Luigi Weber – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Aug 2025 20:00:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Ripellino, un magico prosatore https://www.carmillaonline.com/2024/03/18/ripellino-un-magico-prosatore/ Mon, 18 Mar 2024 21:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81772 di Paolo Lago

Giuseppe Traina, Primaverile ripelliniano. Su Ripellino prosatore, Mucchi, Modena, 2023, pp. 124, euro 16,00.

La scrittura saggistica di Angelo Maria Ripellino non è semplicemente una scrittura saggistica, come si potrebbe intendere nel senso comune della parola. Una scrittura, cioè, oggettiva, fredda, distaccata, razionale, pacata, sorta dalla scienza accademica e non dal cuore. E direi che di scritture siffatte, all’interno della critica letteraria, al giorno d’oggi ce ne sono anche troppe. È per questo che oggi si fa sempre più forte la mancanza di una penna come quella di Ripellino, grande studioso e slavista, poeta e scrittore, della cui [...]]]> di Paolo Lago

Giuseppe Traina, Primaverile ripelliniano. Su Ripellino prosatore, Mucchi, Modena, 2023, pp. 124, euro 16,00.

La scrittura saggistica di Angelo Maria Ripellino non è semplicemente una scrittura saggistica, come si potrebbe intendere nel senso comune della parola. Una scrittura, cioè, oggettiva, fredda, distaccata, razionale, pacata, sorta dalla scienza accademica e non dal cuore. E direi che di scritture siffatte, all’interno della critica letteraria, al giorno d’oggi ce ne sono anche troppe. È per questo che oggi si fa sempre più forte la mancanza di una penna come quella di Ripellino, grande studioso e slavista, poeta e scrittore, della cui produzione saggistica l’opera più nota è probabilmente Praga magica (1973). Ripellino è sicuramente un magico prosatore, artefice di una scrittura critica evocatrice di dimensioni ‘altre’, una scrittura capace di aprire varchi verso un altrove narrativo e poetico che non può restare imbrigliato nella fredda scrittura critica. Perciò, ogni saggio di questo autore si può leggere come un romanzo o come una poesia, facendo attenzione alle figure di stile e di suono, alle immagini evocate e magicamente rappresentate, come in un rituale sciamanico.

Recentemente è uscito un breve saggio che abbraccia, nei suoi punti essenziali, con attenzione e rigore, l’intera produzione critica e saggistica di Ripellino. Si tratta di Primaverile ripelliniano. Su Ripellino prosatore di Giuseppe Traina, che per la prima volta distende uno sguardo analitico sulle prose del grande slavista siciliano. Come rende noto l’autore nella premessa, dopo questa analisi della prosa ripelliniana, farà uscire un altro studio dedicato all’opera poetica di Ripellino, dal titolo Autunnale ripelliniano. Adesso, sotto il rigoroso e capace occhio analitico di Traina c’è, appunto, la produzione saggistica dello slavista (che, poi, come vedremo, definire Ripellino semplicemente “slavista” è sicuramente riduttivo): la sua critica letteraria, la sua critica d’arte, la sua scrittura politica, la sua critica teatrale lasciando da parte – poiché sicuramente estrinseca ad un discorso incentrato sulla saggistica – la prosa narrativa di Storie del bosco boemo.

Il viaggio nella prosa critica ripelliniana comincia con il già ricordato Praga magica, vero e proprio capolavoro di Ripellino nonché frutto del lavoro e dello studio di una vita. Non è un caso che Traina abbia scelto come titolo del primo capitolo del suo libro, dedicato a Praga magica, “Il flâneur”. Si tratta infatti di un’opera di viaggio, di movimento, di scoperta incessante della città “vltavina” (cioè attraversata dalla Vltava, la Moldava), per utilizzare una definizione dello stesso Ripellino. È quest’ultimo a definire Praga magica come “un libro sconnesso, sbandato, a frastagli, scritto nell’insicurezza e nei mali, con disperàggine e con pentimenti continui, con l’infinito rimorso di non conoscere tutto, di non stringere tutto, perché una città, anche se assunta a scenario di una flânerie innamorata, è una dannata, sfuggente, complicatissima cosa” (Einaudi, Torino, 1973, p. 22). Ripellino è un “flâneur” che, con uno sguardo incantato, si muove incessantemente per Praga e ci conduce alla scoperta dei suoi risvolti più magici e misteriosi, dei palazzi antichi e vetusti – quelle “nere casacce streghesche, sorgenti di maleficio” – dell’arte cupa e meravigliosa che si nasconde nei suoi vicoli, delle arcane vetustà e incantamenti del quartiere ebraico, del Golem, di Rodolfo II e dell’Arcimboldo, degli spettri e delle superstizioni, dei percorsi e delle suggestioni kafkiane. Tra l’altro, Franz Kafka (insieme ad altri autori boemi) è uno dei principali protagonisti letterari del libro che, come altri misteriosi e spettrali personaggi, compare preferibilmente di notte (una frase che ricorre diverse volte, nella narrazione di Praga magica, è infatti la seguente: “Ancor oggi, ogni notte, alle cinque, Franz Kafka torna a via Celetná, vestito di nero”). Lo scrittore, nelle magiche pagine ripelliniane, diviene egli stesso un personaggio magico. La penna di Ripellino, muovendosi come un Omero o un Apollonio Rodio, inanella i luoghi come perle sulla collana di parole del poeta – come scrive Bertrand Westphal riguardo alla geografia letteraria delle opere antiche. È il suo sguardo a caricare di senso nuovo ogni angolo di Praga, un senso nuovo dominato dalla sua capacità medianica di incantatore.

Traina, giustamente, sottolinea la pluralità di stili e di registri sottesa alla tessitura del libro: alla melanconia spesso infatti subentra una “felice buffoneria e una «condizione clownesca»”. Né si deve dimenticare che Ripellino è un autore per il quale gioca un ruolo estremamente importante l’immaginario circense legato all’attorialità e alla clownerie, alla dimensione spettacolare in senso positivo. Praga magica – secondo Traina – si configura quindi come “un libro-specchio di straordinaria leggibilità: dove l’estro funambolico di certe pagine e la precisione filologica di altre richiamano strettamente i precedenti risultati della saggistica ripelliniana e le meravigliose poesie delle sue sillogi, agglutinandosi in un’immagine da orafo che è squisitamente praghese e rodolfina”.

