Marco Aime – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 02 May 2024 00:30:26 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.25 Il nuovo disordine mondiale / 21: un’invenzione coloniale (in via di disgregazione) https://www.carmillaonline.com/2023/09/06/il-nuovo-disordine-mondiale-21-uninvenzione-coloniale-in-via-di-disgregazione/ Wed, 06 Sep 2023 20:00:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78655 di Sandro Moiso

Jean-Loup Amselle, L’invenzione del Sahel. Narrazione dominante e costruzione dell’altro, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 170, 16 euro

Si muove, confusamente ma con energia, nel continente un nuovo anticolonialismo che non possiamo per ragioni di immagine adottare. Anche perché non lo controlliamo (ancora).[…] E’ ben diverso da quello degli anni sessanta e settanta del secolo scorso, non si nutre di ideologia, non produce leader carismatici, libri o manifesti. Che risultava affascinante anche a una parte dell’Occidente, perché il marxismo africanizzato era un prodotto della nostra cultura. In fondo era [...]]]> di Sandro Moiso

Jean-Loup Amselle, L’invenzione del Sahel. Narrazione dominante e costruzione dell’altro, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 170, 16 euro

Si muove, confusamente ma con energia, nel continente un nuovo anticolonialismo che non possiamo per ragioni di immagine adottare. Anche perché non lo controlliamo (ancora).[…] E’ ben diverso da quello degli anni sessanta e settanta del secolo scorso, non si nutre di ideologia, non produce leader carismatici, libri o manifesti. Che risultava affascinante anche a una parte dell’Occidente, perché il marxismo africanizzato era un prodotto della nostra cultura. In fondo era esso stesso una esportazione colonialista.[…] Sì, il nuovo anticolonialismo è molto più primitivo […] Gli bastano le immagini: da un lato i grandi alberghi e le banche con le facciate alla Potentik, dall’altro il vuoto della savana, i villaggi e le periferie dove sono in agguato le malattie, la miseria. (Domenico Quirico, “La Stampa”, 5 agosto 2023)

Jean-Loup Amselle (Marsiglia, 1942) è un antropologo francese che ha realizzato ricerche sul campo in Mali, in Costa d’Avorio e in Guinea, concentrando la sua attenzione sui temi dell’etnicità, dell’identità, del multiculturalismo, del postcolonialismo e della subalternità. Inoltre è Directeur d’études presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi e caporedattore della rivista internazionale “Cahiers d’études africaines”.

Un curricolo di studi e ricerche importante per l’autore di un testo (edito per la prima volta in Francia nel 2022) che esce in un momento di grave crisi politico-militare della struttura geopolitica e culturale imposta per lungo tempo dal colonialismo francese (ed europeo) all’Africa subsahariana. Come sottolinea Marco Aime nella sua prefazione al testo:

la nozione di Sahel appare per la prima volta nel 1900, nella penna del botanico Auguste Chevalier, come categorizzazione botanicogeografica o bioclimatica, legata alla latitudine e alle curve delle precipitazioni. Oggi, però, il Sahel è divenuto una sorta di regione distinta, con presunte caratteristiche etniche, geografiche, ambientali, che la caratterizzerebbero come un unicum. In realtà non è neppure semplice indicarne i confini, chi è in grado di tracciare un confine netto con il Sahara a nord o con la savana a sud? Potremmo tranquillamente dire che esiste più di un Sahel: su un piano meramente geografico, peraltro convenzionale, corrisponderebbe a una striscia lunga 8500 km, vasta circa 6 milioni di km2, che attraversa 12 Stati (Gambia, Senegal, Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger, Nigeria, Camerun, Ciad, Sudan, Sud Sudan ed Eritrea), definita più dalle sue caratteristiche climatiche, ambientali e sociali che non da quelle geografiche o politiche1.

Però, prima di proseguire con l’analisi del contenuto del testo, occorre qui sottolineare subito come di quei dodici stati menzionati nella categoria “Sahel” negli ultimi anni almeno sette si siano sottratti all’influenza occidentale in generale e francese in particolare, come i recenti fatti collegati al “colpo di stato” nigerino sembrano confermare; nonostante gli sforzi militari ed economico-politici messi in atto dal colonialismo francese di mantenere il controllo su una delle aree più ricche di uranio ed altre preziose materie prime dell’intero continente africano. Un’autentica débacle per una forma di occupazione coloniale che è continuata per decenni dopo la cosiddetta “fine dell’età coloniale”, ma che oggi sembra essere giunta al termine insieme alle pretese occidentali di rappresentare, sulle teste di miliardi di abitanti del pianeta oppure delle centinaia di milioni di quelli delle regioni africane coinvolte, l’unico e perfetto modello di governance e organizzazione dello sfruttamento economico delle risorse di gran parte del pianeta.

E qui, in questa pretesa di universalità del modello occidentale, si inserisce la leva, anzi verrebbe da dire il piede di porco, di Amselle, tutto teso a scardinare un modello e un immaginario che sono serviti soltanto a perpetrare fino ad ora un modello di dominio volto a garantire la stabilità e la continuità dello sfruttamento delle risorse africane a favore dei ben più ricchi paesi dell’Occidente bianco e crapulone. Infatti, come afferma ancora Aime nella sua prefazione:

Un filo rosso percorre l’intera opera di Jean-Loup Amselle e ne mette in luce, oltre alle indiscusse capacità, la coerenza e l’estrema originalità. Fin dai suoi primi lavori […] Amselle sembra essersi dato una missione: scardinare il rigido sistema classificatorio, al quale non è sfuggita neppure molta antropologia del passato, per restituirci un panorama più complesso e articolato, che vada al di là delle semplici (talvolta semplicistiche) schematizzazioni adottate, in particolare dagli europei, nei confronti dell’Africa. Questo continente, infatti, è stato troppe volte vittima di vere e proprie “invenzioni”, pensiamo al mito di Timbuctù come città dell’oro o alla propensione mistica dei dogon, solo per rimanere nel Mali, Paese del Sahel, al centro di questo ultimo lavoro dell’autore2.

Come chiarisce lo stesso Amselle:

il Sahel, categoria nata per designare la regione che si estende tra il Sahara e la savana “sudanese”, è in effetti una realtà spettrale, ibrida, mista, che mescola popolazioni “bianche”, “rosse” e “nere”, agricoltori sedentari e pastori transumanti, animisti e musulmani. Questa realtà mutevole, come quelle che la circondano (il Sahara, la savana), è stata coinvolta in una serie di formazioni politiche su larga scala – gli Imperi del Ghana, del Mali e del Songhay – tutte orientate lungo un asse nord-sud piuttosto che ovest-est. Sebbene la colonizzazione francese si estendesse dal Maghreb al Golfo di Guinea, non fu questa la divisione geografica che ne derivò. Al contrario, i conquistatori, gli amministratori e gli studiosi coloniali stabilirono una geografia razziale e bio-climatica che livellava le zone geografiche, le razze e le etnie in funzione delle latitudini. Ne è risultata una gerarchizzazione ambigua che oppone delle razze “civilizzate” ma pericolose, come i mori, i tuareg e i peul, a razze più incolte ma più pacifiche, come gli “agricoltori neri”. Questo schema di riferimento coloniale continua a essere utilizzato ancora oggi e a ossessionare gli ufficiali francesi delle operazioni “Barkhane” e “Takuba”3.

Sottolineando però come l’opera di divisione trasversale sia stata non soltanto geografica, bio-climatica e razziale, ma anche linguistica.

Non ho ancora fatto notare che dal 2013 in poi, i successivi interventi militari che hanno coinvolto diversi Paesi “saheliani”, soprattutto il Mali, hanno avuto nomi arabi o tamasheq […] “Takuba”, il termine utilizzato per designare la forza speciale europea voluta da Emmanuel Macron, significa “sciabola” in lingua tamasheq. Il campo semantico utilizzato dal comando francese è quindi principalmente arabo e tamasheq e riguarda quindi soltanto le popolazioni nomadi, che rappresentano solo una frazione della popolazione totale del Mali. È facile osservare quindi come la guerra nel Sahel si giochi anche sul piano simbolico, con la scelta dei termini utilizzati, che possono anche ritorcersi contro chi li aveva introdotti. […] Con l’invenzione della categoria di Sahel all’inizio della colonizzazione, e fino al suo utilizzo odierno, la Francia e il Mali non hanno più smesso di guardarsi con sospetto. È la proiezione di un immaginario fantasma, di una parte dell’Africa che ha la consistenza di un sogno, di un safari avventuroso dove si inseguono le fantasie di una casta militare nostalgica di un’epoca passata, un’epoca in cui la Francia contava ancora sulla scena internazionale, mentre adesso non può nemmeno più giocare alla guerra4.

