Maria Callas – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 18 Sep 2025 21:55:33 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Anatomia del potere nel teatro di Pasolini https://www.carmillaonline.com/2022/06/26/lanatomia-del-potere-nel-teatro-di-pasolini/ Sun, 26 Jun 2022 21:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72726 di Paolo Lago

Georgios Katsantonis, Anatomia del potere. Orgia, Porcile, Calderón. Pasolini drammaturgo vs Pasolini filosofo, Metauro, Pesaro, 2021, pp. 298, euro 22,00.

La dimensione del corpo è indubbiamente fondamentale nell’intera opera di Pasolini: nella poesia, in cui spesso ad essere rappresentato è lo stesso corpo del poeta, rivestito della sua dimensione fisica più autentica, senza filtri estetici; nella narrativa, da Ragazzi di vita, in cui la stessa città di Roma sembra trasformarsi in corpo che cresce e soffre insieme ai corpi dei ragazzi sottoproletari, fino a Petrolio, in cui il [...]]]> di Paolo Lago

Georgios Katsantonis, Anatomia del potere. Orgia, Porcile, Calderón. Pasolini drammaturgo vs Pasolini filosofo, Metauro, Pesaro, 2021, pp. 298, euro 22,00.

La dimensione del corpo è indubbiamente fondamentale nell’intera opera di Pasolini: nella poesia, in cui spesso ad essere rappresentato è lo stesso corpo del poeta, rivestito della sua dimensione fisica più autentica, senza filtri estetici; nella narrativa, da Ragazzi di vita, in cui la stessa città di Roma sembra trasformarsi in corpo che cresce e soffre insieme ai corpi dei ragazzi sottoproletari, fino a Petrolio, in cui il corpo emerge nei suoi aspetti più strettamente legati ad un eros annientatore; nel cinema, in cui ad essere rappresentati sono i corpi di sottoproletari votati al sacrificio, come Accattone, Ettore o Mamma Roma, o quelli di personaggi inseriti in un «carnevale di stili e di sessi», come ha scritto Barthelemy Amengual a proposito di Medea. Sicuramente, anche nel teatro pasoliniano il corpo riveste un ruolo di primo piano, basti ricordare questi versi di Calderón: «Tu sei qui perché hai un corpo. / Senza corpo non ci sarebbe vergogna, sofferenza e morte, / e quindi non ci sarebbe espiazione». Adesso, ad analizzare la ‘funzione-corpo’ nel teatro di Pasolini, interviene un ricco e ben documentato saggio di Georgios Katsantonis, oggetto del quale non è tanto «definire la centralità del corpo» nel teatro dell’autore, quanto invece «capire come essa si esprima e quali segni emetta».

Il saggio si concentra su tre tragedie di Pasolini: Orgia, Porcile e Calderón. Come specifica l’autore, «l’analisi condotta indaga i seguenti snodi tematico-testuali: 1) il corpo in preda al desiderio sadomasochistico (Orgia), 2) il corpo con la sua viscerale motivazione erotica che sconfina nella zooerastia (Porcile), 3) il corpo imprigionato tra scissione e visionarietà (Calderón)». Le tre opere selezionate «illustrano un tentativo di lettura del potere nelle sue varie declinazioni simboliche», con lo scopo «di far risaltare la concezione filosofica e l’impegno politico che si nascondono dietro le drammaturgie pasoliniane». Viene quindi attuata una vera e propria «anatomia del potere» nelle tre opere teatrali di Pasolini dimostrando come, in esse, sia lo stesso potere a manovrare i corpi degli individui: un potere, come quello della società dei consumi del neocapitalismo, che assume connotazioni simboliche che lo avvicinano a quello attuato da dittature sanguinarie come il fascismo e il nazismo.

L’analisi di Katsantonis parte da Orgia, un’opera teatrale composta (come le altre) nel 1966, l’unica allestita da Pasolini stesso. I due protagonisti, l’Uomo e la Donna, marito e moglie, sono chiusi nella loro camera borghese e praticano esperienze sadomasochiste «per scoprire una nuova libertà all’interno della prigionia sociale». Entrambi sono desiderosi della morte e si uccidono, «trascinati nella confusione tra vittima e carnefice dalle loro pulsioni oscure e violente». L’autore prende in esame Orgia mediante un’ottica comparata, a partire da una lettura della Philosophie dans le boudoir di Sade. Questo rapporto erotico basato sul sadomasochismo, sullo scambio di ruoli fra vittima e carnefice, assume le connotazioni metaforiche di una riflessione critica sulla società e sul potere. Il corpo appare schiavo delle dinamiche imposte da quest’ultimo, all’interno di un feticismo che diviene anche e soprattutto feticismo delle merci. Gli oggetti dell’adorazione feticistica – che rappresentano le merci nella società consumistica – sono diventati le catene che schiavizzano i corpi dei personaggi, nello stesso modo in cui l’adorazione della merce schiavizza i corpi degli individui all’interno della società neocapitalistica. Se l’Uomo appare totalmente schiavizzato nel corpo da questo rapporto feticistico dominato dal potere, la Donna assume diverse connotazioni di resistenza a quello stesso potere. Infatti, come nota lo studioso, spesso, «le donne nell’opera di Pasolini rappresentano l’elemento di rottura e di resistenza alla corruzione e all’ideologia dominante della società. Hanno un ruolo socio-politico eversivo che definisce una figura frequente nel cinema e nel teatro pasoliniano: quello della vittima del Potere, in cui si crea anche una sorta di parallelismo tra il “diverso” e la donna». Possiamo ricordare Anna Magnani-Mamma Roma, figura materna e prostituta (le prostitute, infatti, secondo Sade – e non da ultimo anche secondo Pasolini – come scrive l’autore, «sono le uniche donne degne di rispetto e le più sagge»), oppure Medea, interpretata da Maria Callas, vera e propria rappresentante del sacro nella società desacralizzata della Grecia in cui regna Creonte e nella quale viene condotta da Giasone, una società che rappresenta la razionalità della moderna borghesia; oppure, ancora, Silvana Mangano-Lucia in Teorema (1968) o, nello stesso film, Emilia, interpretata da Laura Betti, l’unica che, toccata dalla sacralità dell’Ospite, si distacca da una società borghese per fare ritorno agli spazi di un’Italia paleoindustriale e contadina che sta scomparendo. Se il sesso, in Orgia come in Teorema, è un sostituto del sacro, una espressione vitale e innocente (come nella Trilogia della vita), l’eros imposto dal potere, come in Salò, è invece una violenza effettuata sui corpi degli individui, come l’obbligo del godimento all’interno della società dei consumi.