Il secondo capitolo, intitolato “Il saggista”, prende in esame due saggi di Ripellino: Il trucco e l’anima, dedicato alla cultura teatrale russa del primo Novecento, e Letteratura come itinerario nel meraviglioso, una raccolta di saggi pervasa da uno straordinario senso di unitarietà. Anche in questi saggi-romanzi (in Ripellino la forma saggio è in continua metamorfosi e si dilata inevitabilmente verso altri lidi narrativi), Traina rileva peculiari tratti stilistici dello studioso e poeta, come l’iperbole lessicale, la ricerca del neologismo e le neoformazioni linguistiche, la predilezione per il “sinonimo anticato, da vocabolario”. Tali peculiarità stilistiche conducono la prosa ripelliniana verso il territorio del “barocco del Novecento”. D’altra parte, in questi saggi si trovano diversi “spiragli stranianti aperti sull’oggi, che possiedono, di volta in volta, una valenza «politica» o morale di stampo benjaminiano che ben appartiene al Ripellino maggiore: al poeta, al saggista, al testimone del tempo che ha vissuto”. L’apertura verso sempre nuovi orizzonti nonché il fastidio per il settorialismo accademico che imbriglia gli studiosi esclusivamente ad una disciplina è espresso nell’Introduzione a Letteratura come itinerario nel meraviglioso dove rivendica l’anti-accademismo del proprio lavoro critico: “Fin dall’inizio la slavistica fu da me concepita come evasione dalla «slavistica» e dalle indagini «specializzate» per pochi savi – come inusitata riserva di tesori poetici e pretesto di comparazioni (Einaudi, Torino, 1968, p. 5). Come chiosa Traina, in queste parole troviamo “la scelta dell’anti-accademismo come contravveleno esistenziale e l’opzione per la slavistica come volano d’una vocazione da comparatista sommo”. Ripellino è stato infatti un “comparatista sommo” che, per poter districarsi nell’intricato (allora sicuramente meno di oggi) mondo accademico, ha dovuto imboccare una via di ‘specializzazione’.

Il capitolo successivo di Primaverile ripelliniano è dedicato al “critico delle arti visive” e viene quindi analizzata la raccolta di saggi dal titolo Il sogno dell’orologiaio, curata da Alfredo Nicastri nel 2003. Anche i saggi di critica d’arte sono pervasi della magia lessicale e stilistica che avvolge le parole del Ripellino critico letterario: un ingrediente “inconfondibile” che, in questo caso, “rivela particolarità retoriche, sintattiche e prosodiche che lo arricchiscono”. Anche da un punto di vista tematico e contenutistico, lo studioso utilizza spesso le opere d’arte analizzate come uno specchio nel quale rivedere ciò che gli sta più a cuore come, ad esempio, nel caso di Paul Klee: “Nelle opere di Klee Ripellino ritrovava uno specchio delle proprie predilezioni: la presenza dell’opera buffa, della clownerie, del teatro, anche di marionette”. Un articolo dedicato a Chagall, invece, ripropone un andamento diaristico ed autobiografico caro allo studioso. Qui, Ripellino passa con straordinaria disinvoltura dal ‘fuori’ al ‘dentro’ di un quadro del pittore russo: come scrive Traina, “la descrizione della folla che s’assiepa alla mostra trapassa analogicamente nell’ecfrasi della folla che popola i dipinti di Chagall”. Ripellino critico d’arte – pensando che l’arte sia inscindibile dalla letteratura – diviene poi anche poeta e inserisce nei suoi excursus critici delle poesie dedicate ai suoi amici artisti Dorazio e Perilli.

A chiudere il saggio di Giuseppe Traina incontriamo un capitolo dal titolo “Il reporter”, dedicato agli articoli raccolti prima in I fatti di Praga e poi in L’ora di Praga, nei quali è possibili incontrare di nuovo lo stile inconfondibile del Ripellino “saggista-poeta e poeta tout court”. Ripellino, qui, seguendo l’urgenza dei fatti praghesi da raccontare nei mesi del 1968, adotta la forma del reportage: rapida, disinvolta, dominata più dai fatti che dalle parole. Sono articoli redatti per “L’Espresso” nei mesi precedenti e immediatamente successivi l’agosto 1968, quando giunsero a Praga i carri armati sovietici. La rabbia e il dolore, negli articoli successivi all’agosto – come scrive Traina – sembrano stemperarsi “in un sentimento più tipico di Ripellino, in una malinconia struggente di cui sente, sia pure a distanza, il riverbero nell’azione residua dei suoi amici praghesi, almeno di quelli che sono rimasti, che non sono riparati in esilio”.

Dulcis in fundo, Primaverile ripelliniano è arricchito da una postfazione di Luigi Weber dal titolo “Necessità di Ripellino”, in cui lo studioso ribadisce la necessità, oggi, di un saggio critico su Ripellino prosatore; un vuoto ben riempito, appunto, dal volume di Traina. Weber sottolinea poi l’importanza ancora maggiore di questo studio poiché va a colmare anche il vuoto dato dalla mancanza di studi critici sulla saggistica e, nella fattispecie, sulla grande saggistica italiana contemporanea. Allora, a fianco di Ripellino possiamo ricordare, fra gli altri, Giuseppe Antonio Borgese, Mario Praz, Giacomo Debenedetti, Cristina Campo, Piero Camporesi, Carlo Ginzburg, dei quali viene tracciato un quadro delle opere più significative. Perché la critica “è l’esercizio più prossimo alla fantasia” e si trova nella libertà straordinaria di penetrare il reale e consegnarlo alla complessità. La critica e la saggistica letteraria, cinematografica, teatrale, artistica dischiudono mondi e immaginari liberati e ciò vale soprattutto per Angelo Maria Ripellino, che scriveva una pagina critica nello stesso modo in cui scriveva una poesia o un racconto. Perché la critica dovrebbe essere sempre creatività, arte, libero immaginario e meno che mai mero esercizio accademico.

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Storia di una copertina. Da “Le copertine di Urania” di Michele Mari a “Navi nel deserto” https://www.carmillaonline.com/2023/10/08/storia-di-una-copertina-da-le-copertine-di-urania-di-michele-mari-a-navi-nel-deserto/ Sun, 08 Oct 2023 20:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79413 di Luigi Weber

Humboldt Books ha da poco pubblicato un volumetto, dall’elegante veste rossa aniconica (fig. 1), che ripropone ai lettori Le copertine di Urania, celebre racconto di Michele Mari contenuto nella sua raccolta forse più fortunata, Tu, sanguinosa infanzia (Einaudi, 1997), con in aggiunta una selezione di immagini di copertine da remoti e pionieristici numeri della collana editoriale mondadoriana che in Italia significa “fantascienza”. Appartengono, reliquie doc, alla collezione privata di Mari stesso. Anche senza l’ausilio dell’informazione paratestuale, chi conosca appena un poco Mari lo dedurrebbe, che erano i suoi, dal perfetto [...]]]> di Luigi Weber

Humboldt Books ha da poco pubblicato un volumetto, dall’elegante veste rossa aniconica (fig. 1), che ripropone ai lettori Le copertine di Urania, celebre racconto di Michele Mari contenuto nella sua raccolta forse più fortunata, Tu, sanguinosa infanzia (Einaudi, 1997), con in aggiunta una selezione di immagini di copertine da remoti e pionieristici numeri della collana editoriale mondadoriana che in Italia significa “fantascienza”. Appartengono, reliquie doc, alla collezione privata di Mari stesso. Anche senza l’ausilio dell’informazione paratestuale, chi conosca appena un poco Mari lo dedurrebbe, che erano i suoi, dal perfetto stato di conservazione di questi libretti: pocket stampati su carta povera, pensati per un consumo veloce, di uscita settimanale o quattordicinale, e vecchi in qualche caso di buoni settant’anni (la gallery si apre con il leggendario n.1, “Le sabbie di Marte” di Arthur C. Clarke, uscito il 10 ottobre del 1952), ma quasi del tutto privi di pieghe strappi e perfino consunzione dei bordi; senz’altro in migliori condizioni di quelli conservati alla Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, che si vedono invece riprodotti nel saggio in appendice, “L’egemonia del cerchio”, a firma di Luca Pitoni.

