L’uomo che verrà – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 21 Dec 2025 21:00:44 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Divine Divane Visioni (Cinema porno 08/11) – 75 https://www.carmillaonline.com/2016/02/11/divine-divane-visioni-cinema-porno-0811-75/ Thu, 11 Feb 2016 21:02:03 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28442 di Dziga Cacace

310056-alice-in-wonderland-alice-in-wonderland-an-x-rated-musical-comedy-posterHypocrite lecteur, mon semblable, mon frére

848 – Questo mi mancava: il musical porno Alice in Wonderland, di Bud Townsend, USA 1976 Ambrogio! Avverto un leggero languorino e non è proprio fame, è più voglia di qualcosa di buono…. E allora, siccome son uomo di mondo mi acchiappo un film porcello con ambizioni intellettuali, anzi con giustificazioni artistiche, che è il classico modo borghese e ipocrita per avere un assaggino di trasgressione controllata. Trattasi di curioso esperimento dall’enorme successo commerciale ideato da tale Bill Osco, produttore che già aveva [...]]]> di Dziga Cacace

310056-alice-in-wonderland-alice-in-wonderland-an-x-rated-musical-comedy-posterHypocrite lecteur, mon semblable, mon frére

848 – Questo mi mancava: il musical porno Alice in Wonderland, di Bud Townsend, USA 1976
Ambrogio! Avverto un leggero languorino e non è proprio fame, è più voglia di qualcosa di buono…. E allora, siccome son uomo di mondo mi acchiappo un film porcello con ambizioni intellettuali, anzi con giustificazioni artistiche, che è il classico modo borghese e ipocrita per avere un assaggino di trasgressione controllata. Trattasi di curioso esperimento dall’enorme successo commerciale ideato da tale Bill Osco, produttore che già aveva messo in carniere un Flesh Gordon erotico e che soprattutto, nel 1970, aveva distribuito il primo film porno fuori dal circuito dei cinema a luci rosse americani: tale Mona (nomen omen, pur non essendo recitato in veneto). Nel 1975 siamo in pieno nella cosiddetta Golden Age of Porn, sull’onda del successo clamoroso di Gola profonda (che era una bestialità, fidatevi) e Bill si chiede: cosa posso inventarmi che ancora non s’è visto? Le avventure di sesso e carnazza originali c’erano già a pacchi, le riletture erotiche pure, cosa mancava? Un porno western? No, un musical! Uno di quei generi che io personalmente non ho mai compreso appieno (Jesus Christ Superstar è una rock opera, è diverso, eh) ma che – insieme alla nobile ascendenza letteraria di cui erano disponibili i diritti – poteva dare un motivo in più al grande pubblico per andare a vederlo senza rimorsi, come un qualunque altro film. Ragionamento esatto: costato quattrocentomila dollari, incassò un centinaio di milioni anche grazie al doppio binario ottenuto in montaggio (soft e hard a seconda dei mercati dove distribuirlo). Oltre tutto la storia è generalmente risaputa, per cui di facile assunzione, non fosse altro che per quel pastiche lisergico e completamente scoppiato che è la versione dell’opera di Lewis Carroll fatta dalla Disney, un trip micidiale che ha reso familiare anche ai meno colti la spaesata Alice e altri personaggetti del paese delle meraviglie, perfetti da trasformare in ambigui comprimari della biondina persa tra tante sorprese eccitanti. Bene, e com’è ‘sta roba? Dai, trama: il pretendente della virginale bibliotecaria Alice ha ancora una volta fatto fiasco perché lei, per quanto cresciuta, non vuole – senza tanti giri di parole – dargliela. E si capisce anche il motivo: lui è uno sfigatone, probabilmente raccattato dalla produzione per strada per girare la scena. Parte il primo numero musicale, una song melensa in cui la protagonista si interroga su queste occasioni che sta perdendo mentre è troppo impegnata a crescere. Turbamento logico, dubbi e apparizione del Bianconiglio: voilà, andiamo al di là dello specchio, dove la protagonista si rimpicciolisce ad hoc, abbastanza per non aver più vestiti addosso. Tra l’altro, scusate se non è pertinente, ma cosa c’entra Corto Maltese con CasaPound? Vabbeh. Comunque Alice si aggira tra funghetti molto fallici, si perde e si ritrova e conosce il desiderio e come soddisfarlo, per cui al 23° minuto scopre la masturbazione e al 28° delizia oralmente il Cappellaio Matto.
ddv75 01Più tardi risolve i problemi erettili di Humpty Dumpty e finisce a corte del Re e della Regina di cuori, dove si intrattiene piacevolmente per poi scappare quando le cose si mettono male. Un tuffo salvifico e siamo di nuovo al di là dello specchio: la protagonista si sveglia confusa e c’è il fidanzato ciula, pentito della precedente insistenza. Ovviamente lei è abbagasciata q.b. per smentirlo nuovamente e vai di trombata conclusiva senza più inibizioni, visivamente molto sognante. Beh, che dire? È tutto una scempiaggine ma con qualche motivo di interesse, a partire dalla qualità produttiva: è un film, con una trama (sconclusionata), degli attori (non canissimi) e una messa in scena che si permette anche – nel finale, come se si fosse presa confidenza col pubblico – qualche svisata di metacinema, tipo l’attrice francese che si chiede “Chi devo scoparmi per uscire da questo film?”. Dal punto di vista pornografico ci son tutte le portate del menù classico, mostrate con curiosa ritrosia, lasciando i particolari più espliciti quasi sempre fuori scena, al punto che gli inserti hard (pochi minuti sull’ora e venti del film) squilibrano la leggerezza della pellicola che, tutto sommato, è una pecionata ottima per farsi un cannone e due risate, non esattamente per eccitarsi o per trovare intuizioni registiche autoriali. Comunque, scusate, un altro dubbio che ho di questi tempi: ma che c’entra Che Guevara, sempre con CasaPound? No, vabbeh. Dicevo: Alice in Wonderland si fa vedere come esempio perfetto di certo cinema che coniugava trasgressione, astuzia mercantilistica e pure qualche sensibilità underground. Le musiche – tra vaudeville e turpitudine – fanno schifo ma la produzione è quasi da serie A cinematografica, con quel sapore da cinema indipendente cialtrone, con le messe a fuoco un po’ precarie. In un presente in cui la pornografia è diventata mainstream senza alcun ragionamento sul ruolo della donna e sui rapporti di potere, un Alice in Wonderland così – con un percorso iniziatico, tra timore e scoperta omologhi a quelli del grande pubblico – fa tenerezza. Era prodromico alla situazione attuale senza ovviamente saperlo ma – forse perché son sempre troppo socialdemocratico – non riesco a leggervi dello sfruttamento quanto una (legittima) spensieratezza. Per la cronaca la protagonista è tale Kristen De Bell, una ventunenne con il faccino da bimbetta imbronciata che non ho mai più rivisto, così come il resto del cast e mi rimane solo un dubbio: scusate, ma perché ‘sti fascisti di CasaPound non se ne vanno a fare in culo? (maggio 2011)