In questo modo l’ex-potenza coloniale francese non soltanto ha troncato le vie “naturali” che un tempo collegavano da nord a sud le società del continente, favorendo lo sviluppo di regni e stati che la storiografia colonialista sembra aver cancellato dalla Storia, riducendo la stessa ad un susseguirsi di scontri interetnici cui solo l’intervento coloniale occidentale avrebbe messo fine5, ma ha anche contribuito allo sviluppo di un’etnicizzazione precedentemente inesistente o scarsamente rappresentativa delle culture locali che si incrociavano e confrontavano secondo altri parametri. Etnicizzazione e demonizzazione, ad esempio, dell’Islam in cui spesso sono cascati anche gli intellettuali “locali”, come Amselle dimostra nel lungo capitolo riguardante La formattazione dell’intellettuale saheliano6. Così, come chiarisce ancora Aime nella sua prefazione:

Molti di questi scrittori e saggisti riproporrebbero una nuova etnicizzazione della narrazione, enfatizzando il colore della pelle, le tradizioni locali e l’animismo come rimedio alla modernità di carattere occidentale. L’Islam viene spesso caricaturizzato e demonizzato, impedendo così che se ne faccia un’analisi più profonda e articolata soprattutto sulle cause che spingono sempre più giovani ad aderire ai movimenti jihadisti. Viene spesso riproposta una versione rivisitata dell’afrocentrismo, secondo cui tutto avrebbe avuto origine in Africa, invece di proporre una visione più dinamica delle molte e continue relazioni che il continente aveva con il mondo esterno […] Peraltro, molti di questi artisti e intellettuali vivono in Europa o negli Stati Uniti, dando vita a quello che Amselle definisce “un gioco ambiguo con l’ex potenza coloniale”7.

La forma-stato che il colonialismo centralizzatore, soprattutto francese, ha lasciato in eredità ha fatto poi sì che:

L’introduzione dello Stato civile, dei documenti di identità e dei censimenti etnici ha fortemente limitato la fluidità delle affiliazioni etniche e i cambiamenti d’identità ricorrenti in tutta la regione: “è così che gli attori sociali sono stati costretti a definirsi sulla base di un’identità mono-etnica e del corrispettivo stile di vita”. L’acuirsi delle tensioni, accentuato dalla caduta del regime libico di Gheddafi, ha inoltre fatto sì che questioni presuntamente etniche si siano intrecciate con questioni religiose e politiche, vedi i feroci scontri tra dogon “animisti” e peul islamici. A sessant’anni dall’indipendenza laddove in realtà c’è una situazione ibrida, mista, in cui agricoltori e pastori si mescolano, così come animisti e musulmani, dando vita a un mondo fluido, si è venuta invece a instaurare una società rigida, basata sull’etnia e sulla casta. Viene riproposta una gerarchizzazione tra “razze” civilizzate, peraltro considerate oggi pericolose per l’adesione al jihadismo, e “razze” incolte, ma pacifiche. I fantasmi coloniali, anche se mascherati da africani, sono ancora vivi e il merito di Amselle è, ancora una volta, di provocarci per indurci a guardare più in profondità, al di là della superficie, per comprendere meglio la complessità8.

Ecco, allora, che il testo edito da Meltemi si rivela di fondamentale importanza per approfondire l’interpretazione degli eventi, solo apparentemente disordinati e imprevedibili, che hanno percorso quella fascia continentale dell’Africa dal febbraio del 2022 (quando i francesi sono stati invitati a lasciare il Mali in 72 ore) e il luglio del 2023 (colpo di stato nigerino). Diciotto mesi durante i quali la storia del continente e del mondo ha ripreso a correre in direziona ostinatamente contraria a quanto voluto, sperato e narrato mediaticamente dai vertici politici, militari ed economici occidentali.

E se qualcuno non fosse ancora convinto di ciò, allora basterebbe paragonare il rapido abbandono di Kabul nell’autunno del 2021 con quello di Khartum nell’aprile di quest’anno. Due capitali, una dell’Afghanistan, l’altra del Sudan; la prima con 4.600.000 abitanti, a capo di uno stato di 650.000 kmq di estensione, e la seconda con 5.275.000 abitanti, a capo di uno stato di 1.800.000 kmq. Aree troppo vaste, troppo miserabili e troppo socialmente e religiosamente nemiche dell’ordine occidentale fin dall’Ottocento9 in cui il tentativo americano ed europeo di tenere in piedi governi fantoccio organizzati intorno alla corruzione e alla concessione di ricche prebende in cambio del libero sfruttamento di risorse fondamentali per l’economia capitalistica occidentale è andato bellamente a farsi fottere. E non per caso.

Un altro ammutinamento di militari scuote l’émpire africano della Francia. Attenzione: il punto centrale di queste giornate torride e stupefatte non è lo scandalo di un golpe. I presidenti francesi, dopo le finte indipendenze, ne hanno ordinati e commissionati a decine per tener in ordine il cortiletto della «grandeur». […] Ma fino a ieri i golpisti si mettevano sull’attenti quando le consegne dal numero 14 rue Saint Dominique, oggi chiamano loro per ordinare ai francesi di fare i bagagli. […] Comunque si sviluppi l’ammutinamento, il punto centrale è il modo in cui sulle rive del Niger, un fiume che per l’Africa è la sintesi della vita, il respiro, l’immediato domani, muore l’impero coloniale della Francia: miseramente, senza stile, tra bugie e porcherie. Questo capitolo disonorevole, sopravvissuto perfino alla logica, si sta sgonfiando come un pallone di gomma, di quelli che fluttuano in aria e poi con un fischio diventano uno straccio di plastica. La Storia, davvero, non finisce con un botto ma con un lamento. Volete un altro simbolo ancor più umiliante? Voilà: l’annuncio che nel vicino Mali il francese è stato abolito come lingua nazionale.[…] Già si ascolta, anche per il Niger, la solita tiritera che ribalta la gerarchia delle evidenze, ovvero che dietro l’ammutinamento ci sarebbe la diabolica mano della pestifera Wagner putiniana. La Wagner non ha inventato niente in Africa, ha solo riempito con traffici e violenza suoi i vuoti che la Francia, e l’Occidente, ha scavato in questi Paesi: con decenni di complicità interessate e di sfruttamento, coltivando servilità e prostituzioni dei suoi alleati al potere, consentendo la saldatura tra l’ingiustizia da denaro e l’ingiustizia da potere10.

Un richiamo cui forse non sfugge neppure il recente colpo di stato militare riuscito, dopo quello fallito del 7 gennaio 2019, nel Gabon11. Anche se, come sempre, è spesso difficile separare l’anelito all’indipendenza dalla Francia dei militari e dei popoli africani dai giochi dell’imperialismo e delle rivalità infra-europee ed occidentali12.


  1. M. Aime, Prefazione all’edizione italiana in Jean-Loup Amselle, L’invenzione del Sahel. Narrazione dominante e costruzione dell’altro, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 9-10  

  2. M. Aime, op. cit., p. 9  

  3. J-L. Amselle op. cit., pp. 143-144  

  4. Ibidem, pp. 144-145  

  5. Si vedano in proposito: T.Green, Per un pugno di conchiglie. L’Africa occidentale dall’inizio della tratta degli schiavi all’Età delle rivoluzioni, Giulio Einaudi Editore, Torino 2021 (ed.originale inglese 2019) e M. Aime, La carovana del sultano. Dal Mali alla Mecca: un pellegrinaggio medievale, Giulio Einaudi Editore, Torino 2023  

  6. Ivi, pp. 37-81  

  7. Ivi, p. 12  

  8. ivi, p. 13  

  9. Quando per quasi vent’anni, tra il 1882 e il 1899, l’impero britannico fu costretto, insieme all’Egitto, a rinunciare al controllo del Sudan e del cruciale snodo geo-politico di Khartum, città posta tra i due principali affluenti del Nilo, dopo le sconfitte subite a causa della rivolta mahdista guidata da Muhammad Ahmad, proclamatosi mahdi, redentore dell’Islam, nel 1881.  

  10. D. Quirico, Niger, perché il colpo di Stato getta il Sahel nel caos più profondo, La Stampa, 28 luglio 2023  

  11. “La Francia ha sempre avuto fortissimi legami con il Gabon che è anche nell’area monetaria del Franco CFA, legato a Parigi, e l’esercito gabonese da anni viene addestrato dai militari francesi. Altri grandi player sono però presenti da anni in Gabon, soprattutto la Cina. Pechino è stata fra i primi a rilasciare un comunicato per chiedere garanzie sulla sicurezza di Ali Bongo, che in primavera era stato ospite di Xi Jinping per concludere una serie di accordi commerciali sullo sfruttamento delle risorse petrolifere. Gli stati confinanti come il Camerun ed il Congo non hanno ancora preso una posizione ufficiale, ma restano entrambi piuttosto vicini alla Francia, anche se in Congo le attività petrolifere sono in joint venture con aziende russe da anni. Già nel 2019 le forze armate avevano tento un colpo di stato in Gabon approfittando dell’assenza di Bongo, in Marocco per curarsi dopo l’ictus, ma in poche ore il governo gabonese aveva ripreso il controllo della situazione. Ora le cose sono diverse e nelle strade di Libreville regna la calma, compreso nel quartiere dove risiede la famiglia del presidente. Questo golpe arriva in un momento particolarmente critico ed in una regione nella quale i paesi sembravano molto più stabili rispetto al travagliato Sahel, un contagio molto pericoloso che potrebbe cambiare definitivamente gli equilibri del continente africano.” Matteo Giusti, I militari prendono il potere anche in Gabon. Un golpe che arriva in un momento particolarmente critico, “Il Riformista”, 30 agosto 2023  

  12. Si pensi, a solo titolo di esempio, che già alla fine dell’Ottocento il ritorno del dominio britannico nel Sudan Mahdista fu dovuto in gran parte al timore per le mire espansionistiche francesi che, potendo contare su una presenza nel Ciad, si sarebbero potute espandere nel Darfur e indebolire l’egemonia britannica nel nord e nell’est dell’Africa.  