Non si tratta di una rarità per bibliofili né d’un furbo oggetto di marketing che sfrutta l’amore dei lettori per il vissuto, traumatico fantasmatico e feticista, del Mari scrittore e del Mari uomo; quest’ultimo avvinghiato al primo e indistinguibile come le serpi nella bolgia dantesca dei ladri; con Le copertine di Urania siamo sulla chiara via tracciata da Asterhusher. Autobiografia per feticci (Corraini, 2015 e 2019, con fotografie di Francesco Pernigo) e da Sogni, con i disegni di Gianfranco Baruchello, edito per la stessa Humboldt Books nel 2017. Con una differenza e un progresso: Asterhusher esplorava una casa e il suo contenuto oggettuale, due mondi reciprocamente implicati e landolfianamente da un lato ospiti, dall’altro produttori di incubi, possessioni, infestazioni e metamorfosi, tutti e tutte sempre scaricate ed espulse nel linguaggio, anzi nominate proprio perché innominabili, e dunque mostruosamente, difettosamente, irregolarmente nominate. Era un iconotesto paradossale, dove le immagini non servivano davvero, giacché al massimo potevano offrire l’ancoraggio di una realtà qualsiasi al mondo letterario che da essa si era sprigionato, e che rimaneva prioritario. Una forma di garanzia d’esistenza del reale, a ridosso di un corpus narrativo che del reale si è sempre disinteressato. Questo Le copertine di Urania adempie invece a un ulteriore compito: recupera l’invisibile, produce le prove, presentifica l’ecfrasi che fu, accompagna il turbinio di approssimazioni verbali del racconto con le autentiche copertine di Urania allora citate e assemblate. Con l’effetto di ri-produrre il percorso di Bildung del piccolo Michele (e giustificare, in prospettiva, con il senno di poi, la propria identità e vocazione di scrittore) dentro un molteplice tunnel popolato di orrori, infezioni, mutazioni, dannazioni, fino all’approdo più inafferrabile, e perciò più inquietante e desiderabile, del puro ineffabile. A far questo non serve null’altro – interessante chiosa, per un lettore e letterato così amante dei racconti come Mari – che il vizioso e virtuoso coniugio tra un’illustrazione, un nome autoriale e un titolo, cioè tra un disegno e un pugno di parole.
Peraltro la notoria disinvoltura con cui Urania maneggiava testi e titoli degli originali, tagliandoli, adattandoli, traducendoli in modo si dice non troppo rigoroso, trova nella vicenda qui narrata una brillante compensazione:

[…] la copertina più guardata di tutte era quella del n. 265, R. Silverberg, Il sogno del Tecnarca. A parte la meraviglia di questa parola arcana, «Tecnarca», che mi affascinava per il suo sentore arcaico e insieme tecnologico (dunque parola pregna di un’interna e tesa lontananza tra il passato e il futuro) c’era in quella copertina l’immagine stessa del mio contemplare […] (Michele Mari, Le copertine di Urania, Humboldt Books, 2023, p. 11)

Sì perché Il sogno del Tecnarca è farina del sacco dei traduttori italiani: il romanzo di Silverberg si intitolava più semplicemente Collision course. E lo stesso vale per quasi tutti quelli che più colpirono il bambino ipersensibile ai suoni e alle parole: Strisciava sulla sabbia di Hal Clement (in origine Needle), Gli uomini nei muri di William Tenn (Of men and monsters), o il memorabile Essi ci guardano dalle torri di J.G. Ballard (Passport to Eternity). Vengono in mente due racconti archetipici della formazione di illustri scrittori novecenteschi, Le parole di Sartre e Biffures di Michel Leiris; in entrambi la scoperta della propria vocazione per la letteratura avviene in corrispondenza con la percezione, aurorale, infantile, di un’inconciliabilità, quasi una faglia originaria, tra significanti e significati, e di una oscura predilezione per i primi. Lo stesso accade con il nostro Landolfi. Mentore di siffatta scoperta, pare, per Michelino fu l’insieme dei titoli e delle copertine di Urania, dove evidentemente si trattava con poco riguardo l’insieme del corpus fantascientifico tradotto, ma non si disdegnava di attingere a registri immaginosi e spesso ricercati almeno in sede di titolazione.

I libri sottostanti, quasi come quel Nuovo commento che Manganelli dichiarava necessario solo come piedestallo e sostegno alla copertina, non necessitano più, nemmeno occorrerebbe sfogliarli (e peraltro lo stesso fece Karel Thole, che di Urania ne illustrò oltre mille numeri senza, si dice, aprirne neanche uno; Mari li lesse, invece, senza dubbio, ma la fecondazione dell’immaginario avvenne già a libro chiuso, o almeno così il racconto narra). La pubblicazione offertaci da Humboldt Books, dunque, diventa uno strumento critico: permette di rileggere questa deliziosa short story, autentico logos di fondazione, mettendolo alla prova – se per caso non lo avesse già fatto qualcuno, agevolato dalla condizione di collezionista di Urania come Mari, dunque son semblable, son frère; ma sarebbe un caso eccezionale, una forma di affinità elettiva, diciamo – dei suoi materiali da costruzione, dei suoi molteplici architesti e palinsesti, delle sue fonti d’ispirazione, a un tempo dichiarate e taciute, sepolte dalla lupara bianca autoriale nel cemento in bianco e nero della pagina, e invece improvvisamente riemerse, ritrovate intatte, persino a colori. Scopriamo così che l’ecfrasi è sempre precisa e puntigliosa, e che non v’è spazio per l’improvvisazione o l’abborracciatura: ogni dato, linguistico o luministico o d’impaginazione che sia, è fedele all’originale. Un esempio per tutti può essere la descrizione della cover di Dimensioni vietate (L. Sprague De Camp e C. M. Kornbluth, Urania n. 334, 17 maggio del 1964, fig. 2):

[…] interno di una costruzione in legno (stalla? fienile?) prospettato dall’alto: da un uscio un uomo che osserva nascosto ciò che sta avvenendo: un pentacolo magico verniciato per terra: una vecchia che sollevandovi sopra il cadavere di una gallina nera ne fa gocciolare il sangue: un essere biancastro gommoso fumoso grinzoso che si materializza. Due i motivi di fascinazione: certe grinze dell’evocato, che non lasciavano capire se avesse una faccia, e l’espressione della vecchia, comprensiva e di stolidità e di un’agghiacciante fiducia. C’erano poi quei due fonosimboli, Sprague de Camp e Kornbluth, che suonavano a presagio di strage… (Michele Mari, Le copertine di Urania, Humboldt Books, 2023, p. 11)

Si saggia quanto persino una materia evanescente e fuggevole, contesta per la gran parte di suggestioni, emozioni, paure, ricordi in qualche modo scioccanti, si poggi, nella costruzione della mitobiografia di Mari, su un assoluto rispetto, filologico diremmo, della fonte (nonché del trauma o del piacere). I più ci sono arrivati grazie a Leggenda privata; qualcuno per i necessari passaggi preparatori di Verderame e dell’intro di Roderick Duddle; ma era già tutto bene in vista qui, in Tu, sanguinosa infanzia, senza travestimento – il travestimento, per intenderci, che era ancora necessario approntare all’altezza di Di bestia in bestia e di Io venìa pien d’angoscia a rimirarti – il dialogo autobiografico del piccolo Michele con mostri e terrori.