ddv7502854 – Interdetto da Vincere di Marco Bellocchio, Italia/Francia 2009
Ecco un film che intuisco bello ma che non riesco a farmi piacere, perché alla fine son più le cose che mi allontanano di quelle che mi avvicinano. Si tratta della vicenda di Ida Dalser, prima moglie disconosciuta del ducce, ripudiata insieme al figlio, Benito jr., in favore di donna Rachele, più terragna e popolare, perfetta per ottenere anche il favore elettorale delle masse. Ida, istruita e affascinata dal giovane Mussolini socialista, si ritrova senza diritti e urla al mondo le sue ragioni, un mondo che, parallelamente all’ascesa del dittatore, la ignora. Finirà in manicomio e morirà nel ’37, seguita dal figlio nel ’42. Bellocchio allestisce un testo complesso, ricco, stratificato – certo –, ma è come se mi sfuggisse un’intima partecipazione sentendo prevalere, invece, una voglia di mettere in scena soprattutto i temi che gli sono cari. Si parla di Mussolini e del fascismo, sì, ma ricordando la consueta protervia della Chiesa, l’ipocrisia della borghesia e la violenza delle istituzioni coercitive della società: c’è un paese, l’Italia, che sprofonda nella follia e che punisce la devianza di chi urla la verità, proclamandola folle a sua volta. Carne al fuoco, molta, quindi, e innegabile ricchezza nella messa in scena che utilizza grafiche futuriste, lampi di montaggio in flashback e la fotografia esangue di Daniele Ciprì. È un bel vedere, a tratti, così come un casino spiazzante in altri. Ma quello che io soffro di più è la partecipazione attoriale, fisica al limite del bestiale, con una Giovanna Mezzogiorno che urla come una prefica (…), tra grandi nudità, tette e pelurie (immagino posticce, vista la moda del prato ben rasato a zero) e un Filippo Timi distrutto dal pianto, che urla tutto teso e strabuzza gli occhi come certa iconografia da cinegiornale ci ha insegnato. Perché Timi interpreta sia il ducce socialista che suo figlio Benito Albino e in mezzo vediamo spezzoni di immagini d’epoca in un andirivieni peggio che stare sul ponte del Bounty prima del naufragio… voglio dire: c’è la Mezzogiorno che sembra più vecchia quando dovrebbe avere 20 anni di quando ne ha invece 47 (dimostrandone comunque 30, i suoi). Il piccolo Dalser Mussolini passa attraverso non so quante metamorfosi kafkiane per assumere infine le sembianze di Timi che pretende di passare per un ventenne. Certo: tutto aumenta l’effetto straniante e il cinema è sogno e bla bla, ma se qualcuno invecchia mentre chi gli sta a fianco ringiovanisce, amore mio, allora durante il film comincio a pensare ai fatti miei. Non dico che sia colpa solo di Bellocchio ma se facessimo una constatazione amichevole son sicuro che strapperei un bel fifty fifty, eh. E poi – e qui passiamo al tasto dolente del cinema italiano, sempre –: un sonoro lontano che, unito all’incapacità della dizione degli attori e alla scelta registica di far sussurrare tutti a mezza voce, fa diventare l’ascolto una vera tortura. Ma voi quando urlate, urlate soffocati? Boh. Premiatissimo al David di Donatello, privato del Miglior film solo da L’uomo che verrà, (quello sì un capolavoro e basta), a me Vincere sembra più un esercizio di stile che un film sincero. Io nel Bertolucci degli ultimi vent’anni sento sempre l’elegante passionalità, talvolta a dispetto anche del buon gusto. E anche se non ti piace vedi che c’è sincerità, magari scomposta, sgradevole, impacciata e imbarazzante, però autentica, com’è il sogno di cinema di BB. Bellocchio invece raffredda tutto con la sua cerebralità, il voler fare il discorso. Buongiorno notte era un sogno d’autore, un desiderio irrealizzato, il what if che ha attanagliato tanti militanti degli anni Settanta. E in questa possibilità avvilita dagli esiti reali stava la poesia del film: un Moro che danzava libero nella Roma deserta dell’alba. Qui, invece, c’è un intorcinamento psicanalitico e un gioco di forme e di scomposizioni temporali che mi pare sempre troppo costruito. Vabbeh: film certamente interessante e discutibile, cioè da dibattito, però alla fine – per me – è più l’insoddisfazione del piacere. Ma che cazzo ne so io, poi, boh. (Dvd; 20/6/11)

ddv7503860 – Il biblico Il Principe d’Egitto di Brenda Chapman, Steve Hickner e Simon Wells, USA 1998
Non credo che esistano pedagoghi che consiglino il double feature per bambini tra i 3 e i 6 anni, ma io sono ben un papà innovatore, no? Fatto sta che sono in vacanza a Brisino solo con le due pupattole e ci becchiamo una delle peggiori giornate di tutti i tempi, con acquazzoni, venti siberiani, grandinate. Me le porto al centro commerciale, come una famigliola americana, e lì ci passiamo due ore facendo la spesa e cazzeggiando. Siccome son babbo diseducativo al massimo per quel che riguarda libri e audiovisivi, concedo l’acquisto di due Dvd nuovi nuovi e poiché abbiamo praticamente già tutto quello che conta, le scelte si fanno bizzarre. Nel senso che Elena, la treenne, muore se non ha questo Principe d’Egitto, di cui non sa e non può sapere nulla. Ed è solo alle 17 – dopo salutare passeggiata sotto la pioggia e merenda a base di frutta – esauriti cioè i doveri di bravo genitore, quando si passa al peccaminoso doppio spettacolo di cui si diceva, che si scopre che ‘sto Principe d’Egitto altri non è che Mosè, ché io mica l’avevo capito. Il film lo vedo cucinando (focaccia alla Cacace, cioè pasta di pane infornata con abbondante olio E.V.O., pizzico di sale ed erbe di Provenza; e bocconcini di pollo alla Cacace, cioè impanati e fritti in olio di semi, perché il punto di fumo è più alto, eh). Per cui c’è – movimentata un po’ – la storia che io avevo visto musicata da Morricone e interpretata ieraticamente da Burt Lancaster. Qui invece, gioventù scapestrata, corse coi cocchi, rivalità col fratellastro Ramses e poi, infine, l’agnizione: stai al tuo posto, sei un ebreo! Naaaa. Non ci posso credere… e allora per chiarire tutto arriva la voce di Dio, che si presenta così: “Io sono quello che sono”. Mi aspetto che Mosè gli risponda “Vedi di cambiare” come nella Cara ti amo di Elio e le Storie Tese. Invece gli dà retta, gli viene una voce dolente, un po’ s’ingobbisce e grazie a quello che viene definito il “Dio degli ebrei”, ammettendo evidentemente che non si possegga il copyright, si mena gran strage di ‘sti egizi che non vogliono liberare dalla schiavitù l’autoproclamato popolo eletto. Dio però promette loro una terra dove scorrono latte e miele e penso: ma allora è una mania quella di incularsi terre altrui! Poi, siccome Dio non è per niente affabile ma anzi vendicativo e cruento anzichenò, manda su Ramses e compagnia bella sette piaghe e poi gli fa secchi tutti i primogeniti. E al momento giusto apre il mar Rosso agli Eletti e lo richiude poi sui faraonici accorsi, che sicché son camiti evidentemente si poteva farli secchi anche allora, senza eccessivi sensi di colpa. Insomma, l’hanno chiamato Il principe d’Egitto perché Mosè faceva troppo sionista e com’è messo il mondo oggi, ti finisce che metà pianeta non ti vuol vedere il film manco per il cazzo. Film che è più che discreto, molto edificante, ritmato, con colori sabbiosi e tenui e un tratto grafico spigoloso che però non mi entusiasma. Buone le canzoni, molto tradizionali. Elena, ovviamente, non l’ha quasi visto; Sofia invece s’è appassionata: ci manca giusto la crisi mistica. (Dvd; 13/7/11)