Il secondo capitolo prende in esame Porcile, un’altra pièce teatrale pasoliniana abbozzata nel 1966 e riscritta tra la fine del 1967 e l’inizio del 1968, attraverso un’analisi comparata che include anche il film omonimo del 1969. Julian, il giovane figlio di un ricco industriale della Germania del 1967, non è né ubbidiente né disubbidiente nei confronti dell’autorità paterna e perciò, secondo lo studioso, presenta un carattere spiccato di alterità. Quest’ultima si configura come un’assenza di identità sociale: Julian rifiuta qualsiasi aspetto della sua vita borghese, incluso l’amore della giovane Ida, per ritirarsi a compiere infinitamente il suo unico atto d’amore, l’accoppiamento con i maiali. Se in tale atto è da intravedere appunto una marginalità sociale del personaggio all’interno della quale appare evidente la sua omosessualità, esso presuppone comunque anche una qualche forma di protesta, che emerge soprattutto durante il dialogo con Spinoza nel porcile (scena che sarà poi eliminata nella versione cinematografica). Secondo il filosofo, Julian una decisione, invece, la ha già presa da tempo, cioè quella di sparire, di rifiutare di sottoporsi al rutilante gioco spettacolare del potere che celebra i suoi fasti in una vera e propria catena di montaggio linguistica, in cui le battute si susseguono le une alle altre intervallate da espressioni come «urrà» o «trallallà», scegliendo la dimensione dell’afasia, definita dallo studioso come un vero e proprio spazio eterotopico. Nel frattempo, il Potere si ricicla, rinasce dalle sue ceneri: gli industriali della Germania del 1967 non sono altro che ex criminali nazisti votati alla civiltà dei nuovi consumi «nell’inferno del totalitarismo tecnocratico in cui si neutralizzano le diversità, falsamente accettate dal Potere mediante un’accorta politica di tolleranza fittizia». Julian, come il giovane cannibale che, nella versione cinematografica, viene condannato a essere sbranato dai cani, subisce un vero e proprio sparagmos, uno smembramento, «requisito necessario per la costruzione di una nuova immagine che sfugge ad ogni tentativo di contenimento entro sistemi organici».

La lente dello studioso, analizzando Porcile, si focalizza anche sulla presenza degli animali, nella fattispecie dei maiali. Questi ultimi assumono una doppia valenza: animali veri, come quelli che sono nel porcile, ma anche animali metaforici, «i padri capitalisti e borghesi, nel metaforico porcile della Germania neocapitalista». Se gli animali veri si situano al di là del male e del bene, su quelli metaforici ricadono invece gravi colpe. Inoltre, «l’animale in Porcile è il luogo in cui svelare i meccanismi su cui poggia la società capitalistica»: da questa stessa società, gli animali sono stati appiattiti nella funzione di materia prima dell’industria di macellazione di massa. In un mondo in cui il Potere si riveste cupamente di connotazioni totalitarie, in una orrenda continuità fra industrializzazione degli anni Sessanta e crimini nazisti, gli animali appaiono come le vittime innocenti imprigionate per essere spedite ai macelli, veri e propri nuovi lager contemporanei. L’autore ricorda in modo appropriato una lettera che Pasolini scrisse ad Anna Magnani, pubblicata su «Tempo» nel 1969, in cui il poeta paragona i vagoni fermi ai confini, pieni di animali destinati al macello, a quelli che trasportavano gli esseri umani verso i lager nazisti. Se nelle parole di Pasolini non emerge una vera e propria etica animalista, si può pensare a una volontà dello scrittore di «fare un ritratto dei totalitarismi soprattutto sulla base dell’equazione uomini-animali al macello». Del resto, si potrebbe ricordare anche un altro esempio, non riportato dallo studioso, in cui Pasolini riflette, mosso da una vera e propria pietas, sul destino degli animali destinati al macello. In Storia burina (1956-1965), un racconto che l’autore rielabora utilizzando la tecnica del non finito, poi incluso in Alì dagli occhi azzurri, spicca la descrizione delle vacche destinate al macello: «Venerdì, fiesta dell’Ammazzatore. Passano, passano, vacche magre, trasparenti, passano vacche secche come alici, passano in fila, trasparenti come l’osso, buone buone, con la morte negli occhi, come ubriachi che tornano la mattina accecati dal sole, bianche come uccelli della neve, e con le croste dello sterco sulle ossa che bucano la pelle tirata come la seta, passano masticando, masticando come per fare le indifferenti, ma sapendo bene quello che le aspetta, passano, passano come ombre cinesi bianche, come grandi pipistrelli bianchi che hanno preso la strada dell’inferno, mentre il sole non passa mai, nero come un toro sopra il monte di Testaccio».

Il saggio di Katsantonis, per mezzo delle sue originali e innovative intuizioni, fa venire delle idee: sicuramente un solido punto di forza per un lavoro critico. Allora, dalle suggestioni legate al confronto fra porcile e campi di concentramento, fra industria della carne e crimini nazisti, potrebbe venire in mente un paragone fra Porcile e Okja (2017), del regista sudcoreano Bong Joon-ho. In quest’ultimo film, i luoghi in cui viene imprigionato Okja, il «supermaiale» sottratto alla sua padroncina negli spazi incontaminati della Corea del Sud e condotto negli Stati Uniti, sono rappresentati come veri e propri nuovi campi di concentramento, circondati da filo spinato, in cui migliaia di «supermaiali» vengono portati alla morte. Anche Bong Joon-ho attua una riflessione sulle dinamiche di potere nella società tecnocratica: quello che decide di uccidere Okja è infatti il Potere delle multinazionali contemporanee, che agiscono nei tessuti più profondi della società per mezzo della digitalizzazione diffusa, capillarmente inserita nelle vite degli individui per mezzo di PC portatili, smartphone e tablet (oggetti assai presenti nelle immagini del film).

Nel capitolo finale del suo saggio, lo studioso affronta la tragedia pasoliniana Calderón ponendola a confronto non solo con La vita è sogno di Pedro Calderón de la Barca, a cui lo stesso Pasolini si ispira, ma anche con Un sogno di Strindberg, un autore molto amato e frequentato dallo scrittore bolognese, fino al postumo Petrolio. Secondo Katsantonis, Pasolini, Calderón de la Barca e Strindberg, «si servono del sogno partendo da prospettive diverse e sono legati tra loro da un elemento strutturale: la simbologia carceraria del sogno». Nel dramma pasoliniano, ambientato nella Spagna franchista, Rosaura si risveglia dal metaforico sogno calderoniano aristocratica, sottoproletaria e piccolo-borghese. Se il sogno appare come una via di fuga dalle maglie del Potere, su di esso si esercita un controllo ‘carcerario’ attuato dallo stesso Potere: Rosaura si trasforma in un corpo marionetta di cui il Potere, rappresentato dalla figura di Basilio, il re padre padrone, regge i fili addirittura pilotandone i sogni. Il saggista si serve delle teorie di Goffman per analizzare le dinamiche messe in opera dalle stesse strutture di potere. Gli spazi in cui Rosaura si risveglia assomigliano alle istituzioni totali analizzate dallo studioso (i manicomi, le prigioni) e lo stesso personaggio assume le connotazioni di un internato. Come osserva Katsantonis, «in Calderón Pasolini mette in luce la sopravvivenza del sistema concentrazionario nelle società contemporanee; il grado zero della libertà individuale a causa dell’estensione del controllo capillare delle masse e della loro omologazione». D’altronde, il medesimo sistema concentrazionario si è messo in moto in occasione della recente pandemia da Covid 19, la quale ha messo in luce «il furore autodistruttivo del capitalismo, che non si ferma neppure di fronte alla prospettiva della vita abolita».

Un’immagine emblematica del potere che controlla gli individui, secondo lo studioso, è quella della marionetta. L’uomo è una marionetta (basti pensare a Che cosa sono le nuvole?), i cui fili sono tenuti da un Potere oscuro ed imperscrutabile che immerge gli individui negli inferni del cieco sviluppo, portato avanti ad ogni costo, deturpando la natura e gli scorci paesaggistici. All’interno di questo sistema di potere – osserva lo studioso – le stesse forze rivoluzionarie sono l’espressione di un illuminismo borghese che obbedisce agli schemi della dialettica servo-padrone. In questa dinamica rientrerebbe anche «l’avversione nutrita da Pasolini per il movimento studentesco» durante gli scontri del Sessantotto, tema, comunque, molto complesso, che meriterebbe ulteriori spunti di riflessioni. A mio avviso, infatti, Pasolini non aveva nessuna avversione per il movimento studentesco, anzi: l’intera poesia Il PCI ai giovani!!!, in cui il poeta prendeva posizione a favore dei poliziotti, andrebbe letta in una chiave ironica e autoironica, come scrisse lo stesso Pasolini. Si tratta di un pezzo di ars retorica, un testo provocatorio, che va letto al di là del suo significato letterale tanto che Pasolini, in una «Lettera al Presidente del Consiglio» uscita su «Tempo» nel settembre del 1968, definiva la Resistenza e il Movimento Studentesco come «le due uniche esperienze democratico-rivoluzionarie del popolo italiano».

In definitiva, il saggio di Georgios Katsantonis risulta estremamente interessante perché srotola un tema, come quello delle dinamiche del potere nell’opera pasoliniana, anche oggi molto attuale, in un’epoca in cui lo stesso Potere cerca di controllare in tutti i modi la vita degli individui, anche in forma invisibile e spettrale per mezzo della diffusa digitalizzazione di massa. Ha inoltre il pregio di affrontare tre opere fondamentali del teatro pasoliniano in modo nuovo ed inedito, portando esempi, confronti, analisi comparate che mai erano state affrontate in precedenza e offrendo, come già notato, lo spunto per nuove analisi e riflessioni. Che non dovrebbero mai venire a mancare riguardo a una figura complessa e fondamentale come quella di Pasolini, a maggior ragione oggi che ricorrono i cento anni dalla nascita. Ricorrenza che però non dovrebbe soltanto comparire nelle sembianze di un salottiero ircocervo di accademiche celebrazioni fini a se stesse, ma dovrebbe rappresentare l’occasione per dare nuova vitalità a espressioni artistiche, teoriche e letterarie che provengano da una cultura dal basso e militante.

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Divine Divane Visioni (Cinema di papà 07/08) – 62 https://www.carmillaonline.com/2014/09/18/divine-divane-visioni-cinema-papa-0607-62/ Thu, 18 Sep 2014 20:44:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=17191 di Dziga Cacace

Ma come diavolo ci difendiamo? A parolacce?

ddv6201661 – Sesso, sangue e ricatto in Hostel di un sadico, USA 2005 Sono di passaggio da casa dei miei, a Genova, e la pigra scanalata serale – noi genitori non più adusi neanche all’accensione del televisore – ci cattura subito. Ogni film sembra una evasione liberatoria, anche la più clamorosa vaccata. Incappiamo in questo Hostel e intuiamo subito che da questa golosa porcatina sarà difficile staccarsi, come capita con quei fantastici snack malati, pieni di sale, zuccheri e colesterolo che se apri il pacchetto, dici «solo una» e poi [...]]]> di Dziga Cacace

Ma come diavolo ci difendiamo? A parolacce?

ddv6201661 – Sesso, sangue e ricatto in Hostel di un sadico, USA 2005
Sono di passaggio da casa dei miei, a Genova, e la pigra scanalata serale – noi genitori non più adusi neanche all’accensione del televisore – ci cattura subito. Ogni film sembra una evasione liberatoria, anche la più clamorosa vaccata. Incappiamo in questo Hostel e intuiamo subito che da questa golosa porcatina sarà difficile staccarsi, come capita con quei fantastici snack malati, pieni di sale, zuccheri e colesterolo che se apri il pacchetto, dici «solo una» e poi te lo devi finire. La prima parte del film, preparatoria, è irritante nella sua linearità, con degli imbecilli studenti americani in Interrail e che hanno praticamente la patata tatuata in fronte. Beh, anch’io ero partito per il classico viaggio post liceo pieno di aspettative verso leggendarie valchirie pronte a sbranarsi il bel pezzo di manzo che ero. Invece era finita che m’ero messo con Barbara. Perlomeno fino a stasera, visto che durante la visione del film borbotta più volte. I protagonisti, comunque, beati loro, si fanno una drogata tappa copulativa ad Amsterdam e son tentati dal colpo grosso: sono attirati a Bratislava per trombare ancor più, alla grandissima. E trombano, con gran sollazzo di regia (Eli Roth) e spettatore lubrico: ci manca che Barbara mi asciughi la bavetta alla bocca. Però per troppa foga e amor di figa i due rimangono invischiati in un gioco mortale: il film allora prende quota e c’è una certa astuta cattiveria visiva e narrativa che non lesina pelle, sia nuda che lacerata e sanguinolenta. Il film si pretende sia ambientata in Slovacchia, ma siamo nella Repubblica Ceca e la fauna locale che appartiene alla categoria “macrognocche da infarto”, viene esibita abbondantemente senza nascondere la natura maschile e maschilistica di questo esercizio sadico, rivolto a un pubblico preciso. Son moralista? Macché! Mi piacciono pure le donne nude – pensa te – ma mi dà fastidio il ricatto quando è così scoperto, senza nessuna astuzia se non l’esibizione (in cui casco a piedi giunti, è chiaro. E capisco anche il protagonista: il chiavatone che si fa vale una mutilazione permanente). Comunque: ritorno in me e faccio il prof dalla voce nasale: il problema generale di Hostel è essere un film che fa dell’esposizione oscena la sua ragione. Un po’ come quella stronzata di Saw, horror efferato, cinematograficamente furbetto e di cui mai vedrò i seguiti, neanche sotto tortura, quella tortura. (Diretta Sky; 6/10/07)

ddv6202662 e 663 – L’ha scritto Balzac E.R. (Anno 3 e 4) di Michael Crichton e Aa.Vv., USA 1996/97
Vi è mai successo? Avete voglia di un bel filmone fluviale, una di quelle faccende che rimani nel buio della sala, o tramortito sul divano, e pensi: questi personaggi sono vivi. Io li conosco, gli voglio bene, devo sapere cosa gli accadrà domani. Perché per quella porzione di tempo che ti ha preso il film tu sei entrato nella loro vita, nei loro problemi, hai condiviso la loro felicità o i drammi, i dubbi, i successi e le sconfitte. Ecco: penso a La maman et la putain… Leaud dove sarà ora? Starà ancora parlando e parlando, indeciso su cosa fare della sua vita? Beh, avevo voglia di una cosa così e mai mi sarei aspettato di trovarla in un serial televisivo. Perché la tivù di solito banalizza, attutisce, tranquillizza, consola, distrae, addormenta. E invece ecco che quel E.R. che ho schifato per tanti anni mi dimostra che può avvenire anche il contrario. Intendiamoci, ero esaltato anche dalle prime due serie ma con queste terza e quarta stagione si ascende ad ancora più alte sfere celesti. Si tratta di un capolavoro. È la Commedia Umana del ventesimo secolo, il documento visivo più completo per capire cosa siano gli Stati Uniti, degli anni Novanta e di oggi: lavoro, Aids, razzismo, rapporti uomo donna, omosessualità, disgregazione della famiglia, assistenza sanitaria, classismo, ricerca medica, mutuo, povertà, droga, delinquenza, armi, consumi, le gang, gli homeless, il Capitale, la vita e la morte… c’è tutto, con uno sguardo democratico, mai estremista, talvolta cerchiobottista ma mai falso o moralista (è lo show, credo, più visto di tutti i tempi: queste serie viaggiavano su una media di 30 milioni di spettatori. No, dico: 30 milioni. Intesi?). Ottimo il cast, il montaggio, le musiche, il ritmo, la regia, la psicologia dei personaggi, la verosimiglianza quotidiana e anche esistenziale. Tutto. Perfetto. Quando lo vedeva solo Barbara mi stava sul cazzo (E.R., non lei), poi, visto in originale l’episodio pilota della prima serie, sono rimasto completamente schiavo. È l’optimum televisivo: l’Heimat che gli americani non sanno di aver prodotto. E so già che un giorno dovrà arrivare a conclusione. E dove finiranno tutti loro, eh? E io? Argh. (Dvd; ottobre e novembre 2007)

ddv6203665 – Il finto The Prestige di Christopher Nolan, USA 2006
A Genova, per un blitzkrieg weekend, con pupattola al seguito. Dopo cerimonie voodoo, scongiuri e pratiche animistiche per addormentarla, ci concediamo un film e papà ci precede, un po’ aggressivo, come a dire di non cominciare a rompere: “Ho un dvd ottimo, con responsi critici da favola”. Ahia, qui finisce a schifio. Lo produce dalla borsa e io faccio la faccia un po’ così, da vera merda. Siccome si irrita subito perché distruggergli i film che mi propone è il mio sport preferito, lo ammansisco dicendogli che anche l’amico Pif lo ha trovato splendido, per intreccio e sorprese. Lo vediamo e, invece, sarò io un genio, ma mi erano chiari tutti gli inghippi con abbondanti mezz’ore di anticipo. E siccome io NON sono un genio vuol dire che il film è una vaccata. E per la cronaca mio padre non ha invece capito una mazza e s’è pure addormentato. Messo in scena benissimo, The Prestige è però freddo e lunghetto e sembra il compitino di un primo della classe che vuole sempre stupirti, sennonché a Nolan il prestigio non viene per nulla, secondo me. Con Memento il regista ci riusciva prima di diventare noioso, qui no. Il cast gronda dollari e oltre ai divetti Hugh Jackman e Christian Bale ci sono anche il classico Michael Caine, l’elegante David Bowie e la fatalona Scarlett Johansson, che com’è fotografata qui sembra una caricatura: è alta un metro e un barattolo, la forma del viso ricorda quello di un divieto di sosta con labbra carnosissime e ha tette che la precedono di un quarto d’ora buono. No, non è sessismo mio, è sessismo loro, credetemi. Vabbeh, film che passa ma che delude anche. L’unica cosa che mi ha divertito è stato Bowie nella parte dello squinternato e geniale Tesla. Basta. Comunque Pif ha messo su un suo programma su MTV, Il testimone, ed è bellissimo, questo sì. Semplice nella forma, ricchissimo nella sostanza: un distillato di intelligenza del mio piccolo amico, uno che farà carriera, son sicuro. (Dvd; 7/12/07)

ddv6204666 – Una porcata, Homecoming di Joe Dante, USA 2005
Papà ci riprova e mi dice, mani avanti: “Oh, Joe Dante! Ci siamo capiti? Dante!”. Beh, ne ho letto qui e là e in effetti molti critici erano in erezione marmorea per ‘sto filmetto. L’idea di partenza è folgorante (i cadaveri dei soldati USA morti in Iraq riemergono da sottoterra perché vogliono votare contro Bush) ma lo svolgimento è paratelevisivo a voler essere generosi, con attori che non se li imbarcherebbero neanche i Legnanesi in una replica parrocchiale. Mamma mia che brutto, una schifezza umiliante. Siccome Dante è pur sempre Dante, gli perdonano qualunque cosa, ma già La seconda guerra civile americana era una stupidaggine che si sgonfiava dopo aver semplicemente letto il riassunto sui quotidiani. E anche stavolta c’è solo un’intuizione e non un adeguato sviluppo nonché una forma degna di tal nome. E poi mi hanno un po’ rotto il cazzo gli americani liberali che della guerra in Iraq si ricordano sempre le vittime statunitensi e mai i centomila civili iracheni stecchiti (a volare bassi con le stime). Più gli altri (soldati, ribelli, pure terroristi) che son uomini anche loro. Se per loro un filmetto così è buono per pulirsi la coscienza, io aggiungo che mi ci pulirei qualcos’altro. E dài, eh. (Dvd; 8/12/07)

ddv6205667 – L’inaspettato Munich di Steven Spielberg, USA 2005
Non pago, dopo due cocenti delusioni, papà insiste ancora con le sue proposte cinematografiche e stavolta fa centro nella maniera più inusitata. Vedo il dvd di Spielberg e comincio a lamentarmi. Perché diverse cose sue recenti mi hanno irritato e certa poetica infantile non mi piglia più, non so. Che poi sa mettere in scena – e chi dice di no – però, boh. “Ma lo guardiamo, papà, dài, non offenderti”, e… ammazza che film! Va come un treno, è sottilmente ambiguo, per nulla compiacente, ricco e pure appassionante, limpidissimo e zeppo di fughe di “genere”. Insomma: il capolavoro che non ti aspetti, snobbato dal grande pubblico al botteghino e rifiutato sdegnosamente dagli israeliani (il che fa capire molte cose). Voglio dire: quale azione terroristica è risultata mai più odiosa dei fatti di Monaco, dell’uccisione di quegli atleti israeliani nel luogo dove dovrebbe vigere la tregua olimpica? Quanto può aver allontanato dalla comprensione della causa palestinese quell’atto? Eppure Steven (ebreo, sempre attentissimo alla memoria del suo popolo) riesce a metterci anche il punto di vista *loro* e si sforza di capirlo e costringe lo spettatore a mettersi in discussione come il protagonista, chiedendosi il senso della vendetta, del sangue che non lava altro sangue, ma ne farà versare ancora. E dove siano la ragione e il torto. Oh: mai amato troppo Spielberg, ma un film così mi fa perdonare tante cose. Per me – in un ambito mainstream e con cotanta paternità – perfetto. (Dvd; 9/12/07)

ddv6206669 – Ancora un capolavoro: Grizzly Man di Werner Herzog, USA 2005
Film incredibile, scomodo, folle e irritante come sa essere la vita. E la morte. Lo sguardo glaciale di Werner, senza giudizi, sull’esistenza irregolare di Timothy Treadwell, un ambientalista sui generis che ha deciso di votarsi all’impossibile convivenza con dei grizzly, cari e buoni finché non han fame. La storia è perlopiù narrata attraverso i filmini che Treadwell ha realizzato (un centinaio di ore di materiale, accuratamente selezionato e montato), accompagnati dalle testimonianze di chi lo ha conosciuto (l’ex fidanzata, la sorella, un medico, una guardia forestale), tipi che non paiono meno strani dell’oggetto dell’investigazione filmica. Ma Herzog, come sempre, sembra chiederci: qual è la normalità? E possiamo piegare la natura ai nostri desideri? Le immagini documentarie di Treadwell sono curiose e danno un sapore particolare e agghiacciante al racconto, anche se ci vengono negate le sequenze finali della sua vita, che viviamo solo attraverso lo sguardo allucinato della sorella che invece le vede. Scelta etica che diventa anche cinematograficamente potentissima. Gran film, tanto per cambiare, tra l’altro musicato da quel genio che è Richard Thompson, uno dei miei musicisti preferiti (definizione preferita: “suona come se Chuck Berry fosse uno scozzese cresciuto in Libano”; in Italia quanti saremo ad avere tutti, ma dico proprio tutti, i suoi dischi?). (Dvd; 14/12/07)

ddv6207672 – Droga tagliata un po’ male: 24 – Stagione quattro di Aa.Vv., USA 2005
Siccome sono rimbambito ho visto la quarta serie prima della terza. Amen, più mistero ancora. In realtà non si gioca tanto sui tradimenti, perché è una serie un po’ fascistona e schematica, con buoni e cattivi schierati, morale busheggiante e arabi amorali, pronti ad ammazzare i figli. Stavolta non c’è teoria del complotto, ma pura e semplice azione. Jack Bauer agisce trasgredendo ordini e protocolli, risolvendo quello che i burocrati culi di piombo affrontano con leggerezza, incompetenza e lentezza. E intanto fa secchi un centinaio di arabi (o simili, anche se sono iraniani per gli yankee è la stessa cosa) traspiranti e puzzoni, anche quando plurilaureati. Per salvare la faccia ci sono anche arabi buoni che denunciano le attività dei fratelli cattivi. Unica (involontaria?) contraddizione: il discorso del cattivone di turno, tale Marwan, alla nazione americana, che riassume in due frasi la rabbia di chi odia la politica USA. Lo fa in maniera così precisa e ficcante che dubito che chi l’abbia scritta non ne intravedesse la verità. Rispetto alle prime due serie è tutto un po’ raffazzonato: più di un personaggio è dimenticato durante la narrazione (puf! Scomparsi!), molte volte gli impicci nascono da leggerezze francamente incoerenti (mancanza di uomini, tecnologia o abilità) e lo schema narrativo (indizio, ricerca del personaggio, interrogatorio, tortura, successo) è ripetuto troppe volte. Grande adrenalina, poco fosforo. Me ne farò una ragione. (Dvd; dicembre 2007 e gennaio 2008)

ddv6208674 – Il tristanzuolo Kontroll di tale Antal Nimrod, Ungheria 2004
Un film autoriale ungherese che trovo poco risolto: quando si bordeggia la commedia si ride a denti così stretti che ti fai male. Nelle parti drammatiche o poetiche è invece tutto sfuggente o un po’ banalotto. Bellissima fotografia sotterranea (il film è ambientato nella metropolitana di Budapest), okay, qualche attore dalla faccia interessante, una certa tenerezza, ma non cerchiamo scuse: Kontroll risulta – stringi stringi – una magiara rottura di coglioni come poche. (Dvd; 26/1/08)

ddv6209681 – Lo storico Barbarella di Roger Vadim, Francia/Italia 1968
Siccome l’hanno visto in milioni, siccome di Jane Fonda manca poco che si veda anche una gastroscopia, siccome i costumi li ha disegnati Paco Rabanne, siccome la psichedelia fantascientifica arrivava alle masse (virata pop e vagamente cartoonish), siccome c’era la liberazione sessuale, siccome tutte queste cose, Barbarella è un film che va visto. Lo faccio e mi ritengo autorizzato a definirlo una cagata dove salvo solo il grandissimo Ugo Tognazzi, perché il timbro della sua voce è splendido e perché – perlomeno sulla scena – si bomba la Fonda. Mi direte: ma questo film aveva un senso allora, non oggi, e l’erotismo e bla bla. Okay, ma io l’ho visto adesso, c’è già YouPorn e son nervoso, per cui fatevene una ragione. (Dvd; 29/2/08)

ddv6210682 – Scappo in Madagascar, di Eric Darnell e Tom McGrath, USA 2005
Un filmetto piacevole che ci mette mezz’ora ad ingranare e poi cresce bene. Il tratto un po’ spigoloso non mi piace granché ma molte scene (per presenza di masse – la tribù di lemuri imbecilli –, o architetture – Grand Central Station) non sono niente male. Il gioco citazionistico è spinto al massimo per dare motivo d’interesse agli adulti a seguire una vicenda abbastanza esile e perfetta per i pupattoli. Talvolta funziona (La febbre del sabato sera) altre è pura menzione (Momenti di gloria). Ma Madagascar si fa vedere, coinvolgendoti con la stupidità assoluta dell’orgiastico Re Julien o della pattuglia di stolidi ed efficaci pinguini che vogliono tornare in Antartide. Tra miraggi carnivori, comicità demenziale e anche un’insospettabile scorrettezza politica, viene fuori un film per bambini e adulti rimbambiti. Per cui ottimo per me. Ricordo diverse critiche perché sostanzialmente gli animali, ritornati al loro habitat naturale, ripensano nostalgicamente alla cattività urbana: come sempre l’ironia è un vento gelido che sfiora i polemisti da quotidiano. (Diretta Tv, Italia1; 4/3/08)

ddv6211683 – L’incredibile Zardoz di John Boorman, Gran Bretagna 1973
Solamente gli anni Settanta potevano partorire una cosa così: un film magnificamente astruso nei dialoghi e nel racconto della società futura e contemporaneamente sempliciotto nello svolgimento narrativo (e comunque complicato da rivelazioni che arrivano poco a poco). Costumi tra l’inventivo e il risibile, scenografie di plexiglass coloratissime e una generale atmosfera psichedelica e drogata, esaltata da una fotografia splendente; Sean Connery irsutissimo e seminudo, con uno slippino in pelle molto sadomaso a infagottare il pacco, l’adorata Charlotte Rampling sempre splendida. Fu un insuccesso clamoroso e la cosa non mi stupisce. Però gli vuoi bene, perché un film costa miliardi e c’è un matto, Boorman, che li ha messi di tasca propria per concedersi questa follia che oggi ha un immenso valore nel raccontarci come si poteva far cinema allora. E cosa passa talvolta nella testa degli uomini. (Dvd; 8/3/08)

ddv6212684 – La mitologica visione di Medea di Pier Paolo Pasolini, Italia/Francia/Repubblica Federale Tedesca 1969
Assente Barbara per le vacanze pasquali, procedo a uno spietato repulisti della videoteca, valutando per ogni cassetta qualità della registrazione, futura obsolescenza, reperibilità con altre fonti. Sarà una banalità, ma ormai su Youtube trovi veramente di tutto, è la nastroteca virtuale galattica dove c’è ogni cosa. Per il resto, il proibito, connessione veloce e peer to peer e – mulo o torrente – trovi il resto. E se proprio non lo trovi vai su Amazon e non rompere più le palle, dài. Eliminando le vhs ho sacrificato decine di film e spezzoni di Springsteen, Negrita, Gialappa, Fuori orario, amenità varie e Blob… anche se qualcosa mi sono rivisto, non ho saputo resistere. Come Fede che mette le bandierine durante le regionali del 1995, i funerali di Falcone, l’arresto di Giovanni Brusca, di nuovo Fede in orgasmo durante l’attacco all’Iraq del 1991, Achille Occhetto che piange alla Bolognina, Giuliano Ferrara tracimante in ogni dove, il sonoro ceffone di Roberto D’Agostino a Vittorio Sgarbi, Enrica Bonaccorti che becca un concorrente telefonico che risponde (esattamente: “Eternit”) prima della domanda del cruciverbone, Antonella Clerici che dichiara che pensa sempre al cazzo… Poi, messo via Miracolo a Milano (regalato, non buttato, ma l’ho visto almeno 5 volte), ho pensato che voglio più bene a Vittorio De Sica (il primo De Sica) che a Rossellini (specialmente l’ultimo). E che Herzog è immenso, specie quando la sua vita finisce nei film in cui ne racconta altre (e le vhs di Werner le ho tenute tutte). E che come certo cinema sperimentale degli anni Venti e Trenta, così libero, inventivo e geniale non c’è stato più niente. Poi ho rivisto il corto The Waiting Room di Jos Stelling, piccolo capolavoro erotico, e a spizzichi e bocconi Sign ‘O’ the Times esagerato film concerto con Prince al top: tutto feeling e ritmo, che grande chitarrista! Ma qualcosa l’ho assunto anche integralmente, tanto da elaborare un giudizio più meditato: è il caso di questa Medea di Pasolini. E il giudizio è: epico stracciamento di palle. E poi – scusate – hai sempre la sensazione che le masse rurali, che PPP metteva davanti alla cinepresa, non capissero una mazza di quello che dovevano fare. Attori presi dalla strada, dell’Anatolia però. Vedi gente che a comando fa qualche movimento, con sguardi persi verso la cinepresa, e poi si ferma come ad aspettare un cenno d’assenso. Una sensazione straniante, se vogliamo salvare la regia; un effetto tra il comico e il tragico se dobbiamo dire la verità. Perché Pasolini era un genio, è chiaro. E se decidiamo che l’ingenuità registica e narrativa siano un valore, va bene, era anche un bravo regista (che io, personalmente, ho sempre amato). Però francamente preferisco che l’inquadratura sia un po’ più curata, magari non traballante; così come il montaggio. E gli attori, pure. Se no vedersi una cosa come Medea diventa un continuo giustificarsi col tuo angelo custode cinematografico che ti ricorda che dovrebbe essere un capolavoro. La scelta delle location è formidabile (specialmente la Piazza dei miracoli di Pisa), i colori e i costumi sono molto evocativi. La vicenda – se conosci il Mito – è abbastanza leggibile; altrimenti è un florilegio di dialoghi al contempo declamatori ma anche doverosamente esplicativi – se no non si capirebbe veramente una minchia – seguiti da ellissi siderali e silenzi agghiaccianti che menano gran strage di spettatori. Ritmo, manco a parlarne. Maria Callas appare in un’intervista prima del film e non è quel che si dice una strafiga, ma è simpatica, molto intelligente e soprattutto affascinante: sprigiona energia ed erotismo. Poi la vedi nel film ed è veramente mostruosa, truccata come un reperto archeologico, boh. Medea l’ho visto con impegno meritevole di miglior ricompensa dopo aver già rinunciato a Parigi ci appartiene di Jacques Rivette: al quindicesimo del primo tempo ho avuto il sospetto che mi stesse crescendo un terzo coglione e ho deciso che poteva bastare: dialoghi ammorbanti, montaggio sgradevole, attori con facce da culo, vicenda che non mi intriga e densa di nomi che dimentico appena sento. Sarà colpa mia, ma non ho più l’età. (Vhs da RaiDue; 16/3/08)

ddv6213685 – A bocca aperta davanti agli Appunti per un’Orestiade africana di Pier Paolo Pasolini, Italia 1970
L’idea è: cerchiamo nella giovane Africa libera gli attori e le location per girare il mito di Oreste. Accompagnati dalla voce del Poeta, il film gira quando PPP si dimentica di associare Oreste e company alle immagini e racconta ciò che vede. Quando invece spiega il delirante progetto a degli studenti africani a Roma ci sono momenti spiazzanti, da supercazzola. Del resto rispondere a Pasolini che chiede se sia meglio ambientare l’Orestiade nell’Africa di allora (1970) o della prima decolonizzazione (1960), sembra uno scherzo crudele, oltre tutto fatto a gente che parla l’italiano stentatamente. L’impressione fortissima è che con questa specie di documentario il Pierpa si sia pagato il viaggio in Africa (col nasale Alberto Moravia al seguito, sai che spasso), oppure abbia messo una pezza a un progetto finito (ma anche pensato) male ed astruso. La musica originale è di quell’altro mio idolo che è Gato Barbieri, che però a un certo punto è vittima di un pentimento della regia in corso d’opera. Non bastassero le difficoltà precedenti, Pier Paolo si chiede: e se la tragedia fosse cantata? Giuro. Così, su atonale e ululante musica free, due cantanti neri devono anche impersonare Agamennone che scazza con Clitemnestra, raggiungendo vette degne del prof. Biscroma di Bracardi. Questo filmettino da oltre 60 minuti l’ho visto perché buttare via un nastro registrato 12 anni fa senza neanche dargli una possibilità mi sembrava brutto. Diciamo che è stato un omaggio alla mia passata passione cinefila. Che, grazie a dio, è passata. (Vhs da RaiTre; 17/3/08)

ddv6214686 – La burla Echelon controllo totale di un cialtrone, Francia 2002
Il documentario che dovrebbe raccontarci come siamo controllati in ogni nostra mossa comunicativa: cellulari, Internet, Sms, etc. Solo che è tutto narrato (da tale David Korn-Brzoza) in modo fiacco senza neanche la cialtronaggine croccante di un Voyager televisivo, per dire (e non basta usare il widescreen per fare cinema: serve un’intenzione). La fatidica rivelazione del complotto mondiale contro la nostra privacy è gestita coi piedi, buttata lì, quasi non fosse importante. L’ho mollato dopo dieci minuti di improperi: non si fa così, se no poi diventa tutto teoria del complotto e le denunce vengono attribuite ai soliti paranoici, eh. (Vhs da Tele+; 17/3/08)

(Continua – 62)

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

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