Intitolando questo pezzo Storia di una copertina avevo in mente il saggio-racconto omonimo che Mario Soldati scrisse nel 1976, rammemorando la genesi della princeps di America, primo amore (Bemporad, 1935), e in particolare il dipinto – la memorabile donna-demonio tentatrice dietro la quale si innalza lo skyline di New York e il profilo degli USA, in una sorta di nuvola violacea (fig. 3) – realizzato per lui da Carlo Levi, il quale poi nel 1954 aveva già dato la sua versione dei fatti, significativamente non identica a quella di Soldati, con un breve scritto: La copertina dell’America; ora tutto si legge nell’edizione Sellerio curata da Salvatore Silvano Nigro. Pubblicare con l’ebreo Bemporad, e con una copertina di Levi, nel 1935, per di più un libro sull’America, seppur resoconto di una delusione, significava una scelta di campo chiaramente antifascista. Non era solo una “bella” copertina, era una copertina coraggiosa. E, soprattutto, costituiva un elemento integrante dell’opera di Soldati, il quale, come è sempre bene ricordare, lasciò l’Italia nel 1929 anche e soprattutto in rotta con il regime.

Con il mio Navi nel deserto, uscito all’inizio di quest’anno per i tipi romani de Il ramo e la foglia, ho avuto una fortuna simile a quella di Soldati, cioè potermi avvalere dello sguardo e del talento di un amico artista, riminese come me. Il paragone non vuol essere immodesto, così come quello con Mari, ma soltanto finalizzato a un ragionamento su quale sia, o possa essere effettivamente, il punto ultimo di elaborazione di un libro, quando anche la sua copertina diventa parte integrante dell’operazione creativa, anzi la corona. Samuele Grassi ha creato una porta d’ingresso (e una mappa, come nei classici fantasy) per la vicenda che avevo scritto carsicamente nel corso di trenta lunghi anni. E questa immagine – del tutto coerente con la poetica di Grassi, che come il sottoscritto è stato un amante di fumetto e cinema fantastico e fantascientifico, di «Metal Hurlant» e di anime, del Conan di Miyazaki e di Arzach – vive in una dimensione di esplicita parentela con le copertine di Urania, almeno con quelle della stagione del cerchio, dominate dal segno pittorico di Thole e dalle soluzioni compositive ideate da Anita Klinz, art director della Mondadori, che si affermano a partire dalla metà degli anni Sessanta (estate del ’64, per la precisione).
Ma l’immagine in questione – un oblò, inconfondibile, dal quale però l’occhio si affaccia non su una distesa marina bensì su un paesaggio sabbioso, forse alieno, con al centro una città fortificata eretta su alcune vertiginose rupi (fig. 4) – è stata solo il punto di arrivo di una ricerca nella quale anche le tappe intermedie, le ipotesi scartate, presentano interesse e significato.

Una ricerca iniziata a partire da un’ipotesi di lavoro ai miei occhi adeguata e che invece mia moglie Claudia mi aiutò a comprendere quanto fosse fallimentare; e lo specifico perché ogni creazione cresce in primo luogo, lo si ammetta o no, nel confronto con chi ci è compagno di vita e con gli amici di cui si ha stima e fiducia. Avevo inizialmente pensato, infatti, alle immagini fotografiche di un disastro ambientale che ha colpito, nella seconda metà del Novecento, una vasta regione dell’allora URSS: il progressivo svanire del Lago Aral, oramai mutatosi in una desolata landa infestata spettralmente da centinaia di carcasse di navi in secca. Non era ancora uscito Absolutely nothing di Giorgio Vasta, ma la seduzione era la medesima, per intenderci. Non il vero vuoto, il terreno lunare, il mai toccato da mani umane (è il titolo di un altro membro della grande famiglia: Robert Sheckley, Urania 285, luglio 1962), bensì l’abbandonato, il residuale, ciò che fu affollato e vitale ed ora è silenzioso e sgombro.

Peraltro, quelli del morto bacino tra Uzbekistan e Kazakistan erano scatti facili da reperire sui motori di ricerca del web; avevano un forte impatto emotivo, come ogni relitto, specie navale; erano del tutto coerenti con l’ambientazione del mio romanzo (un esempio eloquente: fig. 5), che si svolge in un continente spopolato e desertificato. Nondimeno, l’effetto comunicativo di una copertina che inalberasse uno di questi scafi arrugginiti e insabbiati, più che evocare un ormai abusato immaginario alla Mad Max, avrebbe piuttosto suggerito un libro-reportage, un racconto di viaggio nelle vastità postsovietiche. Ma il mio romanzo non lo era, né aveva, almeno in origine, la denuncia dell’imminente disastro ambientale tra i suoi obiettivi. Guardandosi intorno, ci si rendeva conto che la strategia era sbagliata. L’editore trentino Keller, per esempio, che da alcuni anni sta pubblicando un catalogo molto orientato verso la narrativa di viaggio, e l’esplorazione di quella peculiare plaga neoweird da realismo magico postsovietico che è il grande mondo all’Est orfano del comunismo e dell’ex Unione Sovietica, stampa titoli magnifici con cover assai creative, e si guarda bene dal ricorrere a soluzioni simili. Perfino le opere postesotiche di Antoine Volodine non hanno mai avuto, nelle traduzioni italiane, prima per Clichy, poi per L’orma, fino a 66thand2nd, una veste tanto banale.

Nei primi anni Novanta il giovane me, lettore avido di Urania, aveva conservato nel proprio inconscio visivo-visionario soprattutto tre suggestioni potenti. La prima era la cosiddetta “tetralogia degli elementi” di James Graham Ballard (Vento dal nulla, Deserto d’acqua, Terra bruciata, Foresta di cristallo, fig. 6), dove meno contavano le motivazioni e persino le forme della catastrofe ambientale, e ben di più la reazione sgomenta, straniata, attonita, dei pochi sopravvissuti; era la nascita di una fantascienza psicologica, dove le esplorazioni degli spazi siderali lasciavano il posto agli abissi della psiche, e naturalmente lì si davano la mano Ballard con il Dick dei romanzi marziani. La scelta del mar d’Aral sarebbe stata estetizzante: Ballard e Dick mi avevano insegnato che la vera catastrofe era sempre interiore.

La seconda fonte, sempre di provenienza ballardiana, era il meno famoso ma per me assai impressionante – proprio nel senso dell’impressione fotografica – Ultime notizie dall’America (Urania 908, gennaio 1981; in originale Hello America, di cui esistono due edizioni in lingua originale con delle copertine perfette anche per Navi nel deserto, figg. 7-8), probabilmente il suo ultimo lavoro di SF pura, con una spedizione archeologica che si muove per un Nordamerica inaridito e derelitto da moltissimo tempo. Navi nel deserto inizia in un luogo a modo suo iconico, ossia un deposito di rottami, e per la precisione di auto abbandonate, i cumuli delle quali emergono appena dalla superficie di sabbia. Discariche più desertificazione erano già un topos, specie nel cinema americano, e tuttavia il tempo a venire si sarebbe incaricato di renderlo sempre meno figurale e sempre più concreto. Non potevo certo supporlo, nel ’92, quando iniziai Navi, ma pochi anni dopo Don DeLillo avrebbe dedicato uno dei suoi capolavori al paesaggio più drammaticamente attuale dell’Antropocene, il mondo in continua crescita dei rifiuti (parlo di Underworld, ovviamente).

Ha scritto di recente Matteo Meschiari, nel suo Neogeografia (Milieu, 2019): «I segnali della fine sono leggibili in tutte le coste che vengono sommerse, nell’acqua marina che s’infiltra nei campi coltivati, nel permafrost che si scioglie e gonfia di metano l’Artico e l’atmosfera, e nella gente, che migra dalle guerre della fame e della siccità. Segnali solo per gli altri: “per ora non tocca a me”. Invece Amitav Ghosh si chiede come sia possibile che il mondo in dissoluzione e il collasso imminente restino fuori anche da un’altra società, così incapace di pensarli, quella degli scrittori. Romanzi di città, di famiglie, di malattie, di idee morali, di borghesie tacitate e refrattarie… ma quanti di questi romanzi includono in sé il collasso, l’apocalisse in atto, la sete che verrà, i deserti che ci attendono?»
C’era infine, terzo ingrediente, l’opera di uno scrittore francese estremamente dotato, Serge Brussolo, di cui la collana mondadoriana pubblicò sei titoli, tutti notevolissimi, tra il 1987 e il 1990; era Sonno di sangue (Sommeil de sang, 1982, Urania n. 1104, fig. 9; qui, si noti, Thole è stato già sostituito da Vicente Segrelles, il creatore del Mercenario, un fumetto che segnò la nascita e l’estetica, in Italia, de «L’Eternauta») e mi regalò l’ambientazione, vagamente esotica e arabeggiante, di città fortificate costruite su rupi in mezzo al deserto, che si adagiava elegante sulla mia lettura delle novelle persiane.

Una fotografia, dunque, per quanto potente, non era la soluzione. Si poneva un problema serio di atmosfera. Claudia, di nuovo, mi suggerì la direzione giusta. Ci voleva un pittore, e uno in particolare si offriva egregiamente alla bisogna: il pittore forse più implicato nella prosa del Novecento italiano, protagonista e coautore di almeno tre capolavori come Ascolto il tuo cuore, città di Alberto Savinio, Retablo di Vincenzo Consolo e Le pietre volanti di Luigi Malerba: Fabrizio Clerici.

Ci venne subito in mente un dipinto in particolare di Clerici, Venezia senz’acqua (1955, fig. 10) che in qualche modo parlava la lingua della mia visione. E tuttavia Clerici, che nessuno mi toglie dalla mente abbia ispirato la serie delle vedute metafisiche di Moebius con Venezia senz’acqua, mancava, proprio rispetto a Moebius, di un ingrediente ancora essenziale. La neometafisica luttuosa e degradata di Clerici incontrava un aspetto tonale del romanzo, ossia la sua volontà stilistica di suonare inattuale, di parlare una lingua chiaramente non orale e non immediatamente comunicativa, di evocare un metodo mitico nella formazione delle immagini e delle scene, tuttavia avvertivo oscuramente che non verso le sale di un museo – il luogo in cui Clerici non ha mai smesso di abitare – bensì verso un cinema mentale, naturale, come l’avrebbe definito Celati, avevo inteso muovermi. E il mio cinema mentale, naturale – così come quello, azzardo, di una intera generazione nata all’inizio dei Settanta – aveva la sua sala originaria, archetipica, in una sede ancora cartacea, ossia tra gli Urania e le riviste di fumetti, con in più la televisione che ospitava i primi anime nipponici, e il paesaggio, imprescindibile per noi allora, e saccheggiato senza pietà decenni dopo dalla Disney, del primo Star Wars (non a caso, ancora un mondo di sabbie e rottami).

Insomma, occorreva sì un artista, un grafico, ma qualcuno dotato di un segno più prossimo a quello del fumetto che all’accademismo solenne di un Clerici, e semmai capace di parlare la lingua degli Umanoidi Associati, i quali fin dagli anni Settanta introdussero il repertorio onirico delle avanguardie, in particolare del Surrealismo, sulle riviste “per ragazzi”, e probabilmente influenzarono in qualche misura anche la stessa concezione di Lucas.
Samuele Grassi, mio vecchio amico e sodale di avventure artistiche, aveva precisamente quella cifra, e da qualche anno la stava esplorando con una serie di tavole (si veda il suo sito, www.samuelegrassi.it) dedicate alla nostra Rimini, a una Rimini sommersa, come tristemente sta già avvenendo in forma di prove generali, in più popolata di mostri alieni o preistorici (fig. 11). La prima illustrazione realizzata per me da Samuele citava molto esplicitamente Arzach, ma ancora non avevamo trovato la quadratura del cerchio, come si suol dire, e qui più che mai a proposito. Bontà loro, Roberto Maggiani e Giuliano Brenna, ossia Il ramo e la foglia, suggerirono di riequilibrare l’ironia di quell’immagine demo, e la sua apertura a larghissimo campo (fig.12), con un elemento forte: l’oblò, appunto, che significa mare, scafi, e si lega all’altro elemento essenziale del mio romanzo, cioè la diretta dipendenza dal magnum opus conradiano, trapiantato in un contesto futuribile. L’oblò fece riemergere immediatamente la memoria di Urania. Eccola, la quadratura del cerchio.

Non erano più gli Urania con i «rombi», dettaglio grafico su cui si conclude il racconto di Mari – che però è un classe 1955, e non poteva non rimanere prigioniero, lui che della sua infanzia non si è mai liberato, di una veste cessata quando Michelino aveva grossomodo nove anni – ma senza dubbio il convergere su quella collana contiene un segno dei tempi valido anche per noi venuti più tardi, e forse per ultimi, giacché proprio il successo mondiale di Star Wars affossò la SF come genere da leggere, e la spostò definitivamente nel business dei blockbuster e degli effetti speciali della Industrial Light & Magic.

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Nomadi letterari nello spazio liscio https://www.carmillaonline.com/2023/06/11/nomadi-letterari-nello-spazio-liscio/ Sun, 11 Jun 2023 20:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77627 di Paolo Lago

Luigi Weber, Navi nel deserto, Il ramo e la foglia, Roma, 2023, pp. 370, euro 19,00.

Navi nel deserto di Luigi Weber mette in scena una peculiare e interessante rappresentazione letteraria dello spazio liscio (il deserto solcato dai nomadi) e dello spazio striato (quello sedentario della città) di cui parlano Deleuze e Guattari in Mille Piani: secondo i due studiosi, infatti, il nomade forma il deserto non meno di quanto il deserto formi lui, dal momento che lo stesso nomade appare come un “vettore di deterritorializzazione”. Egli aggiunge il deserto [...]]]> di Paolo Lago

Luigi Weber, Navi nel deserto, Il ramo e la foglia, Roma, 2023, pp. 370, euro 19,00.

Navi nel deserto di Luigi Weber mette in scena una peculiare e interessante rappresentazione letteraria dello spazio liscio (il deserto solcato dai nomadi) e dello spazio striato (quello sedentario della città) di cui parlano Deleuze e Guattari in Mille Piani: secondo i due studiosi, infatti, il nomade forma il deserto non meno di quanto il deserto formi lui, dal momento che lo stesso nomade appare come un “vettore di deterritorializzazione”. Egli aggiunge il deserto al deserto, la steppa alla steppa, in un movimento continuo di deterritorializzazione. L’azione narrativa si svolge in uno scenario fantastico e distopico, una Terra del futuro simile al pianeta Arrakis di “Dune”, ricoperta da un unico immenso deserto. Qui, su delle piste appositamente costruite, si muovono le “Navi”, dalla forma tradizionale ma dotate di ruote, descritte come giganteschi mostri metallici che ci fanno pensare a enormi mercantili o portacontainer e che possono rimandare all’immaginario steampunk degli ‘anime’ di Hayao Miyazaki (ricordiamo Il castello errante di Howl ma anche Conan, il ragazzo del futuro, in cui vediamo la grigia metropoli Indastria e cupe navi di ferro). Le navi seguono un vero e proprio “tragitto nomade” il quale, come scrivono Deleuze e Guattari, agisce in modo contrario al percorso sedentario perché “distribuisce gli uomini (o gli animali) in uno spazio aperto, indefinito, non comunicante”.

A bordo delle navi ci sono i “Mobili”, cioè coloro che hanno abbandonato la vita sicura e stanziale delle rocche, città cinte da alte mura che sorgono nell’immensa spazialità del deserto. Se quest’ultimo è lo spazio liscio abitato dai nomadi, le rocche sono lo spazio striato irrigidito nel rispetto del nomos, della legge geometrica creatrice di griglie e divieti. Le rocche sono dominate da un greve pensiero oscurantista che considera turpe e squallida la vita dei naviganti, i “Mobili” che come nomadi si spostano continuamente nello spazio liscio del deserto. Le città, arroccate nel loro sistema chiuso, sono l’emblema dell’economia e del commercio, dalla quantificazione monetaria dell’esistenza: “Da buoni commercianti quali sono, i Cittadini parlano, e pensano, il linguaggio dell’equivalenza, della chiara quantificazione monetaria”. Irrigiditi nelle aride leggi dell’economia e del mercato, essi non possono fare altro che odiare chi conduce una vita libera e fuori dalle regole come i Naviganti ma soprattutto chi – pure se stanziale – vive al di fuori dello spazio striato delle rocche: gli abitanti delle Oasi. Sarebbe meglio dire le abitanti perché le Oasi sono popolate soprattutto dalle “Isolane”, donne e ragazze che scelgono una vita fuori dalla convivenza e dal matrimonio: proprio per questo sono viste come pericolose sovvertitrici dell’ordine morale “giacché si sa che le donne sono naturalmente madri e mogli, e che senza una prole da allevare e un marito a cui obbedire la vita femminile è del tutto priva di senso”. E quando le “isolane” vengono accolte all’interno della rocca di Banka, per salvarle dal pericolo delle razzie piratesche, la stanza che le accoglie, nell’ottica dei funzionari cittadini, si trasforma in un “antro” saturo di un’atmosfera “molle e corrotta, tentatrice”, che si oppone alle linee rette dell’ordine cittadino; un antro che accoglie ingannevoli e “orride” “sirene”. Perché, se il deserto e i suoi abitatori sono esteticamente connotati dalla sinuosità delle forme circolari e dalla difformità delle dune, le rocche sono intrappolate in rigide forme geometriche.

L’impianto avventuroso su cui è costruito questo interessante romanzo di Weber non poteva d’altronde escludere la presenza dei pirati, appartenenti a una lunga tradizione letteraria e cinematografica. Lungi dall’essere solamente personaggi leggendari appartenenti alle Terre del Nord (secondo voci diffuse nelle rocche), i pirati, efferatissimi e sanguinari, irrompono, sotto la guida del terribile capitano Schomberg, nel lembo di deserto in cui si svolge l’azione narrativa. Guardando alla tradizione letteraria piratesca, è possibile rilevare alcune somiglianze fra i pirati di Navi nel deserto e quelli della Trilogia dei pirati di Valerio Evangelisti e, nella fattispecie, di Tortuga (2008), primo romanzo della trilogia. In quest’ultimo, i pirati, al comando del diabolico capitano De Grammont, rappresentato come un oscuro demone infernale capace di inenarrabili efferatezze, compiono crudeli torture sui nemici vinti. Schomberg e De Grammont hanno in comune non soltanto una crudeltà che si spinge al di là di qualsiasi immaginazione (le torture descritte in Navi nel deserto lasciano iperbolicamente senza fiato) ma anche una raffinatezza e un’eleganza nel portamento e nell’aspetto che sembra stridere con l’immagine dei pirati come rozze belve assassine assetate di sangue. I comandanti pirata possiedono una “nobiltà di spirito” che sembra ignota ai cinici e meschini funzionari delle rocche.

Il romanzo possiede inoltre un suggestivo e affascinante impianto ipertestuale in quanto rimanda all’universo letterario di Joseph Conrad. Se nel corso delle vicende incontriamo spesso personaggi che portano il nome di quelli conradiani (da Jim a Mahon e Kurtz), una figura chiave del racconto si chiama proprio Joseph Conrad, il capitano, fresco di nomina e con poca esperienza, della nave Kairos. Conrad assume delle connotazioni particolari perché non appartiene all’universo dei naviganti ma è l’abitante di una Rocca che ha scelto di abbandonare la sedentarietà degli spazi striati per darsi interamente allo spazio liscio del deserto. Conrad appare come una figura di transizione, non appartiene interamente a nessun contesto sociale, né a quello dei Naviganti né a quello dei sedentari e neppure a quello delle Oasi. Egli è l’espressione del “pensiero del fuori” come è teorizzato da Foucault e da Deleuze e Guattari: secondo questi ultimi, mettere il pensiero in rapporto immediato con il “fuori” e con “le forze del fuori” può contribuire a fare del pensiero stesso una “macchina da guerra” che agisce contro l’irreggimentazione sedentaria delle leggi e dei divieti. D’altra parte, il piccolo Conrad, durante la sua vita nella città, ascoltava la madre che gli insegnava a non aver paura dei Naviganti, generalmente considerati come mostri o demoni infernali: “Guardali bene la prossima volta, sono gente come noi… hanno solo scelto una vita diversa, e non è né migliore né peggiore. Anche nelle Città ci sono persone che si comportano molto bene o molto male, cosa ti credi?”.

In relazione alla presenza dell’ipotesto conradiano, Navi nel deserto – che passa spesso dalla modalità narrativa in prima persona alla terza persona del racconto più freddo e distaccato – presenta una suggestiva citazione di una sequenza narrativa di Il compagno segreto (The Secret Sharer, 1909) nel momento in cui Conrad, di notte, sul ponte, incontra un misterioso personaggio in fuga che gli chiede di essere nascosto sulla propria nave. Senza svelare ulteriormente la trama, si può affermare che questo incontro è modellato su quello presente nel racconto conradiano: un incontro notturno fra il giovane capitano al suo primo comando e il misterioso Leggat, un ufficiale di una nave inglese in fuga che sale di notte sull’imbarcazione del protagonista io narrante. Sia in Il compagno segreto che in Navi nel deserto, il capitano della nave si trova alla sua prima esperienza di comando, in un ambiente in cui gli altri membri dell’equipaggio sono invece più esperti e stanno insieme da lungo tempo. Inoltre, in entrambi, una inquietante somiglianza fisica (che finisce per sfiorare le ossessioni del doppio) accomuna il giovane capitano e il misterioso fuggitivo.

La letterarietà del romanzo emerge in modo interessante anche nella sua capacità di passare disinvoltamente da uno stile all’altro: nell’istanza narrativa tradizionale sono inseriti spesso lacerti di intonazione più poetica, dalle tonalità elegiache ma anche e soprattutto brani in cui emerge uno stile a pastiche che libera un linguaggio dalle tinte arcaiche e parodistiche. Ad esempio, in un momento di forte tensione, in cui Conrad e i suoi ufficiali sono impegnati a cercare una via di fuga per allontanarsi da un imminente attacco dei pirati, il misterioso ospite, nascosto nella cabina del capitano, inizia a leggere un vecchio libro nel quale si trova una storiella salace e piccante (che può ricordare la novella del fanciullo di Pergamo del Satyricon di Petronio) che, con uno stile dall’impianto parodico, racconta i sotterfugi erotici fra un falegname e una ragazzina, coperti dalla complicità del fratello. Si potrebbe anche pensare all’impianto di carattere milesio e boccaccesco che pervade la narrazione di L’imitazion del vero di Ezio Sinigaglia, in cui Mastro Landone, per mezzo dell’inganno, riesce a godere delle grazie del giovane Nerino.

Anche la novella inserita appare come un’espansione del “pensiero del fuori” di cui si è parlato, macchina da guerra nomade che sfugge ad ogni tentativo di inquadramento poiché perennemente in transizione. In un momento di estrema tensione ed angoscia (la paura per un imminente attacco dei pirati), il libretto trovato dal misterioso ospite squaderna una narrazione en abîme che si pone in netta antitesi con il racconto primario: la novella salace sembra provenire dal “fuori” e rappresenta una magica via di fuga dall’angoscia, dal pericolo e dalla paura. È il “fuori”, è l’“Esterno” che nell’ottica dei cittadini rappresenta solo distruzione e morte ma che in realtà è l’espressione più diretta dello spazio liscio perché, persino di fronte a Schomberg, quando scende dalla nave e si avventura nell’Oasi, “l’Esterno era terribile: non si lasciava ghermire, non si inginocchiava, non lacrimava né supplicava, non soffriva. L’Esterno si faceva beffe della sua volontà, occhieggiava dappertutto eppure sfuggiva tra le dita”. E dall’Esterno sembra provenire anche la narrazione di Navi nel deserto, intrisa di una dimensione letteraria che spalanca porte a svariati generi, dal fantasy all’avventura e alla fantascienza, che rifugge gli incasellamenti e gli stili definiti. Una narrazione che apre al fascino dell’avventura e allo spazio liscio solcato da indomiti e liberi Naviganti letterari.

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Nodi alla gola https://www.carmillaonline.com/2022/03/19/nodi-alla-gola/ Sat, 19 Mar 2022 22:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71103 di Ezio Sinigaglia

[Questo testo è tratto dal recente romanzo di Ezio Sinigaglia Fifty-fifty. Sant’Aram nel Regno di Marte, Terrarossa Edizioni, Bari, 2022 (pp. 90-92), qui preceduto da una nota introduttiva di Luigi Weber.

Si fa un gran parlare di Terrarossa edizioni, di questi tempi, ed è giusto, anzi un bene. Tre titoli formidabili di Ezio Sinigaglia (il quarto in libreria dal 24 febbraio) nel giro di due anni; un libro – La casa delle madri, di Daniele Petruccioli – che riesce, con merito, a entrare nella dozzina dello Strega; la riproposta, con un nuovo [...]]]> di Ezio Sinigaglia

[Questo testo è tratto dal recente romanzo di Ezio Sinigaglia Fifty-fifty. Sant’Aram nel Regno di Marte, Terrarossa Edizioni, Bari, 2022 (pp. 90-92), qui preceduto da una nota introduttiva di Luigi Weber.

Si fa un gran parlare di Terrarossa edizioni, di questi tempi, ed è giusto, anzi un bene. Tre titoli formidabili di Ezio Sinigaglia (il quarto in libreria dal 24 febbraio) nel giro di due anni; un libro – La casa delle madri, di Daniele Petruccioli – che riesce, con merito, a entrare nella dozzina dello Strega; la riproposta, con un nuovo titolo, di That’s (im)possibile di Cristò Chiapparino (ora Uno su infinito), e altri due suoi volumi in catalogo; in tutto una ventina di pubblicazioni, con una grafica sempre azzeccata, molto agile e contemporanea, inconfondibile, servite da una strategia di comunicazione eccellente. E da poco è arrivato anche Pensa il risveglio, il nuovo di Alessandro Cinquegrani, studioso e critico di grande finezza che ha dato buona prova di sé anche come narratore. Un direttore editoriale, Giovanni Turi, che sembra non sbagliare un colpo – anche Binari di Monica Pezzella e Qui non crescono i fiori di Luca Giordano hanno ottenuto in rete molta attenzione; ben sopra la media per un editore indipendente – e ci auguriamo continui così a lungo. Un progetto ardito: dividere in due la sua scuderia tra i “Fondanti”, ossia testi di pregio del passato che vanno recuperati (su tutti, la riproposta del Pantarèi di Sinigaglia, anno 1985), e gli “Sperimentali”, libri che nascono oggi con la volontà di guardare al domani, non solo al brevissimo domani che i libri vivono sugli scaffali dei negozi prima di essere sostituiti dai nuovi arrivi.
Nel 2021, drammatico per l’editoria come per tutta la società, schiacciata dall’emergenza pandemica, e al contrario fecondo per gli scrittori, a segnalare la salute della nostra narrativa ci ha pensato l’uscita di almeno tre romanzi singolari, quanto mai diversi tra loro, che sembrano quasi comporre uno stemma araldico, una Rota Vergilii degli stili: Ultimo parallelo di Filippo Tuena (il Saggiatore), che torna ai lettori, dopo l’edizione 2007 e 2013, con una preziosa prefazione-manifesto e un’appendice di testi inediti, e che per l’altezza della scrittura potremmo considerare emblema dello stile sublime o elevato; il tragico, insomma, non solo per il racconto della tragedia di Scott e dei suoi al Polo, quanto perché quella tragedia si innerva della Waste Land di Eliot, ne germina come un’arborescenza, e diventa un racconto di fantasmi sull’esplorazione di un Altrove che non è l’Antartide ma la scrittura.
C’è poi Le ripetizioni di Giulio Mozzi (Marsilio), l’opera che ha turbato e disturbato di più, di cui si è detto e scritto di più, in questi mesi, e non sempre a proposito; a dispetto di una costruzione calibrata, complessa e disorientante, che tende al disfacimento piuttosto che alla ricomposizione, è un romanzo dalla voce apparentemente dimessa e colloquiale, e a me pare emblema dello stile medio, ossia dell’elegiaco; il libro è davvero un’elegia, perché più di tutto è dedicato all’assenza: assenza della memoria, assenza dell’identità.
Infine, il registro umile o comico: Fifty-fifty. Warum e le avventure Conerotiche di Ezio Sinigaglia (Terrarossa), che è dove volevamo fin dall’inizio andare a parare.
Intendiamoci: quando parliamo di registro umile stiamo continuando in questa, certo un po’ tendenziosa, certo un po’ pretestuosa, chiave di lettura della ruota degli stili, e non intendiamo dire che l’ultimo nato in casa Sinigaglia sia un libro comico, sebbene non latiti in esso un’ampia dose di divertimento, bensì che alla sua sfrenata invenzione stilistica presiede il più basso, ma solo perché più capiente, più metamorfico, più inclusivo, grado degli stili, o meglio ancora l’unico che sia in grado di tollerare la coesistenza di tutti gli altri, e peraltro di “opera-mondo umoristica” ha parlato lo stesso Sinigaglia in un’intervista in rete qualche tempo fa.
Che Sinigaglia fosse un virtuoso del pastiche era cosa nota, messa in mostra a mo’ di esibizione di poetica inattuale dal Pantarèi, e confermata dal delizioso L’imitazion del vero, dove al tour de force novecentesco del primo romanzo si sostituiva una perfetta imitazione, appunto, a partire da lingua e stile, di una novella post-boccaccesca non poco licenziosa. In entrambe le opere, la nota distintiva di questo autore così multiforme rimaneva la grazia, e le cose non cambiano con il primo volume di Fifty-fifty.
Molte altre cose avrei voluto dire, su questo libro, e magari più avanti dirò, se a qualcuno dovessero interessare, ma oggi mi limito a riprendere, a contrasto spero proficuo, le parole dolenti di due degli autori convocati: Filippo Tuena, che osserva che vi sono giorni in cui parlare di libri è superfluo, e Giovanni Turi, che annunciando l’uscita del secondo volume di Fifty-fifty scrive “Strano caso che esca proprio oggi un libro che irride il militarismo e ne denuncia i pericoli, FIFTY-FIFTY. SANT’ARAM E IL REGNO DI MARTE”. Strano ma in fondo proficuo. Perché il comico è arma dell’intelligenza e strumento della critica, le sole armi che ha senso usare. Anche contro i momenti tragici in cui le armi le imbracciano davvero, e non lontano da noi. (Luigi Weber)]

Il colonnello Psycho […] risiedeva in caserma, con moglie e figli, in un appartamento di cui si favoleggiava che custodisse la statua di bronzo, a grandezza naturale, di un fante assaltatore del nostro glorioso reggimento, plasmato dall’artista nell’atto di restituir l’anima alla Patria, per perfida granata d’obice austroungarico, sul cruento altipiano di Bainsizza. In memoria delle macellerie del Diciassette sull’infausto Isonzo, noi tutti, dal colonnello Psycho fino a Pisolo, ci annodavamo al collo una cravatta rossa. Rosso sangue. Un simbolo che trattavo con riguardo, con un misto di pietà e di orrore. Non sottovaluto mai i simboli. Sono lì apposta per esser valutati: per quel che sono: simboli, cioè rappresentanti plenipotenziari della cosa. La cravatta rossa per me restava sangue, per quanto si fosse coagulato in una striscia di tessuto. Ogni giorno, davanti allo specchio del mio bagno, mi osservavo chiazzarmi la camicia dei palpitanti eritrociti di un povero fantolino del Novantanove. Non ne provavo orgoglio. Solo pena. Arterie gettate via anzitempo, con dolore. Sacrificate all’imbecillità che si perpetua. Proterva, immarcescibile. Alla tracotante idiozia che, dopo morta, si fa strada e piazza e monumento. Mentre l’innocenza non può farsi che cravatta. Nodo alla gola.

Psycho abitava in caserma, con la famiglia, nel suo appartamento privato. Non per amor della cravatta, dei fanti e delle diane. Per risparmiar l’affitto, va da sé. Precauzione comprensibile. Ma da me non condivisa. Io dormivo fuori. Eppure non c’è dubbio che amassi diane e fanti più di lui. Quanto alla cravatta, almeno, mi pesava un poco, mi s’incendiava subitanea nello specchio come una vergogna nazionale. La portai sei mesi. Ne avevo due. Quella d’ordinanza, dozzinale, povera, di terital divenuto traslucido col tempo, con la pioggia e col sole: sangue vivo. Una seconda, di maglia di lana, dalle punte squadrate, corta all’ombelico, di un rosso opaco, leggermente spento: sangue antico. All’atto del congedo, non sapevo che farmene. Era da escludere che potessi portare una cravatta rossa, per il resto della vita. Progettai di versarle in due provette, ben tappate, di conservarle, di proteggere dall’oblio quei palpiti innocenti di due fantolini del Novantanove. Ma, nel complesso, sopravvalutare i simboli non è meno oltraggioso che sottovalutarli. Preferii sciogliere i due nodi, per sempre, e regalare le cravatte a chi restava. Comunque, finché prestai servizio a Palmanova, la trattai con rispetto, la cravatta, con il rispetto dovuto agli organismi naturali. Non avevo rispetto per nulla, in quei mesi sarcastici e ribelli, fuorché per i ragazzi e la cravatta. A volte l’una e gli altri entravano in un tenero conflitto. Quando mi spogliavo per far l’amore, nascondevo quel filo di sangue secco in un cassetto, o in una tasca. Il mio fluiva, rigoglioso come mai. Non volevo che il suo, dalla sua siccità, invidiasse la mia piena. Chissà se il fantolino del Novantanove, assassinato dai suoi Psycho a diciott’anni, aveva mai fatto l’amore? A volte, invece, nelle mie insonnie trepide e ispirate, nella penombra della tana soffice, gonfia di mormorii come il mio cuore, il nastro rosso si stagliava all’improvviso sulla notte come la traccia di un delitto. Gocciolava, dalla spalliera della sedia, dalla schiena della giacca. