Marino Magliani – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 29 Apr 2025 20:00:41 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il cannocchiale del tenente Dumont, di Marino Magliani https://www.carmillaonline.com/2021/05/17/il-cannocchiale-del-tenente-dumont-di-marino-magliani/ Mon, 17 May 2021 20:15:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66350 L’Orma, Roma 2021, pagg. 296, € 20

[Marino Magliani, classe 1960, è un ex giramondo che ha trascorso una parte della vita in Sud America e in Spagna, vivendo di mille mestieri, e incamerando, forse, dentro di sé la melodia un po’ scalena dell’esule tra gli esuli. Tra l’altro la conoscenza acquisita dello spagnolo gli serve per il mestiere di traduttore e curatore di una collana di letteratura latino-americana. Ora si è fermato in una cittadina dell’Olanda, spazzata da un vento che scorre come uno spiritello sulle acque grigie del mare del Nord. [...]]]> L’Orma, Roma 2021, pagg. 296, € 20

[Marino Magliani, classe 1960, è un ex giramondo che ha trascorso una parte della vita in Sud America e in Spagna, vivendo di mille mestieri, e incamerando, forse, dentro di sé la melodia un po’ scalena dell’esule tra gli esuli. Tra l’altro la conoscenza acquisita dello spagnolo gli serve per il mestiere di traduttore e curatore di una collana di letteratura latino-americana. Ora si è fermato in una cittadina dell’Olanda, spazzata da un vento che scorre come uno spiritello sulle acque grigie del mare del Nord. Ma è un ligure, un duro, spartano uomo ligure, con poche smancerie e tanta volontà di sopravvivere e di studiare. E un ligure può emigrare, soffrire, combattere, ma non dimenticherà mai la sua terra, coi carrugi, i boschi, il mare che schiaffeggia e accarezza le rocce. Pertanto i suoi libri lo portano sempre lassù, in quei territori aspri e assolati, coi muretti a secco e i viottoli impervi che bucano i macchioni e incidono quella terra dura e sassosa. Col suo personalissimo stile, un mix consapevole di popolano e di raffinatezza non si dilunga in descrizioni, ma cerca di evocarne le atmosfere, le luminosità e le suggestioni notturne. Sembra fondersi col territorio, in una formula chimica uomo/Liguria, uomo/ambiente, forse l’unico modo per non rinunciare alla sua origine, e al contempo senza negarsi la scoperta del resto del mondo.

Anche in questo nuovo romanzo storico i protagonisti, tre soldati dell’armata napoleonica in Egitto, esausti, ormai disanimati dalla guerra, decidono di disertare e di fuggire, seguiti dal dottor Zomer, che vuole indagare sugli effetti di una nuova sostanza, l’hasisc, che pare sia una delle cause delle numerose diserzioni. Approdano in un visionario paesaggio ligure, incontrando sulla loro strada spie e nemici, ma anche amori più o meno disperati, spinti dalla ricerca, forse impossibile, della libertà.

Di seguito pubblichiamo la “Notizia”, il capitolo iniziale che funziona da prefazione al testo. MB]

“In seguito all’inquietante numero di defezioni subite dal suo esercito in Egitto, nel 1799 Napoleone decise di costituire una commissione composta da ufficiali e uomini di scienza affinche si indagassero le cause del fenomeno.Tra queste furono individuate la desolazione dell’ambiente e il tentativo di fuggire alla peste che aveva infettato gli accampamenti attorno a Jaffa.

La missione di Johan Cornelius Zomer, un dottore di origini fiamminghe al servizio dell’ospedale da campo di Jaffa, fu quella di convincere i colleghi che a determinare l’alto tasso di abbandono dei ranghi avesse contribuito in gran parte una sostanza estratta da piante angiosperme dell’ordine Urticales.

Quella sostanza in Algeria ed Egitto era consumata in un composto chiamato madjound; in seguito, in Europa e altrove si sarebbe diffusa con il nome di hascisc.

L’incarico conferito al dottor Zomer forni uno studio approfondito sugli usi e i costumi dei consumatori di hascisc, i metodi di approvvigionamento, la diffusione, i crimini legati a quel commercio. Il dottor Zomer chiamò attorno a sé alcuni aiutanti, stipendio guide indigene e uomini di azione, reclutando agenti della polizia segreta, tra cui il suo piu fidato collaboratore, Victor Pangloss. Si trattava di monitorare, seguire i consumatori e i rifornitori durante i loro movimenti, intuire e in qualche modo prevenire. E una delle intuizioni del dottor Zomer, sebbene scontata, fu proprio quella di prevedere che prima o poi qualche reduce dalla campagna delle Piramidi avrebbe attraversato il Mediterraneo, in rotta verso la Francia, portando con sé una grossa scorta di hascisc.

Inoltre, nel tentativo di capire come un fenomeno del genere si fosse potuto propagare, al di la delle cause che l’avevano provocato, il dottor Zomer cercò di individuare il periodo preciso e circoscrivere il luogo in cui era iniziato tutto quanto. Le notizie raccolte a questo proposito non lasciavano dubbi: in grande scala, l’armata francese aveva fatto conoscenza con l’hascisc sulle rive di uno strano lago salmastro e paludoso, non distante dalle foci del Nilo. Gli indigeni chiamavano quelle acque Maryut, per gli antichi Greci era Mareotis.”

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L’ultimo dei santi, di Marisa Salabelle https://www.carmillaonline.com/2019/10/25/lultimo-dei-santi-di-marisa-salabelle/ Fri, 25 Oct 2019 21:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55426 Tarka/Appenninica, Mulazzo (MS) 2019, pagg. 240 € 15.68

[Potremmo definirla “narrativa territoriale”. Racconti, romanzi, poesie, in cui i territori, o porzioni di territori, entrano nei testi non come descrizioni, ma come entità, addirittura come personaggi. E interagiscono coi “veri” personaggi. Viaggiano sulle pennellate, più che altro miniature, mai tavolozze elaborate, del narratore. Si fanno “sentire”, coi loro alberi, i loro fiumi, i loro sentieri, e spesso coi loro abitanti, umani e animali. Alcuni autori che ricoprono questo ruolo di trade-union tra i luoghi e le parole, sono Oreste Verrini, narratore dell’Appennino Tosco Emilino; [...]]]> Tarka/Appenninica, Mulazzo (MS) 2019, pagg. 240 € 15.68

[Potremmo definirla “narrativa territoriale”. Racconti, romanzi, poesie, in cui i territori, o porzioni di territori, entrano nei testi non come descrizioni, ma come entità, addirittura come personaggi. E interagiscono coi “veri” personaggi. Viaggiano sulle pennellate, più che altro miniature, mai tavolozze elaborate, del narratore. Si fanno “sentire”, coi loro alberi, i loro fiumi, i loro sentieri, e spesso coi loro abitanti, umani e animali. Alcuni autori che ricoprono questo ruolo di trade-union tra i luoghi e le parole, sono Oreste Verrini, narratore dell’Appennino Tosco Emilino; Vincenzo Celano, dal sud lucano; Marino Magliani, scrittore emigrato in Olanda ma che ha portato con sé l’entroterra della Liguria (curatore, con Paolo Ciampi, della collana Appenninica); Bruno Morchio, da Genova; Giuseppe Conte, forse il più grande cantore del mare; Vincenzo Pardini, l’uomo dei lupi e delle lande selvagge dell’alta Garfagnana.

Ora si affaccia sulla scena di questa narrativa una scrittrice, nata in Sardegna che vive a Pistoia. Il suo romanzo è un giallo che procede nelle luci, nelle ombre e nei colori di una terra aspra, isolata: i fratelli Santi, anziani abitanti del minuscolo borgo di Tetti, sono morti in circostanze misteriose. Indaga Saverio Giorgianni, giornalista, alle prese a sua volta con una vicenda familiare piuttosto intricata. Tra confidenze, pettegolezzi e un mucchio di vecchie foto giungerà alla soluzione. Sullo sfondo, un Appennino sospeso tra passato e presente, coi suoi pochi bizzarri abitanti, i villeggianti estivi, e la comunità degli Elfi poco distante.

Di seguito pubblichiamo il primo capitolo. MB]

di Marisa Salabelle

Non fu la morte di Romolo Santi, ai primi di gennaio del 1999, a preoccupare i tettaioli. Gli abitanti di quel borgo dimenticato da Dio che risponde al nome di Tetti, un paesino minuscolo su un versante poco popolato dell’Appennino tosco-emiliano, erano abituati a fare ogni anno la conta dei vecchi che non superavano l’inverno, e quell’inverno non aveva fatto eccezione. A febbraio era morto Terenzio Bartoli, tanto per dire, e a marzo la vecchia Sidonia, di novantotto anni, per non parlare di Angela, la sorella scema di Svaldo, che però tanto vecchia non era, a dir la verità. Vero che Romolo non era morto né di vecchiaia né di malattia: una sera era uscito per portar fuori la spazzatura, aveva fatto uno scivolone brutto sul ghiaccio e aveva battuto la testa. Il buio, il ghiaccio, le sue gambe un po’ malferme, chi poteva sapere. L’avevano trovato il giorno dopo, freddo come il marmo.

E nemmeno l’incidente capitato ad Alvaro, il fratello di Romolo, che la mattina del 10 luglio era cascato da un’impalcatura, li aveva sorpresi più di tanto. Che questi vecchi di Tetti ce l’avevano di vizio, di mettersi in situazioni non adatte alla loro età, si sentivano ancora dei giovanotti, salivano sugli alberi, montavano sui tetti e poi… L’unica che ci era rimasta veramente male era stata la sua vicina, Nora, che se l’era visto piovere dal cielo proprio davanti all’uscio di casa, si era presa uno spavento, povera donna.

Ma quando, il 29 luglio, si era sparsa la notizia che anche Ermanno, il più giovane dei tre fratelli Santi, era morto, allora sì che la gente, a Tetti e nelle frazioni vicine, aveva cominciato a mormorare.

Erano le undici del mattino di un giovedì apparentemente tranquillo. In piazza i paesani si scaldavano al sole mentre le donne iniziavano già a preparare da mangiare. Quando, all’improvviso, arrivò sparato il furgoncino di Mohamed, il marocchino, che tutta l’estate faceva il giro dei paesi della montagna col suo assortimento di jeans e magliette a poco prezzo, pantaloni finto militare, bianche­ria, tovaglie. Il furgone inchiodò stridendo e Mohamed saltò fuori spiritato. Alle donne che già si accalcavano per vedere la sua mercanzia urlò:

“Incidente, incidente, bisogna subito chiamare la Misericordia.”
“Incidente? Cosa?”
“Che è successo?”
“Trovato macchina lungo la strada… schiantata contro un albero! Signor Ermanno, dentro! Lui morto! Bisogna chiamare l’ambulanza!”
“Ermanno, dici? Ma come!”
“Via! O se ‘un ci posso credere! L’ho visto quando, un’ora fa… Andava a Pistoia in tutta fretta, era nero come un cappello: l’avevano chiamato dalla banca per il conto del su’ fratello, non so quante volte ci aveva fatto su e giù, almeno così ha detto!”
“Gliel’avevo detto, io che quella macchina non era a posto. Faceva un rumore strano…”
“E così, anche l’ultimo dei Santi se n’è andato. Mi chiedo se non ci sia qualcosa dietro queste morti!”

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Il postino di Mozzi, l’ultima frontiera della psichedelia https://www.carmillaonline.com/2019/05/09/il-postino-di-mozzi-lultima-frontiera-della-psichedelia/ Thu, 09 May 2019 21:29:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52446 Il postino di Mozzi, Arkadia editore, Cagliari 2019, pagg. 136 € 14

Esce per Arkadia questa originale antologia, curata da Marino Magliani e Luigi preziosi, dove un gruppo di scrittori di formazione e stili diversissimi trova riparo sotto l’accogliente ombrello del nominativo Fernando Gugliemo Castanar. La fiction di base sta nell’operato di un aspirante autore (lo stesso Castanar) che per anni ha spedito, inutilmente, testi e lettere a un famoso editor e scrittore di nome Giulio Mozzi, il quale ovviamente non ha mai risposto.

