Maria Antonietta Macciocchi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 15 Dec 2025 23:23:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Elogio dell’eccesso / 10 – Straniero in terra straniera: Curzio Malaparte https://www.carmillaonline.com/2025/12/03/elogio-delleccesso-10-straniero-in-terra-straniera-curzio-malaparte/ Wed, 03 Dec 2025 21:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91605 di Sandro Moiso

Curzio Malaparte, Giornale di uno straniero a Parigi, a cura di Michelangelo Fagotti e Monica Zanardo, Adelphi Edizioni, Milano 2025, pp. 425, 25 euro

Se è esistito in Italia un letterato scomodo ed eccessivo nelle sue manifestazioni va sicuramente individuato in Curzio Malaparte (1898-1957). Il suo essere stato, nel corso di una vita durata appena 59 anni, poeta, saggista, romanziere, giornalista, militare, diplomatico, agente segreto e regista cinematografico lo avvicina per certi versi ad un altro intellettuale scomodo dell’Italia del’900: Pier Paolo Pasolini. Anche se il paragone tra i due deve fermarsi quasi immediatamente, poiché la sfera [...]]]> di Sandro Moiso

Curzio Malaparte, Giornale di uno straniero a Parigi, a cura di Michelangelo Fagotti e Monica Zanardo, Adelphi Edizioni, Milano 2025, pp. 425, 25 euro

Se è esistito in Italia un letterato scomodo ed eccessivo nelle sue manifestazioni va sicuramente individuato in Curzio Malaparte (1898-1957). Il suo essere stato, nel corso di una vita durata appena 59 anni, poeta, saggista, romanziere, giornalista, militare, diplomatico, agente segreto e regista cinematografico lo avvicina per certi versi ad un altro intellettuale scomodo dell’Italia del’900: Pier Paolo Pasolini. Anche se il paragone tra i due deve fermarsi quasi immediatamente, poiché la sfera di riferimento culturale e letterario del primo, più che a quella dello scrittore friulano, era vicina alle esperienze di altri due autori e uomini di cultura europei quali Ernst Jünger (1895-1998) e André Malraux (1901-1976). Intellettuali colti e raffinati che, però, avevano tutti nascosto, sotto un tappeto di intuizioni spesso geniali e una patina di anticonformismo elitario, una contraddittorietà in materia politico-culturale talvolta disorientante e talaltra indisponente non solo per i semplici lettori, ma anche per i loro estimatori.

Interventista dalle radici anarco-nietzschiane nella Prima guerra mondiale e fascista della prima ora l’italiano che, però, alla fine della sua vita, dopo un soggiorno nella Cina di Mao, lasciò in eredità alla Repubblica Popolare la sua villa di Capri; giovanissimo volontario nella Legione straniera, autentico esteta e aedo della guerra che osservò e descrisse con lo sguardo di un entomologo, il tedesco, spesso avvicinato (forse a torto) al nazismo; avventuriero e ladro di tesori nelle colonie francesi dell’Estremo Oriente, poi militante anti-colonialista e comunista in Cina, combattente repubblicano in Spagna e, per finire, ammiratore e seguace di De Gaulle, fino a diventare Ministro della Cultura nel suo governo, il francese. Vite al limite si potrebbe dire, condotte da abili funamboli tutti attenti a non perdere mai la presa su una corda tesa nel vuoto, al di sopra delle catastrofi politiche e militari del XX secolo.

Nessuno dei tre poteva vantare le nobili origini che forse tutti avrebbero voluto poter rivendicare. Il più fortunato, dal punto di vista famigliare, fu forse Jünger, figlio di un imprenditore e chimico tedesco, mentre Malraux non avrebbe mai parlato con nessuno o avrebbe diffuso notizie inesatte su un’ infanzia passata in provincia con la madre e la nonna. Cosa cui avrebbe cercato di provvedere sposandosi nel 1921 con una ricca ereditiera di una famiglia ebraica di origini tedesche, la cui fortuna fu però rapidamente dilapidata da errati investimenti in borsa.

Erich Suckert, vero nome di Curzio Malaparte che aveva rinnegato in età adulta il cognome paterno, nacque invece a Prato da Edda Perelli e dal tintore sassone Erwin Suckert. Come terzogenito di sette fratelli, poco dopo la nascita fu affidato a balia alla famiglia dell’operaio tessile Milziade Baldi e di sua moglie, che lui avrebbe poi considerato come i suoi autentici genitori, mentre i pessimi rapporti con il padre tedesco avrebbero influenzato per tutta la sua vita una particolare antipatia verso la nazione e la cultura germaniche. Spingendolo così tra le braccia di quella francese. Un amore poi deluso, come dimostra il diario appena pubblicato da Adelphi, ma che lo spinse fin dalla dichiarazione di guerra del 1914 ad arruolarsi ancora sedicenne nelle fila, anch’egli, della Legione straniera.

Se queste sono, per così dire le origini del viaggio di Malaparte attraverso la Storia del ‘900. il Giornale di uno straniero a Parigi trasmette al lettore le impressioni dell’autore successive alla fine del secondo conflitto mondiale, al ritorno da un soggiorno in Francia tra l’estate del 1947 e la fine del 1949. Ma come lo stesso Malaparte ci avverte nel suo Abbozzo di una prefazione:

Ogni “giornale” è ritratto, cronaca, racconto, ricordo, storia. Delle note prese giorno per giorno non sono un giornale: sono momenti presi a caso nello scorrere del tempo, nel fiume del giorno, che passa. Un “giornale” è un racconto: il racconto di una tranche de vie (definizione di romanzo di una famosa scuola), di un periodo, un anno, più anni, della nostra vita. E poiché la vita segue la logica di un racconto, ha un inizio, uno sviluppo, una conclusione (una vita umana è una serie di inizi, di sviluppi, di conclusioni, all’interno del cerchio chiuso dell’inizio, dello sviluppo, della conclusione della vita, nel cerchio della vita). Non è vero che un “giornale” comincia a caso, si sviluppa a caso, non si conclude, se non con la fine della vita. Un giornale, come ogni racconto, comporta un inizio, un intreccio, uno scioglimento. L’argomento del Giornale di uno straniero a Parigi è il mio ritorno a Parigi dopo quattordici anni d’assenza, è la scoperta di una Francia nuova, di un popolo francese nuovo, è il ritratto di un momento, nella storia della nazione francese, della civiltà francese, che coincide con un momento particolare della mia vita, della storia della mia vita. Non pretendo di rinnovare il genere del “giornale”. Suggerisco soltanto che un giornale è un racconto, come è un racconto il teatro. E qui tocco il punto importante: un “giornale” è un’opera teatrale portata sulla scena della pagina. È il punto in cui il racconto si avvicina di più al teatro. Tutto vi tende a un fine, a una conclusione, secondo le leggi classiche dell’unità, ma attorno al personaggio che si chiama « io »1.

Le poche righe appena citate non servono soltanto come viatico per la comprensione del “diario” parigino di Malaparte, ma anche per quella di tutta la sua opera che, per quanto suddivisa tra articoli di giornale, cronache, diari, “romanzi”, sempre avrebbe rappresentato una sorta di palcoscenico sul quale intrecciare le vicende drammatiche oppure mondane comprese tra il primo conflitto mondiale e gli anni ‘50 del XX secolo con la vita dell’autore e le sue personali opinioni.

Si potrebbe, infatti, dire che se nell’opera di Ernst Jünger ogni evento ed osservazione si trasforma in distaccato giornale di osservazioni di carattere entomologico2, in Malraux ogni evento doveva per forza essere “romanzato”. Tanto da far rimettere spesso in discussione, da parte della critica o dei suoi avversari “politici”, molti aspetti delle sua presunta o autentica partecipazione agli eventi narrati con estrema dovizia di particolare (battaglie, massacri, insurrezioni, eroismi nelle guerre nell’aria e per terra). Una reinvenzione letteraria dell’esperienza personale che avrebbe spinto lo scrittore francese ad intitolare Antimemorie la sua autobiografia, pubblicata nel 1967, un abile e spregiudicato gioco letterario in cui la vita, gli incontri e le vicende di Malraux sono spesso nascosti o distorti ad arte, mascherati sotto l’immagine che di se stesso voleva dare al pubblico3.

Il testo di Malaparte, oggi edito da Adelphi, era invece rimasto tra le sue carte e fu pubblicato postumo nel 1966, a cura di Enrico Falqui, da Vallecchi nelle «Opere complete». Come afferma Monica Zanardo, in quella che può essere considerata come una postfazione all’edizione attuale, il Journal:

offre un sottile e disincantato spaccato della Francia del dopoguerra, dove l’autore aveva soggiornato tra il giugno del 1947 e la fine del 1949. Pensato per essere pubblicato in Francia e scritto per lo più in francese, il ‘diario’ malapartiano si ricostruisce cucendo una serie di fogli sciolti che denunciano stadi diversi di elaborazione [..]. È difficile dunque stabilire con certezza con quali tempi e modi Malaparte si sia dedicato alla composizione di questa sua opera, ma possiamo rilevare che, a dispetto del titolo, non ci troviamo di fronte a un journal in senso stretto.
Siamo ad esempio molto lontani da quel Giornale segreto dove, tra l’aprile del 1941 e l’ottobre del 1944, aveva registrato dialoghi e fatti di cui era stato testimone come corrispondente di guerra e che poi, opportunamente finzionalizzati, avevano nutrito la stesura di Kaputt.
[…] I materiali relativi al Giornale di uno straniero a Parigi, invece, non hanno nulla dell’annotazione cursoria ed estemporanea: le varie entrate si depositano in forma dattiloscritta a un livello di rielaborazione già avanzato, con un notevole scarto rispetto alla registrazione del dato puramente evenemenziale. Non si tratta per Malaparte – né mai è così per questo autore – di offrire un mero referto testimoniale o un affondo introspettivo: luoghi, date, persone e fatti sono per lui la materia grezza che solo l’arte del romanziere può rendere a tutti gli effetti viva e parlante; come già ricordava Falqui, nel Giornale parigino non v’è dunque « nulla di affidato unicamente alla trascrizione o rievocazione, cronachistica e basta, dell’episodio: incontro, invito, visita, conversazione, spettacolo o incidente che sia stato ». È del resto lo stesso Malaparte a sottolinearlo nella prefazione: « Un “giornale” è un racconto » dichiara, e del racconto assume di conseguenza tutti gli elementi di costruzione e narrativizzazione4.

Il tema conduttore del testo rimasto incompiuto è quello dell’estraneità vissuta dall’autore in quella che riteneva la sua seconda se non autentica patria, la Francia, dopo i cambiamenti intervenuti successivamente alla seconda guerra mondiale. Guerra che, comunque, lo avevano reso meno interessante per quelli che credeva essere gli “amici francesi”. E anche se non tutti lo avrebbero rifiutato, spesso nei suoi confronti avrebbero dimostrato la freddezza che si manifesta nei confronti di un nemico o ex-amico, proprio a causa della guerra scatenata nel giugno del 1940 dal regime fascista nei confronti del paese d’oltralpe, già sotto attacco da parte delle forze armate tedesche.

Così un Malaparte che, nonostante la partecipazione alla marcia su Roma e la firma apposta sul manifesto degli intellettuali fascisti, era sempre rimasto un elemento scomodo per il regime, come egli stesso afferma nel Journal – «Sono stato arrestato undici volte in vent’anni, non posso dormire tranquillo da nessuna parte, in Italia»5 – si ritrova apolide, lontano da quelle sponde che sperava volessero ancora accoglierlo e allo stesso tempo rifiutato da quell’Italia che, prima in armi poi sotto le bandiere mussoliniane e infine al servizio degli occupanti anglo-americani6, egli aveva sempre creduto di servire.

Un opportunista, certo e in maniera evidente, ma che per le sue idee era stato allontanato dal quotidiano «La Stampa» di cui era stato direttore, espulso del Partito Nazionale Fascista e condannato a cinque anni di confino all’isola di Lipari, anche se già nel 1934 il confino era stato commutato in soggiorno obbligato a Forte dei Marmi.

In particolare a disturbare, per così dire, il regime era stata, oltre che la sua vicinanza al fascismo cosiddetto di sinistra e a Giuseppe Bottai, la pubblicazione in Francia nel 1931 di un testo che in Italia sarebbe stato tradotto soltanto nel 1948: Technique du Coup d’État (Tecnica del colpo di Stato), sostanzialmente un manuale per la conquista del potere attraverso il rovesciamento dello Stato.

Nel libro, bruciato sulla pubblica piazza per volontà di Hitler ma che giunse a ventisette edizioni in Francia e fu tradotto anche in inglese, spagnolo, polacco e cecoslovacco, si analizza e critica sia l’ascesa al potere del Partito bolscevico in Unione Sovietica che di quello nazionalsocialista in Germania. Come ebbe modo di affermare lo stesso autore nel Memoriale scritto nel 1946:

Nel 1930, mentre ero direttore della «Stampa» […] invece di scrivere per il giornale articoli laudativi e cortigianeschi, dedicai il poco tempo che mi rimaneva libero a scrivere la Technique du Coup d’État per l’editore francese Bernard Grasset. […] Quando lasciai la «Stampa» nel gennaio del 1931, il libro era pronto ad andare in stampa e, conoscendo, la natura del libro, decisi di recarmi in Francia perché la sua pubblicazione non mi sorprendesse in Italia. […] L’edizione italiana fu proibita da Mussolini sia per il tono del libro, sia per il capitolo su Hitler e il nazismo. Esso è il primo libro apparso in Europa contro Hitler. Il successo del libro mi portò di colpo alla ribalta di celebrità internazionale. Furono pubblicati su di me centinaia di articoli, concesse centinaia e centinaia di interviste, ebbi inviti per conferenze, per collaborazioni, offerte per contratti editoriali, molte università, fra cui l’Università americana di Yale, mi invitarono a tenere corsi di lezioni sulla letteratura moderna europea. In Italia i giornali fascisti attaccarono il mio libro e io fui accusato di fuoruscitismo. Non sto a ridire le ingiurie di cui fui coperto7.

Affermazioni in cui si può riscontrare l’attitudine del Malaparte a mettersi al “centro del mondo”, in un senso molto prossimo a Malraux, ma anche la volontà di rimarcare le distanze “prese per tempo” dal regime. Come sottolinea ancora Giorgio Luti nella medesima introduzione:

Sta di fatto che l’opera nelle sue linee generali era già stata progettata prima della improvvisa «defenestrazione» dalla «Stampa» dovuta sicuramente all’atteggiamento di fiancheggiamento che Malaparte aveva assunto nei confronti delle rivendicazioni operaie in tutta l’Europa (si pensi alle corrispondenze dall’estero sullo scottante argomento a cui il giornale torinese concedeva larga ospitalità) e in particolare nella città sede della FIAT, cioè dell’industria i cui proprietari finanziavano il giornale8.

Quest’ultima osservazione induce a rilevare la complessità di una figura e di un percorso politico e intellettuale in cui, comunque, hanno sempre avuto un ruolo di rilievo i comportamenti contraddittori che spesso hanno caratterizzato molte personalità della cultura del ‘900, ma non solo. Motivo per cui occorre ancora ricordare come Enrico Falqui, in occasione della pubblicazione per Vallecchi, nel 1971, dell’allora ancora inedito Ballo del Cremlino dello stesso Malaparte9, si augurasse:

che finalmente fosse scaduto per lo scrittore pratese il tempo del «purgatorio» in cui lo aveva ingiustamente relegato la cultura italiana dell’epoca ormai lontana della repentina scomparsa nel luglio del 1957. Era tempo che nascesse – scriveva Falqui – l’occasione di impostare su altre basi un incontro che per troppo tempo e non certo per colpa di Malaparte, era stato rimandato sotto la spinta di equivoci e risentimenti che poco avevano a che fare con la cultura, con la letterartura e con l’arte. Cose che del resto capitano quando ci si incontra con uno scrittore che prima di tutto è stato un personaggio pubblico, un protagonista di primo piano della vita politica italiana del ventennio fascista e nei primi anni del dopoguerra: un intellettuale inquieto sempre in bilico tra «rosso» e «nero»10.

La riproposta delle opere di Malaparte, il cui elenco si potrebbe definire sterminato, intrapresa da diversi anni dalle Edizioni Adelphi forse risponde a questa necessità di riscoperta auspicata da Falqui ed è, come spesso accade per questo editore, sicuramente meritoria11. Tipica comunque di una casa editrice il cui principale artefice, Roberto Calasso (1941-2021), si era rivelato spesso altrettanto scomodo per la bigotteria culturale italiana, sia di destra che di sinistra.

Poiché quasi tutte le opere di Malaparte richiederebbero un’analisi ben più lunga di quello che lo spazio di una recensione come questa potrebbe loro dedicare, è necessario ritornare in chiusura al diario parigino del 1947-1949. Senza però dimenticare di ricordare che, tra i tanti passaggi di fronte che caratterizzarono sempre la vita dello scrittore, negli anni successivi al conflitto non poté mancare, come per tanti altri transfughi del fascismo di sinistra o del fascismo tout court, un tentativo di avvicinamento dello stesso al Partito comunista.

Con cui, per sollecitazione dello stesso Togliatti, avrebbe dovuto collaborare attraverso le pagine della rivista settimanale «Vie Nuove», cui inviò gli appunti redatti nel 1957, in occasione di un viaggio nella Cina comunista, dove, osservando la vita nelle città e soprattutto nel campagne, era rimasto affascinato dai fermenti rivoluzionari in atto e aveva avuto anche modo di intervistare Mao Zedong. Appunti che, però, non vennero pubblicati a causa dell’opposizione di Calvino, Moravia, e altri intellettuali, che avevano sottoscritto una petizione affinché “il fascista Malaparte” non potesse pubblicare su una ”rivista comunista”12.

Il diario francese è sicuramente di altro tenore e riporta immediatamente il lettore in quel mondo intellettuale, e spesso salottiero, che da sempre e non soltanto in Francia, aveva attratto lo scrittore per le storie infinite che ne potevano derivare. Come, ad esempio, quelle narrate dall’ambasciatore italiano in Francia, Quaroni, ma un tempo Ministro d’Italia in Afghanistan di cui conservava, come si trattasse di un viaggiatore del XVIII secolo, memorie straordinarie.

[Quaroni] mescola l’erudizione allo spirito della scoperta, la meraviglia dell’esploratore al diplomatico dotato di uno spirito d’osservazione nutrito di letture e di esperienze. Mi parla dei cavalli e dei cani del re dell’Afghanistan, della caccia reale, dei ricordi, ancora vividi, che Alessandro Magno ha lasciato in quelle contrade misteriose. Mi parla della straordinaria popolarità del poeta persiano ****, che ogni contadino afgano conosce a memoria. Ama l’Afghanistan, e quando gli dico che c’è una sola contrada al mondo che eccita la mia immaginazione, che c’è una sola contrada che vorrei visitare, dove vorrei vivere, ed è l’Asia centrale, l’altopiano dell’Altai, e le immense solitudini delle steppe persiane e afgane, del Turkmenistan, donde si vede all’orizzonte la linea di matita azzurra dell’Himalaya, sorride, deliziato. Amo i diplomatici, amo la loro compagnia, la loro conversazione. Solo i diplomatici, ai giorni nostri, possono prendere nella società il posto dei dotti gesuiti del XVII secolo, che tornavano dall’Oriente, dall’Africa, dall’America centrale, e che portavano con sé tutto un tesoro di conoscenza, la cui fragilità, la cui delicatezza, davano alle loro parole, quando parlavano di una montagna o di un fiume immenso, o di un deserto, o di un forte, o di un castello, l’impressione che parlassero di minuscoli, fragili, trasparenti oggetti di porcellana13.

Un giornale in cui alle intuizioni fulminanti, «Il cinema è la patria degli stranieri» (a proposito del cinema di Roberto Rossellini, p. 14), si accompagnano ricordi che riportano al clima successivo al primo grande macello imperialista di cui Malaparte fu attento cronista e magnifico cantore in un’opera, che nel 1921 costituì anche il suo battesimo letterario e che si spera le Edizioni Adelphi, in tempi di guerra come quelli che stiamo vivendo, vogliano al più presto riproporre al pubblico: Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti14.

La prima opera a prendere una posizione decisamente opposta alla leggenda militarista e perbenista fondata sulla presunta viltà dei soldati italiani al fronte e che in realtà, come lo stesso Malaparte sottolinea facendone un’apologia, diedero vita ad una enorme ribellione disfattista che soltanto l’assenza di un partito volto al rovesciamento dell’ordine monarchico e borghese impedì che si trasformasse in autentica rivoluzione, così come era invece accaduto sul fronte russo nell’inverno tra il 1916 e il 1917. Un tema, quello dei patimenti dei militari al fronte e successivi alla guerra, che viene ripreso, come s’è detto poc’anzi, nelle pagine del Giornale là dove viene ricordato un episodio successivo alla fine della guerra, nel 1919.

Voglio bene a questi uomini, a questi Francesi: sono della mia stessa razza. Anch’io sono un uomo del 1914. Ma mi si stringe il cuore, al ricordo di come li vidi tornare a casa, dopo la guerra, dopo la vittoria, nel 1919. Tutte le volte che incontro di questi uomini, non posso difendermi dal ricordare quell’episodio. Era il primo maggio 1919, un grande comizio di protesta per la vita cara, per non so che, era stato organizzato in Piazza della Concordia. Da tutte le parti dell’immensa città, giungevano colonne e colonne di uomini ancora in uniforme bleu horizon, migliaia e migliaia di mutilati sorretti dai compagni, e folle enormi di anciens combattants, tutti in uniforme terrosa, stinta, sgualcita delle trincee. Nelle prime ore del pomeriggio, la Place de la Concorde era occupata da un immenso esercito di antichi soldati, da migliaia e migliaia di soldati fra i più valorosi del mondo. […] Erano i migliori soldati del mondo, i più tenaci, i più duri, i più ostinati, i più coraggiosi. Cantavano i loro canti di guerra, […] qua e là, sventolavano su quell’esercito bandiere rosse; i mutilati, ammassati sotto l’Hotel Crillon, agitavano le loro grucce, i loro bastoni. Era un esercito di veterani, pronto alla lotta, invincibile e vittorioso. Dalla terrazza dell’Hotel Crillon, mescolato alla piccola folla di spettatori delle delegazioni straniere per la pace, io contemplavo quell’immenso esercito, col quale avevo sofferto, combattuto. Erano i miei compagni di guerra, ero fiero di loro. A un tratto, dal giardino delle Tuileries, dalla Rue Boissy-d’Anglas, dalla Rue de Rivoli, dai Champs-Élysées, dal ponte, sbucarono folti gruppi di agenti, armati di sfollagente, che si gettarono su quell’invincibile esercito di veterani, li massacrarono, li bastonarono, li dispersero, li inseguirono a calci nel sedere. Quell’immenso, invincibile esercito di veterani fuggì, si disperse, sul pavé della sterminata Piazza rimasero abbandonati, tristi e lugubri, berretti, grucce, bandiere. Addossato a una colonna, io frenavo a stento le lacrime. Fu quel giorno che io sentii oscuramente che la mia generazione aveva perso la guerra15.

Ma se l’autore sentiva ancora di essere vicino a quei francesi con cui aveva combattuto in passato, una fascia consistente di (ex-) amici e conoscenti non provava invece più lo stesso sentimento nei suoi confronti.

A sorprendermi un po’, e a turbarmi, è l’aria con cui mi guarda François Mauriac. Con uno sguardo di rimprovero, dall’alto, come se, dal nostro ultimo incontro, fossero accadute delle cose che mi si possano rimproverare. Faccio un rapido esame di coscienza. Non ho fatto niente di male, niente che mi si possa rimproverare, niente contro la Francia e i francesi, niente contro l’onore, la giustizia, la verità, la libertà, niente contro François Mauriac. In tutti questi anni, ho sofferto come tutti, ho passato diversi anni in carcere, come molti. Per me, François Mauriac è rimasto lo stesso. Perché io non sono lo stesso per François Mauriac? Ah, sono italiano. Il mio paese ha dichiarato guerra alla Francia, i soldati del mio paese hanno occupato dei territori francesi. Ecco. Ma quando ero nel carcere di Regina Coeli, quando ero a Lipari, quanti francesi salivano la scalinata di Palazzo Venezia e andavano a rendere omaggio a Mussolini. Politici, scrittori, francesi di ogni sorta. Comunque sia, non serbo loro rancore, erano nel loro diritto16.

Come il personaggio di un romanzo di Robert Heinlein, Malaparte, pur ispirato da buoni propositi e nostalgici sentimenti si sente “straniero in terra straniera”, ormai sia in Italia che in Francia17. Un destino che lo accomuna a molti profughi e superstiti della catastrofe del ‘900 europeo che determinò la fine del predominio delle culture e delle economie europee sul resto del mondo, nonostante lo sforzo di estenderlo e difenderlo con una seconda guerra mondiale che, però, finì soltanto col determinare la fine del colonialismo europeo; mentre la successiva lunga pausa illusoria di pace e prosperità globale, almeno dall’inizio del XXI secolo, sembra essersi fatta sempre più labile e incerta.

Per comprendere molti aspetti di un presente dalle radici molto profonde e sparse la lettura di molte opere di Malaparte, tra cui quest’ultima, si rivela illuminante e necessaria, nonostante lo stigma che, come per Céline, non a caso lo colpì, come si è già detto, negli anni del secondo dopoguerra.

Céline e Malaparte furono scrittori emblematici per la singolarità delle loro esistenze e il carattere peculiare della loro letteratura che si situa al centro dei dibattiti socio-ideologici della loro epoca; scrivere è un modo per definirsi attraverso il rifiuto e la solitudine, è il desiderio di un io che rigetta la società e vuole esprimere la propria denuncia attraverso la letteratura. Gli autori riusciranno quindi con questa loro pretesa di verità, di critica continua espressa senza alcuna moderazione, a farsi criticare, censurare e addirittura esiliare. Il pensiero di Malaparte e Céline si basa su un’osservazione critica e attenta della società in cui vivono, osservazione che i due scrittori riescono a rendere attraverso una scrittura molto elaborata e personale. La loro critica va alla storia scritta dai potenti, nel tentativo di mettere in scena la tragedia della povertà e della sottomissione ai poteri invisibili, lasciando spazio a chi nella storia non ha nessuna autorità, buttando giù le false verità e la facile retorica. I due autori, di cui non è immediato trovare la chiave di interpretazione, propongono quindi una riflessione sul rapporto tra gli uomini, sulla relazione tra l’individuo e il potere politico-economico, sempre mostrando una coscienza della lingua e del loro ruolo di scrittori che li rende estremamente interessanti nel contesto letterario del primo Novecento e che non ha smesso di affascinare i critici sino ai giorni nostri. Céline e Malaparte, come molti romanzieri loro contemporanei, esprimono il rifiuto del mondo, coscienti dell’impossibilità di salvarsi dal disastro che la guerra ha lasciato: l’uomo ha mostrato la sua crudeltà, si è denudato ed ogni forma di coesione e di unione è crollata. In tale contesto disastrato i due letterati si mostrano solitari, individualisti nelle loro scelte, avversari di ogni chiesa e partito. La loro è anche scrittura di immersione nel marcio della società, tra gli sventurati, attraverso uno stile singolare ed un lessico aspro e dirompente18.

Una poetica che, per quanto riguarda lo scrittore italiano, si manifestò violentemente e visionariamente nelle sue due opere più celebri: Kaputt (1944) e La pelle (1949). La prima delle quali fu definita dallo stesso Malaparte come «un libro crudele. La [cui] crudeltà è la più straordinaria esperienza che io abbia tratto dallo spettacolo dell’Europa in questi anni di guerra».

Maria Antonietta Macciocchi, iniziale destinataria degli appunti sulla Cina cui si è accennato più sopra e che gli fu vicina negli ultimi momenti della vita, ha ricordato in un convegno tenutosi a Prato nel 1987, a trent’anni dalla scomparsa dello scrittore, che almeno in Francia l’«anno malapartiano» aveva ricevute cospicue e convinte adesioni da parte di molti intellettuali e tre intere pagine dedicate allo stesso dal quotidiano «Le Monde», tutte tese a rompere il silenzio ufficiale intorno all’«infame Malaparte»19.

La Macciocchi può avere ragione nell’estendere a tutti o quasi gli intellettuali italiani il cliché di fascisti pentiti dopo il colpo di bacchetta magica del 25 luglio, e pentiti senza esami di coscienza, ma con opportunistici colpi di spugna, che escludevano per l’intelligenza italiana esiti tragici come quelli di Drieu de la Rochelle, di Brasillach o di Céline, donde il «regolamento di conti» della società dei colti ai danni di un suo adepto, che «rompeva tutti gli schemi del vecchi provincialismo, e si ricollegava a grandi momenti complessi del pensiero e della vita, talora contraddittori, fatti di abiure e di speranze, di negazione della fede e di fede, vale a dire di un uomo che riassumeva in sé la fantastica razionalità dell’europeo e l’irrazionalità del «maledetto toscano». In altre parole Malaparte amplificava in modi addirittura spettacolari il percorso […] che era stato di molti, quasi di tutti, «oberato in patria di tutti i “vizi” della sua generazione, e dell’intero ceto intellettuale italiano», e si attirava perciò i fulmini dalla corporazione delle lettere e delle scritture20.

Con buona pace di Alberto Moravia che con il suo “stile” velenoso lo aveva invece definito scrittore strumentale perché lo scrivere libri «gli consentiva di brillare con le donne nei salotti», mettendosi «in smoking»21.


  1. C. Malaparte, Giornale di uno straniero a Parigi, a cura di Michelangelo Fagotti e Monica Zanardo, Adelphi Edizioni, Milano 2025, pp. 9-10.  

  2. L’entomologia fu una grande passione dello scrittore tedesco che alle osservazioni degli insetti dedicò numerose pagine e momenti della sua vita “privata”. Nel testo Cacce sottili (Guanda, 2022) è riassunta la storia di questa passione cui Jünger non cesserà di dedicarsi per tutta la vita: negli anni della guerra come nel corso di viaggi in Italia, nel Medio Oriente, in Asia. Gli insetti offrirono sempre allo scrittore occasione di riflessione sul tempo e sul mutare del volto della natura, sui desideri umani, sulla ricerca inesausta, infaticabile, del sapere e del piacere. Il mondo sottile degli insetti, scenario di bellezza e crudeltà, diventava così una metafora del cosmo. E dei suoi drammi.  

  3. A. Malraux, Antimemorie, Bompiani, Milano 2022.  

  4. M. Zanardo, Straniero in due patrie: Curzio Malaparte a Parigi, in C. Malaparte, Giornale di uno straniero a Parigi, op. cit., pp. 415-416.  

  5. C. Malaparte, op. cit., p. 14.  

  6. Dopo aver rifiutato nel settembre del 1943 l’adesione alla RSI, nel novembre dello stesso anno era stato arrestato dal Counter Intelligence Corps (CIC), il controspionaggio alleato, per le sue attività diplomatiche e da allora aveva iniziato a collaborare col CIC.  

  7. Cit. in G. Luti, Il cronista dell’Europa «catilinaria», Introduzione a C. Malaparte, Tecnica del colpo di stato, Vallecchi Editore, Firenze 1994, pp. 22-23.  

  8. G. Luti, op. cit., p. 23.  

  9. C. Malaparte, Il ballo al Kremlino (Materiale per un romanzo), Adelphi Edizioni, Milano 2012.  

  10. G. Luti, op. cit., p. 19.  

  11. Di Curzio Malaparte fino ad oggi le Edizioni Adelphi hanno ripubblicato, oltre al già citato Ballo al Kremlino: Il buonuomo Lenin (2018), Maledetti toscani (2017), La pelle (2015), Kaputt (2014), Tecnica del colpo di Stato (2011) e Coppi e Bartali (2009).  

  12. In realtà le note dei viaggi in Russia e in Cina di Malaparte, furono pubblicate, a cura di Giancarlo Vigorelli, l’anno successivo alla sua morte da Vallecchi Editore: C. Malaparte, Io, in Russia e in Cina, Firenze 1958.  

  13. C. Malaparte, Giornale di uno straniero a Parigi, pp. 17-18.  

  14. C. Malaparte, Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti (secondo il testo della prima edizione del 1921),Vallecchi Editore, Firenze 1995.  

  15. C. Malaparte, Giornale, op. cit., pp. 38-39.  

  16. Ivi, pp. 22-23.  

  17. R. Heinlein, Straniero in terra straniera (titolo originale Stranger in a Strange Land, prima edizione 1961), Fanucci, Roma 2025.  

  18. L. Libeccio, Céline, Malaparte. Malaparte, Céline: una poetica del disincanto, «Cahiers d’études italiennes», 24/2017.  

  19. M. A. Macciocchi, Ricordo di Malaparte scrittore europeo, in Malaparte scrittore d’Europa. Atti del convegno (Prato 1987) e altri contributi, Marzorati Editore- Comune di Prato, 1991. 

  20. M. Biondi, I giorni dell’ira: «Viva Caporetto!» Apologia di una disfatta, Inroduzione a C. Malaparte, Viva Caporetto!, op. cit., pp. 10-11.  

  21. Cit. in G. Grana, Il «camaleonte» e il sistema letterario italiano, in Malaparte scrittore d’Europa, op. cit., p. 2.  

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I fotoromanzi del consenso. Il racconto illustrato nella propaganda del dopoguerra https://www.carmillaonline.com/2019/06/03/i-fotoromanzi-del-consenso-il-racconto-illustrato-nella-propaganda-del-dopoguerra/ Mon, 03 Jun 2019 21:30:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52643 di Gioacchino Toni

Quando si pensa al fotoromanzo si è portati a pensare ad una narrazione incentrata su banali storie d’amore a lieto fine, eppure questo tipo di pubblicazione popolare ha svolto un ruolo non da sottovalutare nell’evoluzione culturale e politica dell’Italia del dopoguerra. Di ciò si occupa il recente volume di Silvana Turzio Il fotoromanzo. Metamorfosi delle storie lacrimevoli (Meltemi, 2019). L’autrice, dopo aver ricostruito il panorama nazionale di tale tipo di riviste illustrate ed aver tratteggiando le modalità con cui viene realizzato il fotoromanzo, analizza il trattamento riservato ai racconti illustrati da parte delle grandi compagini sociopolitiche che nel [...]]]> di Gioacchino Toni

Quando si pensa al fotoromanzo si è portati a pensare ad una narrazione incentrata su banali storie d’amore a lieto fine, eppure questo tipo di pubblicazione popolare ha svolto un ruolo non da sottovalutare nell’evoluzione culturale e politica dell’Italia del dopoguerra. Di ciò si occupa il recente volume di Silvana Turzio Il fotoromanzo. Metamorfosi delle storie lacrimevoli (Meltemi, 2019). L’autrice, dopo aver ricostruito il panorama nazionale di tale tipo di riviste illustrate ed aver tratteggiando le modalità con cui viene realizzato il fotoromanzo, analizza il trattamento riservato ai racconti illustrati da parte delle grandi compagini sociopolitiche che nel dopoguerra si contendono il consenso popolare. Il capitolo finale del libro è invece dedicato ai “fotoromanzi della controinformazione” degli anni Settanta ed Ottanta. A questa ultima parte sarà dedicato un successivo scritto.

In Italia il fotoromanzo – per diverso tempo definito “fumetto” – è stato a lungo guardato con sospetto tanto dalla sinistra quanto dal mondo cattolico, come se si trattasse di un’intrusione americana nella cultura nazionale, non tenendo conto del fatto che le origini del “romanzo d’amore a fotogrammi” sono in realtà italiane. Nonostante le trincee ideologiche, dimostra il volume, «il fotoromanzo si è insinuato negli interstizi delle barricate comuniste e cattoliche per emergere infine per mano dei suoi stessi detrattori. Le vicende del fotoromanzo politico gettano luce non solo su un periodo congelato dalla Guerra fredda e da una classe politica chiusa alla comunicazione, ma anche sull’emersione impellente delle questioni civili» (pp. 9-10).

Nel dopoguerra, all’interno del Pci ci si interroga sul successo di pubblicazioni come «Grand Hotel» tra le donne e tra le militanti. Se una parte del partito palesa una condanna senza appello nei confronti di tali periodici non mancano però posizioni più sfumate. Enrico Berlinguer tra il 1948 e il 1955 interviene più volte sulla preoccupazione diffusa nel partito di non lasciare i giovani in balia del modello di vita americano mostrando, nei confronti del fotoromanzo, una maggiore comprensione. In particolare nel 1949 scrive: «Non è davvero nelle nostre intenzioni negare alle ragazze il diritto di scegliere le loro letture, di appassionarsi ad avventure o a vicende d’amore. Vorremmo soltanto aiutarle a comprendere che, alle volte, in chi scrive quelle avventure, in chi immagina quelle storie d’amore, vi è l’intenzione di farci palpitare per le avventure di altri, di farci sognare qualcosa che non appartiene al nostro mondo per impedirci di aprire gli occhi, di unirci, di operare per rimuovere insieme gli ostacoli che impediscono a tante ragazze di conquistarsi un loro avvenire, di portare a compimento il loro sogno d’amore, di avere tutte la loro famiglia e di raggiungere la loro felicità in una società che più non conosca per i pochi, il privilegio, il lusso, il capriccio e, per i molti, l’umiliazione, lo scherno, la miseria. Vogliamo, soprattutto, indicare alle ragazze che sono stati scritti altri libri, che esistono altre letture che sanno rispecchiare – anch’essi – i loro sogni e le loro aspirazioni, che sanno essere anch’essi appassionanti, perché parlano della più grande delle avventure, che è la nostra vita di ogni giorno, perché esprimono il più grande dei sogni che è quello di una società giusta di liberi e di uguali, perché infondono fiducia e mostrano, nella lotta, una via che non tradisce, che non delude e che tutti i sogni può trasformare in realtà. Sono le opere dei comunisti, dense di umanità, ricche di una vita vera e vissuta da milioni di uomini e di donne, di una passione che non conosce ostacoli, di una fede grande ed invincibile» (pp. 74-75).

Dopo la sconfitta elettorale del 1948 lo stesso Palmiro Togliatti, inizialmente meno intransigente nei confronti della letteratura popolare, mostra maggiore risolutezza nel condannare quella che viene vista come una pericolosa ingerenza ideologica americana. La commissione culturale del partito, all’epoca diretta da Emilio Sereni, intraprende una vera e propria campagna in favore di una cultura popolare alternativa a quella d’importazione americana sull’onda del cinema neorealista nazionale, osteggiato invece dalla Dc.
In un clima di ostilità diffusa nei confronti delle storie illustrate sia tra le fila della sinistra che tra quelle cattoliche, nel 1951 si arriva ad una proposta di legge democristiana per l’istituzione di una Commissione parlamentare di Vigilanza e Controllo della stampa destinata all’infanzia e all’adolescenza.

La difficoltà che la politica incontra nell’affrontare la narrazione visiva è palese anche sulle pagine di «Rinascita», ove Nilde Iotti muove una condanna senza appello nei confronti del “fumetto” che «non si legge ma si guarda. E questo provoca un grave danno poiché il solo guardare le immagini mina la capacità di riflessione insita nella lettura portando alla brutalità e alla violenza istintive. L’agent provocateur è in questo caso il gruppo editoriale Hearst […] che dagli Stati Uniti – secondo la Iotti “terra di aspetti negativi, repellenti” – invade l’Europa attraverso i “fumetti”» (p. 77). Dunque, secondo la dirigente comunista, l’eventuale controllo attuato tramite la commissione proposta dalle fila democristiane risulterebbe del tutto inutile in quanto questa «sarebbe formata da persone che lascerebbero circolare i “fumetti”, persino quelli realizzati dalle organizzazioni cattoliche». Da interventi come questo emerge, sostiene Silvana Turzio, «quanto le problematiche che sorgono intorno alla questione siano uno strumento per demonizzare sia gli Stati Uniti che le organizzazioni cattoliche, surrettiziamente assimilate ai pericolosi “yankee” nell’utilizzo del “fumetto”» (p. 77).

Gianni Rodari, in una lettera a «Rinascita», pur dicendosi anch’esso contrario alla proposta democristiana, intende differenziarsi dalla Iotti evitando di estendere il giudizio negativo al “fumetto” come genere, sottolineando invece come sia possibile ricorrere a tale modo di espressione per realizzare prodotti differenti da quelli americani per forme, contenuti e spirito. Inoltre, Rodari pone l’accento su come l’avvento del cinema abbia creato un “bisogno di vedere” del tutto assimilabile al “bisogno di cultura”.
Palmiro Togliatti, all’epoca direttore di «Rinascita», condanna le illustrazioni americane ma al tempo stesso mostra maggior disponibilità nei confronti delle immagini popolari di Épinal. Nel ragionamento del leader comunista, sostiene Turzio, si ravvisa come la maggior benevolenza per le immagini di Épinal, antesignane del “fumetto”, derivi in parte dalla loro origine europea. Si tratterebbe dunque, secondo la studiosa, di una difesa della cultura europea minacciata da quella americana: ciò che realmente preoccupa è il fascino esercitato dagli Stati Uniti.

Nell’ambito della discussione che attraversa il Pci attorno alla metà degli anni Cinquanta sul come arrivare a quell’elettorato femminile scarsamente alfabetizzato che frequenta malvolentieri i comizi e fatica a leggere «l’Unità», interviene anche la palermitana Giuliana Saladino, dalle pagine del «Quaderno dell’attivista» sostenendo che di fronte all’incapacità delle donne meno acculturare di affrontare il quotidiano del partito o «Noi Donne», «affinché possano diventare consapevoli della loro ingiusta condizione», sia auspicabile vedere «in mano alle donne siciliane degli albums a fumetti con i celebri romanzi d’amore e di lotte in cui viene esaltata la giustizia e condannata questa società, i suoi mali e i suoi torti, fumetti che trattino problemi attuali, sulla base di una trama semplice, di una storia vera […] che esalti la lotta del popolo per la terra, la lotta contro il costume ancora feudale». Dunque, afferma Saladino, in polemica con Nilde Iotti, «non possiamo noi, in Sicilia, così semplicemente scartare il fumetto, letto da milioni di donne, come mezzo di propaganda» (p. 82) ed a sostegno della sua tesi la palermitana cita l’esempio dei fumetti cinesi che, dal 1949, raccontano a disegni l’epopea di Mao.

Negli anni seguenti il Pci, pur continuando ad osteggiare le produzioni illustrate di tono sentimentale, decide di pubblicare i racconti a disegni sulla vita di Antonio Gramsci (s.d.) e di Giuseppe Di Vittorio (1958). «Espunti dai periodici e dai quotidiani, denigrati sugli organi di stampa ufficiali, una decina di fotoromanzi riescono tuttavia a forzare lo sbarramento ed escono allo scoperto per pochi anni. Stampati prevalentemente in occasione delle campagne elettorali amministrative (1956) e politiche (1953-’58-’63-’68) come pubblicazioni a sé, distribuiti porta a porta, svolgono una funzione di propaganda e rimangono limitati al periodo e ai temi elettorali, sottolineando soprattutto i problemi sociali più urgenti […] Non è una lettura di “svago”, ma una porta che apre prospettive per il raggiungimento di condizioni di vita migliori attraverso l’adesione alla lotta comune. Le storie vertono su temi scottanti, come la presa di coscienza dei diritti civili: la garanzia di un lavoro sicuro in patria, il rispetto della donna lavoratrice, il diritto di sciopero e il diritto alla casa, il predominio maschile sul lavoro e in casa, le difficoltà di progettare un futuro per le giovani coppie, la mancanza di asili nido e la tutela degli anziani. Problematiche impellenti ma sepolte in una nebbiosa inconsapevolezza dei propri diritti e quindi poco condivise dalle persone meno colte e più isolate socialmente e geograficamente. In questa prospettiva il fotoromanzo “politico” si pone come uno specchio fedele della realtà e individua le necessità dei lettori aiutandoli quindi a capirne la portata e la legittimità. Il lieto fine sentimentale è la scusa formale per introdurre il vero finale: l’“invito al voto comunista” che marca il distacco dal melodramma dei fotoromanzi classici. Il protagonista glorioso, sottotraccia sino alla risoluzione finale, è il Partito che interviene per proporre soluzioni concrete ai problemi del singolo inglobandoli e rafforzandoli in quelli collettivi» (p. 86-87).

Non è facile rintracciare tutti i fotoromanzi pubblicati su indicazione delle commissioni culturali dal Pci e diffusi porta a porta dalle militanti, tra questi si possono citare Più forte del destino e La vita cambierà. Il primo esce a disegni nel 1956 ed a fotografie nel 1958. Nella prima versione, realizzata alla vigilia delle amministrative di Bologna, la narrazione, che ruota attorno alle vicende di due fidanzati, si concentra soprattutto sui contratti capestro che regolano il lavoro femminile. Nell’edizione del 1956 «ci sono tutti gli ingredienti narrativi di una vita misera, raccontata secondo gli stilemi del fotoromanzo classico. Nonostante tutto, i due protagonisti resistono alle prove del destino sino a quando un anziano li esorta a votare per il Partito [ed] Il lieto fine annuncia la decisione dei due giovani di “votare per chi ci difende e ci protegge”» (p. 89). Nella versione fotografica, pubblicata alla vigilia delle elezioni politiche del 1958, i protagonisti non appartengono più alla classe operaia ma sono due giovani di buona famiglia che, sottoposti alle angherie del conformismo famigliare, troveranno nel Partito una promessa di un futuro migliore.
Il fotoromanzo La vita cambierà, probabilmente ambientato nell’imminenza delle politiche del 1968, attraverso una trattazione più corale, affronta invece una questione presente anche in molti fotoromanzi meno politicizzati: il problema dell’emigrazione verso la Svizzera e la Germania e le difficoltà delle famiglie che restano in Italia.

«L’utilizzo del fotoromanzo per costruire narrazioni educative non ha però superato l’esame da parte dei quadri, malgrado il successo confermato dalle donne più aperte e attente. Invece di vederne e sfruttarne il potenziale visivo, ci si è fermati alla distribuzione più spicciola e immediata, a mo’ di volantinaggio, limitata nello spazio e nel tempo. È tuttavia innegabile che i fotoromanzi, pur limitati nel tempo e nella quantità, hanno svolto un ruolo importante al momento delle campagne elettorali» (p. 97).
Nonostante il ricorso al fotoromanzo da parte del Pci svolga una funzione educativa politico-sociale e sperimenti un modo nuovo di cercare il consenso soprattutto tra l’elettorato femminile, la componetene più tradizionalista del partito fatica a riconoscere dignità ai racconti per immagini.

Particolare è il caso della rivista «Noi Donne» – dal 1944 pubblicazione ufficiale dell’Unione Donne Italiane – per il suo tentativo di coniugare l’impegno politico con i modelli dei periodici illustrati, soprattutto quelli rivolti alle donne. La rivista dell’Udi deve confrontarsi «sia con il disprezzo per la cultura dei rotocalchi femminili, diffuso tra i quadri dei partiti di sinistra, sia con una misoginia classista presente in alcune lettrici e redattrici» (p. 99).

Nel 1947 su «Noi Donne» viene pubblicato “Il nuovo romanzo d’amore illustrato”, Una donna si ribella, con disegni ad acquerello stampati a mezzatinta ad effetto fotografico di Vittorio Cossio e i testi di Grazia Gini – ispirato al romanzo Portrait of a Rebel (1930) di Netta Syrett – incentrato su una donna che, superati gli ostacoli sociali e famigliari, giunge a conquistare un’identità professionale e la libertà sentimentale. La tematica affrontata deve essere contestualizzata all’interno della campagna elettorale del 1948 che vede il Pci impegnato sul diritto al lavoro per le mogli e le madri. Con la presenza del romanzo illustrato, sotto alla direzione di Dina Rinaldi, la rivista passa dalle 40 mila alle 130-150 mila copie vendute grazie anche al capillare lavoro delle diffonditrici della pubblicazione, attività utile anche per comprendere le preferenze delle lettrici. Insieme al successo nelle vendite, però, arrivano anche le critiche da parte di alcune lettrici che, nel pieno della campagna antiamericana del 1948 contro i “fumetti” portata avanti dai vertici del Pci, si dicono contrarie alla loro pubblicazione sulla rivista dell’Udi.

In una delle prime scene del film Riso amaro (1949) di Giuseppe De Santis, Silvana Mangano ha tra le mani una copia particolarmente “vissuta” di «Grand Hotel», probabilmente ad indicarne una lettura smaniosa e ripetuta. Poco prima dell’uscita nelle sale del film su «Noi Donne» Riso amaro compare nella versione a cinefotoromanzo realizzato con fotogrammi e fotografie tratte dal set ottenendo un enorme riscontro di vendite.

La direzione della rivista dell’Udi a partire dal 1950 passa a Maria Antonietta Macciocchi e la linea editoriale cambia: «i cineromanzi assumono un’aria dimessa, impaginati a scomparti fissi di sei fotografie orizzontali per pagina, ridotti a due sole pagine e accompagnati da didascalie redatte in modo neutro. I romanzi illustrati a disegni scompaiono e così le seppur rare vignette a “fumetti” dei mesi precedenti […] Con la nuova direzione il fotoromanzo viene additato come veicolo di un immaginario femminile sconveniente che ammicca pericolosamente dalle fotografie dove la donna “è rappresentata come un essere stupido, ridicolo, insignificante”» (p. 111).

Si apre così una stagione di attacchi diretti contro «Grand Hotel», «Bolero Film», «Luna Park», «Sogno», «Tipo», «Hollywood», pubblicazioni che la rivista dell’Udi «scova nei luoghi meno “colti”: dal parrucchiere, in treno, in tram, alla cassa del droghiere e del farmacista e sempre in mano a giovani donne» (p. 111). La nuova direzione di «Noi Donne» se la prende con quel «pubblico piccolo borghese che “smania” per occhieggiare come un voyeur i grandi alberghi e le donne procaci e discinte esibite in “questa volgare e ridicola illustrazione della sessualità”» (p. 111) ma soprattutto denuncia come le ingenue lettrici vengano, proprio attraverso i fotoromanzi, educate «al razzismo più bieco poiché i negri, i cinesi e gli indiani presenti nei racconti sono sempre ladri, traditori, spie, losche figure in contrasto con il bellimbusto americano e la sua indomita innamorata» (p. 112).

Sul finire del 1951 in un suo intervento pubblicato su «Noi Donne», l’onorevole Camilla Ravera accusa il fotoromanzo di sviare i lettori dai problemi reali e dalla lotta indirizzandoli verso un mondo fittizio. Il fotoromanzo, sostiene Ravera, «è luciferino per i ragazzi: favorisce la pigrizia mentale e ne atrofizza a lungo andare le facoltà intellettive, insegna la tecnica del delitto, alimenta l’odio di razza, indirizza a una concezione falsa della realtà» (p. 112).
Nonostante tutto i i cineromanzi continuano ad essere ospitati sulle pagine della rivista dell’Udi, pur ridotti alla doppia pagina ed accuratamente scelti su basi ideologiche, con un’impaginazione frema ai modelli delle prime pubblicazioni popolari degli anni Venti e Trenta oramai non più al passo coi tempi.

«Noi Donne», sostiene Silvana Turzio, «è un esempio non solo delle diverse e spesso opposte posizioni nei confronti delle dispense popolari a fumetti ma soprattutto della perplessità paralizzante nei confronti delle immagini e, in fondo, anche di una paradossale e poco consapevole misoginia che si manifesta anche nelle fautrici di un nuovo femminismo. Il problema emerge infatti quando le immagini mostrano troppo esplicitamente gli emblemi che scatenano il desiderio – “passioni d’amore, uomini, natiche e seni…” –, immagini pericolose perché offerte all’infanzia, intesa in senso letterale, della donna italiana» (p. 113).

Anche sul fronte cattolico alcune riviste decidono di ospitare fotoromanzi, tra queste «Famiglia Cristiana», pubblicazione che da una tiratura alla nascita nel 1931 di circa 300 mila copie, passa poi alle 750 mila nel 1956, alle 900 mila nel 1959, al milione nel 1961 fino a toccare i 2 milioni di copie a fine 1971 divenendo, nel corso degli anni Settanta, il settimanale più venduto in Italia. Per quanto riguarda la qualità dei servizi fotografici e della stampa, la rivista paolina rivaleggia con i periodici di maggior successo dell’epoca.

Il rapporto della Chiesa con le novità tecnologiche dei mezzi di comunicazione è notoriamente problematico: se da un lato viene incoraggiato il loro uso per «Portare Cristo oggi, con i mezzi di oggi» – si pensi alla produzione di cortometraggi, documentari e film della Sampaolofilm –, dall’altro però si avverte la necessità di istituire sistemi censori volti a preservare il pubblico da eventuali messaggi diseducativi e contrari alla morale cristiana.

Sebbene inizialmente ad essere trattate dai fotoromanzi pubblicati sul periodico cattolico siano storie di santi e religiosi, col passare del tempo prendono piede sia le riduzioni dei classici della letteratura, altrimenti sconosciuti al grande pubblico, che a vicende a sfondo sociale. In tutti i modi si tratta di produzioni votate alla catechizzazione in linea con l’impostazione paolina.
Nel 1959 su «Famiglia Cristiana» viene pubblicato Non posso amarti, la storia a fotoromanzo di Sant’Agnese, mentre l’anno successivo la rivista ricorre al racconto per immagini con didascalie, sulla falsariga dei cineromanzi degli anni Quaranta, per un servizio sul matrimonio e per uno sui grandi miracoli.
Sangue sulla palude (1960) rappresenta invece un tipo di fotoromanzo socio-educativo incentrato sulla vicenda di Maria Goretti. Nel giro di un quarto di secolo i fotoromanzi pubblicati su «Famiglia Cristiana» sono circa una cinquantina e, fino a metà degli anni Sessanta, sono prodotti internamente alla rivista

«Da un punto di vista formale il fotoromanzo cattolico è nei primi anni poco innovativo. Gli attori sono quasi sempre gli stessi, la pagina è densa di immagini collocate secondo la struttura classica del fotoromanzo: sei o otto fotografie per pagina, distribuite in una gabbia a crescere, le piccole in alto, le grandi in basso a sinistra, i testi invece sono collocati ai bordi superiori o inferiori, le vignette si sovrappongono a volte maldestramente alle immagini, che non sembrano essere realizzate in rapporto con il testo. La sequenza narrativa è chiusa sul presente, raramente con flashback o salti temporali» (p. 119). Le storie narrate riguardano soprattutto biografie edificanti di religiosi e figure femminili che hanno saputo compiere scelte coraggiose guidate da cristallini principi cristiani.

Dalla metà degli anni Sessanta le storie illustrate iniziano a preferire l’attualità ai racconti storici e agiografici e le modalità narrative si fanno più accurate, grazie al ricorso a professionisti del genere e soprattutto, segnala Silvana Turzio, si mostrano funzionali «ai cambiamenti dell’ultimo momento che possono essere sollecitati dalle reazioni dei lettori o da eventi di cronaca avvenuti tra una puntata e l’altra, secondo la collaudata tecnica del romanzo d’appendice, successivamente adottata dalle soap opera televisive. A volte emerge il meccanismo contrario: la rivista propone nel fotoromanzo scene o svolgimenti narrativi provocatori per suscitare nei lettori reazioni indignate, il che permette di riprendere il tema in articoli a latere o nelle rubriche dei lettori nei numeri successivi. Le pubblicità sono a loro volta articolate in funzione delle questioni che si vogliono affrontare nel corpo centrale della rivista. Gli interventi collaterali sembrano quindi essere costruiti consapevolmente come apparati di controllo e di deviazione del racconto in funzione di una precisa strategia comunicativa» (p. 120).

Nel periodo compreso tra la metà degli anni Sessanta e la metà del decennio successivo, il mondo cattolico è toccato dalle turbolenze che attraversano l’intera società dell’epoca. All’interno del nuovo clima che si respira tra i cattolici, soprattutto tra i più giovani, i fotoromanzi pubblicati dalla rivista paolina «sembrano svolgere il ruolo di “messa in scena” dell’argomento per proporne una soluzione negli articoli o nelle rubriche di cronaca, dimostrando un uso congiunto del fotoromanzo e del paratesto di carattere propedeutico. Lungi dall’essere demonizzato, il fotoromanzo viene invece accolto come un contenitore capace di veicolare informazioni e indicazioni di vita e di pensiero» (p. 121).

Nel volume vengono dettagliatamente presi in esame un paio di fotoromanzi che affrontano il tema del celibato e dell’impegno sociale: La miniera del miracolo (1967) ed Il rifiuto (1967). Nel primo si narra del coinvolgimento di un prete nel mondo dei minatori, con annesse tragedie sul lavoro, e del problema del celibato sacerdotale, mentre nel secondo è di scena la questine dello scontro generazionale, in linea con il tentativo della Chiesa di «proporre un equilibrio tra gli effetti del boom economico e le lotte operaie e sindacali che si profilavano all’orizzonte» (pp. 129-130).

Ad essere affrontate sono anche la procreazione extramatrimoniale, l’identità femminile al di fuori della famiglia e l’imposizione parentale sulla scelta lavorativa o affettiva delle donne, tematiche trattate all’epoca anche dai fotoromanzi delle testate non cattoliche, «Noi Donne» compresa.
Se nelle produzioni “laiche” si assiste ad un evidente miglioramento della qualità fotografica, che adotta il colore, «Famiglia Cristiana» si ostina al bianco e nero evitando di curare l’aspetto fotografico ritenendolo esclusivamente funzionale alla narrazione scritta. La stagione del fotoromanzo sulla rivista cattolica può dirsi terminare attorno alla metà degli anni Settanta.

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