maquis – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 01 Aug 2025 20:00:30 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Che cosa sogna un gatto di biblioteca https://www.carmillaonline.com/2022/01/26/che-cosa-sogna-un-gatto-di-biblioteca/ Wed, 26 Jan 2022 22:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70188 di Luca Baiada

Amilcare è il gatto di casa, anzi il gatto della città dei libri, del professor Sylvestre Bonnard, accademico di Francia, uomo di immensa dottrina. E la città dei libri è la biblioteca del professore, il nido appartato di una virtù di carta che consola senza scaldare; il luogo dove Amilcare consuma di tanto in tanto il suo banchetto di topi. Amilcare è vero o finto? Questa domanda dimostrerebbe, oltre a una certa insolenza, scarsa dimestichezza col lavoro culturale. Il gatto Amilcare abita le pagine di un romanzo di [...]]]> di Luca Baiada

Amilcare è il gatto di casa, anzi il gatto della città dei libri, del professor Sylvestre Bonnard, accademico di Francia, uomo di immensa dottrina. E la città dei libri è la biblioteca del professore, il nido appartato di una virtù di carta che consola senza scaldare; il luogo dove Amilcare consuma di tanto in tanto il suo banchetto di topi. Amilcare è vero o finto? Questa domanda dimostrerebbe, oltre a una certa insolenza, scarsa dimestichezza col lavoro culturale. Il gatto Amilcare abita le pagine di un romanzo di Anatole France, scrittore vivace come pochi, difensore dei deboli e frequentatore di un nobile socialismo, di quelli che non impediscono le comodità.

Nel nome di questo curioso animale, anzi coi suoi occhi, chiediamoci che vita sia mai, quella delle lettere, del sapere, della memoria, e anche di cosa sappia la vita, in sé; la vita quella che chiamiamo, per brevità, vera. Naturalmente, avendo cura di considerare che Le crime de Sylvestre Bonnard, membre de l’Institut è il primo romanzo di France, e perciò che il nostro giudizio non deve eccedere in severità.

Per me, devo dar conto di come sono arrivato a questo volumetto tenero ma edificante. È complice una citazione di Marc Bloch nell’Apologia della storia, e si stenta a credere che il grande studioso ricordasse così bene la vicenda singolare del professor Bonnard, mentre durante la Seconda guerra mondiale metteva mano al suo saggio formidabile, che avrebbe visto la luce dopo l’assassinio dell’autore. Quando Bloch scriveva stava tramando con la Resistenza, braccato dai nazisti, e bisogna tener presente che proprio quelle condizioni gli ispiravano la migliore autocritica: chi è al massimo dell’intensità della vita, specialmente col rischio di perderla da un momento all’altro, si chiede cosa significhi rammemorare, organizzare le idee, trasmetterne la testimonianza.

Combattere: una condizione ben diversa, dallo zelo chiacchierino degli storici da spettacolo, da televisione, da convegno; come quelli italiani che hanno preso denaro dalla Germania, qualche anno fa, per raccontare le stragi naziste su cui le autorità tedesche non hanno mai permesso la giustizia, né penale né civile, e per confezionare un elenco catalogale di crimini. Gli storici che vogliono cambiare la storia non sono gli stessi che coltivano la memoria da posizioni di potere. Il gatto Amilcare, invece, custode della città dei libri, avrebbe apprezzato l’interesse di Bloch per il suo padrone e per il suo autore, e avrebbe parteggiato sicuramente per uno storico combattente come Bloch, il fondatore degli «Annales», contro i nazisti. Non fosse altro perché, si sa: non esistono gatti-poliziotto.

Diamo la parola all’anziano accademico, a Bonnard, perfettamente consapevole della sua erudizione, del suo talento contemplativo, della sua non vita:

«Che bella notte! Regna con nobile languore sugli uomini e sulle bestie che ha sciolto dal giogo quotidiano, e io gusto la sua benigna influenza benché, per un’abitudine di più di sessant’anni, sia sensibile alle cose solamente attraverso i segni che le rappresentano. Per me al mondo non ci sono che le parole, tanto sono filologo! Ognuno fa a suo modo il sogno della sua vita. Io ho fatto questo sogno nella mia biblioteca, e quando sarà venuta per me l’ora di lasciare il mondo, Dio voglia prendermi sulla mia scala, davanti agli scaffali carichi di libri!».

Non c’è forse tanta squisita eleganza da perdersi, in questa mise en abyme con promessa di salvezza? A parlare è Bonnard, ma in realtà è il giovane Anatole France, e a riconoscersi in queste debolezze sono tutti i gatti da poltrona, abituati a far le fusa ai libri inanellando le parole, terreno più confortevole dello scontro, della vita.
Attenzione, però, perché Bonnard non è un penitente né un asceta. Anzi, è nato ghiottone e tale è rimasto, e per le donne ha sempre avuto interesse. Ce lo dicono le parole in cui trasfigura Clémentine, la ragazza di cui è stato innamorato da giovane, quando la immerge in un ricordo soffuso di dolcezza:

«Il suo incarnato era leggermente rosato e la sua bocca socchiusa sorrideva con quel sorriso che fa pensare all’infinito, senza dubbio perché non tradisce alcun pensiero preciso e non esprime che la gioia di vivere e la felicità di esser bella. Il suo volto brillava sotto un cappellino rosa come un gioiello in uno scrigno aperto; portava una sciarpa di cachemire su un vestito di mussola bianca arricciato in vita e si intravedeva la punta di uno stivaletto mordoré».

Che delizia! La mussola, lo stivaletto – nella letteratura non c’è solo Il diario di una cameriera di Octave Mirbeau, trasfigurato da Bunuel grazie al musino corrucciato di Jeanne Moreau – e il cappellino rosa. Soprattutto scintilla, nei ricordi di un anziano vagheggino dalla testa gonfia di libri, quell’inconfessabile bisogno di sciogliersi che i malati di cultura conoscono troppo bene, al punto che talvolta cercano pace negli occhi di una giovinetta, che sia la Clémentine immaginata da France, o la Manon Lescaut. O persino la Lulu di Frank Wedekind, lei innamorata dell’amore restituito attraverso le lettere: «Si fece spiegare da me l’intreccio di Tristano e Isotta; e con quanta intelligenza l’ascoltava!». Così, ecco l’ammirazione per una leggerezza che vede tutto e non pensa niente, boccone goloso per chi invece ragiona troppo e ha consumato la vista.

Già, però – si chiede, secondo me, il gatto Amilcare – che cosa leggono i grandi mentre fanno cose grandi? Hanno anche loro, piccoli maestri da cui possiamo ancora imparare qualcosa? A me piace pensare Marc Bloch mentre assaggia qualche pagina di Anatole France, perché i pensieri leggeri non sono affatto quelli che scendono meno in profondità, anzi. Gli storici che vogliono mutare il corso della storia esistono, e anche Jean-Pierre Vernant partecipò alla Resistenza; proprio Vernant, in seguito, confidò al cognitivista Jerome Bruner: «Vivere nella clandestinità dava una chiara idea della fragilità di tutte le descrizioni degli eventi, fino a modificare il proprio senso di identità». Certo, Bruner, che durante il conflitto lavorava per gli Alleati alla Psychological Warfare Division e non viveva sotto occupazione tedesca, rischiava meno; questo ci conferma che la psicologia cognitiva non cerca gli imprevisti. Ma anche se è difficile, adesso, in piena società dello spettacolo, rimettere realtà e invenzione al loro posto, si può star certi che non esistono, in Europa, storici in grado di percepire così a fondo il loro senso di identità, come allora; a meno che, si capisce, diano all’identità esclusivamente il significato di appartenenza a una corporazione accademica.

Ma rientriamo fra le pagine del romanzo. Clémentine e la figlia sono morte, ormai. Però c’è la piccola nipote, e l’anziano Bonnard se ne prende cura con un amore commovente, tutto nobiltà e niente corpo, anche se potremmo immaginarlo mentre la sogna, la guarda, magari la spia addormentata. Bonnard incantato da Clémentine avrebbe lo sguardo di Salvo Randone in La parmigiana, quando vuol deporre un bacio sulla pelle di biscuit di Catherine Spaak, ma non sembrerebbe così avido.

Proprio l’amore per la nipote della sua amata di un tempo, fa conquistare a Bonnard la liberazione dalla dorata prigionia intellettuale. Eccolo, il professore, finalmente snebbiato, che pensa a un senso ultimo delle cose, del mondo, un senso che oggi gli storici accoccolati nella televisione, pasciuti ciambellani dell’ora digestiva, non vedono l’ora di cominciare a cercare; lui, Bonnard, riconsidera la sua vita di ricerche sugli scritti antichi:

«Che cosa speravo mai di trovarvi, allora? La data di una fondazione pia, il nome di qualche monaco miniatore o copista, il prezzo di un pane, di un bue, di un campo, una disposizione amministrativa o giudiziaria, questo e altro ancora, qualcosa di misterioso, di vago e di sublime che scaldasse il mio entusiasmo. Ma ho cercato sessant’anni senza trovare questo qualcosa. Anche quelli che valevano più di me, i maestri, i grandi, i Fauriel, i Thierry, a cui si devono tante scoperte, sono morti al lavoro senza aver trovato neanche loro quel qualcosa che, non avendo corpo, non ha nome, e senza il quale, tuttavia, nessun’opera dello spirito sarebbe intrapresa su questa terra. Adesso che non cerco se non quello che posso ragionevolmente trovare, non trovo più niente del tutto, ed è probabile che non terminerò mai la storia degli abati di Saint-Germain-des-Prés».

Vuol terminare la storia di Saint-Germain-des-Prés, povero Bonnard. L’illuso non sa che i percorsi sono sghembi. Fa venire in mente quel narratore che si riproponeva di sfiorare il segreto dei campanili di Martinville e si trovò fra le mani la Recherche, sino a che le ultime pagine gli scottarono le dita mentre si guardava nello specchio. Questi mnemonauti si avventurano senza bussola, e non sanno mai dove vanno a finire. Oppure la bussola ce l’hanno benissimo, ma la nascondono per fare i finti tonti, per civetteria.

A meditare su quel qualcosa che non ha corpo è Bonnard, ma a scrivere è sempre Anatole France, che non si sta ancora battendo per Dreyfus, anche se presto la Belle Époque consumerà la sua lenta agonia e fra una generazione si prepareranno i bagni di sangue del Novecento. France, in fondo, farà qualcosa per mettere mano alla storia, come alle storie, e per cercare di contribuire al nuovo corso dell’umanità. Sapere i fatti o cambiarli? Cioè cambiare quelli futuri, o metter mano a quelli trascorsi, col gusto dell’antiquario che accarezza una statua? Chi si illudesse di far tornare i conti della storia avrebbe meno senno di un membro dell’Accademia innamorato di una ragazzina, ma uno storico che accetta i fatti così come sono, costui vale meno del suo gatto.

La giustizia non è compresa nei programmi dei professori di storia. Ma perché – si chiede il gatto Amilcare – l’accademia ignora il seguito dei fatti, quelli stessi che studia con zelo instancabile? Nel 2021 un tribunale della Corea del Sud ha condannato il Giappone a risarcire i danni alle schiave sessuali delle forze armate nipponiche, e in Brasile si è deciso che si può condannare la Germania per l’affondamento di navigli civili da parte dei sommergibili tedeschi. Comfort women in Asia, marinai inermi silurati dai nazisti nelle acque brasiliane: cose che succedevano mentre Bloch, nei ritagli di tempo del maquis, ricordava un gatto di carta, una biblioteca sulle rive della Senna, un vecchio professore che si strugge d’amore. Gli scherzi della memoria sanno spesso di agrodolce e di gioco di specchi.

Chi studia e basta, consacra il suo tempo alla vita degli altri, porge un dono che non sarà ricambiato. Chissà, se con tanto sforzo ha il dovere di consegnare solo la verità – la verità, nient’altro che la verità, come chi può diventare imputato di falsa testimonianza – , o invece gli spetta il diritto di prendersi una libertà inventiva, che volentieri può travestire da scienza. Bell’inganno, se lo storico fosse, sotto sotto, un letterato crocifisso alla manipolazione delle fonti, e per questo più manigoldo, più dispettoso di un cameriere che intorbida il piatto prima di servire la pietanza.

La questione di fondo – decentrata, appartata come la biblioteca, sorniona come il gatto Amilcare – si coglie nel conflitto fra Bonnard e il giovane Gélis (il fidanzato della sua pupilla, quasi un genero), e riguarda proprio la storia: è scienza o arte? Bonnard: «La storia, che era un’arte e che comprendeva tutte le fantasie dell’immaginazione, è diventata ai nostri tempi una scienza in cui bisogna procedere con metodo rigoroso». Gélis obietta: «In realtà lo storico non dà la sua fiducia a questo o a quel testimone che per delle ragioni sentimentali. La storia non è una scienza, è un’arte e non vi si arriva se non con l’immaginazione». Fa riflettere, che Bloch abbia pensato a questo libro mentre era ricercato dalla Gestapo: la posizione di intellettuale combattente, di uomo che nella storia mette le mani, di sapiente a mano armata, dà alla sua riflessione tutto un altro pregio.

Già, cambiare la storia. Non si fa a colpi di carte bollate, ma le vittime di stragi e deportazioni – erano armi di oppressione di massa, erano le armi che contrastavano quella battaglia epocale in cui combattevano Bloch e Italo Calvino, Antoine de Saint-Exupéry e Franco Fortini – chiedono giustizia da oltre mezzo secolo, e da qualche tempo riescono almeno a intervenire all’inaugurazione dell’anno giudiziario, trovando un ascolto che gli storici non offrono.

Eppure non ha avuto frutto, per ora, la ricerca di verità sull’attivazione dell’Avvocatura dello Stato italiana, nei processi sui crimini di guerra, contro le vittime e in difesa della Germania. Ci sono soglie che il sapere non deve attraversare, neppure il silenzio di una biblioteca basta a nascondere segreti inconfessabili. Il potere preferisce angiporti oscuri, cunicoli, anfratti ombrosi come la cattiva coscienza della narrazione accomodata e della falsa giustizia. Sono i luoghi dove al gatto Amilcare piace appartarsi, ottima riserva di caccia. Naturalmente chi tramava contro i nazisti, con le armi ma anche scrivendo di storia e frequentando buona letteratura, non poteva prevedere che l’Italia postfascista avrebbe nascosto i crimini nazisti; non poteva immaginare che l’Armadio della vergogna sarebbe rimasto a Palazzo Cesi, a Roma, taciuto per mezzo secolo.

Ancora Bloch, nell’Apologia della storia, non ricorda solo Bonnard e la sua città dei libri. Se la prende con la Compagnia di Gesù, che non consente di consultare le sue carte, «in mancanza delle quali tanti problemi della storia moderna resteranno sempre, e senza speranza, insoluti»; e anche con la Banca di Francia che si comporta allo stesso modo, «tanto la mentalità dell’iniziato è insita in tutte le corporazioni».

E il misfatto di Bonnard? È scegliere la vita, donarsi e donarla agli altri. Il dotto vende la biblioteca per far la dote alla fanciulla che ama e permettere che sposi un altro. C’è da dubitare che gli storici italiani, specialmente quelli che hanno partecipato all’operazione riparazionista, abbiano la vocazione del dono, e ancor più che siano pronti al gesto di Bonnard, questa specie di san Nicola che dà all’amore un corpo non suo per sottrarre una ragazza a un misero destino.

Qui devo fermarmi, perché i ricordi di Bonnard comprendono una poltrona appartenuta a un bisnonno. Il professore, parlando col suo medico, si paragona a quella. Come ha ragione! Man mano che la poltrona invecchiava, che negli anni si deformava e si disfaceva, veniva sempre più lodata, al punto che quando venne fatta a pezzi per la legnaia si dissero su di lei grandi cose. Bloch, invece, scrive: «Abbiamo tutti notato che i piccoli piaceri delle anticaglie costituiscono l’origine di orientamenti di studi, divenuti poi, a poco a poco, sempre più seri». Mi piace pensare che la scuola degli «Annales» abbia un debito con Anatole France, e persino coi rivenduglioli, col bric-à-brac. È possibile che l’autore dell’Apologia della storia, mentre stendeva queste righe, abbia ricordato l’ombra della poltrona immaginaria di casa Bonnard, che potrebbe essere il riflesso della poltrona di un bisavolo di Anatole France, oppure del suo bastone da passeggio o chissà, del suo tirabaffi. E visto che io siedo sul divano di nonno Pietro, il mio bisnonno, il mio stesso coinvolgimento in questo tessuto di pensieri parla meglio di me. Non posso, non voglio risolvere questo enigma. Davvero, nessuno terminerà mai la storia degli abati di Saint-Germain-des-Prés.

Meglio lasciarla aperta, la storia. Oppure, meglio ricordare Resurrezione di Tolstoj, un romanzo che era fra le letture formative dei partigiani, intessuto di urgenza di giustizia, di orrore per il potere e l’ipocrisia, e anche di assurdità del vivere e insieme di certezza nella possibilità di un riscatto, nel segno della fede e del coraggio. Il principe Nehljudov, sconvolto ma riscattato dalla verità e dall’amore, anche quello per la povera ragazza che lui stesso ha precipitato nella prostituzione e nella rovina: «Sono pazzo io, che vedo ciò che gli altri non vedono, o sono pazzi quelli che fanno quel che io vedo?».

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Alle origini dei GAP. Ftp-Moi: gli immigrati comunisti nella resistenza francese https://www.carmillaonline.com/2019/05/08/alle-origini-dei-gap-ftp-moi-gli-immigrati-comunisti-nella-resistenza-francese/ Tue, 07 May 2019 22:01:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52464 di Giacomo Marchetti

Stéphane Courtois, Denis Peschanski, Adam Rayski, Boris Holban, ALLE ORIGINI DEI GAP, 3 voll. in cofanetto: Boris Holban, Ai miei compagni. La vera storia della “manodopera immigrata” nella resistenza francese raccontata dal capo militare degli Ftp-Moi di Parigi; Stéphane Courtois, Denis Peschanski, Adam Rayski, Il sangue dello straniero. Storia degli Ftp-Moi: la “manodopera immigrata” dei partigiani francesi; Centro di documentazione Wacatanca, Ftp-Moi: il ruolo dei comunisti nella resistenza europea. Introduzione a una storia rimossa, Red Star Press, Roma 2019, pp. 750, 39,00 euro

Durante l’occupazione tedesca dal 1940 al 1944, [...]]]> di Giacomo Marchetti

Stéphane Courtois, Denis Peschanski, Adam Rayski, Boris Holban, ALLE ORIGINI DEI GAP, 3 voll. in cofanetto: Boris Holban, Ai miei compagni. La vera storia della “manodopera immigrata” nella resistenza francese raccontata dal capo militare degli Ftp-Moi di Parigi; Stéphane Courtois, Denis Peschanski, Adam Rayski, Il sangue dello straniero. Storia degli Ftp-Moi: la “manodopera immigrata” dei partigiani francesi; Centro di documentazione Wacatanca, Ftp-Moi: il ruolo dei comunisti nella resistenza europea. Introduzione a una storia rimossa, Red Star Press, Roma 2019, pp. 750, 39,00 euro

Durante l’occupazione tedesca dal 1940 al 1944, più di 1000 uomini, resistenti ed ostaggi, sono fucilati al Mont Valerién (Haut-de-Seine).
Nel giugno del 1960, il generale De Gaulle, inaugura il Memoriale della Francia combattente dove vennero giustiziati 22 dei 24 membri di uno dei più celebri gruppi di resistenti composti integralmente da immigrati – gli FTP-MOI – comandati dal comunista armeno Missak Manouchian, commissario militare degli FTP-MOI parigini.
Missak venne arrestato insieme al comunista polacco – ex-combattente delle Brigate Internazionali e a capo della resistenza parigina – Joseph Epstein, fucilato sempre al Mont-Vaérien l’11 aprile del 1944 poco più di tre mesi prima della liberazione di Parigi.
Nell’affiche rouge della propaganda nazista che ritrae alcuni membri del gruppo (dieci per la precisione, solo uomini e per la maggior parte resistenti di origine ebraica dell’Europa Orientale) sono presenti anche un comunista italiano: Spartaco Fontanot.
Questo gruppo di resistenti, che hanno svolto un ruolo del tutto significativo nella resistenza francese è stato autore di una delle più importanti azioni della resistenza parigina: l’uccisione di Julius Ritter, responsabile tedesco incaricato del lavoro coatto a benefico del Reich.
Quello della resistenza degli immigrati comunisti in Francia è una storia abbastanza misconosciuta in Italia – nonostante il notevole contributo dato dall’antifascismo italiano – , ed il lavoro del Centro di Documentazione Wacatanca, con la pubblicazione per la Red Star Press dei tre volumi raccolti in un cofanetto: “Alle origini dei Gap. Ftp-Moi: gli immigrati comunisti nella resistenza francese,” copre questa lacuna.
Il cofanetto è composto da tre volumi: un saggio introduttivo del Centro di Documentazione, la traduzione del libro di Boris Holban – comunista rumeno e responsabile militare Ftp-Moi della regione parigina – “Ai miei compagni” la storia di queste formazioni della resistenza ““il sangue dello straniero” scritta da due storici, S.Courtois, D.Peschanski e dal dirigente della resistenza A.Rayski, comunista polacco di origini ebraiche responsabile nazionale del Moi.

Facciamo un quadro del contesto repressivo in cui agì la resistenza comunista.
Con la vittoria “lampo” della Germania nazista e l’occupazione della Francia, il comando militare tedesco in Francia (MBF) instaura una repressione giudiziaria feroce e già dal giugno del 1940 gli avvisi di esecuzione per persone riconosciute colpevoli di sabotaggio o di aggressione ai soldati vengono fatti affiggere in strada.
A partire dal 1941 coloro che cercano di raggiungere le Forces Françaises Libres (FFL) del generale de Gaulle a Londra o i membri dei primi gruppi della resistenza smantellati vengono tradotti di fronte a questi tribunali militari.
Alla fine del luglio del 1941, più di centosessanta pene di morte sono state pronunciate ed un quarto eseguite.
Parallelamente a questa misura giudiziaria, dal settembre del 1940, il MBF mette in atto delle altre misure repressive per sanzionare “atti gravi” e dissuadere la popolazione contro ogni atto contro le forze d’occupazione.
La MBF decide la “detenzione amministrativa”, senza processo e senza limiti di tempo per coloro che sono ritenuti pericolosi e ricorre a vari tipi di rappresaglie collettive quando non riesce a trovare coloro che ritiene essere responsabili dei supposti atti criminosi come l’estensione del coprifuoco, sanzioni finanziarie, presa in ostaggio di persone dal profilo pubblico universalmente conosciute.
Il governo collaborazionista del Maresciallo Pétain mette in atto dall’estate del 1940 una politica di “Rivoluzione Nazionale” per lottare contro i “nemici interni” (comunisti, ebrei, massoni, ecc.).
Le punte di lancia di questa repressione sono la polizia e l’amministrazione francese, al zelante servizio del Reich.
Viene attuata una riforma della polizia nazionale e dei servizi di polizia “paralleli” e “speciali” vengono creati per lottare contro l’anti-France.
La Prefettura di polizia di Parigi, dove una Brigade Spécial anticomunista era stata instaurata sotto la III Republica, è rinforzata nel 1942 da una seconda Brigade Spécial (“BS2”) incaricata di dare la caccia ai “terroristi”, autori degli attentati, in un contesto oramai diventato insicuro per l’occupante tedesco.
Sono i militanti del Partito Comunista Francese – di fatto clandestino dal 1939 – i primi ad iniziare la strategia della lotta armata dopo l’invasione dell’Unione Sovietica con l’inizio dell’Operazione Barbarossa il 22 giugno del 1941.
Forse le pagine più belle del periodo che precede il lancio della lotta armata in Francia sono state scritte da Giuliano Pajetta nel suo diario “Douce France”.
Pajetta, ex braccio di Luigi Longo – ispettore delle Brigate Internazionali durante la guerra civile spagnola – era evaso dal campo di “Les Milles” nel febbraio del 1941 – dopo essere stato internato dalla Francia repubblicana in quello del Vernet insieme a molti altri combattenti repubblicani della guerra civile spagnola – per ricostruire la rete del Partito Comunista nella parte occidentale del Sud della Francia.
Longo svolgerà questo compito fino al suo arresto (prima di evadere nuovamente) nel maggio del 1942 insieme a Renzo Schiapparelli con in tasca proprio un documento del partito che indica un salto di qualità militare nell’azione dei comunisti.
I comunisti hanno la consapevolezza che “su questo ci siamo solo noi” per dirla con Pajetta, e che a loro “la storia” affida il compito di iniziare la lotta armata contro l’occupante e “rompere gli indugi”.
La repressione contro i comunisti messa in atto da nazisti e collaborazionisti sarà feroce.
Un giornalista nel dopoguerra tutt’altro che di simpatie comuniste definirà il PCF: “il partito dei fucilati”, tale era stato il sacrificio dei comunisti durante la guerra di liberazione.
Il 21 agosto del 1941, nella metrò di Barbès a Parigi, un commando di giovani comunisti guidato da Pierre Georges (il fututo colonello Fabien) abbatte un ufficiale della marina tedesca.
Un comunicato viene fatto affiggere sui muri che annuncia le rappresaglie imminenti.
Tutte le persone detenute da o per conto delle autorità tedesche nelle prigioni come nei campi sono ritenute “ostaggi” suscettibili della fucilazione.
Vichy crea lei stessa i suoi propri codici “d’eccezione”, le sezioni speciali, per giudicare i comunisti e la MBF fa pressione affinché questi vengano rapidamente condannati a morte.
Così il 27 agosto, tre membri del PCF clandestino vengono giudicati e ghigliottinati nella prigione della Santé.
Dopo un altro attentato, il 6 settembre, il MBF fa fucilare i primi tre ostaggi, inaugurando questa pratica di rappresaglia che si succederà di settimana in settimana sul Mont-Valérien nella regione parigina.
Il 16 settembre del 1941 Hitler, ritenendo questa politica ancora insufficiente, fa promulgare un decreto sui movimenti sediziosi comunisti nei territori occupati, ordinando che dai cinquanta a cento comunisti vengano sistematicamente giustiziati per ogni soldato tedesco morto. Il 28 settembre, il MBF emette un’ordinanza conosciuta con il nome di “codice ostaggi”.
Questo codice viene applicato quando dei resistenti comunisti abbattono il Feldkommandant di Nantes e un consigliere dell’amministrazione militare di Bordeaux il 20 e il 21 ottobre.
48 ostaggi a Châteaubriant, Nantes e al Mont-Valérien, poi cinquanta altri a Souge, vicino a Bordeaux, sono fucilati. Per la prima volta Vichy partecipa attivamente proponendo delle liste di persone da giustiziare tra i militanti comunisti internati.
Con l’avvicinarsi della “Soluzione Finale” – la cui celere organizzazione viene decisa dalla conferenza di Wannsee in Germania il 20 febbraio – il profilo del nemico interno nell’Esagono prende sempre più i connotati dei “giudeo-boscevichi”, come dimostra l’esecuzione per rappresaglia di cinquantuno ebrei – su novantacinque fucilati – per la morte di 4 soldati tedeschi.
E la Francia era stata tra le due guerre uno dei poli d’attrazione per l’immigrazione polacca spesso d’origine ebraica, oltre che per quella italiana prima “politica” e poi “economica”, rifugio degli intellettuali e antifascisti sfuggiti al nazismo con l’espansione della peste bruna, spesso di origine ebraica, della Mitteleuropa.
Il 1 giugno del 1942 il generale delle SS Karl Oberg è nominato “capo supremo delle SS e della Polizia in Francia”, facendosi carico della repressione anti-partigiana, e portando avanti la politica degli ostaggi fino all’autunno dello stesso anno, in cui viene abbandonata.
La politica repressiva viene intensificata, mentre gli accordi tra René Bousquet, segretario generale della polizia di Vichy, e il generale Oberg nell’agosto del 1942, assicurano il lavoro congiunto tra la polizia francese e le forze d’occupazione.
Il 10 luglio, le SS estendono lo status di “ostaggi” ai membri della famiglie dei resistenti ricercati!
Tra l’agosto e il settembre avvengono le esecuzioni più rilevanti di ostaggi durante l’occupazione.
Le SS assicurano ugualmente la deportazione dei comunisti nei lager nazisti, previsti per rappresaglia dal MBF dal dicembre del 1941: circa milleduecento ostaggi comunisti vengono deportati ad Auschwitz il 6 giugno del 1942, mentre dopo aver fatto partire i prime cinque convogli di persone d’origine ebraica le SS organizzano le deportazioni regolari nel quadro della “Soluzione Finale” con la stretta collaborazione degli apparati di Vichy, primo anello della catena delle deportazioni.
La politica degli ostaggi ad un certo punto viene ritenuta contro-producente vista la sua inefficacia, perché gli attentanti proseguono, ma molto di più perché il Reich non vuole inimicarsi ulteriormente l’opinione pubblica considerando la sete di braccia di cui abbisogna per lo sforzo bellico da inviare in Germania e quindi non vuole che la disapprovazione verso le esecuzioni di massa nuoccia al reclutamento della mano-d’opera francese per il lavoro in Germania.
A titolo eccezionale, cinquanta ultimi ostaggi sono fucilati al Mont-Valérien il 2 ottobre del 1943, in seguito all’attentato commesso a Parigi contro Julius Ritter, responsabile tedesco incaricato del lavoro coatto a benefico del Reich.
Nell’ottobre del 1942, le SS introducono in Francia una nuova forma di repressione: la procedura di detenzione di sicurezza (Schutzhaft) che permette di deportare in Germania, senza processo, tutte le persone sospette o colpevoli di attività anti-tedesca. Dal gennaio 1943 all’agosto 1944, circa 40.000 persone sono così deportate dai campi di Campiège e di Romainville verso i campi di concentramento nazisti.
Dopo l’occupazione della zona sud nel novembre del 1942 e di fronte alla moltiplicazione delle azioni della Resistenza, i tribunali militari intensificano la loro repressione condannando sempre di più persone alla pena capitale: dal gennaio 1943 all’agosto del 1944, più di millesettecento persone vengono fucilate.
Alla fine del 1943, nella prospettiva di un imminente sbarco alleato e temendo l’apertura di un “secondo fronte” alle spalle delle loro truppe a partire dal maquis, i tedeschi radicalizzano la loro politica anti-partigiana.
Ormai adottano una strategia di “guerra totale” contro la Resistenza e contro la popolazione che ritengono gli dia ospitalità, così ai processi sommari ed alle deportazioni, si aggiungono delle “operazioni di pulizia” condotte dai militari e dalla polizia contro il maquis e le zone reputate “infestate da bande terroriste”.
Nella propaganda collaborazionista, i resistenti sono dipinti come marionette al soldo di Stalin, mentre le forze dell’ordine collaborazionista danno la caccia ai partigiani e ai refrattari al servizio di lavoro obbligatorio (STO).
Nell’estate del ’44 la ferocia nazista s’accresce, commettendo dei veri massacri come nel villaggio di Oradou-sur-Glane o di Maillé.

Uno dei processi più spettacolari contro un gruppo di resistenti inizia alla fine del mese di febbraio del 1944, si tratta di un “gruppo” del FTP-MOI” al capo del quale vi è un armeno comunista – scampato al genocidio armeno perpetrato dal nascente stato turco – Missak Manouchian.
Smantellato dalla polizia di Vichy alla fine del 1943, questi uomini rappresentati in una famosa “affiche” di propaganda nazista come semplici banditi: “Des Libérateurs? La Libération par l’armée du crime!” in cui vengono mostrate le foto di dieci membri del gruppo – tra cui il comunista italiano francesizzato nel nome Fontanot – insieme alle foto dell’”arsenale” di cui disponevano e di alcune azioni del “gruppo”, 22 verranno condannati a morte e fucilati al Mont-Valérien.
Il quotidiano “Le Matin” del 19-20 febbraio, in prima pagina, a titoli cubitali titola l’articolo principale: “il tribunale militare tedesco giudica 24 terroristi che hanno commesso 37 attentati e 14 deragliamenti” aggiungendo “Un armeno, Missak Manouchian, dirigeva questa turba internazionale che assassinava e distruggeva per 2.300 franchi al mese”, instillando l’idea che i resistenti fossero della specie di sicari pagati da Mosca. Un altro quotidiano, “le Petit Parisien”, qualche giorno dopo riprenderà il tema dei sicari con una vignetta satirica.

Per ciò che concerne il movimento comunista in Italia, l’esperienza della guerra civile spagnola maturata nelle Brigate Internazionali prima e tra le fila della resistenza francese saranno fondamentali per la formazione di quadri politico-militari per la lotta di Liberazione in Italia, in particolare per l’esperienza gappista in città che sarà l’apripista alla lotta “senza quartiere” all’occupante nazista e al fascismo.

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