, si usa l’espressione wag the dog (gioco di parole sul paradosso di agitare il cane, invece che quest’ultimo la coda). Tale scelta dimostra però, in coloro che l’accolgono, un’assenza totale di capacità analitica e di visione globale del divenire economico-sociale che nonostante tutto riesce ancora a stupire.

Ben venga dunque, anzi lunga vita, in un paese in cui sembra ormai quasi impossibile trovare un barlume di intelligenza (comprensione dei fatti reali) politica in una sorta di autentico Mar dei Sargassi dominato soltanto dalle bonacce ideologiche, ad una rivista di carattere antologico come Countdown che fin dal suo primo apparire (luglio 2014), all’epoca per le Edizioni Colibrì, ha fatto dell’opera di smantellamento di un ostinato maquillage mediatico e di un sempre più miserevole restyling analitico, tesi a incensare le magnifiche sorti progressive dell’attuale senescente capitalismo, il centro e il motore delle proprie analisi.

Coundown, attraverso la selezione di testi scelti tra i più interessanti prodotti a livello mondiale “che vanno a toccare gli aspetti fondamentali del capitale nelle diverse forme in cui si esprime” sembra dar vita ad un autentico assalto teorico, tutt’altro che scontato, a quel “realismo capitalista”, come lo ebbe a definire Mark Fisher, che sembra aver occupato tutto l’orizzonte del pensabile ed essere stato quasi totalmente sussunto anche all’interno delle istanze di chi, apparentemente, vorrebbe almeno formalmente recedere dall’assurdo contratto stilato socialmente e culturalmente con l’attuale modo di produzione. Come recita la presentazione dell’ultimo numero:

Da troppo tempo assistiamo alla mancanza di un’opposizione teorica e pratica al sistema economico capitalistico e in gran parte gli intellettuali che frequentano i dibattiti nei mass media costantemente si propongono come salvatori del modo di produzione che domina la vita quotidiana dei lavoratori. La crescita economica diventa sempre più un miraggio e la produzione mainstream sull’economia e sulle misura da adottare è fatta di luoghi comuni fini a se stessi. Nell’avanzante caos le teorie economiche dominanti e le analisi che da esse derivano hanno perso ogni senso dimostrando, in maniera ancora più spettacolare del passato, di essere solo giustuificazioni ideologiche dello stato di cose esistente. […] Precisiamo che tale operazione costituisce solo un contributo scientifico fornito a coloro che intendono comprendere le dinamiche del declino del modo di produzione capitalistico, per indirizzare l’analisi critica verso l’evidenza empirica, in contrasto con le impressioni di carattere soggettivamente deduttivo.

In questo senso sottolineare le difficoltà reali dell’economia attuale, che vede trionfatori solo un numero sempre più ristretto di autentici profittatori e rentier (26 super miliardari, secondo le analisi dell’Oxfam, che da soli possiedono la ricchezza della metà più povera degli abitanti del globo) che hanno visto nel corso dell’ultimo anno crescere le loro ricchezze dell’1,2% a fronte di un peggioramento dell’11% in meno per la parte più povera del pianeta, significa non trovare scuse per un governo populista e sovranista come quello italiano attuale, ma togliere ogni giustificazione a coloro che, mascherandosi da difensori di diritti universali, ormai soltanto presunti ma morti e sepolti proprio in grazia dell’azione di chi oggi li sbandiera in chiave esclusivamente elettoralistica, cercano ancora di giustificare l’ingiustificabile: la permanenza in vita del capitale e dei suoi funzionari economici, politici e mediatici. Secondo i quali invece l’attuale modo di produzione potrà essere sviato dal suo radioso percorso di crescita infinita soltanto da piccole anomalie del sistema oppure da errori scriteriati commessi dai suoi servitori più incompetenti o, peggio ancora, dai suoi contestatori più triviali e primitivi, come quelli che si oppongono alle grandi opere in/utili.

Ma, come dimostrano i sette saggi contenuti in questo numero di Countdown, le cose non stanno affatto così. Saggi che nell’insieme vanno a destrutturare un immaginario che delle perpetue capacità di rinnovamento del capitalismo ha fatto il suo motivo di interesse proprio per non dover giustificare la propria incapacità di pensare a ciò che sarebbe possibile in sua assenza o in alternativa. Saggi adatti, in un mondo dove le vecchie regole dello sfruttamento del lavoro umano e dell’ambiente e in cui lo Stato ha mantenute inalterate le sue funzioni repressive e la sua capacità di coagulo di forze economiche e sociali che sarebbero altrimenti disperse, a far sì che non si debba più obbligatoriamente dare per vera la formula secondo la quale oggi sarebbe “più facile immaginare la fine del mondo che non la fine del capitalismo”. Utili per rigettare la vecchia dottrina tatcheriana del There Is No Alternative (Non c’è alternativa), che è stata così pesantemente instillata nell’immaginario sociale degli ultimi decenni.

Il saggio dell’argentino Esteban Ezequiel Maito, L’instabilità storica del capitale: la tendenza alla caduta del saggio di profitto dal XIX secolo, prende in esame le stime del saggio di profitto sul lungo periodo di quattordici paesi, mettendo in evidenza come l’andamento di tale saggio confermi le previsioni negative fatte da Marx. Particolare attenzione al suo interno è dedicata ad una stima del saggio di profitto globale degli ultimi sei decenni e al ruolo che la Cina ha avuto nella profittabilità del sistema.

Wolfang Streeck invece, in La Politica del debito pubblico: neoliberismo, sviluppo capitalistico e la ristrutturazione dello Stato, segue la crescita del debito pubblico nelle economie capitalistiche, a partire dagli anni ’70, accompagnata da una crescita economica debole, da un aumento della disoccupazione e delle disuguaglianze e da una crescente resistenza fiscale, fino alla Grande Recessione e agli sforzi rivolti al suo consolidamento sotto la pressione dei “mercati finanziari” degli ultimi decenni.

Francisco Paulo Cipolla, professore di Economia presso l’Università federale del Paranà, nel suo articolo si occupa del Meccanismo del plusvalore relativo, mentre Alexei Izyumov e John Vahaly, entrambi professori di Economia presso l’Università di Louisville negli USA, nel loro Lavoro contro capitale nelle economie in transizione. Cosa direbbe Karl Marx?, analizzano i legami tra i modelli di capitalismo emersi dalle nuove economie di mercato dell’Europa dell’Est e dell’ex Unione Sovietica e le conseguenze della transizione per quanto riguarda il lavoro in riferimento alla distribuzione del reddito nazionale.

Andrew Glyn, scomparso nel 2007 e accademico di economia presso il Corpus Christi College di Oxford, si chiede(va) se Si riuscirà a dimostrare che Marx aveva ragione? Partendo dal fatto che Marx sosteneva che con l’evolversi del capitalismo una quota sempre più ridotta di ricchezza prodotta sarebbe stata destinata ai lavoratori, l’autore prova a confrontare tale ipotesi con l’ingresso massiccio sul mercato del lavoro mondiale dei lavoratori cinesi e indiani e le conseguenze che ciò ha avuto realmente sulle quote di redditto destinate ai diversi soggetti della produzione.

Wilfred Ukpere e Mohammed Bayat, entrambi docenti presso università e college del Sud Africa, si occupano invece del Rapporto funzionale tra divisione del lavoro e outsourcing. Sostanzialmente per i due studiosi outsourcing significa internazionalizzazione della divisione del lavoro. Considerando che la divisione del lavoro era localizzata, l’outsourcing avviene a livello globalizzato per garantire al capitale un ulteriore supporto per sfruttare il lavoro a livello globale.

Poiché ho affermato all’inizio che i testi raccolti su questo numero di Countdown, pur prodotti in contesti culturali diversi e da ricercatori estremamente differenti per provenienza e metodologie, possono risultare estremamente stimolanti per una riflessione che intenda travalicare le modeste banalità di base quotidianamente prodotte sia dalla narrazione economica mainstream che da quella sedicente alternativa o antagonista, ho lasciato per ultimo il testo di Antonio Pagliarone, membro della redazione della rivista, che in realtà apre l’antologia: Qualche riferimento al rapporto tra Information Technology e produttività.

In tale saggio, l’autore discute e critica severamente quella narrazione economica e politica che delle differenti innovazioni legate alle nuove tecnologie 2.0,3.0, 4.0, 5.0 e così via è stata fatta sia dai pallidi servitori e funzionari del capitale “alla Renzi”, sia da quei critici del capitalismo stesso che, subendo il fascino delle “nuove tecnologie”, vedono e pronosticano nella loro diffusione, un superamento già in atto dell’attuale modo di produzione. Numeri alla mano, però, Pagliarone dimostra lo scarso impatto di tali tecnologie dell’informazione sulla produttività del lavoro. Sottolineando come a partire dalla fine degli anni Settanta l’investimento nel rinnovamento dei macchinari sia sceso negli Stati Uniti e in Occidente e come tale investimento in capitale costante sia stato sostituito dall’outsourcing, dalla ricerca di nuove riserve di manodopera a basso costo in altri continenti e in altre parti del mondo oppure nella attuale e diffusa precarizzazione del lavoro in aree un tempo garantite. Dimostrando come, in realtà, sia stato l’aumento dell’intensità del lavoro, sia in Occidente che negli altri continenti, più che la sua informatizzazione a permetter al capitale di rallentare almeno parzialmente la tendenza alla caduta tendenziale del saggio di profitto insita nel suo sviluppo.

Verrebbe da dire, anche se l’autore non usa questo esempio, che la velocizzazione e l’aumento della circolazione e del consumo delle merci, attraverso l’utilizzo delle varie tecnologie informatiche x.0, basti pensare al caso di Amazon o di Foodora, sia in realtà dovuta più all’intensificazione e all’imbarbarimento dei rapporti di lavoro per i dipendenti delle due ditte in oggetto più che ad un reale aumento della produttività legata allo sviluppo di nuovi software, ricadendo completamente sulle spalle dei lavoratori e peggiorandone enormemente le condizioni e l’intensità del lavoro. Una scelta di sviluppo arcaica e triviale e tutt’altro che “all’avanguardia”. In cui, addirittura, i lavoratori devono procurarsi i “mezzi di produzione” (le biciclette) di tasca propria.

Più che di capitalismo n.x sarebbe forse allora il caso di parlare di capitalismo giunto al suo punto zero; un capitalismo, soprattutto quello italiano, che ha bisogno di grandi opere inutili per continuare a sopravvivere all’ombra di prebende statali (alla faccia del neo-liberismo sbandierato soltanto a danno della spesa sociale e sanitaria), almeno 600 richieste soltanto sul suolo dello stivale, e che per continuare a intascare profitti ai danni della maggioranza assoluta della popolazione mondiale non esiterà davanti a nulla: ulteriore devastazione dell’ambiente, guerre e colpi di mano politici presentati come unica strada per la salvezza economica nazionale.
Ma troppi, davvero troppi, tardano ancora ad aprire gli occhi e a comprenderlo.


  1. https://it.businessinsider.com/la-cortina-fumogena-della-narrativa-ufficiale-sulleconomia-globale-nasconde-una-realta-drammaticamente-diversa-ecco-i-dati/  

  2. Idem  

  3. Si veda come esempio recentissimo qui  

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Franco Berardi (Bifo): “Dopo il futuro: Dal Futurismo al Cyberpunk” https://www.carmillaonline.com/2013/10/07/franco-berardi-bifo-il-futuro-dal-futurismo-al-cyberpunk/ Mon, 07 Oct 2013 21:45:34 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=9657 di Tiziana Terranova

Bifo_futuroFranco Berardi (Bifo), Dopo il futuro: Dal Futurismo al Cyberpunk. L’esaurimento della Modernità, DeriveApprodi, Roma 2013, pp. 136, € 14.00

In una delle sue lezioni al Collège de France, Michel Foucault offre questa spiegazione del rapporto tra il sapere dell’intellettuale e la lotta. Non spetta all’intellettuale esortare il popolo alla lotta (‘battetevi contro questo in tale o talaltro modo’), piuttosto quello che il sapere dovrebbe fare è dire, rivolgendosi a coloro che vogliono lottare, ‘se volete lottare, ecco dei punti chiave, delle linee di forza, delle zone di [...]]]> di Tiziana Terranova

Bifo_futuroFranco Berardi (Bifo), Dopo il futuro: Dal Futurismo al Cyberpunk. L’esaurimento della Modernità, DeriveApprodi, Roma 2013, pp. 136, € 14.00

In una delle sue lezioni al Collège de France, Michel Foucault offre questa spiegazione del rapporto tra il sapere dell’intellettuale e la lotta. Non spetta all’intellettuale esortare il popolo alla lotta (‘battetevi contro questo in tale o talaltro modo’), piuttosto quello che il sapere dovrebbe fare è dire, rivolgendosi a coloro che vogliono lottare, ‘se volete lottare, ecco dei punti chiave, delle linee di forza, delle zone di chiusura e di blocco’1.  È chiaro che nonostante il titolo del nuovo libro di Franco Berardi sia carico di parole quale ‘dopo il futuro’ e ‘esaurimento’, esso non può fare a meno o non intende dissaduere dalla lotta, dalla ricreazione del futuro, non è un libro cioè che ci dissuade da quell’atto fondamentale per qualsiasi pratica politica costituente che è credere nel mondo. E tuttavia, da schizoanalista qual è, si tratta di un libro che pone pesantemente l’accento sui blocchi del desiderio e quindi delle lotte, o nei termini del libro, esso pone la centralità della questione della sensibilità, dell’empatia e dell’etica. Si tratta di un libro che pratica l’arte schizoanalitica della diagnosi, mettendo in evidenza tutta una serie di sintomi, culturali e sociali, che mostrano l’evoluzione e l’esaurimento di quella idea di futuro che ha giocato un ruolo fondamentale nei movimenti politici del novecento, e le conseguenze oggi del suo esaurimento.

Il futuro di cui parla Bifo non è ovviamente ‘una dimensione naturale della mente umana’, non è la certezza cioè che qualsiasi cosa faremo, il tempo scorrerà comunque ingrossato da un passato sempre più ingombrante, imbrigliato in un presente limitato, aperto verso l’imprevedibile evento del domani. Il futuro di cui ci parla è una secrezione della soggettività, ha a che fare col modo in cui le soggettività si pongono in relazione al mondo, ed è dunque l’espressione di quei concatenamenti macchinici che investono e formano la soggettività nelle economie e società capitaliste. Il futuro concepito come progresso e cambiamento radicale erompe nel novecento nell’immaginario sociale e culturale come effetto della velocità del mutamento. Le avanguardie italiane e russe ne esprimono due anime e impulsi opposti: la velocità del futuro espresso dall’accellerazione dell’automobile si realizzano nell’esaltazione della guerra e nella repressione del femminile sociale del futurismo italiano (‘il disperato tentativo di non essere femmina’), ma anche nelle pieghe morbide delle avanguardie russe che ‘mettono nel futuro un’enfasi più sfumata, differenziata, ricca’ e lo esprimono in una concezione dell’amore come gioco erotico-poetico. Il general intellect  non è semplicemente un insieme di saperi codificati nella macchina, ma anche espressione di un certo tipo di energia, quella propulsiva della combustione e del motore termodinamico, che attraversa la soggettività moderna spingendola ad immaginare il vettore della velocità come forza distruttiva e creativa allo stesso tempo. La macchina termodinamica è anche una macchina del piacere, e come ci hanno ricordato Luciana Parisi e Klaus Theweleit, essa mobilita e enfatizza una struttura del godimento maschile fatta di scarica entropica e  malinconico ritorno all’ordine2.

L’esaurimento di questo futuro è il leitmotiv della seconda metà del libro, quella dove Bifo si occupa più strettamente del momento presente. La mutazione antropologica registrata segue le trasformazioni del capitale che ha ridisegnato il suo sistema produttivo sulle linee indotte da un nuovo tipo di macchina, comunicativa, informatica e cibernetica. Dopo aver attraversato i movimenti dada e surrealisti, ed essersi soffermato sulla funzione della pubblicità (concendendo a Pasolini un tardo riconoscimento per aver ‘presentito molto dell’epoca barbarica, che, ora sappiamo, era il futuro’), la tesi principale del libro sulla contemporaneità si sviluppa sulle linee di una distinzione tra cyberspazio e cybertempo. La strategia del capitale, immobilizzato dal compromesso keynesiano che pone dei limiti alla sua tendenza all’accumulazione,  minacciato dalla tendenza alla fuga e al sabotaggio della classe operaia industriale, sceglie di deterritorializzare globalmente il flusso di lavoro vivo riorganizzando il suo comando attraverso la topologia della rete o cyberspazio. Il lavoro è ulteriormete astratto dalla concretezza dei luoghi e dei tempi della soggettività incarnata, e trasformato in un flusso deterritorializzato, frammentato e discontinuo di prestazioni infinitamente espandibili.  Questo meccanismo è frattale, si ripete a diverse scale dell’organizzazione del lavoro: è nel crowdsourcing del turco di Amazon (Amazon Turk che distribuisce automaticamente segmenti di lavoro secondo un meccanismo di aste), nelle fabbriche cinesi dove si producono gadget tecnologici, la cui velocità è scandita dall’uscita di nuovi prodotti e campagne pubblicitarie, attraversa la vita del lavoro precario e cellulare-munito fino al comunicatore compulsivo sui social media disponibile a rendere commerciabile ogni secondo delle sue interazioni sociali. Bifo sembra credere dunque che nella rete cibernetica, la vera nuova fabbrica globale, il capitale esercita il comando e il lavoro perde ogni autonomia reale.

Gli effetti di questa mutazione sulla soggettività sono per Bifo devastanti. L’energia mobilizzata non è più quella muscolare e termodinamica dell’organismo, ma quella nervosa del cervello e del sistema nervoso. Il capitalismo informatizzato non si limita ad organizzare lo spazio, ma interviene direttamente sul tempo che è la materia costitutiva della soggettività. Il cybertempo segue le velocità ultrarapide delle reti di microprocessori, e la soggettività è attaccata nelle sue fibre più sensibili, la sua autonomia svuotata dalla velocità compulsiva e frammentata del cybertempo. Si diffondono patologie quali ansia, attacchi di panico, depressione, alcuni scelgono il suicido o l’omicidio. Il tempo viene frazionato e l’anima messa al lavoro e quindi spogliata della sua autonomia. Se i padroni di oggi possono permettersi di ripetere con insistenza che non c’è alternativa ed essere creduti, è perché il cybertempo ha già consumato le capacità delle anime di immaginare un altro futuro, ingoiate dal parassita digitale che decompone il tempo esistenziale in serie infinite di micro-prestazioni sotto la pressione di una competitività precaria che previene ogni possibilità di reale contatto tra i corpi. Il futuro è esaurito dalla frammentazione del tempo in attimi presenti privi di qualsiasi virtualità buoni solo ad essere campionati dalla macchina digitale. Questa peculiare relazione col tempo è espressa  compiutamente dalle reti del capitalismo finanziario, che avendo perso ogni riferimento a un referente stabile, processano il tempo introducendo un insostenibile regime di aleatroietà di valori fluttanti, rendendo la precarietà ‘la forma generale del rapporto socialÈ. A livello soggettivo, cioè in termini di quelle trasformazioni dell’empatia, etica e sensibilità che il libro pone, l’esaurimento del futuro si esprime in quella incapacità di credere in un ‘dopo’ lo stato di cose attuale, al punto tale, come sottolineato da Mark Fisher, che è diventato più facile credere alla fine del mondo che a quella del capitalismo3.

Elephant_movieLe tesi di Bifo si affiancano a quelle che al momento sono una serie di riflessioni, scritti e studi sulla mutazione antropologica introdotta dalla popolarità di quelle che Giorgio Griziotti, con buone ragioni, definisce i media bio-iperdigitali4. Social networks e smart phones costituiscono una potente accoppiata che ha portato ad una inedita e ambivalente informatizzazione della vita sociale. Dal punto di vista di Bifo, il cybertempo, con Facebook e Twitter, ma anche YouTube, Google, Whatsapp e simili, ha colonizzato anche quello che una volta si definiva ‘tempo libero’, insinuandosi nel tessuto delle amicizie e conoscenze, rimodulando profondamente i rapporti sessuali e affettivi. Sherry Turkle, nelle sue etnografie di adolescenti e adulti della affluente middle class americana, racconta di un crescente senso di ‘insieme, ma soli’, dell’interruzione costante del contatto tra le generazioni ad opera dell’invasività dei social network e degli smart phones, di una generazione condannata a comunicare incessantemente5. In Dopo il futuro, gli adolescenti americani di Elephant che si recano a scuola armati fino ai denti e fanno strage di coetanei, e i giovani giapponesi, che vivono in totale isolamento, esprimono la soggettività dei nativi digitali. Il resoconto offerto da Jodi Dean della sua esperienza di blogger complessivamente condanna l’incessante flusso comunicativo della rete in quanto carburante del capitalismo comunicativo, che al modico prezzo delle piccole ‘pepite di godimento’ (adrenalina) rappresentati da notifiche e nuovi messaggi, si appropria della nostra energia libidinale, esaurendo le nostre capacità di resistenza, e ne fa commercio6. Bernard Stiegler è meno perentorio vedendo nei social networks la possibilità di nuove forme autonome di transindividuazione, o creazione di identità sociali, più promettenti rispetto a quelle offerte dalla televisione, ma che richiedono perlomeno l’elaborazione di nuove piattaforme (come sottolineato da Geert Lovink)7.  Si tratta in generale di elaborazioni poco simpatetiche nei confronti di social networks e smart phones che relegano eventi quali le rivoluzioni arabe, e le rivolte turche e brasiliane, o il 15M spagnolo all’eccezionalità di un uso contingente. In altre parole, per ogni rivolta, migliaia di individui che caricano foto di sé stessi e delle proprie vacanze o si scambiano indignazioni senza sbocco. E per altri, come Paolo Gerbaudo, non si dà rivolta organizzata attraverso i media sociali senza capacità di ritrovare l’Uno, unità del popolo e/o della nazione, al di là della frammentazione delle reti8.

Ma se il libro di Bifo è un’esercizio diagnostico eseguito nel tentativo di riaprire gli spazi di azione politica, di sovvertire cioè quell’immutabile ‘non c’è alternativa’ al capitale, qual è la cura? Il merito dell’analisi di Bifo è ovviamente quello di costruire una alternativa schizoanalitica alla cornice psicoanalitica che vedrebbe nell’impotenza delle soggettività digitali e iperconnesse il segno di una perdita dell’autorità (simbolico o significante padrone in grado di organizzare il gioco dei segni). Non abbiamo bisogno di nuovi padri-partiti, ma di pratiche sperimentali capaci di sovvertire il ritmo della socializzazione digitale, al momento quasi addomesticata. La cura di Bifo potrà sembrare a molti come veramente poca cosa rispetto alla potenza materiale dell’immaginario tecnologico che circola nella comunicazione sociale di massa di Facebook e co. Bifo propone di riscoprire e ricostituire la potenza della poesia, come nel suo bel ‘Manifesto del dopo-futurismo’ che chiude il libro. Ma come può darsi atto poetico, atto che rinnova la fede nel mondo e nelle sue possibilità di cambiamento, che ristabilisce la congiunzione dei corpi contro la sterile connessione informativa e che è capace di agire effettivamente in una circolazione di informazioni continua in cui perfino la poesia diventa un new media object come un altro, una frase da condividere, magari insieme ad una immagine? In che modo e con quale potenza la poesia può entrare in questi circuiti dove, ci piaccia o meno, gli individui continuamente si esprimono socialmente, cioè esprimono e condividono con altri stati d’animo, idee, affetti, notizie ed emozioni? Quando la poesia stessa diventa un link, un frammento da condividere, invece che un’epifania rivelatoria capace di risvegliare la potenza dell’evento?

Forse il problema della schizoanalisi di Bifo sta proprio in un certo riduzionismo che coinvolge la sua lettura del rapporto tra corpo, anima, e macchina. Bifo dà l’impressione infatti di intendere questo rapporto come uno in cui la sussunzione della forza lavoro alla macchina non è solo reale, è totale. Questa lettura è data chiaramente nelle prime pagine del libro, quando Bifo sostiene che per aumentare il plusvalore relativo, cioè la ricchezza estorta dal lavoro, il capitale tende essenzialmente ad accellerare. Questa accellerazione per lui non rilascia nessuna eccedenza negli individui, solo stress e tristezza. In altre parole, sembra quasi che la rete cibernetica manchi di una caratteristica fondamentale delle reti, cioè di buchi. Quando Deleuze nella società del controllo parla delle nuove tecniche che funzionano come ‘setacci a maglia variabile’, non poteva non avere in mente le sue riflessioni sul barocco di Leibniz9. È in questo libro che aveva trattato del setaccio o maglia, che non è altro che una sintesi, mai completamente esaurita, dell’infinitesimale. La rete non può diventare l’universo chiuso di The Matrix perché è per sua natura, fatta di fori. La rete si istituisce a partire da un certo rapporto con il flusso della materia (fisica, biologica, sociale, economica, culturale) che non è di tipo rappresentativo, ma selettivo e sintetico. La rete seleziona, non esaurisce, il flusso della materia sociale e delle forze psichiche. Le seleziona, le sintetizza, le codifica e gli dà è vero un certo ritmo, ma per continuare ad esistere deve continuamente relazionarsi a un fuori che le rimane in eccesso.

matrix_failureInsomma a me sembra che la forza della soggettività, forza di credere e desiderare come diceva Tarde, forza di coordinarsi e cooperare, come nell’interpretazione postoperaista, sia necessariamente eccedente la capacità della rete di configurarla. Per questo essa, qui e là, periodicamente o improvvisamente, non cessa di sollevarsi e di sconvolgere i parametri e i protocolli che l’oligopolio bio-ipermediatico (Apple, Google, Facebook, Twitter, Amazon, etc) ha sovrapposto alla rete distribuita che Internet originariamente è.  Proprio perché la rete ‘pesca’ nella variazione dell’infinitesimale, d’altro canto, essa non può essere ridotta ad arma di guerra di classe condotta a colpi di cybertempo, perché il cybertempo stesso pone continuamente il problema di ciò che gli sfugge, del ‘cigno nero’, dell’evento che non riesce a prevedere, della singolarità incontrollabile. Non a caso ricerche recenti su algoritmi, protocolli e parametri (i mezzi attraverso cui il cybertempo è organizzato) continuano a porre il problema dell’incomputabile e dell’automatismo fuori controllo10.

Non è sufficiente comunque affermare, con un colpo di mano teorico, che la rete non può che essere forata e che se l’organismo, con i suoi delicati equilibri, ne resta impigliato e sconvolto, la relazione sociale continua ad eccederla e nutrirla. Bisogna in qualche modo dimostrarlo e questa dimostrazione non può essere neanche soltanto banalmente empirica, cioè una esposizione dei casi in cui la rete ha agito diversamente da come i colossi dell’economia digitale vorrebbero. In un certo senso, il valore maggiore di questo libro forse consiste proprio nel suo incitare il lettore, come l’uditore dei corsi di Foucault, a capire dove la sua volontà di ribellarsi e di lottare va indirizzata. È infatti vero che al momento questa volontà, parzialmente catturata dal cybertempo e cyberspazio, sembra esaurirsi in quella che Pierre Macherey nel suo Il soggetto produttivo ha definito una specie di ‘carattere incompiuto’ dell’azione spontanea, alle sue ‘resistenze sparse, in movimento, non meditate e coordinate dall’inizio’11. La formazione di reti automome e auto-organizzate in grado di produrre la fine del capitalismo e una nuova era ispirati da concetti come comune, cooperazione, singolarità non può non confrontarsi col nodo chiave della sensibilità, dell’empatia, dell’etica e quindi anche del tempo e delle sue mutazioni.


  1. Michel Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Feltrinelli, Milano 2005, p. 15. 

  2. Cf. Luciana Parisi, Abstract Sex. Philosophy, Biotechnology and the Mutations of Desire, Continuum, London e New York 2004; e Klaus Theweleit,  Fantasie virili. Donne, flussi, corpi, storia, Il Saggiatore, Milano 1997. 

  3. Cf. Mark Fisher, Capitalist Realism: Is There No Alternative? Zero Books, 2009. 

  4. Cf. Giorgio Griziotti, Capitalismo digitale e bioproduzione cognitiva: l’esile linea fra controllo, captazione ed opportunità d’autonomia, UniNomade 2.0 2011 (qui). 

  5. Cf. Sherry Turkle, Insieme, ma soli. Perché ci aspettiamo sempre di più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri Codice, Torino 2012. 

  6. Cf. Jodi Dean, Blog Theory: Feedback and Capture in the Circuits of Drive, Polity Press, Cambridge and Oxford 2010. 

  7. Cf. Geert Lovink, “A World Beyond Facebook: Introduction to the Unlike Us Reader” e Bernard Stiegler ‘The Most Precious Good in the Era of Social Technologies’’ in Unlike Us Reader: Social Media Monopolies and Their Alternatives, a cura di Geert Lovink e Miriam Rasch, Institute of Network Cultures, Amsterdam 2013. 

  8. Paolo Gerbaudo, Tweets and the Streets. Social Media and Contemporary Activism, Pluto Press, London 2012. 

  9. Cf. Gilles Deleuze, ‘La società del controllo’ (qui); e La piega. Leibniz e il barocco, Einaudi, Torino 2004. 

  10. Cf. Jussi Parikka e Tony D. Sampson, The Spam Book: On Viruses, Porn and Other Anomalies From the Dark Side of Digital Culture, Hampton Press, NJ 2009; Luciana Parisi, Contagious Architecture. Computation, Aesthetics and Space, The MIT Press, Boston, Mass. 2013. 

  11. Cf. Pierre Macherey, Il soggetto produttivo. Da Foucault a Marx, Postfazione di Antonio Negri e Judith Revel, Ombre Corte, Verona 2013, p. 61. 

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