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Dalla Garbatella alla Val di Susa https://www.carmillaonline.com/2022/07/13/dalla-garbatella-alla-val-di-susa/ Tue, 12 Jul 2022 22:01:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72923 di Luca Cangianti

«Ma è una meravigliosa comunità solidale, un’utopia realizzata!» Più o meno è questo il solito commento degli amici e delle amiche che porto a fare una passeggiata alla Garbatella. Attraversano i lotti, vedono le villette bifamiliari con i giardinetti, i panni stesi nei cortili, i bambini che giocano a nascondervisi dietro; scorgono il volto di Carlo Giuliani dipinto ai piedi di una scalinata, poi quello di Piero Bruno, un giovane militante di Lotta Continua ucciso dalla polizia nel 1975; ascoltano i miei racconti sulle guasconate dei partigiani di [...]]]> di Luca Cangianti

«Ma è una meravigliosa comunità solidale, un’utopia realizzata!» Più o meno è questo il solito commento degli amici e delle amiche che porto a fare una passeggiata alla Garbatella. Attraversano i lotti, vedono le villette bifamiliari con i giardinetti, i panni stesi nei cortili, i bambini che giocano a nascondervisi dietro; scorgono il volto di Carlo Giuliani dipinto ai piedi di una scalinata, poi quello di Piero Bruno, un giovane militante di Lotta Continua ucciso dalla polizia nel 1975; ascoltano i miei racconti sulle guasconate dei partigiani di Bandiera Rossa, mangiano in una trattoria accarezzati dal vento della sera, e il gioco è fatto.
Io sto zitto, ma dentro di me rimugino indispettito. Penso al costo delle case, alla gentrificazione strisciante, ai vecchi forni che chiudono e soprattutto alla mia vicina che per oltre trent’anni non mi ha consentito di fare in pace una cena con gli amici, perché secondo lei, parlando, facevamo rumore. E lei doveva dormire, anche alle otto e mezza di sera.
Adesso, in compenso, mi assorda con un condizionatore che sembra l’astronave atomica del dottor Quatermass e mi scaraventa secchiate d’acqua sporca sul terrazzo, con la scusa di annaffiare le piante. Una volta ho provato a spiegarle che esistono anche gli altri, e tra questi il sottoscritto. Risultato: zero. Ormai penso che sia il Male assoluto.
Dico questo perché a ogni racconto entusiastico sui rapporti solidali che si sarebbero creati in Val di Susa nella resistenza al Tav, mi tornano in mente gli ingenui commenti apologetici dei miei amici in visita alla Garbatella – quelli che non conoscono la mia vicina. Insomma, quando con Ludovica ho visitato la Val di Susa, sono partito con una patina di scetticismo.

Una montagna di libri, piazzetta del mulino, Bussoleno

Eymerich in Val di Susa

Usciamo dalla A32 a Chianocco e prendiamo una strada statale: su tutti i pali della luce sventola la bandiera No-Tav: bianca con il treno sanzionato da una croce rossa. Fa una certa impressione: dà l’idea di un territorio presidiato. Bussoleno è uno degli epicentri del movimento. Vediamo le case a ringhiera e alcuni tetti spioventi. Ogni tanto arriva odore di legna bruciata, di bestiame, di piante in fiore. Sono gli ultimi giorni di maggio.
“Una montagna di libri” è una manifestazione No-Tav che quest’anno festeggia il decimo compleanno. Nel 2015 si è trasferita a Bologna: siccome Valerio Evangelisti tardava ad andare in valle, gli attivisti della valle, in collaborazione con Carmilla, si sono dati appuntamento al Vag 61 per una tre giorni di dibattiti e di presentazioni.
In Eymerich risorge (Mondadori 2017), l’inquisitore attraversa queste terre accompagnato da un contadino:

«Marcel, la distanza è grande, eppure mi pare di vedere lassù dei fori e delle specie di canali.» Indicò i monti attorno, e soprattutto uno che aveva forma di piramide.
«Vedo bene?»
«Sì, padre. I rilievi che circondano Oulx sono attraversati da caverne e solcati da gallerie all’aperto, che serpeggiano tra le rocce. Sono, a volte, veri labirinti.»
«Si tratta di miniere?»
«Attualmente no. Forse in un passato che nessuno ricorda. Non vi sono materiali utili nelle montagne. Solo sostanze avvelenate, capaci di provocare malattie mortali. Uccidono non subito, ma nel tempo.»
«In che modo?»
«Non lo so. Qualcosa di malato esiste. In quelle cavità si trema di freddo anche in piena estate, sotto il sole d’agosto, senza bisogno di penetrare nelle caverne.» Il contadino indicò vagamente davanti a sé. «In tutta la valle, fino a Susa e oltre, i monti racchiudono materiali velenosi. C’è chi ha cercato di perforarli per aprire passaggi. Ha subito rinunciato, perché sollevava nuvole di polveri venefiche, che scendevano sugli abitati.»
«Ogni tentativo sarà abbandonato.»
«Sì. Se si presenta qualche idiota che cerca di scavare nella roccia, la popolazione insorge. Ci tiene alle sue valli, e alla sua vita.»

A leggere i brani è Renato Sibille. Nella piazzetta del mulino un pubblico di mezza età segue con attenzione. Si percepisce un grande affetto verso lo scrittore scomparso. Finalmente arrivano anche alcune adolescenti con le magliette No-Tav e dei gilet gialli. «Il loro approccio è completamente diverso rispetto alla vecchia generazione No-Tav» dice Maurizio. «Adesso la grande sfida è vedere che impulso daranno al movimento, quali metodi e quali tematiche vi porteranno.»
Nel corso della giornata Nicoletta Dosio presenta Fogli dal carcere (Redstar press, 2022): «Non avrei pensato di pubblicare questo libretto. L’ho scritto per dare un senso a un tempo che non ha tempo.» Alla mia destra un uomo massiccio si asciuga gli occhi con imbarazzo. Sandro Moiso e Jack Orlando della redazione di Carmilla analizzano la guerra in corso, Serge Quadruppani e Domenique Manotti mandano saluti e solidarietà dalla Francia.
A pranzo ci troviamo all’Osteria La Credenza: si raccontano le novità della valle a noi che veniamo da lontano. La narrazione delle imprese della lunga resistenza inizia con una voce, s’interrompe e viene ripresa da un’altra. I commensali passano da un tavolo all’altro, tutti conoscono tutti. Davanti a noi c’è un murale che riproduce in chiave No-Tav il famoso dipinto di Giuseppe Pellizza da Volpedo. I dibattiti riprendono nel pomeriggio e si protraggono tra calici di vino in un crescendo mitologico che inevitabilmente porta a narrare degli anni settanta. Finiamo in un locale che qui tutti chiamano “dai romani”, anche se il vero nome è La Locanda dell’Orsiera e i proprietari sono reatini. A metà serata Ludovica mi fa un sorriso solare. Lo so cosa pensa, ma non demordo: «Aspetta» le dico quasi infastidito. «Non corriamo con i giudizi romantici. Cerchiamo di capire meglio.» In verità sono tornato l’adolescente che ascoltava le imprese rivoluzionarie svoltesi solo pochi anni prima. In quei giorni speravo che il mio tempo giungesse presto.

Folletto della Val di Susa

Don Dinamite

Il giorno seguente visitiamo “Terra è Libertà. Critical Wine” che si svolge nella piazza del mercato. Compriamo due calici marchiati No-Tav e vaghiamo tra gli stand di piccoli produttori valsusini danneggiati dall’impatto della grande opera. Incontriamo il sindaco di Mompantero, Davide Gastaldo. Insieme a Mariano Tomatis e Filo Sottile ha pubblicato Roc Maol e Mompantero. Il codice Dell’Oro (Tabor, 2018), un originale dispositivo ludico-politico che prende spunto da un’indagine su una sorta di età dell’oro fiorita in Val di Susa tra culti esoterici e ufo ante litteram. Il sindaco ci racconta dell’utilizzo delle compensazioni come strumento per fiaccare la resistenza dei comuni che si oppongono al Tav. La Regione Piemonte infatti vorrebbe vincolare gli stanziamenti per contrastare il dissesto idrogeologico, per i danni di incendi e alluvioni, per i servizi essenziali, la sanità e la scuola, all’accettazione dell’infrastruttura contestata.
Maurizio mi presenta Luca. È un agricoltore, mi chiede di dove sono e che ne penso della valle. Gli offro un panorama decisamente positivo perché, malgrado tutto il mio scetticismo iniziale, ogni persona con la quale abbiamo parlato mi ha confermato quello che prima di partire avevo letto su un libro di Marco Aime, Fuori dal tunnel (Meltemi, 2016):

«Il movimento ha fatto nascere un senso di comunità forte. Si sono stretti nuovi legami. Siamo una grande famiglia, fatta di persone che non ti saresti mai sognato di frequentare e con cui invece organizzi marce, cene e altre cose». Queste parole di Eugenio riassumono in modo esemplare il parere della quasi totalità degli intervistati: la lotta contro il Tav ha fatto sì che nascessero nuovi legami tra le persone, un nuovo modo di rapportarsi, una capacità maggiore di riflessione, di condivisione e di concertazione.

Luca annuisce, ma poi aggiunge: «Il movimento è uscito dalla pandemia frammentato. Non ci dobbiamo nascondere la verità: c’è un certo disorientamento in giro; ci siamo ripiegati su noi stessi.»
Provo un piacere sottile e inconfessabile, una sorta di Schadenfreude. Me ne vergogno.

Matteo e Rita davanti alla libreria di Bussoleno

Vicino alla piazzetta del mulino c’è la libreria: La Città del Sole. È nata nel 2002, poi dal 2008 è stata affiancata da un bar molto frequentato. Rimango sorpreso dalla selezione dei titoli sugli scaffali. Anche tralasciando una nutrita sezione No-Tav, non sono quelli che mi aspetterei in un comune di circa seimila abitanti. Più in generale, non mi sembra di stare in un piccolo centro di montagna, connotato dai tipici stili di vita provinciali.
«È probabile che sia dovuto agli importanti insediamenti industriali di un tempo: principalmente ferrovie e cotonifici, senza dimenticare che molta gente lavorava nelle fabbriche di Torino.» Rita è stata la libraia del paese per undici anni e adesso ha passato il testimone a Matteo. «Inoltre – continua – non va trascurato l’impatto che ha avuto la Resistenza in queste valli: a Bussoleno non troverai né una via Roma, né una via Vittorio Emanuele. I nomi prevalenti sono quelli dei partigiani.»
Da un libro di Chiara Sasso e Massimo Molinero, Una storia nella Storia e altre storie (Morra, 2001) vengo a sapere dell’incredibile sabotaggio del viadotto ferroviario dell’Arnodera compiuto da Francesco Foglia (un sacerdote noto con il nome di don Dinamite) insieme all’ufficiale Vittorio Blandino e ai membri delle Brigate Garibaldi Sergio Bellone e Remo Bugnone. Verso l’una di notte del 29 dicembre 1943 la valle è scossa da un boato: sono ottocento chili di plastico che esplodono. Un ponte di ottanta metri, con cinque arcate e tre pilastri va giù. I nazisti impiegheranno tre mesi per ricostruirlo e definiranno l’attentato «una autentica opera d’arte». Dal libro emerge il profilo drammatico e straordinario di un cappellano militare che passò dal combattere i comunisti in Jugoslavia ad abbracciare la Resistenza in Val di Susa, cavalcando infaticabilmente la sua bicicletta e beffando i nazifascisti con travestimenti e azioni spericolate. Arrestato, finì nei campi di concentramento in Germania e al ritorno fu colpito da una tragedia familiare: due nipotini in vacanza furono dilaniati da un ordigno bellico abbandonato nei pressi della sua abitazione. L’origine dolosa del fatto non fu mai appurata.

Immaginari di montagna

Rita ci accompagna al presidio di San Didiero, di fronte al luogo dove dovrebbe sorgere il nuovo autoparco, una zona di sosta temporanea per i tir: «Ecco dove vanno a finire soldi che potrebbero servire a finanziare la scuola e la sanità». Si tratta di un cantiere di 68 mila metri quadrati per un’infrastruttura che dovrebbe sostituirne una già esistente a Susa. Consumerà nuovo suolo e costerà 47 milioni di euro. Per i No-Tav è una nuova opera inutile in quanto progettata senza alcuno studio sulle previsioni del traffico. In questo caso l’alta velocità Torino-Lione non c’entra. Anzi, finora si era venduto il Tav come un modo per trasferire il traffico dalla strada alla rotaia, mentre adesso, con la costruzione del nuovo autoporto a San Didero, la logica sembra cambiare di segno.
Scendiamo dall’automobile e ci troviamo di fronte una scena assurda: un camion idrante e una pattuglia di poliziotti sono circondati da filo spinato e transenne alte due metri; ma non si capisce cosa difendano, perché non c’è assolutamente nulla. Nel nostro spazio visivo le forze dell’ordine e il loro veicolo sono incorniciati da grandi barriere new jersey sulle quali sono stati disegnate due frecce rosse che partono da un insulto irripetibile scritto a caratteri cubitali indicando inequivocabilmente i “prigionieri”.

È martedì, Maurizio ci ha affidato ad Adele che ci accompagna a Cels, una borgata di case dai tetti di ardesia dove visitiamo Clapìe. Si tratta di un centro di documentazione dedicato alla storia e all’immaginario territoriale. Esiste da dieci anni, ospita dibattiti, cene sociali, trasmissioni radiofoniche No-Tav e una biblioteca. «Non consideriamo la montagna come meta di fuga» dice Daniele Pepino, «ma come luogo di resistenza alla società della merce e dell’autorità. Pensiamo che le tradizioni e gli immaginari legati ai territori non vadano lasciati nelle mani della reazione.» Un esempio di questo discorso è il libro «Escartoun». La federazione delle libertà (Tabor, 2014). Walter Ferrari e lo stesso Daniele Pepino vi raccontano la storia di un’entità politica autogestionaria, nata nel 1343 e sopravvissuta fino al 1713, erede di una tradizione millenaria che ha sempre opposto i montanari delle Alpi all’oppressione dei poteri centrali.

Vigneti vicino alla centrale idroelettrica di Chiomonte

L’Entità

È il nostro ultimo giorno in Valle. Maurizio ci aspetta davanti al municipio di Chiomonte. Saliamo in macchina e imbocchiamo via Roma che scende giù fino alla Dora. Passiamo davanti ad Alta voracità, il famoso murale di Blu in cui una fila di figure carponi si cibano degli escrementi valutari di chi le precede. Attraversiamo il check point militare della centrale idroelettrica ed entriamo in una zona di vigne. Il pranzo sociale si tiene davanti a un antico colombaio alto quattro metri. Potrebbe avere anche cinquecento anni; era una stazione che ospitava i piccioni viaggiatori. Ognuno ha portato qualcosa, noi niente. Ludovica me ne attribuisce la colpa. A tavola torna la discussione sulle compensazioni: sembra che il movimento non sia concorde su quale posizione prendere in merito. Ci sono quelli più radicali, quelli più dialoganti. Tuttavia mi sono accorto che qui il frequentatore della parrocchia riesce a stare accanto a quello dei centri sociali senza imbarazzi e difficoltà.
Alcuni commensali s’incuriosiscono quando sentono che siamo di Roma, perché sono di ritorno da Enotica, la fiera di vini naturali che si è svolta al Forte Prenestino. Hanno fondato una fattoria, la Granja Farm, valorizzando produzioni tipiche locali al fine di contrastare la costruzione del Tav e il suo immaginario mercificato. Producono miele biologico, succo di mela e vini naturali. «Gli anziani del posto sono felici di spiegarti come si fanno le cose» dice una giovane donna. «Noi impariamo e facciamo vivere saperi e prodotti genuini che altrimenti sarebbero destinati a scomparire.»

Dopo pranzo siamo presi in consegna da Gildo, uno dei proprietari di questi vigneti. Passiamo davanti a un B&B e arriviamo al Museo della Maddalena. Un tempo si poteva visitare. Vi erano esposte monete, frammenti di stoviglie e di tombe, dal neolitico alla seconda età del ferro. Oltre non si può andare. Ci sono altri militari, altre grate e filo spinato a volontà. Saliamo per un bosco tra castagni, frassini e qualche ciliegio selvatico. Da un ramo penzola una maschera a gas, chissà, un cimelio di qualche battaglia. Gildo indica in fondo al pendio, oltre il filo spinato: «Questo terrapieno squadrato è composto dai detriti degli scavi del tunnel geognostico. Vedete? La bocca sta lì.»
Sono scosso da un brivido. In Un viaggio che non promettiamo breve (Einaudi, 2016) Wu Ming 1 aveva ragione a sostenere che lì sotto si annida una mostruosa Entità lovecraftiana. Vedo l’enorme cannula che la nutre, capisco che quelle immense vasche d’acqua servono a raffreddarne il metabolismo alieno.
«Tranquillo!» sorride Maurizio che deve aver percepito il mio turbamento. «Avremo pure i nostri problemi, ma il Tav non si farà mai!»

Tornando a Roma ripenso a quella affermazione. Forse si riferiva al disinteresse francese per la realizzazione dell’opera (la notizia è di qualche mese fa) e alla conseguente perdita dei finanziamenti europei. Oppure si trattava della fiducia caparbia di chi sa di essere nel giusto, di chi sente intorno a sé il calore di una comunità solidale. Non lo so. Abbiamo viaggiato tutto il giorno e siamo stanchi. Inserisco la chiave nella toppa del portone del condominio. Attraverso il vetro vedo la vicina.

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Fuori dal tunnel: cattivi e primitivi https://www.carmillaonline.com/2016/11/09/dal-tunnel-cattivi-primitivi/ Wed, 09 Nov 2016 22:00:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34410 di Sandro Moiso

venaus-aggressivi Marco Aime, Fuori dal tunnel. Viaggio antropologico nella val di Susa, Meltemi editore 2016, pp.300, € 22,00

Alessandro Senaldi, Cattivi e primitivi. Il movimento No Tav tra discorso pubblico, controllo e pratiche di sottrazione, Ombre Corte 2016, pp.214, € 18,00

Come scriveva Jean Baudrillard nel 2002, (Jean Baudrillard, La violenza del globale in Power Inferno, Raffaello Cortina Editore 2003, pag. 63) a dare scacco al sistema nel mondo attuale potranno essere soltanto specifiche particolarità che non costituiscono obbligatoriamente un’alternativa, ma che appartengono sicuramente ad un altro ordine. Si trattava, [...]]]> di Sandro Moiso

venaus-aggressivi Marco Aime, Fuori dal tunnel. Viaggio antropologico nella val di Susa, Meltemi editore 2016, pp.300, € 22,00

Alessandro Senaldi, Cattivi e primitivi. Il movimento No Tav tra discorso pubblico, controllo e pratiche di sottrazione, Ombre Corte 2016, pp.214, € 18,00

Come scriveva Jean Baudrillard nel 2002, (Jean Baudrillard, La violenza del globale in Power Inferno, Raffaello Cortina Editore 2003, pag. 63) a dare scacco al sistema nel mondo attuale potranno essere soltanto specifiche particolarità che non costituiscono obbligatoriamente un’alternativa, ma che appartengono sicuramente ad un altro ordine. Si trattava, per il filosofo, sociologo e semiologo francese “di uno scontro quasi antropologico tra una cultura universale indifferenziata e tutto ciò che, in qualsiasi campo, conserva qualche tratto di un’alterità irriducibile”.

Anche se queste parole erano state scritte a seguito di una riflessione sull’allarme suscitato dall’attacco alle Twin Towers nel settembre del 2001, col passare del tempo è diventato sempre più evidente che le interpretazioni dei conflitti sociali e di classe date nel corso del ‘900 non sono più in grado di per sé di spiegare le dinamiche sottostanti ai movimenti reali che si oppongono all’attuale modo di produzione e di dominio e, ancor meno, di determinarne tattiche e strategie.

E’ un intero sistema di categorie e di ideologie che è in qualche modo fallito.
Le promesse implicite nel modello di sviluppo proposto dal capitalismo, in tutte le sue varianti occidentali e asiatiche oppure liberali o stataliste, hanno dimostrato la labilità e la fallacia dei loro presupposti, finendo però col riversare il proprio fallimento anche su tutte quelle ideologie che pur facendo del capitalismo l’obiettivo delle proprie critiche hanno comunque finito con il non abbandonarne i presupposti paradigmatici e continuato a condividerne nell’immaginario lo stesso territorio politico. Inclusa gran parte del marxismo, sia eretico che ortodosso.

Lo sviluppo, l’ampliamento della produzione industriale, il benessere legato al consumo di massa, sia di servizi che di beni materiali o immateriali, non solo non sono stati alla reale portata di tutti, ma anche là dove, pur in forme diverse, più ci si è avvicinati a tale obiettivo (Europa, USA, Giappone), tali valori paradigmatici e condivisi hanno mostrato la loro fragilità temporale, la loro vacuità e la loro sostanziale dannosità, ideologica e ambientale, trasformando un sorriso di rassegnata soddisfazione nel sogghigno squarciato del Joker.

In altre parole: i presupposti dell’espansione capitalistica e delle sue meraviglie sono venuti a mancare o, per lo meno, hanno mostrato non solo come queste fossero destinate ad una cerchia sempre più ristretta di investitori/sfruttatori, ma anche come tale gioco al rialzo (più investimenti, più produzione, più ricchezza per tutti, più investimenti, etc.) non fosse altro che un mantra ipnotico e devastante per la maggioranza della specie umana, sia in termini di realizzazione individuale che sociale.

Insomma se la visione socialista del mondo, sia nella sua variante socialdemocratica e riformista che in quella rivoluzionaria, è in qualche modo superata, lo è non perché è fallito il socialismo reale o perché una miriade di partiti e formazioni di sinistra ed ultra-sinistra è stata progressivamente sconfitta e/o riassorbita dall’avversario, ma piuttosto per il fatto che il loro presupposto storico-politico non si discostava troppo da quell’idea di progresso, di organizzazione politica partitica e di sviluppo che condivideva con il nemico a partire fin dall’Illuminsimo e dalle due grandi rivoluzioni del XVIII: quella francese e quella industriale. Progresso e sviluppo senza fine e al di là di ogni confine.

Che con la globalizzazione economico-finanziaria sembravano aver raggiunto il loro apice, ma che, con le attuali vittorie, per non dire trionfi, dei cosiddetti populismi dalla Brexit a Trump,1 vedono invece detonare tutte le loro contraddizioni in maniera asimmetrica e nel cuore del sistema. Movimenti sismici che sembrano trasmettere onde telluriche sempre più vicine e apparentemente imprevedibili, destinate a frantumare le certezze sia dei sostenitori dell’espansione basata sulla speculazione finanziaria e bancaria (da Renzi alla Clinton2) che di un antagonismo sociale talvolta ancora radicato in un immaginario politico che, come nel caso di “Born In The USA” di Springsteen per la corsa alla presidenza degli Stati Uniti appena conclusasi, giova ormai di più alla causa della conservazione che a quella del superamento dell’attuale modo di produzione.

Per tutti questi motivi l’alterità irriducibile di un movimento come quello No Tav sviluppatosi nella e a partire dalla val di Susa, ormai da più di 25 anni, non può essere facilmente irreggimentata nelle interpretazioni classiche della sociologia e delle ideologie politiche. Infatti, anche se la componente anti-capitalista e ambientalista è sicuramente forte, è altrettanto vero che molti altri aspetti (locali, individuali, storici, geografici e culturali solo per ricordarne alcuni) concorrono a determinarne le caratteristiche e la combattività.

Non a caso due delle più recenti ed interessanti opere uscite nel corso degli ultimi mesi sono state pubblicate una, quella di Meltemi, nella collana Biblioteca/Antropologia e l’altra, quella di Ombre Corte, nella nuova collana Etnografie. Scelte non tanto determinate dagli editori quanto dalle metodologie utilizzate e rivendicate dai due autori per analizzare la forza e la capacità di resistenza, sviluppo ed offensiva dimostrate dal tale movimento nel corso degli anni.

Entrambi i testi si pongono, infatti, in una dimensione altra rispetto alla semplice rievocazione dei fatti e delle lotte oppure della ricostruzione delle vicende politico-economiche che hanno portato alla scelta e all’autentica truffa della realizzazione di una linea ferroviaria ad alta velocità per il trasporto delle merci che proprio nella val di Susa doveva transitare.
Non siamo di fronte ad una semplice, per quanto ricca, oral history3 né, tanto meno, ad una appassionante ricostruzione della dialettica conflittuale venuta a realizzarsi tra lotte del Movimento e decisioni mafiose, imprenditoriali e governative.4

Una delle principali caratteristiche di tale movimento è infatti quella che vede, al di là delle simpatie e delle celebrazioni nei suoi confronti manifestatesi sia dentro che fuori i confini nazionali, il forte radicamento sociale e territoriale dei suoi militanti e delle loro ragioni porsi ben al di là dei normali limiti politici, sindacali, generazionali e di classe che hanno spesso determinato le caratteristiche dei movimenti del ’900.

Un movimento che non solo, come tutti i grandi rivolgimenti sociali della storia, ha prodotto una nuova cultura, nuovi valori, una nuova visione dei rapporti umani e politici, una nuova concezione di quelle che dovrebbero essere le scelte ambientali ed economiche, ma anche, e soprattutto, una irriducibile volontà di resistere per costruire una differente comunità umana.
Una comunità che oltre a riprendersi lo spazio intende, come afferma Wu Ming 1 in una delle più felici intuizioni del suo ultimo libro, riprendersi il tempo. Non poi, non dopo la fine della lotta e la vittoria, ma subito. Qui, ora e adesso. Dove spazio e tempo coincidono, come la fisica contemporanea ci ha da tempo avvisati.

fuori-dal-tunnel Come questo sia diventato possibile, nel corso dei venticinque anni di lotta in cui tale movimento si è dispiegato, non può essere soltanto una vecchia lettura politica a spiegarcelo; così l’antropologo Marco Aime, docente di Antropologia culturale presso l’Università di Genova, si sforza di penetrare il segreto di tale efficace resistenza creativa attraverso interviste e testimonianze raccolte sul campo che, più che elencare ancora una volta eventi e ragioni che hanno accompagnato e accompagnano tutt’ora la lotta, sono destinate a rivelarne l’intrinseca esperienza umana e comunitaria. Con i propri riti, le proprie narrazioni e le proprie riflessioni, individuali e collettive.

Scrive Aime: “A differenza dei movimenti di protesta del recente passato, quelli attuali non si costituiscono nella classica forma di partito, né cercano alleanze con i partiti esistenti, ma soprattutto, nella maggior parte dei casi, vengono avversati dai partiti istituzionali, tanto di destra quanto di sinistra. E’ il caso del No-Tav, ma anche di altre realtà antagoniste simili.
Se in passato un movimento di protesta veniva in qualche modo accolto da una parte politica e le sue rivendicazioni trovavano una sponda istituzionale, oggi non è così o almeno non lo è nella stessa misura […] Destra e sinistra, conservatorismo e progressismo, sono divenuti leggere sfumature di un modello pressoché consolidato, fondato sul profitto, che richiede un consenso generale di chi governa e in cui etica, ideali e valori non trovano più spazio. Come non trova più spazio riconosciuto la communitas […] La communitas in quanto anti-struttura ha il fondamentale compito di fungere da contrappeso al modello dominante. Quando tale contrappeso viene a mancare, il rischio è un senso di soffocamento, di oppressione tipico di una realtà mono-dimensionale, che progressivamente si chiude su se stessa […]Il caso della valle di Susa diventa allora paradigmatico di una comunità che propone un’alternativa e che la difende per oltre venticinque anni contro un fronte istituzionale quasi unanime formato da forze politiche tradizionalmente rivali tra di loro, ma accomunate da una identica visione che privilegia lo “sviluppo” e l’economia letti in un’ottica macro rispetto alle esigenze locali. Visto in una cornice più ampia il movimento no-tav esprime un disagio piuttosto diffuso nei confronti di un modello economico sempre più dominato da interessi ristretti, da una sempre minore redistribuzione e da un sempre maggiore attacco all’ambiente. Un disagio che il movimento è riuscito a organizzare in protesta e in proposta.
” (pp. 285-290)

Ecco allora che il titolo del testo, Fuori dal tunnel, ci dice molto, perché qui non si tratta più di analizzare ciò che accade nello scavo e per la realizzazione della “Grande opera di importanza strategica” ma, piuttosto, la proposta di uscita dal tunnel senza sbocco in cui l’attuale modo di produzione si è infilato, abbagliato soltanto dalle logiche del profitto e del dominio incontrastato.
Fuori dal tunnel , però, anche per l’attenzione che la vita comunitaria del Movimento merita, così come la meritano le riflessioni dei suoi militanti.

Io sono passato dal considerare il nemico e il combattere noi contro di loro a combattere me stesso, sono o il nemico, perché con le mie scelte e abitudini ho contribuito a creare il tessuto sociale per questo mostro che è nato e vive di vita propria nella totale indifferenza delle popolazioni, a causa di milioni di persone che hanno comportamenti che favoreggiano questa cosa5

Più volte, nelle conversazioni con attivisti No-Tav delle manifestazioni, mi sono sentito dire rasi del tipo: «In fondo ci si diverte anche». E questa è un’altra cifra caratteristica di questo movimento ed è un ulteriore dato che conferma la dimensione di communitas, perché l’ironia è una delle forme di comunicazione tipiche delle antistrutture. Gli scherzi, le battute, il sarcasmo hanno l’effetto di sovvertire la struttura dominante delle idee. «Il riso e gli scherzi, attaccando la classificazione e la gerarchia, sono ovviamente simboli atti a esprimere la comunità nel senso di rapporti sociali non gerarchizzati e indifferenziati» scrive Mary Douglas.6 Insomma, il burlone alleggerisce per tutti l’oppressività della realtà sociale, facendo piazza pulita del formalismo in generale.” ( pag. 157)

Come anche la lotta condotta da alcuni militanti contro i provvedimenti disciplinari presi nei loro confronti dalla Procura di Torino, e la vicenda di Nicoletta Dosio in particolare, ben testimoniano.
Rimane comunque il problema del tentativo in atto da parte delle istituzioni statali, forse unico nella storia delle lotte degli ultimi decenni in Italia, di criminalizzare un’intera comunità: quella della bassa val di Susa.

Osserva ancora Aime: ”Ogni conflitto nasce da una relazione ed è qui che nasce il pensiero relativista; dalla possibilità di conoscere ed eventualmente riconoscere la differenza. Laddove questo conflitto viene impedito o negato ci troviamo di fronte all’imposizione di un’unica verità dogmatica, che non prevede alternative, né spazi di traducibilità.
La mancanza di alternative possibili o ipotizzabili è a un tempo causa ed effetto di un’operazione di chiusura. Se ciò che pensiamo è il vero e l’assoluto, allora non esiste possibilità di declinarlo in altri modi, non sono possibili altri mondi, altre realtà. Pensando in questo modo, ci isoliamo da, impedendo l’accesso a chiunque sia portatore di cambiamento. Se poi quel qualcuno è tra noi, va espulso o messo a tacere.
” (pag.287)

cattivi-e-primitivi Proprio di questo aspetto repressivo di espulsione, reclusione e silenziamento del Movimento No Tav e dei suoi militanti si occupa invece il testo di Alessandro Senaldi edito da Ombre Corte. Ricercatore indipendente nel campo della sociologia della devianza e del mutamento sociale, impegnato nello studio criminologico dei movimenti sociali, l’autore, nell’affermare l’importanza scientifica del Movimento No Tav, dichiara che: “Il movimento in questione trova la sua particolarità nella sua storia e nei risultati raggiunti. Nato come movimento territoriale all’inizio degli anni novanta del secolo scorso, ha saputo cambiare pelle con il mutare del tempo, adattandosi alle diverse fasi che la storia gli imponeva e bloccando, di fatto, la realizzazione dell’opera. Dopo venticinque anni dalla sua «fondazione» il dato che ci viene consegnato è quello di un movimento ancora in salute, che non ha pari nel nostro paese per costanza e quotidianità di iniziativa. Proprio la sua intergenerazionalità lo rende particolarmente interessante, in quanto, col tempo, ha assunto un ruolo totalizzante nel contesto valsusino, implementando una propria pedagogia, dei propri miti, una propria storia, fino ad arrivare a vere e proprie pratiche mortuarie. Un movimento che orienta e accudisce le giovani generazioni, le fa crescere ed infine le conduce fino alla propria uscita dalla scena. Un movimento che si inscrive e sovrappone all’esperienza esistenziale dei singoli, arricchendola e fornendogli una nuova dimensione ontologica.” (pp. 7-8)

Per questi motivi si rivela particolarmente utile l’uso del metodo etnografico, proprio per analizzare sia le strategie e i discorsi messi in atto dalla compagine istituzionale per realizzare l’opera e fronteggiare il movimento che vi si oppone sia quelle messe in atto dalla controparte.
L’etnografia per Senaldi è una necessità: “La scelta del metodo etnografico è stata una scelta «dovuta». Quest’ultimo ha infatti peculiarità proprie, che ben si prestano allo studio dei diversi temi affrontati nella ricerca. Inoltre consente di muoversi con una certa libertà all’interno delle maglie strette del paradigma scientifico, in quanto respinge la formulazione rigida e preconcetta di teorie e fa procedere queste ultime di pari passo con la ricerca; favorisce peraltro l’impiego di un approccio trans-disciplinare che abbatte i confini tra aree di conoscenza.” (pp. 8-9)

Scelta che deriva oltre che dal percorso biografico e dalla militanza pluriennale all’interno del movimento No Tav del ricercatore, anche dal fatto che, come già affermava Danilo Montaldi,7 nel metodo etnografico “è possibile ritrovare espliciti fini «etico-politici». Questo perché «gli angoli visuali incidono in modo detrminante sulla rappresentazione, sulla narrazione e sulla creazione stessa della realtà».8 Questa considerazione è ben riferibile al caso della vicenda Tav, in cui vi sono almeno due divisioni diverse della «realtà dei fatti»: quella narrata dai diversi livelli di potere e quella del movimento che si oppone alla realizzazione dell’opera. La scelta metodologica è quindi determinata dalla necessità di fare emergere il punto di vista del movimento No Tav, le sue pratiche, le sue rappresentazioni e narrazioni; oltre che dall’occasione di «documentare l’esperienza di soggetti sociali trascurati dalla storiografia e dalla ricerca sociale».9 In sostanza «dar voce a chi voce non ha»”. (pag. 9)

Anche nel caso del testo edito da Ombre Corte, il titolo è rivelatore: Cattivi e primitivi. Due termini che riassumono inequivocabilmente l’immagine che i fautori delle Grandi Opere vogliono dare di coloro che a tali opere si oppongono.
Cattivi perché dannosi per gli interessi della Nazione e primitivi perché inadeguati e impreparati per le meraviglie della modernità. Tutto sommato un giudizio che accomuna i valsusini, ma anche tutta la storia dei movimenti di classe e anti-sistemici più radicali, a tutti quei popoli espulsi dalla Storia con la violenza della modernità.

La Storia, lo si sa, la scrivono i “buoni” e i “progressisti”; gli altri resteranno sempre tra i popoli senza storia o tra i vinti perché cattivi o inutili. Ma ciò che ha funzionato per secoli non è detto che debba funzionare obbligatoriamente ancora in futuro. Il mantra del cambiamento istituzionale, dal “Sì” al Referenduma alla TAV, ormai traballa insieme a tutto il sistema che li ha ideati e non ancora prodotti, mentre la partita è ancora tutta da giocare. Però su un campo di gioco e con regole totalmente differenti, come potrebbero dire i killer di Pulp Fiction ideati da Quentin Tarantino.

La ricerca di Senaldi si riferisce, principalmente, ad un periodo di osservazione e partecipazione ad iniziative, eventi, vita quotidiana, lavori e pratiche giornaliere riconducibile all’estate del 2013.
La parte centrale del mio lavoro è rappresentato da interviste non strutturate. Più precisamente ho raccolto delle «interviste in profondità» che cercavano di indagare la ricostruzione che gli attivisti danno dei dispositivi di controllo implementati, le dimensioni motivazionali e i mutamenti biografici e relazionali delle persone che partecipano alla lotta.” (pp. 9-10)

Grazie a tale metodo, ne deriva un coro di voci anonime, ma autentiche che delineano collettivamente le scelte, i discorsi e le strategie del movimento nel suo insieme. Fungendo così da perfetto contraltare al discorso e alle pratiche repressive istituzionali.
Non ci sono categorie di No Tav che non siano soggetti a tali pratiche poliziesche, e non si tratta di un provvedimento riguardante solo gli attivisti più duri. Durante la mia permanenza ho avuto modo di dialogare con alcuni attivisti appartenenti al gruppo «Cattolici della Valle», che, ridendo, mi hanno fatto notare come, essendo quelli che visitano più spesso il cantiere, andando a pregare lì ogni mattina, sono conseguentemente quelli più schedati e fermati dalle FF.OO. Qui […] pur essendo mantenute – soprattutto dal punto di vista pubblico – le pratiche discorsive di discernimento tra «buoni» e «cattivi», si assiste tuttavia a un evidente cortocircuito nel rapporto tra queste ultime e le pratiche del controllo poliziesco. Sarebbe a dirsi che nell’attacco a tutto campo delle tattiche antagoniste in questione, ritroviamo nuovamente la volontà di applicare una reductio ad unum del controllo ed estendere così lo status di non cittadini.” (pag.127)

Si dimostra in tal modo perché, così come gli antropologi che compiono ricerche sul campo in ambienti lontani dalle pratiche del mondo civilizzato oppure da quest’ultimo relegati al di fuori della legalità e del suo riconoscimento giuridico devono fare, oggi chi si occupa di lotte realmente antagoniste è altrettanto costretto a studiare il suo soggetto come “altro” dalla società che lo ha prodotto e che pur combatte, riportando il discorso su quella irriducibile, e andrebbe aggiunto inevitabile, alterità di cui si è parlato all’inizio di questa lunga recensione.

Alterità che, nonostante gli sforzi dello Stato e dei suoi galoppini mediatici ed ideologici, non può e non vuole essere relegata in una sorta di “riserva indiana”, come forse anche qualche benpensante democratico vorrebbe intendere la lotta No Tav nel suo contesto. Anche perché, nonostante gli sforzi imponenti, “Anche sul versante giuridico, come su tutti gli altri livelli, il dispositivo sembra però in affanno. La sensazione è che la compagine istituzionale stia, rispetto ai soli confini geografici della Valle, tentando l’applicazione casuale dei dispositivi di controllo disponibili, attraverso un procedimento che potremmo definire di «trial and error». Un procedimento per il quale – anche a seconda delle fasi evolutive della lotta – gli attori preposti al governo della popolazione e al suo controllo affiancano ai dispositivi volti al disciplinamento (accumulando saper sulla società) quelli miranti alla neutralizzazione e all’espulsione dei non cittadini, insieme a tattiche di polizia e giudiziarie che puntano invece alla deterrenza. Questo affanno, questo tentativo di usare tutti i mezzi possibili dimostra la difficoltà che la compagine istituzionale avverte nel controllare e leggere la conflittualità sociale.” (pag. 160) Che, aggiungerei, non vuole e non sa più leggere finendo col credere soltanto più nel proprio discorso: farsesco e fuorviante allo stesso tempo.

contrees Due ottimi libri, interessanti e documentatissimi, per comprendere e andare oltre le letture ormai “istituzionalizzate” di uno dei movimenti più vivaci ed innovativi della realtà europea contemporanea. Mi permetto però, e soltanto a questo punto, di suggerire che, per capire a fondo le trasformazioni in atto nelle lotte più significative, sarebbe necessario anche la traduzione in lingua italiana dell’inchiesta parallela condotta attraverso cinquanta interviste a militanti NO Tav italiani e ad altri cinquanta militanti francesi della Zad di Notre-Dame-des-Landes, prodotta ed edita dalle compagne e dai compagni del Colletivo Mauvaise Troupe: Contrées. Histoire croisées dela zad et de la lutte No TAV dans la Val Susa, Éditions de l’éclat 2016, pp.412


  1. Si veda in proposito il mio https://www.carmillaonline.com/2016/06/24/outsiders-vs-establishment/  

  2. Sulla scarsa credibilità elettorale e sull’inevitabile sconfitta della candidata democratica si veda ancora il mio https://www.carmillaonline.com/2016/05/02/donne-sui-tre-lati-della-barricata/  

  3. Come quella già efficacemente prodotta a cura del Centro sociale Askatasuna: A sarà düra! Storie di vita e di militanza no tav, DeriveApprodi 2013  

  4. Come nel caso dell’ultimo testo di Wu Ming 1, Un viaggio che non promettiamo breve, Einaudi Stile Libero 2016  

  5. cit . in Aime, pp. 205-206  

  6. M. Douglas, Antropologia e simbolismo, il Mulino, Bologna 1985, pp. 76, 88  

  7. D. Montaldi, Militanti politici di base, Einaudi 1971  

  8. Gianfranco Carofiglio, L’arte del dubbio, Sellerio Editore 2007, pag. 15  

  9. Alessandro Dal Lago e Rocco De Biasi, Un certo sguardo. Introduzione all’etnografia sociale, Laterza 2002, pag.XXXII  

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Contro il conformismo, la massificazione e l’economizzazione crescente: un dialogo sugli antichi e sui moderni https://www.carmillaonline.com/2016/09/18/conformismo-la-massificazione-leconomizzazione-crescente-un-dialogo-sugli-antichi-sui-moderni/ Sat, 17 Sep 2016 22:01:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33203 di Paolo Lago

oracoliCarla Benedetti, Maurizio Bettini, Oracoli che sbagliano. Un dialogo sugli antichi e sui moderni. Modi di pensare e di agire che crediamo superati ma che hanno ancora un valore per noi oggi, Effigie Il Primo Amore, Milano, 2016, pp. 194, euro 12,00

Da un punto di vista formale, l’aspetto sicuramente più interessante di Oracoli che sbagliano è la veste dialogica: il dialogo, come si sa, è una forma letteraria utilizzata, soprattutto nell’antichità, per disquisire attorno alle tematiche più svariate, siano esse di natura filosofica o politica (basti solo pensare ai [...]]]> di Paolo Lago

oracoliCarla Benedetti, Maurizio Bettini, Oracoli che sbagliano. Un dialogo sugli antichi e sui moderni. Modi di pensare e di agire che crediamo superati ma che hanno ancora un valore per noi oggi, Effigie Il Primo Amore, Milano, 2016, pp. 194, euro 12,00

Da un punto di vista formale, l’aspetto sicuramente più interessante di Oracoli che sbagliano è la veste dialogica: il dialogo, come si sa, è una forma letteraria utilizzata, soprattutto nell’antichità, per disquisire attorno alle tematiche più svariate, siano esse di natura filosofica o politica (basti solo pensare ai Dialoghi di Platone), letteraria o scientifica. Niente di meglio di un dialogo perciò, per disquisire e riflettere su cosa ancora possiamo assimilare del mondo antico in un’epoca ‘di angoscia’ come la nostra. Il libro è infatti costituito da un lungo dialogo che si dipana attraverso temi e problemi della società contemporanea messa a confronto con quella antica: i due dialoganti sono Carla Benedetti, studiosa di letteratura moderna e contemporanea e Maurizio Bettini, antropologo e studioso di letterature classiche, i quali hanno deciso di pubblicare i loro dialoghi svoltisi nell’autunno del 2013 all’Università di Berkeley, in California.

Durante una presentazione del libro assieme a Bettini, lo scorso luglio a Livorno nell’ambito di Eden. Parole e musica alla Terrazza Mascagni, Benedetti afferma che la nostra è un’epoca segnata dall’instabilità, dal terrorismo, dalle guerre, dalle migrazioni. Le sue parole, nella quiete della terrazza Mascagni affacciata sul mare e avvolta in quel momento da un magico, lunghissimo tramonto, risuonano come omina inquietanti: di fronte a noi, infatti, c’è lo spettro concreto di un pianeta che, a causa dello sfruttamento indiscriminato delle materie prime, diventerà inabitabile; viviamo in un’epoca storica molto particolare che ha superato la modernità e tutti i suoi presupposti di pseudo sicurezza. In questo nostro navigare a vista in mezzo alla nebbia si pretende di spiegare tutto il mondo attraverso l’economia.

Gli oracoli che sbagliano sono i nostri economisti che pretendono di interpretare il mondo esclusivamente attraverso la lente dell’economia. Come afferma Maurizio Bettini durante il dialogo «quello del mercato è diventato un modello cognitivo primario»: tutto è misurato attraverso un filtro economico e produttivo, perfino la cultura e il sapere. L’introduzione nelle università di termini come «prodotti», «crediti», «debiti», la stessa «valutazione» universitaria (che, non a caso, deriva da valuta) e, si potrebbe aggiungere, anche quella scolastica, divenuta tale per mezzo di una recente riforma ricalcata su un modello aziendale e manageriale: tutto è improntato a un modello economico. Come amaramente dice Benedetti, in ambito accademico non viene premiata l’originalità, ma solo la riproduzione dell’esistente, poiché «viviamo in una società che premia il conformismo» (p. 127). Del resto, l’ostentata ‘economizzazione’ del mondo era stata già rilevata da uno studioso del calibro di Serge Latouche, teorico della decrescita; infatti, durante un incontro con Anselm Jappe (recentemente tradotto in italiano per Mimesis: A. Jappe, S. Latouche, Uscire dall’economia), Latouche affermava che l’economia ha sostituito la religione come immaginario dominante nella nostra epoca: oggi sono le banche a dominare le città, non più certo le chiese. La stessa equiparazione dell’economia alla religione viene attuata da Benedetti e Bettini: come in epoca antica ci si affidava agli oracoli divini, così adesso ci si affida alle previsioni e alle analisi degli economisti («Il linguaggio dell’economia è oggi dilagante, ha invaso molti ambiti sociali e di lavoro, e ormai, come dicevamo, viene usato per descrivere molti fenomeni del mondo contemporaneo. E poiché tu non capisci bene i meccanismi dell’economia, tutte queste metafore infondono passività. Erano meglio gli dèi, davvero!», Benedetti, p. 129).

Il dialogo fra i due studiosi procede attraverso temi e concetti che investono nel profondo la società contemporanea. Si comincia col concetto di metamorfosi: mentre per la società antica la metamorfosi era possibile, perché il divino e la magia le lasciavano uno spazio (basti pensare alle Metamorfosi di Ovidio ma anche ai numerosi sogni di metamorfosi raccolti nell’Oneirocritica di Artemidoro), per noi la metamorfosi è esclusa, abbiamo un’idea dell’umano molto più fissa e chiusa di quella degli antichi. Benedetti cita il pensiero dell’astrofisico Stephen Hawking, secondo il quale, «l’aggressività, che è inscritta nel DNA umano, ci porterà a guerre nucleari e a un’inevitabile distruzione dell’habitat. L’unica cosa che possiamo sperare è che nel frattempo – nel poco tempo che ancora ci resta prima della catastrofe – le nostre conoscenze scientifiche e tecnologiche progrediscano al punto da permetterci di scoprire e colonizzare altri pianeti» (p. 16); infatti, «l’idea che si possano cambiare certe strutture mentali, o quanto meno modificarle, correggerle, non sfiora neppure la mente. In questo crederci destinati alla fissità dell’umano così come noi lo conosciamo o crediamo di conoscerlo, la metamorfosi è esclusa» (p. 17).

Legato alla metamorfosi è lo stesso concetto di natura umana: come afferma Bettini, è assai importante quel processo «a cui ogni studioso dovrebbe sottoporre prima di tutto se stesso, e poi anche l’oggetto dei propri studi, che si chiama de-naturalizzazione dei pregiudizi. Mi correggo, non solo gli studiosi, ogni persona che crede nel pensiero critico dovrebbe farlo. Perché il meccanismo contrario, ossia la naturalizzazione del pregiudizio, è una delle componenti più attive nelle costruzioni culturali» (p. 17). Quelli che vengono definiti come naturali sono in realtà dei comportamenti derivati da costrutti culturali canonizzati dalla tradizione: perché, ad esempio, si dovrebbe pensare che l’Africa, perché più economicamente arretrata, sia più vicina alla «natura» rispetto all’Europa? Oppure che l’omosessualità sia contro natura?

Un altro concetto assai importante è quello di identità: nelle società moderne e contemporanee gli individui sono ‘schedati’ e controllati attraverso il meccanismo della carta d’identità; in latino classico, come ricorda Bettini, non esiste la parola identità: ci sono cognitio o notitia, ma sono termini che designano l’essere riconosciuti da altri (in quanto posseggono in sé la radice di nosco, «riconoscere»), non un qualcosa di proprio e personale che ci si porta dentro. Si pensi all’Amphitruo di Plauto, in cui il servo Sosia si ritrova di fronte a un suo doppio (in quanto Mercurio ne ha assunto le sembianze): il suo pensiero scivola subito nell’idea che qualcuno lo abbia trasformato, non che abbia perso la propria identità. Presso gli antichi, perciò, l’identità personale era più fluida rispetto alla modernità, in cui ogni individuo appare incasellato rigidamente all’interno di meccanismi identitari, come nella società disciplinare delineata da Michel Foucault. Addirittura, oggi le identità vengono costruite dall’esterno a uso e consumo del turista: Benedetti afferma infatti che i Dogon, come scrive Marco Aime nel suo saggio Diario Dogon, hanno assunto un’identità imposta loro da un antropologo francese, Marcel Griaule, che ne Il Dio d’acqua, li fa apparire come dei filosofi delle caverne, dediti all’osservazione del cielo e dell’universo. Vengono ripresi dei tratti che sono poi consegnati all’immaginario collettivo: sono proprio questi tratti caratteriali che il turista si aspetta quando si reca in Mali per visitarlo. Si tratta di stereotipi culturali, causati dalla massificazione che investe la contemporaneità: come quando il turista va a Venezia – aggiunge Bettini – e si aspetta di trovare il gondoliere vestito in un certo modo, il quale deve cantare un certo tipo di canzoni, canzoni che poi, molto spesso, sono napoletane. Lo stesso Bettini racconta di un suo viaggio in Arizona, a Tombstone, dove si svolse la famosa sfida all’O.K. Corral: «Vi si incontrano uomini che si aggirano indossando enormi cinturoni, pistole e cappelli altrettanto enormi, perché i turisti non hanno nessun interesse per Tombstone com’è, ovviamente, ma sono lì per visitare la città dove c’è stato l’O.K. Corral, vogliono quella città» (p. 45). La costruzione dell’identità dall’esterno, per fini turistici e di massa, molto si avvicina allora al fenomeno della gentrification: luoghi che un tempo erano autentici, poveri e magari anche degradati – valga per tutti l’esempio parigino di Montmartre (ma anche, nel suo piccolo, il Pigneto romano) – vengono trasformati in luoghi turistici e ‘finti’, specchio di cartapesta di ciò che furono un tempo, mentre gli immobili che li caratterizzano vengono acquistati a peso d’oro dalla nuova classe borghese imprenditoriale.

Un altro importante tema affrontato dal dialogo è «politeismi e monoteismi»: come afferma Bettini (tematica, tra l’altro, già affrontata nel suo recente saggio Elogio del politeismo), «se Greci e Romani hanno consumato violenze e carneficine, proprio come è avvenuto nelle epoche successive, non lo hanno fatto però in base a motivazioni di carattere religioso o per affermare la verità di un unico dio» (p. 47). Il dio dei monoteismi (il Cristianesimo e l’Islam) è infatti un dio unico ed esclusivo, che non ammette l’esistenza di altre divinità; le divinità dei politeismi antichi erano molteplici e potevano anche integrarsi fra di loro. Si potevano persino ‘importare’ gli dei di un’altra religione: ad esempio, molte divinità greche sono state ‘importate’ a Roma e tradotte in latino. Addirittura, i Romani istituivano parallelismi e somiglianze anche con le divinità di popolazioni estremamente lontane e ‘barbare’ come, ad esempio, i Germani. È preferibile quindi il mondo antico e il suo politeismo rispetto al monoteismo del mondo moderno che genera spargimenti di sangue proprio perché non tollera un dio diverso dal proprio.

Anche per quanto riguarda il razzismo gli antichi erano probabilmente migliori di noi moderni. Pur avendo coniato il termine «barbari» per indicare gli ‘altri da sé’ (per i Greci erano «coloro che balbettano», cioè coloro che non parlano il greco), il mondo antico non conosceva il razzismo verso i neri (gli Etiopi sono lodati come un popolo pio e molto civile): quando si parla di schiavi – dice Bettini – «non viene mai reso esplicito quale sia il colore della loro pelle» (p. 59). «Il contrario di quel che avviene oggi nei giornali, – ribatte Benedetti – dove sottolineano subito, fin dai titoli, il colore o la provenienza dell’autore di una rapina o di un omicidio: “Albanese uccide…”» (ibid.).

Per quanto riguarda i limiti della conoscenza, pare che nell’idea che l’uomo moderno ha di sé – dice Benedetti – «tutte le forze che lo determinano sembrano – anche se in realtà non lo sono – comprensibili» (p. 154). Il mondo antico, invece, «dispone di altri meccanismi di interpretazione: gli dèi, il Fato, il destino, però anche la forza che porta il nome di Tyche, la Sorte, ossia la congiunzione particolare di eventi che ha prodotto un determinato fenomeno» (Bettini, p. 148). Pensiamo anche alle mappe e alle carte geografiche, non soltanto antiche; in molte carte del Cinquecento e del Seicento, molte zone del globo erano lasciate in bianco, a rappresentare zone non ancora esplorate: «Così ti portavano subito davanti agli occhi, in evidenza, che lì c’era un limite di conoscenza» (Benedetti, p. 158). Adesso – risponde Bettini – chiunque può cercare un indirizzo su Google e visualizzarlo, come i ragazzi che crescono oggi, i quali hanno introiettata in loro l’idea «che il mondo non solo è tutto rappresentabile, ma anche tutto visibile!» (ibid.). Come – ricorda Benedetti – nel racconto di Borges, L’Aleph, dove c’è uno scrittore che ha un Aleph in cantina e su di esso può vedere rappresentato tutto il mondo: «Google street e Google map mi ricordano un Aleph» (p. 159). La rete, infatti, aggiungerei, con tutte le sue diramazioni, da Google ai social network, può dare un’illusione di libertà estrema ma, come ci ricorda il filosofo coreano Byung-Chul Han nel suo saggio La società della trasparenza, siamo tutti detenuti del panottico digitale e siamo tutti carnefici e vittima di noi stessi: «La libertà si rivela controllo» (B.-C. Han, La società della trasparenza, trad. it. di F. Buongiorno, Notettempo, Roma, 2014, p. 83).

Per concludere – e qui sta, credo, il senso profondo di questo dialogo che srotola naturalmente altre problematiche che sarebbe troppo lungo sondare in queste pagine – ciò che possiamo ancora assimilare del mondo antico e forse ciò che in esso c’è di più prezioso per noi è la sua alterità. Si può indagare il mondo antico come Lévy-Bruhl o altri famosi antropologi hanno fatto per le società «primitive»: «La cosa appassionante sta proprio qui, nel seguire i cammini di questa alterità di pensiero; nell’esplorare queste “mille diverse maniere di vita” – come già diceva Montaigne, quel grande saggio – che gli altri, gli stranieri, ci mettono sotto gli occhi» (Bettini, p. 176). In questo senso, la civiltà antica si dispone dinanzi ai nostri occhi come un grande scenario in cui nulla è scontato, in cui il magico, il misterioso, il divino, la fluidità, l’enigma si contrappongono alla massificazione, alla «cultura media» controllata da censimenti, statistiche e sondaggi, al mercato che ingloba persino la cultura, all’economia che tutto pervade, alla rigidità di modi di vedere e di pensare, alla presunzione di avere a nostra disposizione, in un semplice smartphone, l’intero mondo. Forse allora, anche per mezzo della cultura antica – e ciò è veramente prezioso – possiamo arrivare a pensare che un altro mondo è possibile, che può esistere un altro modo di vivere e di organizzare l’esistente.

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