Così, diventato postino, proprio nella [...]]]> Il postino di Mozzi, Arkadia editore, Cagliari 2019, pagg. 136 € 14

Esce per Arkadia questa originale antologia, curata da Marino Magliani e Luigi preziosi, dove un gruppo di scrittori di formazione e stili diversissimi trova riparo sotto l’accogliente ombrello del nominativo Fernando Gugliemo Castanar. La fiction di base sta nell’operato di un aspirante autore (lo stesso Castanar) che per anni ha spedito, inutilmente, testi e lettere a un famoso editor e scrittore di nome Giulio Mozzi, il quale ovviamente non ha mai risposto.

Così, diventato postino, proprio nella città di Mozzi, ha iniziato a sottrarre posta al suddetto, assemblando questa raccolta fatta di pagine narrative, poetiche, invettive, riflessioni. Il risultato è un furioso, anarcoide ipertesto che si può leggere in tutte le direzioni: dalla fine, dal centro, dall’inizio. E’ un cut up pirotecnico di stili, che vanno dal classico all’epistolare allo sperimentale; è come imbarcarsi nel carrello di un lunapark, dove veniamo schiaffeggiati, cosparsi di ragnatele, accecati da lampi, assordati da grida cavernose. Di sicuro non ci si annoia.

Di seguito pubblichiamo un testo, proprio dello stesso Giulio Mozzi, che potrebbe avere, come sottotitolo, Vita complicata di uno scrittore che non scrive storie (MB).

* * *

Da due anni e mezzo Giulio non inventa una storia. Lui è uno scrittore di racconti, uno che di solito brulica di storie. In nove anni ha scritto sessantaquattro racconti, di varia lunghezza, dalle settanta pagine a tre, mediamente di quindici-venti pagine. Fanno sette racconti virgola uno periodico all’anno, calcola. Zero virgola cinquantanove pressoché periodico racconti al mese. Insomma, scrivendo in certe stagioni di più, in certe stagioni di meno – per esempio, quando lavorava in libreria, scriveva molto durante le ferie – Giulio ha potuto sempre pensare a se stesso come a uno che le sue storie se le pensa, se le rigira in mente, se le scrive: con tranquillità. Agli amici però diceva: «Non mi toccherà mica tutta la vita fare lo scrittore»; suscitando strilli e rimproveri.

Da due anni e mezzo invece Giulio non inventa una storia. Qualche racconto l’ha cominciato: e l’ha interrotto, magari dopo molte pagine, non perché venisse poi male, no, ma perché si rendeva conto di avere già scritta quella storia, magari più di una volta, con travestimenti diversi. E le storie, a un certo punto, vanno ammazzate. Tutto sommato, pensa Giulio, è vero che ciascuno di noi ha solo una, forse due storie da raccontare. Ma comunque, a un certo punto, le storie bisogna ammazzarle. Per l’ennesima volta Giulio inizia a scrivere la storia d’un abbandono, d’un amore odioso, di una repulsione affascinata: scrive cinque pagine, dieci, quindici, fingendo d’essere una donna di trent’anni che scrive al proprio padre, immaginando un padre amante della figlia fin dai primissimi tempi dell’adolescenza di questa, immaginando una figlia prima sedotta e poi spaventata, fuggita, indurita; scrive, Giulio, più di trenta pagine, immaginandosi di essere questa donna, scrivendo attraverso questa donna che immagina di essere parole che lui da solo non sarebbe mai capace nemmeno di pensare; scrive, e un bel giorno butta via tutto. Via. Cestino, Svuota cestino. Perché la storia è sempre la stessa storia, e lui l’ha raccontata così tante volte da saperla raccontare, ormai, se n’è accorto, come col pilota automatico. Datemi la storia d’un amore disperato, possibilmente contro natura di quel tanto, e io darò voce ai suoi attori. Li farò parlare in modo tale da farli compatire e amare. Questo io so fare. Questa è la mia specialità.

In questi due anni e mezzo senza storie – una storia buttata via è una storia inesistente – Giulio ha scritto molto. Ultimamente si è specializzato in testi descrittivi di luoghi. Lo chiamano studi di architettura, aziende di promozione turistica, agenzie di pubbliche relazioni: gli chiedono di andare nel posto tale, di vistare l’edificio tale, di farsi un giro nei supermercati della catena tale, e di tornare a casa con una storia. Giulio dice di sì, sempre; fa quello che deve fare; descrive località turistiche, terreni edificabili, edifici incongrui, punti vendita, cimiteri; a volte è accompagnato da un fotografo, a volte no, a volte è lui che accompagna un fotografo; alla fine il cliente è soddisfatto, quasi sempre. Non sempre: perché qualche assessore al turismo se la prende per un testo che non ha niente di turistico, o qualche agenzia di pubbliche relazioni si scandalizza per un testo che manca di rispetto al cliente. In questi casi di solito non pagano.

Giulio si mantiene facendo un po’ di questi lavori, ma soprattutto con i laboratori di scrittura e narrazione. Ogni settimana, più o meno, affronta un gruppo nuovo. Pensionati che si ricordano ancora il tempo in cui tutto questo che c’è oggi non c’era, prima che tutto quello che oggi non c’è più scomparisse, e vogliono fissare, ricordare, conservare. Giovani mamme che inventano favole e filastrocche per i loro bambini presenti e futuri. Carabinieri convinti che la loro vita sia un romanzo. Ragazzotti che vogliono «diventare uno scrittore» (questi Giulio, se può, cerca di mandarli via). Lettrici accanite curiose di capire come funzionano e «come si fanno» quelle narrazioni che le affascinano così tanto. Ingegneri navali, chimici del bitume, operatori di call center, bibliotecarie, ragioniere iscritte all’ordine dei ragionieri: c’è di tutto, in questi laboratori. Giulio veramente è un po’ stanco di affrontare ogni settimana un gruppo nuovo, di riprendere a rotazione gli stessi argomenti, di ricominciare ogni volta da un inizio; tuttavia non sa sottrarsi, pensa a quanto importante sia stata, per lui, l’educazione al parlare al leggere allo scrivere ricevuta prima in casa, poi a scuola, poi nel lavoro; gli risuona sempre in mente la battuta di don Milani che dice, più o meno: «Tu sai cento parole, il tuo padrone mille; per questo lui è il tuo padrone». Non è altro che questo, il mio lavoro, pensa Giulio, e in effetti è un lavoro che gli piace molto, anche se adesso, dopo quasi sei anni che è il suo primo lavoro, veramente è un po’ stanco.

Gli è successo, in questi sei anni, di incontrare persone che, come lui, avevano il dono. Ormai Giulio usa spudoratamente questa parola: il dono; perché solo questa parola gli permette di parlare della cosa che lui ha, o ha avuta, come di una cosa che ad averla non si ha nessun merito, avendola ricevuta in dono. Giulio sa che il suo dono, quello che ha ricevuto lui, è un dono mediocre; sa che il suo lavoro è farlo fruttare; sospetta di averne cavato ormai tutto il frutto che poteva cavarne; ed è felice, di tutto il frutto che ha cavato dal suo dono. Quando incontra persone che, gli sembra, hanno come lui il dono, Giulio si emoziona. Il suo primo pensiero è che di quel dono, di quel dono altrui, lui deve prendersi cura. Si può dire che a volte Giulio si innamori del dono altrui; che lo curi e si adoperi per farlo fruttare più di quanto, negli anni passati, si sia curato del suo proprio dono. In fondo, nel proprio dono Giulio ha avuto molta fiducia: ciò che vorrà darmi come frutto, ha pensato spesso, verrà quasi da sé; io devo essere soprattutto pronto ad accogliere, ad accettare, a ospitare. Invece verso il dono altrui a Giulio verrebbe da essere invadente, sollecitante, troppo premuroso. Così che a volte sbaglia, esagera, ha troppa fretta, non fa le cose come dovrebbero essere fatte. «Sei una mamma un po’ isterica», gli è stato detto una volta; e sarà stato ben detto. Le persone con il dono di cui Giulio decide di prendersi cura, diventano i suoi amici e le sue amiche. Ogni tanto lui pensa che sarebbe bello, vivere per loro. Ogni tanto pensa che forse queste che lui pensa come amicizie non sono veramente amicizie, perché lui è ossessionato dal prendersi cura; e questo non va bene.

Il terrore di Giulio è: ingannarsi, vedere il dono in chi non ce l’ha. Ha provato questo terrore per qualche anno, perché nessuno dei suoi amici, nel cui dono Giulio credeva fermamente, trovava attenzione presso gli editori. Non essendo capace di dubitare del dono dei suoi amici, Giulio ha dubitato di se stesso. Che cosa posso fare, che cosa posso fare, che cosa posso fare? Certi giorni non pensava ad altro.

Da qualche tempo un editore ha chiesto a Giulio di scegliere dei libri da pubblicare. Giulio ne è stato felice: ha potuto chiamare i suoi amici con il dono, e dire loro: ecco. Qualcuno nel frattempo ha trovata una via per suo conto; qualcuno ha rinunciato; qualcuno si è arrabbiato con Giulio; qualcuno è stato felice di accogliere la possibilità; qualcuno ha detto di sentirsi non ancora pronto. Fatto sta che da due anni e mezzo il tempo di Giulio è sempre più occupato dai libri degli amici, e da due anni e mezzo Giulio non inventa più storie nuove. Giulio non è preoccupato per le storie che non gli vengono più. In fondo a lui importa che i libri esistano, ci siano; non è importante che sia lui o siano altri a scriverli. Se in nove anni ha scritto sessantaquattro storie, può bastare. Gli piace molto discutere fino a mattina con Umberto, scambiare lettere con Laura, telefonare a Maria Luisa, prendere il treno per andare da Giuseppe, leggere le e-mail chilometriche di Livio. In fondo, pensa Giulio, io non faccio niente. Queste persone scrivono i loro libri, e non li scrivono certo perché io li aiuto o li sostengo o gli dico come fare o gli risolvo dei problemi. Farebbero lo stesso, anche senza di me; in altri modi forse, con altri tempi forse; ma farebbero lo stesso. Tutto ciò che io devo fare, è stare lì. Esserci. Io sono quello che ci crede, che pensa che tutto questo abbia senso. Sono quello che può testimoniare: che giocarsi un pezzo della vita su una storia o venti storie o sessantaquattro storie da raccontare, è una cosa che ha senso. Io l’ho fatto, la mia esistenza in vita dimostra che ha senso.

Perché in effetti, ciò che temono gli amici di Giulio, così lui pensa, è di morire. Temono che la loro storia uscirà da loro, andrà per il mondo, e loro moriranno. Anche Giulio, a suo tempo, ha temuto questo. Ma adesso lui è lì, le sue storie sono completamente uscite da lui, non ne ha più nessuna, sono tutte in giro per il mondo, e lui è vivo. Vivo. Vivo. Vivo.

[Gli autori:
Giovanni Agnoloni, Franco Arminio, Mauro Baldrati, Mario Bianco, Valter Binaghi, Adrián N. Bravi, Marco Candida, Riccardo de Gennaro, Arianna Destito, Valentina di Cesare, Marco Drago, Riccardo Ferrazzi, Nunzio Festa, Francesco Forlani, Sergio Garufi, Alessandro Gianetti, Carlo Grande, Franz Krauspenhaar, Marino Magliani, Emilia Marasco, Claudio Morandini, Paolo Morelli, Giulio Mozzi, Giacomo Sartori, Beppe Sebaste, Giorgio Vasta, Alessandro Zaccuri, Stefano Zangrando]

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Guerra Verticale, di César Vallejo https://www.carmillaonline.com/2019/01/24/guerra-verticole-di-cesar-vallejo/ Wed, 23 Jan 2019 23:01:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=50740 César Vallejo, Guerra Verticale, Arkadia, Cagliari, 2018, pp. 126, € 14,00.

[Prosegue la riscoperta di scrittori di lingua ispanica dell’editore Arkadia. Guerra Verticale, del poeta peruviano César Vallejo (Santiago de Chuco, 16 marzo 1892 – Parigi, 15 aprile 1938), è il terzo della collana xaimaca, curata da Marino Magliani e Luigi Marfè. La sua vocazione poetica, e la sua etnia indio, si esprimono soprattutto nelle prose della seconda e terza parte di questa raccolta di racconti brevi. Una sezione è dedicata alle giornate di un carcerato, la sua visione claustrofobica e allucinata (esperienza [...]]]> César Vallejo, Guerra Verticale, Arkadia, Cagliari, 2018, pp. 126, € 14,00.

[Prosegue la riscoperta di scrittori di lingua ispanica dell’editore Arkadia. Guerra Verticale, del poeta peruviano César Vallejo (Santiago de Chuco, 16 marzo 1892 – Parigi, 15 aprile 1938), è il terzo della collana xaimaca, curata da Marino Magliani e Luigi Marfè. La sua vocazione poetica, e la sua etnia indio, si esprimono soprattutto nelle prose della seconda e terza parte di questa raccolta di racconti brevi. Una sezione è dedicata alle giornate di un carcerato, la sua visione claustrofobica e allucinata (esperienza vissuta, fu condannato in un processo farsa soprattutto per il suo impegno contro lo sfruttamento degli indios), un’altra alle notti di Lima, a personaggi con aure oniriche, alzando sipari su momenti di vita, rapide fotosintesi che passano come raggi di luce. Sono testi che non hanno un vero inizio né un finale risolutivo, ma scorrono come segmenti borgesiani su una retta che si perde all’infinito. La prima sezione è ambientata tra gli Incas, il popolo andino bellicoso e imperialista che nel XIII-XIV secolo aveva conquistato tutta la cordigliera. Vallejo immagina che il re guerriero Túpac Yupanqui (1441-1493), stanco di massacri e di violenza, un giorno decide di dire NO alla guerra e di instaurare un periodo di pace. Ma i sogni sono sogni, e gli dei, sempre avidi di sangue, non sono d’accordo… Di seguito pubblichiamo il racconto che apre la raccolta. MB]

L’ALTRO IMPERIALISMO

Tutto quel frastuono era provocato dall’esercito del principe ereditario, che stava rientrando in città, di ritorno dalla spedizione di conquista a Quito. Dalle terrazze del Sajsahuamán si vedevano sfilare i soldati, mentre facevano il loro ingresso nell’Intipampa, lungo il sentiero stretto della sierra.

In testa c’era Huayna Cápac, la cui figura ancora adolescente – era infatti la sua prima campagna militare – pareva indurita dalle intemperie, dalle vampe e dai freddi del nord. L’esercito, sfinito dal gelo nella leggendaria regione dei Chachapoya, traversava le prime strade di Cuzco, a passo lento, al ritmo dei tamburi di guerra. Le armi dell’Impero avanzavano precedute, a un tiro di fionda, dagli esperti frombolieri. Fiammeggiava poi l’Iris, ricamato su uno stendardo di lana e di piume, trafitto dai raggi solari e sormontato da un suntupáucar che raffigurava un airone d’oro. Marciavano eroi spigolosi, scavati di rughe, con in spalla la massa compatta dei queschuar, orba e sdentata per i colpi subiti; frombolieri emaciati e secchi; arcieri consunti e curvi dalle faretre logore, in mano un mazzo di frecce dalla punta metallica avvelenata, l’arco di guaco in spalla; lancieri dalle braccia enormi e ciondolanti, gli scudi di guaiaco rosi ai lembi; soldati senz’ascia, che zoppicavano penosamente… In mezzo marciava l’apusquepay, un vecchio dal mento enorme e gli occhi placidi, col suo turbante giallo, cinto da un tortigliere di piume malandato.

L’esercito entrava in città, abbattuto, menomato. Solo alcuni generali, ufficiali dell’aristocrazia o veterani, sorridevano al passaggio per le strade. Ma, in generale, gli uomini della spedizione e perfino lo stesso principe ereditario marciavano in preda a un profondo dolore.

Mentre gli ultimi soldati sparivano in fondo alla città, gli operai della fortezza li guardavano, carichi di strana indifferenza. Non risuonò nessun applauso, né un grido di entusiasmo. Le donne e i bambini facendo capolino dalle porte, osservavano i guerrieri con freddezza. Alcune donne attraversarono la carreggiata e diedero al parente che tornava qualche sorso di chicha da bere o gli portarono alla bocca un po’ di cancha e di patate dolci. Gli araldi rimanevano muti. Al posto dell’hailli della vittoria, riempiva le bocche un silenzio rannuvolato. Quando l’esercito passò davanti al tempio delle prescelte, ad Hanan-Cuzco, una vecchia scoppiò a piangere.

Da lontano vibrarono le fanfare di guerra, mentre l’esercito faceva il suo ingresso nella Piazza dell’Allegria. Erano gli ululati smorzati di trombe composte di crani di cani presi ai nemici. Alla dentatura di questi crani erano state legate corde di denti di scimmie del nord, in modo che, soffiando l’aria e suonando nel barbaro strumento, si sentiva uno stridore famelico che dava i brividi… All’udirli allora, la città sì rabbuiò in pena e silenzio.

Túpac Yupanqui, venuto a sapere dell’arrivo di Huayna Cápac, lo attese nel cortile di rame del palazzo, circondato dalla corte. Aveva la bocca contratta di rabbia. Il principe ereditario avanzò fino ai piedi del trono imperiale, con il capo scoperto e chino; fece un gesto di vassallaggio e obbedienza e, in tono sottomesso e prosternato, diede conto della spedizione.

«Padre», disse, «la conquista degli Huacrachuco è completata. Ho preso con me cinquecento mitimaes e ho lasciato sulle rive del Marañón cinquanta figli del Sole. L’audacia dei Quechua è stata eroica, per ottenere la resa di quella provincia, i cui giovani si sono difesi strenuamente, e, se non fosse stato per la decisione cui sono riuscito a indurre i loro anziani, con benefici e altre elargizioni, la sottomissione degli Huacrachuco sarebbe fallita…»

L’Inca rimase indifferente. Gli sguardi si rivolsero a lui, ansiosi di vedere l’effetto che avrebbero suscitato le parole dell’erede, il cui arrivo a Cuzco era inatteso. Non l’avevano lasciato presagire gli ordini recenti dell’Inca, né i risultati poco favorevoli che la spedizione aveva riportato fino a quel momento. I fuochi sui picchi, i chasquis, niente aveva annunciato un ritorno così improvviso.

«Dopo molte giornate attraverso la giungla», continuò Huayna Cápac, «ho attaccato i Chachapoya tra le loro mura e i loro fortini. Hanno fatto persino più resistenza degli Huacrachuco. Per tre lune ho assediato la città. Lì ho perso il grosso dell’esercito. I miei soldati sono morti abbattendo le selve che agli indigeni servivano da trincee e difese invulnerabili. Lì sono caduti anche molti reduci di Mauley Atacama. Ho replicato l’attacco. Cercando un altro lato meno inespugnabile, siamo saliti, di notte, girandoci intorno, fino all’altopiano di Chirma-Cassa…»

A quel punto, Huayna Cápac calcò nelle sue parole un accento di tragedia. La corte ascoltava attenta. Solo Túpac Yupanqui manteneva la sua aria stizzita, come sapendo in anticipo ciò che l’erede aveva da dire.

«In quella regione letale», aggiunse il principe, «ogni strategia era inutile, se non al prezzo di una grande abnegazione. In territori ignoti e assediati da una natura ostile, ho deciso di affrontare la strada maestra, quella di maggiore audacia e sacrificio. Così ho fatto, e ciò è costato trecento guerrieri del Sole, gelati dal freddo, alla vigilia del nostro ultimo e definitivo scontro col nemico. La battaglia in tali condizioni è stata impossibile. Ci siamo ritirati, siccome l’esercito era stato decimato, ho deciso, dopo un consiglio di guerra, di tornare a Cuzco…»

Così disse Huayna Cápac e si inginocchiò davanti a suo padre. L’Inca mutò aspetto e, in un attacco di collera, si stracciò le vesti, davanti alla corte spaventata, dicendo: «I figli del Sole sono stati ricacciati prima sulle montagne del Beni, da dove sono tornati a Mojos solo mille guerrieri dei diecimila che erano partiti, imbarcati su zattere preparate per due anni. Poi, all’inizio della conquista dei Chirihuana, hanno avuto paura dei selvaggi e dei cannibali. Dopo hanno ripassato il Maule, cedendo ai feroci Promoncae. E oggi, il figlio dell’Inca, il principe ereditario, nella sua prima campagna militare, ordina una ritirata vergognosa e interrompe così la conquista degli Sciri… Ebbene: niente più conquiste. Alle fatiche della pace!»

Túpac Yupanqui abbandonò la sua sedia d’oro e rientrò nei suoi appartamenti, seguito da Raucaschuqui. Gli altri rimasero indecisi sulla condotta da mantenere, dopo la sfuriata dell’Inca. L’erede si infilò nella sua testa di giaguaro e gettando il mantello su una delle spalle, con un gesto di rabbia e di dolore, si diresse al portico e sparì, seguito da due giovani huaracas, suoi luogotenenti nella campagna militare.

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L’esilio danzante di Marino Magliani https://www.carmillaonline.com/2017/06/21/lesilio-danzante-marino-magliani/ Tue, 20 Jun 2017 22:03:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38735 L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi, Exòrma Edizioni, Roma 2017, pagg. 178 € 14,50

di Mauro Baldrati

“Sono tra i cinquanta e i sessanta, più o meno l’età di mio padre quando sono nato. Ho smesso da tempo di fare cose importanti, e a parte questo, da stamattina ho ripreso a inseguire una rotta giovane.” cap. terzo, pag. 15

Pubblichiamo l’incipit del romanzo di Marino Magliani, quattro pagine sulle donne della Liguria, velocissime e infallibili cacciatrici di mosche anche mentre sono sedute, in stato di riposo. Chi, tra coloro che [...]]]> L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi, Exòrma Edizioni, Roma 2017, pagg. 178 € 14,50

di Mauro Baldrati

“Sono tra i cinquanta e i sessanta, più o meno l’età di mio padre quando sono nato. Ho smesso da tempo di fare cose importanti, e a parte questo, da stamattina ho ripreso a inseguire una rotta giovane.”
cap. terzo, pag. 15

Pubblichiamo l’incipit del romanzo di Marino Magliani, quattro pagine sulle donne della Liguria, velocissime e infallibili cacciatrici di mosche anche mentre sono sedute, in stato di riposo. Chi, tra coloro che hanno avuto la ventura di vivere in campagna, non conosce la compagnia invasiva e implacabile delle mosche?
L’autore, quasi con echi proustiani del Combray, rievoca i tempi che furono, i tempi perduti, forse sprecati, del suo destino di nomade, acquisito già nell’infanzia come figlio di un lavorante nei grandi alberghi. E’ uno straniero errante che passa dall’emisfero sub tropicale alla Spagna, al Portogallo, alla Francia, al Sud America, ma sempre con l’Unica Terra nel cuore e nel cervello, il suo punto fisso; quella Liguria un po’ arcaica e barbarica che ha lasciato da anni per vivere in una cittadina olandese sul mare del Nord, flagellata dal vento e dalla pioggia: “Vivere in esilio è svegliarsi all’alba, colazione, lavorare un’ora, poi tornare a dormire e risvegliarsi a metà mattinata. Un piede nudo sul pietraio del passato, l’altro su quello del presente, e il rumore che senti nella testa rigonfia di sonno sono i sonagli dei serpenti sotto le pietre.”
Cap.24 pagg. 53 – 54

“Mia madre era una formidabile sterminatrice di mosche. In paese la morte delle mosche dipendeva dalle donne, se quel giorno si decideva di prendere il tè da scià Rafelina, a morire erano le mosche della cucina di scià Rafelina. Non importa se giravano nelle stanze o in sala, prima o poi si sarebbero posate da qualche parte in cucina e scià Rafelina e le sue amiche le avrebbero uccise.
Era un paese stradale, a tratti l’asfalto seguiva le anse ghiaiose del torrente, con vicoli eternamente all’ombra, e panchine di pietra su cui d’estate sedevano donne di ogni età. Poi a una cert’ora le braccianti tornavano agli uliveti e al fresco restavano solo le vecchie.
Vedevo tutte quelle donne salire in colonna come formiche, su per le mulattiere che dividevano gli orti e le vigne, e sparire dietro il costone, per poi rispuntare un attimo, fin quando la fronda azzurra non inghiottiva definitivamente scalinata e colonna.
Le vecchie raccontavano che anticamente esisteva anche un secondo paese, poi erano arrivate le formiche e il fiume nero aveva divorato le case.
Le formiche mi sembravano molto meno furbe delle mosche, le formiche argentine ad esempio entravano e uscivano dalle stesse fessure e bastava spruzzarci un po’ di ddt per mandarcele a morire tutte quante. Le mosche invece certi pericoli li intuiscono e dove andava una non ci girava l’altra o ci arrivava per voli diversi.
Mia madre era la donna più buona della valle ed era una formidabile sterminatrice di mosche. Aveva imparato da sua zia, Lalla Tilina. Lalla Tilina stava seduta in cucina e tu non te ne accorgevi, ma lei mentre ti parlava, studiava le mosche, se erano nervose e avevano scoperto il cibo, una goccia d’acqua, lo zucchero. Quando una mosca si posava sul tavolo (le gambe verniciate di verde, il piano di marmo, con una tovaglia di plastica, corta e piuttosto sbiadita) lei apriva la mano, le dita larghe, e intanto che discorreva, succedeva: la mano si muoveva a rastrello, dava uno schiaffetto all’aria, le dita si chiudevano. La mosca veniva uccisa dal mignolo, schiacciata contro il palmo della mano e trascinata, finché il tatto non portava a Lalla Tilina notizie di strutture devastate.
La mosca era morta, e chi stava di fronte alla zia lo capiva dai suoi occhi che cercavano altri voli.
Erano bestioline tenaci e sulla loro solidità avevo fatto delle prove. Ogni tanto ne catturavo una anch’io e la sbattevo violentemente al suolo. La mosca accusava il colpo e rimaneva immobile una mezz’ora. Poi, come se niente fosse, si dava una scrollata e riprendeva il volo.
Chi non era veloce come Lalla Tilina, dal soffitto della cucina faceva pendere un paio di canne spalmate di vischio. Prima o poi le mosche ci toccavano e la sera le canne erano un nerume di ali e corpi magri di libellule, mosche, moscerini, zanzare.
Lalla Tilina era italiana, ma viveva a Nizza da molti anni.
Io immaginavo che la Francia fosse un paese pieno di insetti, un luogo di esercizio dove la popolazione poteva tenersi continuamente in allenamento.
Lalla Tilina mischiava dialetto ligure con italiano e dialetto nizzardo. Qualcuno diceva lo facesse apposta perché detestava passare per italiana. A volte pranzava da noi o noi da lei, e a tavola, tra una mosca e l’altra, raccontava del grandeur della Francia, di profumi straordinari, di magliette di marca, di cibi sconosciuti.
Presa, segnalavo io a mia madre che stava ai fornelli e si perdeva la scena. Mia madre si voltava e protestava, Lalla Tilina si andava a lavare le mani e per un po’ lasciava vivere le mosche.
(…)
Le mosche del torrente, dove d’estate noi ragazzi andavamo a fare il bagno – io non sapevo nuotare, una pietra – erano le più testarde, mordevano a tradimento, affondando la proboscide nei capillari. Erano talmente ghiotte di sangue che non si riuscivano più a staccare e la mano aperta le sorprendeva prima che si alzassero in volo. Cadevano in acqua, tramortite, e se la corrente non se le portava via, prima o poi le risvegliava il gusto del sangue e tornavano all’attacco. Annegarle era impossibile, ci avevo provato tenendole sott’acqua quattro o cinque minuti, ma quando le liberavo schizzavano fuori ancora più imbestialite. Per saperle davvero morte, una volta ridotte all’incoscienza, bisognava sfilare loro la testolina. A quel punto restavano a galla giusto il tempo di farsi tirare giù da un pesciolino.
A galla ci vivevano anche le cravemutte, le capremute, specie di insetti di cui non conosco il nome in italiano, innocue e lunghe, con quattro zampette, le madri portavano in groppa i piccoli.
Erano le cose che esistevano solo in dialetto, e se da tempo sono scomparse è perché sono intraducibili o sono come le mosche che le cerco nel posto sbagliato.
In Olanda le mosche non sanno dove posarsi e se ne vanno. D’estate, attorno agli stagni, sì, ce ne resiste qualcuna, prima o poi si perde e vaga fino a trovare una casa abitata, fornita di cibo, dove trascorrere agosto e settembre. Poi la prima notte fredda la paralizza. Non sono dure a morire come le mosche liguri, ma da morte si conservano più a lungo, e l’anno dopo le ritrovi in un angolo, sul dorso, le zampette all’aria, stecchite, ma come se aspettassero il sole.”

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Carlos Paz e altre mitologie private, di Marino Magliani https://www.carmillaonline.com/2016/03/18/carlos-paz-e-altre-mitologie-private-di-marino-magliani/ Thu, 17 Mar 2016 23:03:14 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28931 Magliani_cover[Pubblichiamo due estratti di racconti contenuti nell’ultimo libro di Marino Magliani, in libreria in questi giorni. Si tratta di storie autobiografiche ma non solo: testi fiabeschi, racconti di ambienti, di personaggi favolosi, in un tempo sospeso e in un luogo che forse non c’è. Il libro verrà presentato a Bologna, alla libreria Modo Infoshop Via Mascarella 24/b, domani, sabato 19 marzo, alle ore 19 con Mauro Baldrati; a Forlì, al Dipartimento di Traduzione dell’Università in Corso della Repubblica 136, alle ore 11; a Firenze alla libreria On The Road in Via [...]]]> Magliani_cover[Pubblichiamo due estratti di racconti contenuti nell’ultimo libro di Marino Magliani, in libreria in questi giorni. Si tratta di storie autobiografiche ma non solo: testi fiabeschi, racconti di ambienti, di personaggi favolosi, in un tempo sospeso e in un luogo che forse non c’è. Il libro verrà presentato a Bologna, alla libreria Modo Infoshop Via Mascarella 24/b, domani, sabato 19 marzo, alle ore 19 con Mauro Baldrati; a Forlì, al Dipartimento di Traduzione dell’Università in Corso della Repubblica 136, alle ore 11; a Firenze alla libreria On The Road in Via Vittorio Emanuele 32, alle ore 19 con Paolo Ciampi; al Rifugio Isera a Corfino (LU) Parco dell’Appennino Tosco Emiliano alle ore 15 (con camminata); a Genova, Museo Biblioteca dell’Attore, via del Seminario 10, ore 17,30, con il Presidente Eugenio Pallestrini, il prof. Eugenio Buonaccorsi e il prof. Vittorio Coletti.]

La pancia

(…) Ma lo scrittore non era neanche al museo, e allora l’uomo che cercava lo scrittore riprese a girare le strade e lungo i canali di Haarlem, e a tutti quelli che gli sembravano degli scrittori, o che leggevano un libro, che erano scrittori che leggevano o lettori che scrivevano, e ne incontrò moltissimi, anche donne scrittrici, gentili, con le calze rosse e i fianchi rotondi, che avrebbe preso volentieri alla pecora non fosse che cercava lo scrittore, egli chiese se avevano visto per caso lo scrittore delle panchine.
Gli rispondevano tutti la stessa cosa: lo scrittore che narra le panchine oggi non l’abbiamo visto, qui c’è lo scrittore che narra le lune, e quello che narra l’amore, e ce ne sono altri che narrano gli animali, e il Portogallo. L’uomo con la pancia prese nota e scoprì un mucchio di nomi di grandi narratori, Cavazzoni, Celati, Giacomo Sartori, Antonio Tabucchi, l’argentino che narrava i tassi mortiferi, Elio Lanteri, Vincenzo Pardini, Giorgio Vasta, e scoprì che lo scrittore delle panchine era Sebaste perché prima di quel giorno non sapeva che si chiamava Sebaste, in tanti anni non s’erano mai chiamati, si sedevano uno accanto all’altro e mentre parlavano si guardavano, oppure si aspettavano e quando uno dei due arrivava da lontano e l’altro era già seduto, si guardavano e basta. Oppure chi era seduto diceva all’altro: sei arrivato? Ma mai una volta che fossero arrivati assieme, tanto da salutarsi e chiamarsi per nome.
L’uomo con la pancia seguì le indicazioni e andò chiedendo fin quando non incontrò davvero Beppe Sebaste.
Era una mattina, era domenica ad Haarlem, e Sebaste stava seduto su una panchina di legno, in un parco. La panchina era più alta del normale e i piedi di Sebaste non toccavano per terra, ma dondolando sfioravano il pezzo di terra spelacchiata. Sulle assi scolorite c’erano delle incisioni. L’uomo con la pancia si avvicinò e lesse.
Te sei Sebaste, gli chiese poi. Sono Sebaste, rispose Sebaste.
Narri le panchine, domandò l’uomo con la pancia.
Sebaste abbassò le palpebre.
Ho capito, però te non sei lo scrittore che si sedeva sulla panchina di fronte alla mia finestra.
Perché no, potrei esserlo, dove si trova la panchina, in che piazza, di quale città?
L’uomo con la pancia disse il nome della piazza, e disse che la città era Haarlem, ma poi aggiunse: no, non sei tu.
Tornò a guardare la Sint Bavo e la panchina, il suolo infossato dove lui o Sebaste, il Sebaste che conosceva lui, posavano i piedi. Panchina vuota. Lo immaginava. Entrò in casa, andò rasente al muro per non restare prigioniero dello specchio, strisciò, ancata dopo ancata. Si rialzò, si tolse la giacca, poi ci pensò su un attimo e rifece gli stessi gesti, prese la giacca, scansò l’incontro con lo specchio, e a pancia a terra raggiunse la porta, uscì, andò a risedersi sulla panchina e per un attimo ebbe la strana idea che lo scrittore fosse lui, che non era mai stato lui, certo, troppo semplice, ma ora sì era l’uomo con la pancia lo scrittore. Ma non era lui, del resto non sapeva cosa scrivere, le panchine erano già di Beppe, le lune e i giganti di Cavazzoni, le amebe di Sartori, i giornalisti portoghesi di Tabucchi, l’albero e le vacche erano di Bravi, l’oceano e il ragazzo di Conte, i lupi di Pardini, il tempo di Vasta, persino il molo di Porto Maurizio era di uno, e scrivere il mare no, da casa sua non si vedeva. No, non era mica lui lo scrittore. Illusioni di biografia di una pancia, ma non lo scrisse.
Non era lo scrittore. Scrivere di donne messe alla pecora, o di cose del mondo, ma aveva troppi bei ricordi, e anche un po’ tristi, di quando era bambino, per mettersi lì a scrivere e non pensare ai ricordi, perché in fondo era felice se pensava alla sua vita, ricordava che la mamma a volte gli chiedeva se aveva la malinconia, e questa cosa, stranamente allora lo teneva lì, incollato a quella finestra a guardare fuori, e ora non sapeva perché ma questa cosa di stare alla finestra anche ora e di guardare la Sint Bavo non gli spiaceva.

Corsica Ferry

(…) D’estate lavoravo sul Corsica Ferry, il traghetto che porta i turisti da Genova in Corsica. Facevo il mozzo. Lavavo i piatti dei marinai, e il mattino e la sera, quando si sbarcava a Genova o si salpava da Bastia, aiutavo alla manovra girando il verricello.
A Bastia si arrivava verso il tramonto e io terminavo i lavori in fretta per uscire a fare un giro. Non mi era concesso di conoscere la città, la nave ripartiva mezz’ora dopo e mi avrebbe lasciato a terra. Riuscivo a malapena a passare il cancello e fare quattro passi fino a una piazzetta con una scala che conduceva a una chiesa, poi rientravo. Ma una sera, malgrado avessi preso ogni precauzione, tornai e la nave non c’era più. Chiesi informazioni ai doganieri e ai legionari che piantonavano l’ingresso al porto (a volte qualche soldato fuggito dalla Legione Straniera tentava di imbarcarsi sul Ferry). Dissero che era risalpata pochi minuti prima, e se salivo sullo spartivento la vedevo. Non ci potevo credere. Com’era possibile che il tempo fosse volato in quel modo? E la paura, che per tanto tempo mi aveva lasciato quietare, la paura di quell’orizzonte nudo con la sola sagoma del traghetto in lontananza mi assalì. Mi fu chiaro che era esattamente come sostenevano i dottori: c’era un tempo che non mi apparteneva, e se vivevo in quel tempo non avevo paura, anche se del vero tempo perdevo il controllo. Per questo avevo perso la nave. In effetti, quell’impressione, da bambino, di aver vissuto ogni tanto accanto al bambino impaurito, e in quel mentre non avere paura, la ricordavo bene. Mi era successo sugli ulivi, in collegio, ovunque, il tempo si fermava qualche istante e quando lo riprendevo mi scoprivo in ritardo per le cose della vita, entrare in classe, raggiungere un posto. Avevo dunque perso l’imbarco perché ero stato l’altro? Trascorsi la notte «corsa» a ragionare. Senza paura si vive mezzi contenti, scoprivo, ma ogni tanto appunto si perde la coscienza, avviene la frammentazione: saltano sequenze, si perde una nave. E ora come stai? A parte la sopraggiunta paura – mi trovavo su un’isola da solo, senza soldi, in maglietta, di notte ormai –, non stavo male, e il luogo era abbastanza piacevole. C’erano luci e musiche, lampadine colorate e pezzi di firmamento, piazze e scalinate, portici e musica, gente allegra, c’era l’avventura. La Corsica era questo. Le stradine in salita assomigliavano a quelle genovesi. Camminavo e continuavo a ragionare. La paura è la penisola di un’isola. E quando fui stanco di camminare cercai una panchina, ne trovai una in una piazzetta, e mi sedetti a guardare i giocatori di bocce nel campetto sotto i platani. Poi i giocatori raccolsero le bocce, le pulirono con lo straccetto e se ne andarono. Passandomi davanti mi dissero bonnenuit, jeune homme. Io risposi bonnenuit messieurs, e ricordai quando a Saint Maxime avevo imparato a nuotare. Dopo un po’ mi venne freddo e fame, e ripresi a passeggiare. Mi dissetavo alle fontane, guardavo le vetrine dei ristoranti che chiudevano e tornavo a sedermi su una panchina. Quando uscii dalla città albeggiava, rubai delle pesche in un orto, le mangiai senza lavarle, mi coricai in un prato, rannicchiato, e quando mi svegliai mi scaldava il sole. Entrai in un supermercato, ciondolante per la fame, misi un croissant nel cestino, ogni tanto ne strappavo un pezzo e lo divoravo infilandomi tra la gente, masticavo di nascosto un pomodoro, e dopo il croissant e il pomodoro divorai in pochi morsi una tometta di formaggio di pecorino corso. Mi chinavo per prendere delle cose basse, e via una dentata al pecorino corso, carta e tutto. Davo la colpa all’altro, quello che si assentava e non aveva paura, quello che aveva perso la nave. Rimisi le cose al loro posto, alla cassiera dissi che non compravo nulla. Poco distante c’era il mare, feci il bagno, mi sdraiai al sole e quando mi rivenne fame tornai a nutrirmi al supermercato, ma stavolta mi beccarono e mi sbatterono fuori. La sera, a capo chino, entrai nel porto e trovai il Corsica Ferry ormeggiato al suo posto. I marinai se la ridevano, dandosi di gomito. Il comandante mi fece chiamare sul ponte di comando e disse che mi sbarcavano, erano le regole della Marina, l’indomani mattina sarei passato all’agenzia marittima a Genova, in via XX settembre, dov’era la sede, a ritirare lo stipendio. La notte, seduto sulla sdraio a poppa, tra i turisti (un marinaio mi aveva portato la cena e una coperta), guardai le stelle e ascoltai a lungo il dondolio della nave. Lassù, chissà dove, dissi, vive l’altro che ogni tanto ti tira brutti scherzi.

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Multisegnalazione di letture https://www.carmillaonline.com/2015/07/01/multisegnalazione-di-letture/ Wed, 01 Jul 2015 20:03:08 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23738 di Alberto Prunetti

letterariaAAVV, Nuova Rivista Letteraria, nuova serie, numero 1, maggio 2015

Nuova serie della rivista fondata da Stefano Tassinari. Il proposito è quello di seguire, mappare ed estendere i fenomeni sociali del presente, facendo della letteratura – declinata in chiave sociale, contro ogni proposito narcisistico – uno strumento per sgonfiare i racconti del potere e per allargare le faglie dei conflitti sociali. Scrivere insomma per alimentare le lotte sociali, in un’epoca in cui, come scrive Wolf Bukowski, parafrasando Brecht, anche parlare di alberi ha un valore politico. Il numero in libreria, [...]]]> di Alberto Prunetti

letterariaAAVV, Nuova Rivista Letteraria, nuova serie, numero 1, maggio 2015

Nuova serie della rivista fondata da Stefano Tassinari. Il proposito è quello di seguire, mappare ed estendere i fenomeni sociali del presente, facendo della letteratura – declinata in chiave sociale, contro ogni proposito narcisistico – uno strumento per sgonfiare i racconti del potere e per allargare le faglie dei conflitti sociali. Scrivere insomma per alimentare le lotte sociali, in un’epoca in cui, come scrive Wolf Bukowski, parafrasando Brecht, anche parlare di alberi ha un valore politico. Il numero in libreria, monografico, è dedicato alle Grandi Opere Dannose Inutili e Imposte. Dalla Tav alle piccole e grandi opere inutili, spesso sconosciute, edificate per rovesciare cemento e sperperare soldi pubblici (facendoli guadagnare ai privati), mentre il dissesto idrogeologico del territorio non si combatte perché, come si dice, “non ci sono risorse”. Il numero è caratterizzato da un esemplare reportage narrativo di Wu Ming 1 che fa un paragone tra l’opera di Calatrava e la figura di Herzog. Alla fine, al lettore rimane l’impressione che Calatrava abbia il volto del Fitzcarraldo interpretato da Klaus Kinski (Herzog e Fitzcarraldo di grandi opere inutili se ne intendevano…). A oggi va segnalata l’ennesima opera estrattiva e”danniva”, come suol dirsi in Maremma: l’estensione degli impianti geotermici sul Monte Amiata, contro la quale i comitati ambientali si sono messi in moto, nella zona di Monticello (GR).

Serge Quadruppani, La politica della paura, sl, Lantana editore, 2013, pp. 146, euro 15, traduzione di Maruzza Loria

Un libro importante che torna attuale visto che le folate di emergenza securitaria riprendono a occupare le prime pagine dei giornali a ogni cambio di luna. Di recente c’è stato per esempio il “caso” dei rom assassini e prima, questioni di giorni,  quello del “tunisino terrorista arrivato dai barconi”. Il libro di Quadruppani relativizza, mette in contesto, storicizza l’uso politico e mediatico della paura. Permette di capire chi sono gli imprenditori politici di questo gioco. Chi sono i capri espiatori e che gioco hanno nei meccanismi che producono pace sociale.

Al centro del saggio c’è la questione del controllo, diventata una forma di guerra preventiva contro la popolazione. I civili sono il nemico interno, soprattutto i poveri, gli abitanti delle periferie e dei ghetti, i migranti, i non assoggettati. Si tratta di un trend che è cominciato in passato: giustamente Quadruppani cita l’esperienza contro-insurrezionale degli squadroni della morte francesi in Algeria, che poi hanno fatto scuola nelle accademie di contro-insurgenza attive in America Latina, da Panama all’Argentina (e qui stupisce vedere che anche un film onestamente militante come La Battaglia di Algeri di Pontecorvo sia stato prelevato e digerito dal sistema autoritario che pretendeva combattere: in Argentina i dittatori lo usarono per spiegare come occupare militarmente le città, trasformate in orizzonti di guerra preventiva). Guerra che continua ancora oggi, se pensiamo che la polizia americana nei primi mesi del 2015 ha ucciso quasi 400 persone. Cifre da bollettino di guerra. Guerra contro la popolazione civile condotta da parte di chi dichiara, sugli sportelli delle automobili, di “proteggere e servire”. A ragione quindi Quadruppani, che è un attivista dell’ultragauche francese, sostiene che la teoria di Hobbes dello stato come garante dei cittadini è falsa fin nelle fondamenta: lo stato vive grazie al terrore che inocula nei cittadini. Aggiungerei: se li protegge, li protegge come un racket criminale. Esigendo l’obbedienza in cambio della protezione.

Un’ultima osservazione: il saggio di Quadruppani (che di mestiere fa lo scrittore di  romanzi noir) è brillante e tagliente, nella migliore tradizione della critica radicale post-situazionista francese. Ha una visione della realtà conflittuale e critica. Domanda: quanti scrittori italiani di genere saprebbero scrivere con uno sguardo politico così acuminato?

cent'anniWu Ming 1, Cent’anni a nordest. Viaggio tra i fantasmi della “guera granda”, Milano, Rizzoli, pp. 272, euro 17

Un altro ibrido di Wu Ming 1 che estende un reportage narrativo scritto per Internazionale e soprattutto affina un ambito di ricerca coltivato a lungo su Giap, da lui e da un collettivo di ricercatori e lettori. Tanta carne al fuoco… eppure tout se tient. Eccome. Il nordest, la grande guerra, Trieste, i Balcani, la rimozione storica del colonialismo italiano. E poi il rossobrunismo e la fascinazione per Putin della nuova destra (ma è un virus che ha colpito anche a sinistra). Addirittura – e qui la cosa sorprende e fa sorridere – l’autore segnala un dibattito quasi patafisico sulle presunte origini trevigiane di Putin che è tutto da ridere. Un libro che conferma la grande capacità di Wu Ming 1 di fare debunking, di sgonfiare le retoriche tossiche che inquinano la sfera del discorso; di fare storia popolare, ovvero di rendere leggibile in maniera narrativa (e di rendere fruibile fuori dal dibattito specialistico) pagine di storia italiana scivolose, spesso trattate dalla storiografia accademica con una certa pesantezza. Direi di più: la forza di Wu Ming 1 come storico (di cui già avevamo avuto una dimostrazione in quel libro strano e affascinante che è Point Lenana) è di rendere la storia una questione problematica per il presente, di renderla palpitante, di evidenziare quanto lavoro politico (di rimozione, di introduzione di frame, di incapsulamento) venga fatto attorno alla memoria. L’autore di “Cent’anni a nordest” conduce il lettore sui sentieri proletari della storia, ti porta a scalare le montagne per demolire i revisionismi, per sottrarre il terreno sotto i piedi dei fasci e delle nuove destre, che da anni fanno della storia un terreno da riconquistare passo per passo. Di contro alla “memoria condivisa” ricostruita con operazioni quasi infami, quella di Wu Ming 1 è una memoria partigiana, faziosa e conflittuale. Ma è lettera viva e piena di compassione per gli ultimi del mondo, a cominciare da quei disertori e renitenti alla leva, da quei contadini trucidati sul Carso, che fuori da queste pagine di rado hanno trovato un riscatto.

Vanni Santoni, Muro di casse, Bari, Laterza, 2015, pp. 135, euro 14

Divertente e lisergico, scritto con un periodare che straborda flusso di coscienza alterata, questo ultimo lavoro di Vanni Santoni è un bel romanzo-inchiesta-memoriale sul mondo della musica techno e dei raver, che ha avuto un forte impatto in alcune subculture giovanili a cavallo del millennio. E’ servito anche a chi, influenzato più dal giro punk hardcore old school come me, faticava a capire come mai i Chumbawamba dal punk-folk fossero passati a musica da club; perché Penny Rimbaud dei magnifici Crass si interessasse alla techno; e perché i giovinastri rudeboys delle curve huligane di tutta l’Inghilterra, spinti fuori dagli spalti, cercassero felicità nelle campagne a colpi di cartoncini sotto la lingua; e infine perché gli svoltati di Edimburgo dei romanzi di Irvine Welsh siano finiti anche loro, nel mondo di carta del loro creatore, a ballare per notti insonni dietro ai ritmi di band dai nomi improbabili. Quanto a me, maremmione com’ero, il vino rimaneva la scelta migliore e l’unica chimica che maneggiavo era il rame nella vigna e il solfito (ma poco) in cantina, occasionalmente alternati con qualche infiorescenza di vedova bianca olandese, ma le cose che racconta Vanni aiutano a capire le scelte di amici che a un certo punto cominciarono ad appassionarsi a quella scena; anche quelle di una parte di movimento che, con riviste e occupazioni, ha seguito le zone autonome ed estemporanee dei rave. Bellissima prova di scrittura per Vanni Santoni, che inaugura una collana di Laterza dedicata agli ibridi narrativi, Solaris, di cui c’è un bisogno considerevole. Sono dell’idea che le opere di narrativa migliore negli anni a venire verranno proprio dalla commistione tra forme di esposizione narrativa che finora sono state tenute perlopiù separate.

Marino Magliani, Il canale bracco, Saluzzo, Fusta editore, pp. 127, euro 12

Ultimo titolo di una trilogia nordica che l’autore ligure, che da anni vive in Olanda, ha portato a termine negli ultimi anni, coniugando viandanza e curiosità da flâneur. Dopo i cortili nascosti di Amsterdam (Amsterdam è una farfalla) e il voyeurismo “galattico” di Soggiorno a Zeewijk (un quartiere popolare di IJmuiden, la cittadina dove Marino vive, in cui la toponomastica si ispira ai nomi delle stelle), questo volume segue un percorso fluviale che collega le enormi spiagge olandesi, battute dal vento, col porto di Amsterdam. Il risultato è impressionistico e avvincente. E non solo per chi, come me, ha avuto la fortuna di essersi trovato a camminare per una parte di quel canale con l’autore (che ha un passo formidabile). Pagina dopo pagina, il lettore si trova sulle spiagge, sopra le dune, nei rifugi bellici; segue la storia di pesci e uccelli ignoti e degli umani che lavorano nelle acciaierie o sviscerano pesce nelle aziende di trasformazione ittica a ridosso di un porto affacciato sul canale. Acqua che colma le pagine liquide di Marino Mariani, sentieri che tracciano geografie di un’erranza che tiene comunque sempre un piede, in un modo o nell’altro, nella natia Liguria. E il passo della penna non è meno incalzante di quello del camminatore.

Ricardo Piglia, L’invasione, Roma, Sur, pp. 187, euro 15, traduzione di Enrico Leon

Nell’ultima tornata di uscite di Sur il titolo più sorprendente è la raccolta di racconti di Ricardo Piglia. Si tratta di una riedizione (rivista e accresciuta) del titolo d’esordio dell’autore argentino. Un’opera che riesce a intersecare alla perfezione, racconto dopo racconto, sentimenti umani e grandi eventi storici. Esemplare in questo senso l’episodio in cui il bombardamento di Plaza de Mayo del ‘55, che provocherà la caduta di Perón, viene collegato alla gelosia maschile. Stupendo, per il suo tagliente colpo di scena finale, è il racconto “La fionda”, che posso solo definire come un monumento (per spregio) all’infamia. E poi c’è il primo racconto, aggiunto alla raccolta originaria, che narra l’amore paterno e maritale in una maniera inquietante, sul bordo di una violenza che non arriva mai ma che sembra di stare sul punto di esplodere.

L’uscita è accompagnata da altri titoli di pregio: Il pozzo di Onetti (Roma Sur, pp. 57, euro 7, traduzione di Ilide Carmignani) è la traduzione dell’esordio dello scrittore uruguaiano – che ben interpreta un genere che meriterebbe migliore attenzione, quello del romanzo breve – mentre Componibile 62 (Roma, Sur, pp. 316, euro 16, traduzione di Flaviarosa Nicoletti Rossini) è un classico di Cortázar. Infine si segnala la prossima uscita per lo stesso editore della collana dedicata alla narrativa angloamericana, intitolata – con riferimento beat – Big Sur.

Franco “Bifo” Berardi, Heroes. Suicidio e omicidio di massa, Milano, Baldini & Castoldi, pp. 243, euro 16

Un bel saggio che analizza la dimensione suicida della civiltà capitalista, dagli Stati Uniti del white trash ai paesi che subiscono processi di islamizzazione forzata. Nel mezzo c’è la fabbrica dell’infelicità del capitalismo globalizzato; i processi di territorializzazione identitaria che sorgono come corollario della globalizzazione astratta; le rigidità dei credi religiosi sorti dalla laicità americana imposta a colpi di drone; e poi la società della comunicazione virtuale che sposta i rapporti sociali nella dimensione dell’astrazione digitale, mentre non c’è più spazio per abbracci e contatti immediati. Un’opera piena di ottime intuizioni che racconta la dimensione letale del capitalismo, che vale per i banchieri di Wall Street come per i contadini indiani o gli operai cinesi che assemblano Ipad nella Foxxcon.

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Nuove uscite, da Tungsteno ai Kina https://www.carmillaonline.com/2015/03/22/nuove-uscite-da-tungsteno-ai-kina/ Sun, 22 Mar 2015 01:08:12 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21475 di Alberto Prunetti

tungsteno2César Vallejo, Tungsteno, Roma, Sur, 2015, pp. 137, euro 15, trad. di Francesco Verde

Ci sono libri che mascherano la realtà, la imbellettano e ne camuffano le contraddizioni; ci sono libri che svelano la realtà, ne descrivono la complessità, ne espongono le ferite. Quello di Vallejo non è un libro che maschera la realtà, non la camuffa, non stende veli di cipria sulla dura dinamica delle forze sociali. Siamo in Perù, nei primi decenni del Novecento, e i nordamericani si sono comprati un pezzo di montagna. Devono portare a termine i loro progetti e pertanto devono piegare la [...]]]> di Alberto Prunetti

tungsteno2César Vallejo, Tungsteno, Roma, Sur, 2015, pp. 137, euro 15, trad. di Francesco Verde

Ci sono libri che mascherano la realtà, la imbellettano e ne camuffano le contraddizioni; ci sono libri che svelano la realtà, ne descrivono la complessità, ne espongono le ferite. Quello di Vallejo non è un libro che maschera la realtà, non la camuffa, non stende veli di cipria sulla dura dinamica delle forze sociali. Siamo in Perù, nei primi decenni del Novecento, e i nordamericani si sono comprati un pezzo di montagna. Devono portare a termine i loro progetti e pertanto devono piegare la resistenza dei minerali e degli abitanti del posto. César Vallejo ci fa vedere con le parole il sangue della manodopera schiavizzata, la forza dell’estrattivismo e del colonialismo selvaggio. Insomma, ci parla delle vene aperte dell’America Latina ( e Tungsteno lo si può leggere a fianco del capolavoro di Galeano) Breve, incisivo, stupendo. Non condivido il giudizio rapido di C. Aíra che lo liquida come un testo ideologico. Certo, c’è una tesi ideologica forte, ma stilisticamente siamo ben oltre il realismo socialista: le pagine sul sogno febbrile di un personaggio hanno già connotazioni oniriche e quella terribile cavalcata a dorso di mulo che serve a trasferire e domesticare gli indigeni schiavizzati ha una forza visionaria che di rado la letteratura sa evocare e che si trova più spesso nell’arte delle immagini in movimento. E’ un realismo, quello di Vallejo, che sembra spingersi nell’iperrealismo e poi, per enfasi, nella deformazione caricaturale della società. Non a caso nel corso della lettura mi sono venute spesso in mente, nelle figure di quei militari e di quei borghesi crapuloni descritti dal poeta peruviano, i soggetti delle caricature di George Grosz e di Otto Dix. Sì, la realtà viene ripresa e gonfiata fino a trasformarsi in una caricatura iper-realista. Insomma, è un gran bel libro quello che Sur ha dato alle stampe, tutt’altro che convenzionale (A proposito, provate a leggere questo libro pensando alla Val di Susa e alla Grandi Opere Inutili dei nostri giorni. Sarà un bell’esercizio comparativo).

 

Rodolfo Walsh, Variazioni in rosso, Roma, Sur, 2015, pp. 235, euro 15, trad. di. Eleonora Mogavero

Quest’opera non è una di quelle che Rodolfo Walsh amava di più. E non è neanche una di quelle per cui è diventato uno dei più acclamati scrittori argentini del Novecento. Eppure questi tre racconti polizieschi, che potremmo definire “gialli”, sono importanti perché ci raccontano qualcosa di Walsh. Non solo parlano del suo autobiografismo (sono gialli risolti da un correttore di bozze, lavoro che Walsh ha esercitato per anni e che ritorna in un altro suo racconto, “Nota a pié”) ma illustrano la grande capacità che Walsh ha avuto nel porsi nei panni delle forze di polizia e nel carpirne le tecniche d’indagine. Capacità che poi gli è servita in seguito, quando ha cominciato a identificarsi, più che con la figura dello scrittore di gialli, con i panni del giornalista d’inchiesta e con quelli del guerrigliero. Così in questi tre racconti brevi l’autore argentino ci fa vedere con che meticolosa precisione si possa condurre un’inchiesta. Quale lavoro semiotico di inferenza si possa condurre con le prove, le tracce e le evidenze. E questa capacità gli servirà  in seguito per esplorare, raccontare e risolvere casi di omicidio (vedi Il caso Satanosky e il suo capolavoro, l’inchiesta di Operazione massacro). Ma gli servirà anche per decifrare un telegramma criptato dei servizi segreti nordamericani, trovarne la chiave crittografica e svelare un tentativo di invasione di Cuba orchestrato dai democratici americani. E infine, in anni in cui Walsh, sotto la dittatura, entrerà in clandestinità nelle fila dei montoneros, questa sapienza investigativa gli consentirà di muoversi sotto copertura (cosa che aveva già fatto come giornalista, quando scriveva con una pistola in tasca e un’identità falsa, anticipando di anni lo stile di Gunter Wallraff) ma anche di infilare nel corpo della bonaerense, la polizia di Buenos Aires, un suo uomo. E non solo. Gli permetterà di inserirsi sulle onde radio della polizia argentina per guidare i suoi compagni di guerriglia lungo strade sicure; lo aiuterà a compiere azioni dirette contro i milicos e di allestire un’agenzia giornalistica clandestina. Tutto questo, fino all’ultimo dei suoi giorni, seppe fare Rodolfo Walsh. Chi l’avrebbe detto che quel correttore di bozze occhialuto e stempiato sarebbe divenuto la minaccia vivente dei golpisti. Eppure il suo violento oficio di escribir comincia con questi tre racconti che sono scritti con gli artifici retorici delle detective-story inglesi. Ma qui non siamo a prenderci il thé a Cambridge, siamo in Argentina, e il gioco si farà presto duro.

[Nota: assieme a questi due titoli integra l’uscita di Sur un romanzo di Tomás Eloy Martínez: Purgatorio (Roma, Sur, 2015, pp.283, euro 15, a cura di Francesca Lazzarato). Non ho ancora avuto modo di leggerlo ma dopo aver già letto con grande entusiasmo due titoli di questo autore che considero fondamentali per come ha narrato la storia dell’Argentina, ovvero Santa Evita e La novela de Perón, mi sento nella posizione di nutrire verso questo titolo ottime aspettative].

 

pereiraMarino Magliani e Marco D’Aponte, Sostiene Pereira, Latina, Tunué, 2014, pp. 172, euro 19,90

Marino Magliani ha sceneggiato il romanzo di Antonio tabucchi e il risultato è davvero bello. Morte e vecchiaia da un lato e impegno politico e resistenza umana dall’altro, nel Portogallo che sta per scivolare nella stessa catastrofe politica della Spagna franchista. Anche le tavole di D’Aponte, stilizzate e lontane dall’iperealismo, contribuiscono a dare corpo al significante iconico, riuscendo in maniera esemplare a tradurre l’opera dalla cifra testuale a quella grafica. Un adattamento che funziona alla perfezione.

Paul Avrich, Ribelli in paradiso, Roma, Nova Delphi, 2015, pp. 382, euro 15

Avrich è uno dei più importanti storici dell’anarchismo. A cominciare dal suo saggio su Kronstadt, la sua opera è caratterizzata da estremo rigore nell’uso delle fonti e da uno stile espositivo rigoroso ma estremamente leggibile. Quest’opera, dedicata al movimento anarchico nordamericano, non tradisce le aspettative. Anzi: non si limita a una storia giudiziaria della vicenda di Sacco e Vanzetti ma riesce a ricostruire un pezzo di storia sociale dell’emigrazione politica italiana dei primi del Novecento. Il volume è stato tradotto  e curato da Antonio Senta, che ha provveduto anche ad adattare con le note del traduttore le citazioni al repertorio bibliografico italiano.

Céline Minard, Per poco non ci lascio le penne, Roma, 66THAND2ND, 2014, pp. 245, euro 18

Mi ha sorpreso questo ritorno al west, che passa da una scrittura tagliente, da una concreta perizia nel maneggio dei cavalli e da una profondità psicologica dei personaggi femminili (che nel western tradizionale erano relegati a personaggi sbiaditi: vecchie stregone papago o belle maliarde assassine, se non povere fanciulle abbandonate da salvare). Come lettore ho faticato a riavvicinarmi al western perché ne avevo fatto overdose nella mia infanzia e ho provato qualcosa di simile a chi, avendo smesso di fumare, sente il fumo delle sigarette. Prima ne è disgustato, poi attratto. In breve, quella della Minard una bella prova di scrittura, anche se ho faticato a farmi trascinare dal ritmo del suo plot. Dopo Corman McCarthy, è la seconda volta negli ultimi anni che mi avvicino al western da lettore e, anche se non ho provato le stesse profondità abissali di Cavalli selvaggi nella lettura del romanzo della Minard, si tratta comunque di un’opera che potrebbe rilanciare un genere che in passato è stato esplorato e abusato fino alla consunzione.

Giampiero Capra e Stephania Giacobone, Come macchine impazzite, Milano, Agenzia x, 2014, pp. 249, euro 15

A metà anni Ottanta il punk italiano aveva già superato la sua fase nichilista. Prima di spengersi, o di trasformarsi in hardcore, o di scomparire a colpi di rap, una band italiana che entrò nel cuore di tanti furono proprio i Kina. Montanari e provinciali, suonavano con canzoni in italiano che conservavano una base melodica. Anche il loro modo di vestirsi aveva qualcosa da boscaioli, più che da giovani ribelli delle periferie metropolitane. Insomma, per chi come me veniva dalla provincia rurale, per chi gli anfibi li usava non per moda ma perché il babbo li portava dal cantiere e le camicie a quadri non erano ancora un simbolo grunge ma un modo di vestirsi adatto alla campagna, i Kina erano davvero il gruppo da ascoltare. Il loro hit “Questi anni” lo cantavamo a scuola appena la campanella ci concedeva un attimo di requie. “Se ho vinto se ho perso” è uno dei pochi vinili che conservo con cura e dedizione. Insomma, questo libro è la loro storia, ma è anche un pezzo di memoria di chi, come me, li ha ascoltati per anni, adorandoli. Per la cronaca, dalle mie parti il punk si adattava al giro rurale grazie alla figura del buttero-punk, detto anche maremmione, che faceva cover dei kina ingoiando le c. E nella scena punk del periodo ricordo con nostalgia Grostock, un evento punk sulle sponde dell’Ombrone, e un altro concerto sulle pendici dell’Amiata in cui i butteri-punk si misero a zappare la vigna, ubriachi, a metà nottata, per avere un vino migliore alla prossima stagione. Insomma, la storia del punk italiano non è tutta metropolitana e le memorie de bravissimi Kina ce lo dimostrano appieno.

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Le Aguafuertes di Roberto Arlt https://www.carmillaonline.com/2015/01/27/le-aguafuertes-di-roberto-arlt/ Mon, 26 Jan 2015 23:03:32 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=20196 di Mauro Baldrati

Arlt3Roberto Arlt, Acqueforti di Buenos Aires, traduzione di Marino Magliani e Alberto Prunetti, Del Vecchio Editore, Roma 2014, pp. 304, € 15,00

L’acquaforte è una tecnica pittorica che si basa sull’incisione di una lastra di metallo (zinco) per mezzo di acidi, creando una sorta di negativo che poi viene stampato a torchio su carta grossa. Si creano immagini ricche di linee, di contrasti, immagini essenziali eppure “forti”, spesso con atmosfere fantasmagoriche, in parte favorite dalla tecnica di realizzazione. Hanno utilizzato l’acquaforte i fiamminghi, Rembrandt, Van Dyck, gli spagnoli, Goya, de Ribera, ma anche Dürer, Morandi, Picasso, Chagall.

Roberto Arlt, scrittore [...]]]> di Mauro Baldrati

Arlt3Roberto Arlt, Acqueforti di Buenos Aires, traduzione di Marino Magliani e Alberto Prunetti, Del Vecchio Editore, Roma 2014, pp. 304, € 15,00

L’acquaforte è una tecnica pittorica che si basa sull’incisione di una lastra di metallo (zinco) per mezzo di acidi, creando una sorta di negativo che poi viene stampato a torchio su carta grossa. Si creano immagini ricche di linee, di contrasti, immagini essenziali eppure “forti”, spesso con atmosfere fantasmagoriche, in parte favorite dalla tecnica di realizzazione. Hanno utilizzato l’acquaforte i fiamminghi, Rembrandt, Van Dyck, gli spagnoli, Goya, de Ribera, ma anche Dürer, Morandi, Picasso, Chagall.

Roberto Arlt, scrittore argentino nato nel 1900 e scomparso nel 1942, ha utilizzato le acqueforti, ma con la scrittura. Incisioni letterarie, scritte dal 1928 all’anno della morte e pubblicate sul quotidiano El Mundo, per il quale erano diventate una rubrica molto seguita, tanto di creare vere e proprie file di lettori che aspettavano l’uscita del giornale.

Arlt era un giornalista-scrittore, e questi testi brevi, di lunghezza standard, costituivano una parte del suo lavoro. Ma lo stile utilizzato – che si discostava decisamente dallo “stile medio” argentino, che Arlt ha più volte ridicolizzato – un misto di ironia, racconto, invettiva, con echi poetici e immaginifici, li hanno ben presto configurati come testi letterari, tanto da essere definiti uno dei suoi capolavori, come i romanzi I sette pazzi (1929) e I lanciafiamme (1931). E Arlt, personaggio per certi aspetti misterioso, per non dire epico – polemista, autodidatta, con un passato di vagabondo, dopo essere stato espulso a otto anni dalla scuola perché turbolento – “per la mia felicità”, scrive egli stesso nell’aguafuerte Non è colpa mia – è diventato uno degli autori di riferimento per molti scrittori di origine latino americana, primi fra tutti Garcia Marquez e Borges.

In questi articoli-racconto l’autore vaga per Buenos Aires – nel senso che esplora la città della sua epoca – e sembra prendere appunti di viaggio, come se avesse una macchina fotografica letteraria, o un torchio per stampare le sue aguafuertes. Traccia ritratti di personaggi, li cataloga, quasi sempre tipi molto caratteristici, esponenti di quella fauna metropolitana di strada di una grande città in rapida trasformazione, che trasferiti nei nostri tempi non hanno perso nulla della loro vivacità. E anche della loro attualità, rafforzando così l’opinione che l’artista ha la capacità di toccare corde universali, che attraversano i tempi e le mode. Descrive luoghi, abitudini, scatta istantanee di angoli nascosti, ne approfitta per analizzare i comportamenti umani, individuare stranezze, piccole miserie e infelicità, sempre col suo stile apparentemente leggero, in realtà graffiante, qua e là sarcastico, ma anche affettuoso. Si avverte il suo sorriso mentre ritrae L’uomo con la canottiera fuori dai pantaloni, quel giovane perennemente sfaccendato che nelle torride giornate di Buenos Aires se ne sta seduto in cima alla scala di casa, “solitario, la canottiera fuori dai pantaloni, i baffi girati in su, faccia malinconica, chioma nera, con le espadrillas ai piedi schiacciate sui calcagni”. E’ il “Guardiano della Soglia”, mentre la moglie, stiratrice, sgobba tutto il giorno. Oppure gli innamorati nel Parco di Rivadavia, sorpresi nelle loro effusioni durante le gelide giornate di pioggia, incuranti delle panchine bagnate, del vento, perché non esiste nulla all’infuori del loro amore, mentre Lo scapolone tremante e sbalordito cammina con la testa incassata nelle spalle. Proprio lui, l’autore, mescolando verità e finzione, poesia sociale e selfie, entra a gamba tesa nel Monologo dello Scapolone, che qua e là ricorda L’Antologia di Spoon River per quella voce sola che sembra alzarsi nel silenzio del deserto: “Credo nell’amore quando sono triste, mentre quando sono contento guardo certe donne come se fossero le mie sorelle, e mi piacerebbe poterle fare felici, anche se non posso nascondermi che un pensiero del genere è davvero una sciocchezza, già che è impossibile che un uomo faccia felice una donna, immaginiamoci tutte.”

Le Acqueforti spaziano in molte direzioni, campionano dialoghi, descrivono luoghi che stanno scomparendo, divorati dalla città che si espande, spesso con uno stile che sembra ricalcare la tecnologia, come in Gru abbandonate nell’isola di Maciel, un incisivo ritratto di archeologia industriale: “Guardando ovunque, attorno alle venti gru, infilate come condannati a morte, non si nota altra realtà che quella della paralizzazione della vita”. Usa diversi registri, mette in poesia la mitopoiesi del suo tempo, analizza filologicamente il lunfardo, lo slang di Buenos Aires derivato da una contaminazione dello spagnolo coi dialetti italiani.

In questa fusion stilistica/contenutistica non mancano battute sarcastiche sulla corruzione che avanza, parallelamente con lo “sviluppo”: “Se io fossi consigliere di un partito, non scriverei affatto articoli, ma mi dedicherei a fare truculente sieste e accordarmi con tutti quelli che avessero bisogno di un voto per vedersi approvare ordinanze che farebbero loro guadagnare milioni”.

Basterebbe questa aguafuerte per fare di Roberto Arlt uno scrittore attuale, perché è proprio dalla capacità di sintesi, dal coraggio di indignarsi e dal rendere creativo il proprio sarcasmo, mettendo in gioco se stessi, che si perpetua la vera modernità.

[Acqueforti di Buenos Aires sarà presentato domani, 28 gennaio, alla libreria Trame di Bologna (Via Goito 4c) alle ore 18. Mauro Baldrati intervisterà Marino Magliani]

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Fernando Velázquez Medina: ULTIMA RUMBA ALL’AVANA https://www.carmillaonline.com/2014/08/29/fernando-velazquez-medina-ultima-rumba-allavana/ Fri, 29 Aug 2014 21:29:35 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=16975 [Riceviamo dal traduttore un brano di Ultima rumba all’Avana, appena pubblicato da Il Canneto (Genova, 2014, pp. 212, euro 15, traduzione di Marino Magliani)]

UltimaRAvCinque o sei isolati più all’interno, in quello che una volta era un animato centro, fra Concordia e Galiano, svoltiamo di nuovo verso Águila e parcheggiamo, seguendo le indicazioni di Fermín, su un lato del cinema America. La libreria è in una casa privata e fin da quando ci mettiamo piede possiamo constatare che la maggior parte dei clienti sono stranieri: anziani con un aspetto prospero, da coloniali, accompagnati [...]]]> [Riceviamo dal traduttore un brano di Ultima rumba all’Avana, appena pubblicato da Il Canneto (Genova, 2014, pp. 212, euro 15, traduzione di Marino Magliani)]

UltimaRAvCinque o sei isolati più all’interno, in quello che una volta era un animato centro, fra Concordia e Galiano, svoltiamo di nuovo verso Águila e parcheggiamo, seguendo le indicazioni di Fermín, su un lato del cinema America. La libreria è in una casa privata e fin da quando ci mettiamo piede possiamo constatare che la maggior parte dei clienti sono stranieri: anziani con un aspetto prospero, da coloniali, accompagnati da fidanzate (o fidanzati, come preferite), giovani con la pelle tersa e i capelli brillanti, occhi verdi che denunciano l’incrocio delle razze, negre lucide, meticci gigolò che accompagnano mature europee, bambine sorvegliate da mammà, affettuosamente unite al padrino di turno. Un uomo snello dai capelli bianchi e dai gesti affettati chiacchiera con un ragazzo robusto dai capelli ricci: una furtiva lacrima…  ascolto fra educati bisbigli. Sugli scaffali ci sono stampe di pittori antillani, Zaida del Río, Chocolate, una foto di Silvio Rodríguez, fatta da Gori, coglie il cantante mentre volta il viso verso il fotografo che sta alle sue spalle e intanto, di fronte, un pubblico di giovani ruggisce. Il nano e la Monca si sono uniti al signore distinto che parla di opera e salutano il giovane dai capelli lisci. Fermín e io guardiamo libri dai prezzi utopici: Nadja di Breton, nell’edizione di Joaquín Mortiz; José Trigo di Fernando del Paso, edito da Siglo XXI così come Poesía en movimiento,  classica antologia di don Octavio e Alí Chumacero.

In un angolo, rosicchiata dai topi, la Balada del barrio dorme il sonno dei dimenticati, anche se mastica perfettamente il linguaggio popolare. Vedo un’edizione italiana di Tres tristes tigres, con foto in prima e quarta di copertina di Jessie Fernandez, anche se Chino Lope giura e spergiura, mentre si fa invitare a pranzo o fuma le tue sigarette, che sono così poco sue come quelle di Lezama, Cortázar e Roque Dalton, del quale si racconta che una volta, vedendosi arrivare in casa il Chino a notte fonda, lo invitò a cena. Impressionato, Lope chiese un sigaro e poi di fare un bagno. Uscendo dal bagno, Chino gli chiese dieci pesos e quando già era sulla porta, sazio, lavato e arricchito, quel figlio di mignotta di Roque gli chiese se non gradiva salire a farsi anche sua moglie, in modo da andarsene con il servizio completo.

C’è un grosso tomo che mi interessa. Si intitola Fin de siglo en la Habana e racconta, a quanto vedo, gli anni duri cominciati con la morte di Ochoa e il gemello di Tony de la Guardia. I ritornelli l’hanno cantato mille volte: uccidere gemelli porta sventura. Rimetto a posto il libro e spio cosa sta sfogliando Fermín: un libro rilegato, piccolo, come una Bibbia, con pagine finissime. Mi affaccio al di sopra delle sue spalle, lui se ne accorge e chiude il librino. Lo guardo senza capire e lui mi spiattella che il Profeta, la pace sia con lui, ha proibito che le donne leggano il libro sacro, la madre di tutti i libri. Tante storie per il Corano, che ho già letto mille e una volta nella biblioteca dell’ambasciatore!

Fermín continua a raffinarsi con il Libro, e io faccio scorrere lo sguardo su ben noti in folio: Cimarrón di Miguel Barnet, Il palazzo delle bianchissime puzzole, di Arenas, pubblicato a Caracas da Monte Ávila, l’edizione commentata e annotata di Paradiso fatta da Aguilar, un libricino di poesie di Alfonso Reyes dedicato a Labrador Ruiz, l’edizione principale di La sangre hambrienta, squinternata e fragile.

“Questa edizione, curata da Félix Ayón II, consta di novecento copie su carta antica e cento, numerate e fuori commercio, in carta di lino. Finito di stampare il 30 marzo 1950 nelle officine di Ayón, stampatore in L’Avana, Cuba”. È quanto sta scritto nel colofone.

La prima pagina, tenuta su da uno scotch, porta scritto in inchiostro blu ancora leggibile: “A Edo Abela Con grande stima Labrador Ruiz”. Lo decifro facendo un po’ di fatica: A Edo. Abela Con grande stima. Labrador Ruiz. Mi dà fastidio che due parole comincino con la minuscola, ma ognuno scrive come gli pare, e se non siete d’accordo guardate Juan Ramón Jiménez.

Lì vicino ci sono i racconti di Virgilio Piñeira, nella collezione Bolsilibros Unión, 1964 e, dorso contro dorso, la settima edizione corretta e aumentata di CUBA, Dittatura o Democrazia, Siglo XXI Editori. La copertina è di Ricardo Harte, forse un eteronimo di Armando Hart: due contadini sudati e sporchi di grasso inerpicati su un trattore. Fra loro sta seduto un piccolo campagnolo, magari è Reinaldo Arenas quando era borsista del governo. Dunque la ben nota democratica cilena Maria Harnecker ha diretto la produzione dell’originale. Grazie alla geniale supervisione di suo marito, l’egregio liberale Manuel Piñeiro Losada, il comandante Barba Rossa, coordinatore di tutte le guerriglie dell’America Latina, la democrazia cubana è arrivata fino in Nicaragua e Mozambico, Angola e Yemen. Disgraziatamente, quegli slealissimi popoli hanno adottato i vizi del capitalismo: mangiare tre volte al giorno, comperare i vestiti che preferiscono e fare a meno dei discorsi che durano dieci ore. Manica di lacchè!

Nascosto in uno scaffale trovo un libro di John Grisham, Il rapporto Pelican; scelgo Congo di Michael Crichton e La quinta nave dei folli, di Manuel Pereira, che ha avuto il premio nazionale della critica nel ’90, mi pare. Vado a pagare trentacinque dollari quando mi cascano gli occhi su un libro di poesie che assicura che fuori sta piovendo, ma alle finestre non si vede neanche uno spruzzo di saliva. Forse l’autrice sta a Parigi sotto un acquazzone, e da qui le sue previsioni metereologiche sballate.

Mi presentano al signore con ciuffo candido e al suo interlocutore, giovane aspirante a cantante d’opera. Lo straniero parla di peste, non la puzza della città, no: la Peste di Camus. Io preferisco i Moschettieri, dico. E tutti, compresi quelli che non sanno di che cosa sto parlando, mi guardano come una chichimeca,  una barbara, ignorante e zotica. Sorrido solo da un lato della bocca e un sospiro di sollievo collettivo sottolinea il mio gesto interpretandolo come una boutade, uno scherzo, una provocazione culturale. Tutti si rilassano vedendo che non insisto a mettere Dumas più in alto di Camus, Karl May (uno degli pseudonimi di Carletto Marx) più in alto di Goethe, Frankenstein sopra a Re Lear, David Bussi sopra Francisco Garzón Céspedes, Corín Tellado sopra Carmen Martín Gaite, Françoise Sagan sopra la Yourcenar.

Di dove sono i cantanti? Per un attimo mi sembra che qualcuno, in modo incongruo, l’abbia chiesto. Ah! Sta parlando di Severo Sarduy, dei suoi romanzi illeggibili, splendidi. Un signore si unisce al discorso affermando che Donoso scrisse Terra Nostra per emulare Carpentier. Immagino che un ceco sotto mentite spoglie ne concluderebbe che di questi tempi si può scrivere solo alla maniera di Kundera. García Márquez è morto, a mia insaputa, dopo aver scritto Cade la notte tropicale, ma questo non è un libro di Guillermo Cabrera Infante? Quello che più mi ha colpito è L’osceno uccello della gioventù… no, no Il dolce uccello della notte, correggersi è cosa saggia. Si discute se Alejandra Olmos dettò o compose realmente Sobre heroes y turbamultas. A proposito: Nadja divenne l’amante di Paul Eluard e in seguito visse insieme ad Aragón con lo pseudonimo di Elsa Triolet.

Tiro fuori il mio ormai frollato numero della polacca che ai tempi di Stalin mise quattro libri russi in vetrina nella libreria del paese: Tutti vogliamo essere, Lontano da Mosca, Oltrefrontiera, Sotto altre bandiere. Per la sua alzata d’ingegno ottenne un viaggio: a prendere il sole sulle spiagge della Siberia. Ridono, di gusto o non di gusto, con risate veloci, le orecchie ferme per sentire il pericolo, cercando di sniffare un potenziale poliziotto, un delatore o semplicemente un bravo cittadino desideroso di ottenere una borsa di studio all’estero per suo figlio, perché possa disertare.

In un angolo vedo dei cartoncini con disegnati dei cavalli che corrono liberi, con la criniera al vento. Sono firmati Zaida del Río. Ricordo che anch’io possiedo dei disegni suoi, li ho lasciati in casa di amici. Ritraggono vergini in diversi atteggiamenti, nude ma con il volto velato, abbozzi un po’ casuali che si srotolano fin sui bordi del cartoncino. Un pomeriggio di luglio al “Caimàn”, Zaida chiacchierava e disegnava, appoggiata alla scrivania di Peyi, e le piccole femmine venivano fissate su quella opaca superficie. Appena Zaida uscì ci lanciammo tutti all’assalto, le rapimmo, e il mio bottino si ridusse a due cartoncini con quelle figure che chiamo vergini.

La libreria è diventata un mercato arabo, il rumore di fondo, il bisbigliare educato copre le voci di ciascuno e già non riesco a capire cosa dice il giovane dai bei ricci su Saffo, Albertine e altri personaggi femminili. L’odore di pergamena polverosa si mescola con qualcosa di dolce che impregna l’ambiente, profumo da puttane che non emana dal mio corpo; questo posto non mi piace più, preferisco continuare il viaggio verso Alamar.

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