ddv7504861 – Cacace contro Mostri contro alieni di Rob Letterman e Conrad Vernon, USA 2009 e ce n’è pure per Mine vaganti
Crisi mistica scampata subito, grazie alla belinaggine del secondo film che acchiappa alla grande l’uditorio ma un po’ annoia il Cacace condannato al cinema infantile. L’idea sarà piaciuta molto al reparto marketing della Dreamworks: mettiamo i vecchi protagonisti del cinema classico (lo scienziato pazzo, la donna gigante, il mostro della palude, il blob, il megabaccello etc.) contro degli invasori alieni, omaggiamo la fantascienza anni Cinquanta e vediamo cosa viene fuori. Un pasticcio, per l’appunto, zeppo di citazioni reverenti al patron Spielberg (ET, Incontri ravvicinati… ebbasta! Sembrate tutti degli Emili Fede): la sceneggiatura è farraginosa e si ride quando si tirano fuori alcune caratterizzazioni gustose, come i militari ottusi o il pavido presidente USA che ama suonare una tastiera Yamaha. Il cattivo spaziale Gallaxhar sembra Steven Tyler viola e con 4 occhi, in compenso Bob, il blob, invece, assomiglia paurosamente a Paolo Liguori. Vabbeh, discreto: un film snack che mando giù come gli ottimi pistacchi salati che mi stan rendendo lucido, tondo e pacioccone. In questo periodo incappo anche in Mine vaganti, per l’ineffabile regia midcult di Ferzan Özpetek, e vedo la scena madre in cui Alessandro Preziosi annuncia alla famiglia, testuale: “Sono gay, omosessuale, frocio, ricchione”. E da lì è una slavina di macchiette e stereotipi, col momento poetico, il sogno ad occhi aperti, il padre omofobo, la madre che dissimula, la zia che comprende e la musica che sottolinea in maniera retorica, fino addirittura all’infarto! Ecco, però posso, da una scena sola di un film complesso e scritto con il benemerito Ivan Cotroneo e premiato in tutto il mondo, trarre delle conclusioni così affrettate? Sì, maledizione, sì! (Dvd; 13/7/11)

ddv7505865 – Miracolo a Milano è un capolavoro di Vittorio De Sica, Italia 1951 
Questo è un mio cult, visto la prima volta al Beaubourg di Parigi in mezzo a una folla entusiasta, con gli applausi a scena aperta e l’ovazione finale, e io in piedi, orgoglioso, come se il tripudio fosse per me, che ringraziavo a mani unite. Poi Miracolo a Milano l’ho rivisto al Lumière di Genova e al Palestrina di Milano, oltreché due volte in Vhs, rischiando anche di farne indigestione. Adesso son passati quindici anni dall’ultima volta e provo a farlo vedere a Sofia, che – van bene Spielberg o i Disney – ma vediamo di educarla anche alla differenza, questa saccentina di sei anni. E lei rimane un po’ sconcertata e non afferra tutta l’ironia (com’è logico), però le piace il côte favolistico della vicenda e condivide il mio entusiasmo, non escludendo che lo faccia per compiacermi (con sensi di colpa annessi). Comunque: Miracolo a Milano potrebbe essere la storia del Comunismo, in chiave allegorica e con fiabesco finale enigmatico ed emblematico: i poveracci vanno in cielo a cavallo di una scopa, verso un posto dove “buongiorno significhi veramente buongiorno”. Volano via perché sulla terra – da poveracci – si muore. O forse quel cielo è una promessa di vita ultraterrena cattolica? Il film rimase sul gozzo sia di chi ne vedeva il lato sovversivo sia di chi ne sospettava una morale religiosa. E poi basta con ‘sti morti di fame! Fatto sta che a Cannes Miracolo vinse la Palma d’oro e oggi è considerato una pietra miliare. La storia la sapete, ma faccio un recap per chi si vergogna di ammettere che quest’opera magistrale non l’ha mai vista: un gruppo di spiantati senza casa sopravvive ai margini di Milano su un terreno brullo. L’arrivo del buon Totò fa nascere una comunità che poco a poco si emancipa e scopre di risiedere sopra un pozzo di petrolio. E lì cominciano i guai: se all’inizio i protagonisti guardano i ricchi con ammirazione (il “Bravi!” all’uscita della Scala) poi – scontate le velleità borghesi autorizzate dalla nuova ricchezza – si capisce chi sia il nemico: quello di classe, il paternalistico Padrone, il fantastico dottor Mobbi, che con l’aiuto delle forze dell’ordine vuole cacciare tutti per diventare ancora più ricco. Totò prova in ogni modo – cristianamente e pazientemente – a ricomporre il conflitto finché la sopportazione raggiunge il limite e anche lui conviene che si deve lottare (grazie anche all’aiuto di un defunto!). Ma è tutto trasfigurato metaforicamente, con il linguaggio della fiaba, tra surrealtà e comicità da cinema muto. Ci sono la fame pazzesca (la lotteria con in premio “un pollo… vero!”) e l’ignoranza (combattuta nel borgo con indicazioni stradali matematiche!). La semplicità di cuore e la poesia (la bellezza di un tramonto, col sole che “Se ne va! Se ne va!”, la lettura della faccia da parte di Giovanni che regala constatazioni compiacenti: “Che fronte! Che sguardo spirituale! Lei non finisce qui!”, per chiudere però col dubbio esistenziale: “Chissà chi era suo padre! Cento lire!”). Ma ci sono anche il razzismo della società introiettato dalle vittime e il miraggio della felicità, anche erotica (la statua che prende vita e viene concupita), perché – come dice uno degli sconsolati protagonisti – non vale la pena di vivere se ci si annoia. Scanzonato, struggente, tenerissimo, curato in ogni particolare, denso di finezze registiche (carrelli, dolly, effetti speciali, grandangolate sovietiche da terra o picchiate costruttiviste dall’alto!) come di nuances attoriali quasi impercettibili (Paolo Stoppa!) ma straordinarie, con ogni inquadratura che contiene un’idea se non autentici colpi di genio (vogliamo parlare del barometro umano o del bambino-campanello?). Bene, torno da dov’ero partito: al Pompidou l’avevo visto accoppiato a Umberto D., altro grandissimo film di Zavattini e De Sica, ma alla sala tutta e a me era chiaro quale fosse il capolavoro unico. (Dvd; 28/7/11)

ddv7506870 – Il vorrei ma non posso di Lie with Me di Clément Virgo, Canada 2005
Poverino, ‘sto film, venuto male: Leila è un’esuberante e sensuale ragazza, forse è un po’ eccessiva o forse no (siamo abituati male noi maschi tanardi genovesi) e vuole solo legittimamente divertirsi. Fatto sta che cerca l’ammore vero e va a una festa a trovare compagnia. Si incrocia con David, belloccio dal profilo greco, e lo sfida, seducendo carnalmente un timidone che non crede a cotanta manna dal cielo. David è intrigato da questa ragazza libera e conturbante e da lì comincia un gioco seduttivo, un tira e molla che trova coronamento presto in un epico sessone liberatorio. Okay, ma l’ammore? Lui trova lei un po’ zoccola, è geloso e una ex fidanzata avverte Leila: guarda che David cerca una mamma. Allora la femmina si butta nella storia con ancor più partecipazione, mentre i genitori si stanno separando: ne consegue un certo spaesamento sentimentale in cui echeggiano le domande: quanto può durare una storia? I miei si amavano veramente? E perché sto con David? La vicenda – mediamente torrida – si complica per problemi di lui, lei che cerca altri conforti, sensi di colpa, fellatio rivendicative, sesso solitario compulsivo e consolatorio, confidenza e risate con un’amica che nel finale si sposa. E lì la scena madre: baci prima furtivi e poi sfrenati, lo sguardo che s’incrocia con quello dei genitori, la fuga e infine l’AMMORE. Lie with Me – titolo ambiguo per un film che si vorrebbe scandaloso – non ha incontrato grande successo e non ha épatébourgeois come avrebbe voluto. Il problema è che una vicenda così, esilina (riassumibile in: lei è fragile), col sesso messo in scena graficamente ma non troppo, rimane in un limbo (si vede tanto nudo e qualcosa di esplicito ma neanche tanto, e se si vedesse veramente qualcosa di più allora cambierebbe il valore d’uso della pellicola): non fa venire duro il cervello e neanche quell’altra parola volante in rima. Se penso a un Ultimo tango a Parigi, è evidente che – piaccia o non piaccia, e a me piaccia – lì l’intento era puramente intellettuale, non c’era nessuna eccitazione. Qui è come se si volesse dare sostanza agli assunti del film proprio con la messa in scena in yo face, una specie di stampella visiva per dare della corposità. Che poi, cosa ci stiamo dicendo? Rimane tutto vago. Bello chiavare con chi si ama. Okay. Bene. Poi che siamo tutti delle bestie ma che amiamo la nostra famiglia, specialmente i padri (forse, ma lo deduco dal fatto che sono i rapporti più raccontati). E che, come detto prima, Leila è molto sensibile. E vabbeh. La protagonista, Laureen Lee Smith, è splendida senza essere fastidiosamente bella, una ragazzona rossa lunga e magra, con una di quelle facce da cinema indipendente. Lui lo avevo già visto in serie come 24 e Six Feet Under: un belloccio muscolato che non merita menzione, che si affanna a mostrare il suo turbamento emotivo ma sconta, appunto, un ventre sagomato a tartaruga, particolare che distrae dalle sue limitate qualità interpretative il pubblico femminile etero e quello maschile omo. Ma dette queste stupidaggini, il risultato è che ‘sto film è ‘na pallata al cazzo, e così ho significato in tre parole il mio avviso: non perdeteci del tempo. (Agosto 2011)

(Continua – 75)

@DzigaCacace usa Twitter, male

Qui altre Divine Divane Visioni, venghino siori

]]>
Divine Divane Visioni (Cinema porno 08/11) – 70 https://www.carmillaonline.com/2015/04/16/divine-divane-visioni-cinema-porno-0811-70/ Thu, 16 Apr 2015 20:35:55 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21664 di Dziga Cacace

And I scream from the top of my lungs… what’s going on? 

DDV7001778 – Il tenerone Rocky IV di Sylvester Stallone, USA 1985 Mi metto i guantoni e affronto un film che devo aver visto la prima e ultima volta a fine anni Ottanta, quando Rai e Mediaset si sfidavano ogni sera a colpi di prime visioni. Si parte da dove eravamo rimasti, con Apollo Creed – il vecchio avversario diventato poi amico del protagonista – che vuole tornare a combattere. Rocky invece è un pascià: villa enorme e kitsch, Lamborghini, un figlio insopportabile e zio Paulie a [...]]]> di Dziga Cacace

And I scream from the top of my lungs… what’s going on? 

DDV7001778 – Il tenerone Rocky IV di Sylvester Stallone, USA 1985
Mi metto i guantoni e affronto un film che devo aver visto la prima e ultima volta a fine anni Ottanta, quando Rai e Mediaset si sfidavano ogni sera a colpi di prime visioni. Si parte da dove eravamo rimasti, con Apollo Creed – il vecchio avversario diventato poi amico del protagonista – che vuole tornare a combattere. Rocky invece è un pascià: villa enorme e kitsch, Lamborghini, un figlio insopportabile e zio Paulie a carico, festeggiato regalandogli un robottino non esattamente credibile. Regna la pace familiare e Adriana guarda soddisfatta. Sennonché sbarca in USA Ivan Drago, il campione di boxe sovietico che vuole sfidare il mondo professionistico occidentale. Lo accompagna la melliflua compagna Ludmilla (Brigitte Nielsen, molto bella prima di plastiche criminali) e un team di allenatori e scienziati che parluano tuutti cuosì, hanno occhi di ghiaccio e mostrano indefettibile fedeltà alla linea del Partito. Creed ha voglia di menare le mani, ritiene il mastodontico russo “grande, grosso e rozzo” e accetta la provocazione, nonostante manchi dal ring da cinque anni. Rocky teme il peggio e vede Apollo che provoca, gigioneggia e fa lo spaccone: per lui il ritorno sulla scena è per sentirsi vivo (vedrà quanto!) ed è anche una necessità ideologica, pensa un po’. Il match si tiene a Las Vegas e tutta la pacchianeria burina yankee è esibita come una ganassata compiaciuta: balletti, paillettes, coriandoli, stelle e strisce e James Brown patriottico e un po’ Zio Tom (Living in America). Apollo sale sul palco conciato invece da Zio Sam, ma dopo il primo round gli è già passata la voglia di fare proclami da pagliaccio: ha la faccia ridotta come un hamburger medium rare. Rocky a bordo ring intuisce che si mette malissimo ma Creed si fa promettere che non getterà la spugna, qualunque cosa accada. Drago lo massacra in un tripudio di rallenti e still frame e il pugile nero spira tra le braccia del nostro Stallone. Che incrocia lo sguardo con Drago e capisce che adesso tocca a lui: questa è una sfida che non si può rifiutare, per l’amico morto e per gli USA intieri. Il nuovo incontro si terrà in Russia, il 25 dicembre: Natale a Mosca, come un Vanzina deprezzato. Adriana non gradisce e quando chiede a Rocky il perché, lui è laconico: “Io faccio quel che devo fare!”. E poi se ne va con la sua Lambo, con l’incubo di Drago negli occhi. Segue montaggione musicato che ripercorre la carriera di Balboa, dagli esordi a pane, cipolla e merda fino alla consacrazione, in una inarrestabile e caparbia ricerca del successo. In Russia rifiuta agi e comodità: si allena in un postaccio punitivo in culo al mondo, tra gelo, povertà e sfiga perché son tutti morti di fame. Due agenti lo sorvegliano e il massimo divertimento è farsi una partitella a scacchi. In parallelo vediamo Drago che ci dà dentro seguito da tecnici con strumentazioni avveniristiche: mena colpi sempre più letali tra punturine sospette, sparring partner maciullati e computer con grafici esaltanti. Invece il Balboa si allena all’antica, sega tronchi, corre nella neve, solleva pietroni, guada ruscelli ghiacciati e trascina slitte (!) come un cavallo da tiro. Insomma: l’uomo contro la macchina, i sentimenti contro la disumanità comunista, in montaggio serratissimo e musica esaltante, sequenza estremamente godibile per retorica linguistica e afflato ideologico tamarrissimo. Si arriva a Mosca in un tripudio di bandiere rosse, falci e martello e classica iconografia sovietica. All’angolo Rocky prega (e certo: fede contro ateismo di stato). In tribuna, in mezzo ai burocrati, si accomoda anche un simil Gorbaciov. Il pubblico, straccione e zeppo di militari è ostile all’americano. Dopo l’inno dell’Armata Rossa (splendido, io ce l’ho anche nell’Ipod) viene presentato Ruocky Balbuoa, fischiatissimo, e poi Ivan Drago, acclamato con zelante giubilo ortodosso. “Io ti spiezzo in due”, segno della croce dell’eroe eponimo e la singolar tenzone parte. Rocky è subito alle corde e quando accenna una reazione, fa il solletico al cyborg. Ne piglia una bella gragnuola e finisce al tappeto, contato e salvato dalla campanella. Nel secondo round ne piglia ancora un sacco e una sporta, finché dall’angolo il trainer, ex di Creed, gli ricorda: “Non fa male!”. Insomma. Adesso ne prende ma ne dà anche, non molla e incrina la tetragona sicurezza della Transiberiana di ghiaccio. La resistenza eroica del campione USA conquista poco a poco il pubblico moscovita che comincia a tifarlo apertamente. È la rivolta! L’adesione pugilistica ai valori del Capitale! I politici in tribuna sono in imbarazzo e Drago acquisisce un’insospettata umanità: adesso combatte per sé e non per il regime. E perde, mentre Rocky fa la solita scenata da vincitore invasato, per la costernazione del Politburo. Gli danno la parola ed ecco il Discorso: lo odiavano, all’inizio, dice. E io odiavo voi, ammette. Però: “Durante l’incontro ho visto cambiare le cose”. E se cambio io e voi – continua – tutto il mondo può cambiare! Il sosia di Gorbaciov applaude. E anche il mio sosia! (Dvd; luglio 2010)

DDV7002779 – Un capolavoro: L’uomo che verrà di Giorgio Diritti, Italia 2009
Ancora scosso dalla purezza de Il vento fa il suo giro, io premio a modo mio Diritti comprandogli anche il secondo film, non sapendo neppure se sia piaciuto o meno a critica e pubblico. Non me ne frega niente: lo merita, sulla fiducia. Ed è un capolavoro, un Novecento senza barocchismi melò e voglie di kolossal, un Olmi pagano. Mi commuove e mi smuove, raccontando senza alcuna pretesa manichea la lotta partigiana appenninica e la tremenda rappresaglia nazifascista. Pietà e sconcerto: prendere parte, combattere, ribellarsi, con la quieta e testarda voglia contadina di non arrendersi, per poi ricominciare, a partire dalla piccola intensa interprete e dall’uomo che verrà. Diritti innalza un canto alla terra e a chi la difende, in nome di un’altissima dignità umana, e lo fa senza rinunciare a una personale ricerca cinematografica. Non so se stavolta qualcuno si sia premurato di dare qualche premio a quest’uomo, ma se i premi hanno ancora un valore, allora li merita, tutti. (Dvd; 19/7/10)

ddv7003780 – Kiss Symphony: The DVD dei frenetici ignoti Jonathan Beswick e Victor Burroughs, USA 2003
Allora, i casi sono tre: o sono rincoglionito causa paternità o i ripetuti ascolti rendono gradevole anche una musica infantile come questa oppure m’ero sbagliato la prima volta. Nel senso che questo Dvd dedicato ai Kiss l’avevo visto per scrivere una micro recensione per Rodeo, mensile cui collaboravo un’era geologica addietro. E ne avevo scritto da spettatore scocciato dell’artificiosità del tutto: i Kiss che suonano assieme alla Melbourne Symphony Orchestra (truccata per l’occasione), per una seratona di rock n’roll esagerata assieme a 40mila fan entusiasti. Niente di che per il mio snobismo. Poi capita che Sofia ci metta su gli occhi e cominci a fare domande. E allora ne vediamo una clippettina. E il disastro è compiuto perché dei musicisti tamarri che fanno ritmatissima caciara conciati da mostri, sputando sangue e volando attraverso lo stadio sono quanto di meglio possa chiedere una bambina di 5 anni. E sarà che vedevo Sofia godere (e anche Elena, due anni), poco a poco del Dvd abbiamo cominciato a vederne porzioni sempre più corpose, fino al documentario che racconta tutta l’operazione. E io – lo confesso – pian piano ho cominciato a canticchiarle ‘ste benedette canzoni, a ritrovarmi col piedino che teneva il tempo. È rock, talvolta hard, mai seriamente metal. È medio, talvolta mediocre, ma è perfetto, non sporca, non offende, diverte. Il montaggio è frenetico (questo mi preoccupava, per le mie figlie) e molto flashy, mostrando la Kiss Army tanto quanto l’orchestra e la band: bambini, vecchi e tante ragazze pettorute che fanno le corna verso la telecamera, così come nerboruti obnubilati che mostrano orgogliosi i tatuaggi. Non mi son ridotto così ma ho rivisto il mio giudizio: il concerto e la mascherata sono indubbiamente divertenti e la musica, tutto sommato, è godibile e infallibile. E poi, fringe benefit non da poco, durante la visione le bimbe sono sedate (e non si tratta di Tiziano Ferro). Cosa chiedere di più? (Dvd; a rullo, tutto luglio 2010)

ddv7004781 – A lutto (con spoiler) per E.R. Anno 8 di Michael Crichton et alii, USA 2001/2002
Il personale del County General Hospital di Chicago, gli spettatori e soprattutto l’addolorato Cacace sono vicini alla famiglia Greene per la scomparsa dello stimato dottor Mark. Per non dire che, occhio agli spoiler: 1) muore anche Carla, l’ex del chirurgo Benton, lasciandogli dopo accanita battaglia giudiziaria per l’affidamento il piccolo sordomuto Reece (di cui Benton non è padre biologico, pensa tu!); 2) che la quattordicenne Rachel Greene è una spina nel culo, ma forse si è riconciliata col padre prima della sua morte; 3) che Elizabeth Corday continuerà da sola con Ella, reduce pure da una overdose di ecstasy a neanche due anni, thanks to Rachel; 4) che Abby forse si metterà con John Carter – sempre in crisi, perché troppo ricco, troppo buono, troppo sensibile – dopo aver lasciato quel mammolone malinconico del dott. Kovacs; 5) che la dottoressa Weaver – la stronza con lampi di cattiveria – sta affrontando la sua identità sessuale assieme a una vigilessa del fuoco machissima e non ha ancora trovato la madre; 6) che è tornata la pacioccona dottoressa Lewis, ma sua sorella Chloe è ricascata nella droga e manca all’appello la figlia; 7) che… che questo è stato un serial eccezionale e non ho altro da dire che già non abbia detto e che non andrò più avanti, anche se ricordo che al magnifico dott. Romano succedeva un incidente e, insomma, vorrei vedere come va a finire se non altro per godermi l’homecoming dell’ultima puntata. Ma la vita è una, il tempo troppo poco e l’ultimo episodio me lo scaricherò. Sono contento così: ho visto un capolavoro autentico e oggi è come se fossi di ritorno dal funerale di un amico caro. E lo so che pare assurdo – devo elaborare, cazzo! – ma la puntata in cui Greene se ne va – non riesco neanche a dirlo – è un capolavoro unico di sottigliezza, di intensità e pure di ricatto emozionale, con il medley di Israel Kamakawiwo’ole che è una coltellata lieve che mi fa sempre singhiozzare. (Dvd; luglio 2010)

ddv7005782 – The Shield – Seconda Stagione di Shawn Ryan, USA, 2003
Sempre brutti, sporchi e cattivi, i nostri agenti che mantengono l’ordine nel peggiore distretto di Los Angeles, tra droga, prostituzione, bassa politica mercantile, mafie e tensioni razziali. Ricatti incrociati, tranelli, giochi zozzissimi, perché “bisogna fare un po’ di male, per ottenere il bene” e per provare a mantenere l’ordine in quella discarica piena di umanità che è la città degli angeli, specchio dell’America capitalistica metropolitana, dove tutto ha un prezzo e quasi a nulla si dà valore. Sempre un piacere, questo serial: forse equivoco perché ci fa fare i conti con la nostra cattiva coscienza, ma inequivocabile. (Dvd; agosto 2010)

ddv7006783 – Il mappazzone Revolutionary Road di Sam Mendes, USA/Gran Bretagna 2008
Siamo ad Andalo, con uno schermo in camera che fa impressione, abituati come siamo ai pollicini del nostro tubo catodico. Siccome i Dvd che ho portato io schifano Barbara, si impone la sua scelta tra quelli messi a disposizione dall’albergo. E si va dritti a questo drammone ambientato negli USA dei Fifties, quando altro che pace e Vietnam e diritti civili: la donna bianca era the nigger of the world e guai a incrinare il perbenismo della società con comportamenti devianti dalla morale comune. All’inizio sembra più una storia d’amore romantica e io rompo le scatole a Barbara chiedendole se ha un Harmony da prestarmi per dopo, però andando avanti la love story va presto a rotoli. Protagonisti di questo naufragio titanico della coppia sono quei Leonardo DiCaprio e Kate Winslet che già si amavano sul transatlantico jellato. Entrati nella bella casa in Revolutionary Road scopriamo che sono in crisi nera, tra figli, esigenze di facciata, lavori non apprezzati, aspirazioni tradite o soffocate. E vai di liti furiose, di ripicche e illusioni. Ottima elegante messa in scena, bello sviluppo narrativo e attori ben diretti, per un film che ci dice molto di allora ma anche di oggi, perché se fai la radice cubica non è che sia cambiato granché per il ruolo della donna. Poi, a voler essere cinici, potremmo anche dire che trattasi di film borghese da sabato sera, per pizza e discussione, con le donne che diranno tutte che la povera April Wheeler è vittima della società maschilista che la vuole solo mamma riproduttrice, niente lavoro, zitta e buona a casa, e con i maschi che difenderanno l’ometto Frank col testone da bambinone che, poverino, si fa un culo così ed è lei a essere una nevrastenica. Il film non prende parte in maniera esplicita (ed è un bene, anche se è evidente che l’umana pietà è rivolta più ad April ed è chiaro cosa si voglia rappresentare) e gioca con le ambiguità del caso: l’unico che comprende il travaglio della donna è uno spostato con problemi mentali, in realtà più lucido di tutti. Per concludere: bel film, ma non è la mia tazza di tè. Non vedevo un film drammatico da secoli. Ne aspetterò altri due. (Dvd; 16/8/10)

ddv7007784 – Che belli i morti di fame di Slumdog Millionaire di Danny Boyle, Gran Bretagna 2008
Non è che si possa fare molto, la sera, ad Andalo, e con le due belvette che dormono (finalmente anche Elena!) il Dvd è la morte nostra. Per cui ci vediamo un successone dell’anno passato che tanto aveva fatto discutere, perché certa narrazione scanzonata di eventi anche tragici era – secondo alcuni – estetica della povertà fuori luogo. Ed effettivamente il racconto è così travolgente che ahimè puoi dimenticarti che la realtà degli slum indiani è anche peggio di quella descritta e anche se la vita è colorata e allegra e profuma di curry si muore di dissenteria e non ci sono belle facciotte sorridenti che tengano. È un bel problemino etico, quello della rappresentazione e di cosa si possa narrare e come, e io non posso che rendere conto del mio coinvolgimento nella fabula perché son troppo confuso dalla rarefazione dell’ossigeno montano, diciamo così. Boyle va alla pancia dello spettatore e lo trascina dentro la vicenda senza farsi mancare alcun effettaccio, tanto da farti rimpiangere la più fetida latrina di Scozia di Trainspotteriana memoria. La musica incalzante, la simpatia degli attori e tutto l’apparato tecnico ti fanno prigioniero come niente: il film c’è, funziona e fila come un treno e ha vinto una marea di Oscar. Ed è allora che i più cool hanno cominciato a snobbarlo, anche perché finito il film, chi se ne fotte dell’India? Però così diventiamo troppo ideologici. O d’altra parte siamo troppo superficiali. Non lo so: io cool non lo sono per niente, sono proprio meat ‘n potatoes: per cui ho apprezzato la storia, ma so anche che c’è qualcosa che rimane troppo al di sopra dei problemi e troppo al di sotto della spettacolarizzazione e mi sento colpevole. Beh, questo sempre. Ah: l’11 agosto è morto Dino Crocco, che come nome magari non vi dice niente, ma per la mia generazione è stato il volto di tanta tivù privata anni Settanta, quella fatta alla buona ché importava occupare l’etere, con sconclusionati trasmissioni da Lavagello… Comunque questo Crocco, tra le tante cose, presentava un programma di Telecity che metteva in competizione le classi di quinta elementare delle scuole genovesi e io avevo partecipato nella tarda primavera del 1980 a un’epica sfida contro la temibile Scuola Germanica, registrata in un locale posto tra i due teatri Genovese e Duse. A differenza del protagonista di The Millionaire, avevo però ceffato clamorosamente la domandona finale attribuendo per emozione a Mercantini l’inno di Mameli, una cosa così, che ricordo vagamente perché l’ho rimossa, sentendo ancora il peso di quell’errore (ma eravamo tutti euforici: finiva la scuola, arrivava l’esame di quinta e chi se ne frega se avevamo perso in finale. E anche il mio compagno Riccardo Esposito aveva smarronato clamorosamente in preda all’orgasmo). (Lo stesso anno avevamo anche partecipato al programma di Tivuesse – la tivù del Secolo XIX – con Pata e Trac, ma questo non se lo può ricordare veramente nessuno: in Rete non c’è alcun riferimento a questi due pagliacci – intendo dire che facevano i clown, chissà che fine han fatto). (Dvd; 17/8/10)

ddv7008785 – M’è cresciuta la terza palla guardando The Terminal di Steven Spielberg, USA 2004
Altra serata buca, altro giro: dunque, che Spielberg sappia raccontare bene l’azione e il dramma, nessun dubbio, ma appena fa la commedia, casca l’asino. E più insiste, più fa pena. Il tema del film in questione è zeppo di implicazioni: la terra promessa, la cattività, il premio della libertà, la burocrazia, perfino tutte le menate di Marc Augé sui non-luoghi che avrebbero dato occasione a Wenders di farsi una pippa colossale su pellicola e ai critici, a due mani, sui giornali. E invece niente: Spielberg vuole la commedia e vuol farci tutti ridere con la vicenda di Viktor che, per problemi di documenti e di trattati tra paesi, rimane prigioniero di un terminal aeronautico e deve arrangiarsi in questo limbo territoriale ed esistenziale. Nell’aeroporto sono tutti carinissimi, tutti immigrati felici e la società USA in fondo è buona buona. Da un momento all’altro scopriamo che Viktor è un costruttore provetto e ama la musica jazz (e non è quella che propriamente si definisce una crescita del personaggio). E poi viene fuori il motivo del viaggio in USA: la ricerca di un autografo di Benny Golson, l’unico che mancava al papà di Viktor che, negli anni bui della dittatura nel suo paese, aveva raccolto tutte le firme dei jazzisti presenti nella storica foto fatta ad Harlem nel 1958. Ma queste sono minuzie in un film noioso, che dura due ore interminabili ed è divertente appunto come se fossi anche tu in sala attesa a Malpensa mentre ti fottono i bagagli, che fa ridere una sola volta (grazie a Gupta, l’uomo delle pulizie che è anche giocoliere) e che ha personaggi appena sbozzati (il direttore della sicurezza interpretato da Stanley Tucci o la hostess Catherine Zeta-Jones, decisamente improbabile e costretta a dialoghi ferocemente imbarazzanti). Riflessioni sulla solitudine o sullo spaesamento, nisba: tutto ridotto a una vicenda agrodolce, un po’ comica ma soprattutto no, e senza morale. Girato in maniera insipida, recitato sicuramente bene, ma anche zeppo di errori di continuità (tipo Hanks con le braccia aperte, stacco, a braccia conserte… cose così, a pacchi) e da uno che muove milioni di dollari come Spielberg proprio non te lo aspetti. Che poi, a Steven, cosa vuoi rimproverargli, seriamente? Cosa vuoi dire a uno che ha messo su un archivio della memoria gigantesco e trova il tempo e il modo di fare soldi raccontando la seconda guerra mondiale, proprio associandosi a Tom Hanks? Eh, cosa? Beh, che The Terminal è ‘nammerda, okay, che però, dài, non è neanche così grave. Comunque: film scritto da quel Sacha Gervasi che due anni dopo ha realizzato il documentario sul ritorno dei metallari Anvil e ha vinto una caterva di premi. Io ce l’ho lì da un anno e adesso ho un po’ paura a guardarmelo. (Dvd; 19/8/10)

Toy-Story-3-movie-image786 – Ancora capolavoro! Toy Story 3 di Lee Unkrich, USA 2010
Siamo a Milano e il lavoro – giustamente, eccheccazzo: è agosto! – langue. Mi porto Sofia al cinema perché non resisto oltre. Devo vedere subito Toy Story 3. il film è preceduto da un corto splendido: Quando il giorno incontra la notte (di Teddy Newton, USA 2010), surreale incontro che diventa apologo sulla curiosità, la scoperta e la felice convivenza. Magnifico: mescola tecniche modernissime a quelle tradizionali, in cinque minuti e mezzo di fosforo puro e ci ricorda che “le cose più belle dell’universo sono le più misteriose”, quelle che non conosciamo. E poi ecco il terzo capitolo: riuscitissimo, divertente e infine molto commovente. Forse potrebbe finire qui, la saga, forse no, ma siamo all’altezza delle cose migliori della Pixar, con un finale che unisce passato e futuro con delicatezza estrema. Sofia non riusciva a capire come mai fossi così preso (“Papà, stai male?”), ma lei non sa ancora cosa significa la memoria dei giochi che sta facendo ora. Poi titoli di coda al solito magnifici col conforto di una versione dei Gipsy Kings della classica Un amico in me di Randy Newman. Fai due più due e il pacchetto completo si legge capolavoro, l’ennesimo. Ma come fanno? (E vogliamo parlare di Barbie e Ken?) (Cinema Gloria, Milano; 24/8/10)

ddv7010787 – Gran sòla Gran Torino di Clint Eastwood, USA 2008
Walt Kowalski non parla, grugnisce, e ha la faccia corrugata come la corteccia di una sequoia. È sboccato, razzista, sessista, omofobico e a destra di Feltri, che considererebbe un sovversivo capellone. Ovviamente siccome Kowalski lo interpreta Eastwood la cosa intenerisce il pubblico che si riconosce e si giustifica: se Eastwood – che non può essere che buono – è così, potrò non esserlo io? Vabbeh: questo bel tipino, dopo una vita spesa alla Ford, ha il cane, fuma le sue sigarette, cura il prato davanti casa e sopporta in silenzio la ferita morale della guerra in Corea dove ha ucciso 13 uomini (i morti invece non han più nessun senso di colpa, beati loro!) ed è la quintessenza dell’americano medio con la bandiera innalzata davanti al portico di casa. Come vicini arrivano degli immigrati Hmong fuggiti ai comunisti, ma questo Kowalski non lo sa. Son gialli, punto. Fan casino, son tanti, sporcano. E guarda con sospetto i due giovani di famiglia: Thao e la sorella Sue. Thao vuole entrare in una gang e prova a fottergli la splendida Gran Torino, curata in maniera maniacale, e la stessa gang ha l’ardire di venire a rompere il cazzo. Lui reagisce, mette a posto il ragazzo e la famiglia Hmong, riconoscente, lo riempie di regali, fiori e cibo. Che scopre essere buonissimo, pensa tu ‘sti selvaggi. E poi, per il tramite di Sue che è sveglia, Walt va a conoscere i musi gialli che mangiano i cani. E all’improvviso gli piacciono e siccome Thao deve espiare, se lo prende da parte e lo fa diventare un uomo, anche perché i figli di Kowalski sono dei pasciuti ottusi americani che dalla vita hanno tutto fuorché dirittura morale e non meritano il suo tempo. Per cui dall’intolleranza iniziale passiamo al rifiuto della violenza e del machismo (ma sempre con i capelli molto corti, mi raccomando, eh?) in uno schematico liberalismo conservatore non meno irritante di quello iniziale. È tutto tagliato con l’accetta, con cambiamenti secchi, svolte improvvise e poco credibili, per blocchi, senza armonia, con personaggi sbozzati con la grazia di un marmista di Carrara. Ma si può diventare adulti dicendo due o tre parolacce? O conquistando la donna, atteggiandosi come ritiene un ottantenne? Mah! E poi tutti a frignare per il finale edificante e ricattatorio e non pensiamoci più. Io no, scusate. (Dvd; 27/8/10)

(Continua – 70)

Segui Dziga su Twitter: @DzigaCacace

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

]]>
Il cinema che verrà https://www.carmillaonline.com/2014/08/10/cinema-verra/ Sun, 10 Aug 2014 00:13:53 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=16640 di Valerio Evangelisti  (da 8 1/2 n. 12, settembre 2013)

LUomoCheVerraIl cinema italiano ha realizzato uno dei migliori film che io abbia visto nell’ultimo decennio: L’uomo che verrà, di Giorgio Diritti. Dunque, si direbbe, gode di ottima salute. Non è così, e lo sappiamo tutti. Esistono film “alti” ed esistono porcate. Manca, a mio parere, un buon cinema medio che faccia da raccordo, come esiste quasi ovunque. Perché altrove sì e in Italia no? Mi sbaglierò, ma io attribuisco la colpa al sistema di produzione.

Scarseggiano i produttori, forniti di capitali adeguati, disposti a investirli e a rischiare sull’opera cinematografica [...]]]> di Valerio Evangelisti  (da 8 1/2 n. 12, settembre 2013)

LUomoCheVerraIl cinema italiano ha realizzato uno dei migliori film che io abbia visto nell’ultimo decennio: L’uomo che verrà, di Giorgio Diritti. Dunque, si direbbe, gode di ottima salute. Non è così, e lo sappiamo tutti. Esistono film “alti” ed esistono porcate. Manca, a mio parere, un buon cinema medio che faccia da raccordo, come esiste quasi ovunque. Perché altrove sì e in Italia no? Mi sbaglierò, ma io attribuisco la colpa al sistema di produzione.

Scarseggiano i produttori, forniti di capitali adeguati, disposti a investirli e a rischiare sull’opera cinematografica come merce (non scandalizzi il termine) innovativa. A parte pochissimi, i più preferiscono battere strade sicure, con un risultato assicurato al botteghino. Di qui il prevalere di un genere soltanto, la commedia – spesso una pura successione di barzellette più o meno triviali – che di tutti è il meno esportabile. Altri non sono nemmeno produttori in senso proprio, visto che di capitali quasi non ne hanno, e contano di riceverli da Rai e Mediaset. Così si finisce nel cuore dell’abisso: lo strapotere della televisione in campo cinematografico.

Ovviamente le tv, pur investendo con larghezza, hanno bisogno di un certo tipo di prodotto: allineato, salvo rare eccezioni, ai “valori” dominanti, o per meglio dire ritenuti tali dalla classe politica; fruibile da ogni tipo di pubblico; con bersagli, se ce ne sono, scontati e condivisi a livello universale (per esempio, la mafia), o assolutamente generici. Se il tema è invece scomodo, protestano i partiti; ai quali partiti sono invece “regalati” film costosi che a loro stanno a cuore, come i film in costume o ispirati al “revisionismo storico” di un regista particolarmente inetto. Flop clamorosi al botteghino, ma d’altra parte votati a un altro tipo di successo: l’utilizzo televisivo a fini propagandistici. Alla fin fine sono quindi i partiti a condizionare indirettamente il cinema attraverso la televisione. A quella pubblica, peraltro, rimangono un po’ di soldi da distribuire tra produzioni meno conformiste, destinate, nel 90% dei casi, a non raggiungere mai le sale.

Sia chiaro: non è in sé un male che la televisione finanzi il cinema. A livello europeo, Canal+ ha svolto a lungo una funzione preziosa. Bisogna però vedere di quale televisione parliamo. Sarebbe mai possibile in Italia una serie televisiva come Breaking Bad, totalmente anticonformista e perturbante? Chiaramente no: da noi è tutta un’inflazione di storie di santi, di preti, di poliziotti coraggiosi e senza macchia. Persino Mad Men sarebbe troppo oltraggioso. Una televisione senza nerbo produrrà un cinema fatto a sua immagine (ripeto, con eccezioni, però rarissime). Peggio: sfornerà nuovi registi, attori, sceneggiatori addestrati al mezzo televisivo e incapaci d’altro linguaggio. Non è un caso se certe star nostrane si ritrovano in produzioni internazionali ridotte al rango di comparse. Paradossalmente, ciò non viene vissuto dagli interessati come una vergogna, ma come un riconoscimento.

Dato che è improbabile che un Carlo Freccero divenga un giorno presidente Rai, e che a un Marco Mûller sia affidato il settore cinema di Mediaset, dobbiamo ipotizzare un futuro con rare case produttrici capaci di resistere come altrettanti Fort Apache in mezzo al dilagare di battutacce da trivio, doppi sensi, peti, più qualche horror o thriller squinternato fatto con due soldi. Nonché a un mancato ricambio tra leve di professionisti, come già è avvenuto tra generazioni di attori.

Può la letteratura venire in soccorso di un cinema italiano agonizzante? Non credo. Intanto il mestiere dello scrittore è completamente diverso da quello dello sceneggiatore, che fa parte di un collettivo e scrive in tutt’altra maniera (anche quando è all’origine scrittore). Ora, se il collettivo è inserito in un sistema che scricchiola dai vertici alla base, poco importa che attinga alla narrativa. Banalizzerà o, fin dall’inizio, attingerà dai testi letterari più consoni alla visione conformista che lo ispira.

Non mi vedo romanzi ricchi di problematica come quelli di Lorenza Ghinelli (Il divoratore, La colpa) diventare film, anche se costerebbero poco: troppo sottili. O le ambigue storie di Vittorio Giacopini (ultimo di una serie stupenda: Nello specchio di Cagliostro). O i gialli polemici dell’italo-francese Serge Quadruppani (per esempio Saturno). O le riflessioni profonde di Michele Mari. Del resto, conviene a questi e ad altri autori tenersi fuori dal cinema italiano mainstream, se possono, e lasciare la scena ad autori più mediatici.

Non vorrei però sembrare troppo pessimista. E’ in corso una rivoluzione clamorosa. Oggi chiunque può filmare con uno smartphone o una telecamera a basso costo. Si trovano su YouTube e Vimeo, sapendo cercare, autentici gioielli, firmati anche da giovani italiani. Il mio consiglio è frugare da quelle parti. Forse è lì che sta fermentando il cinema italiano che verrà.

]]>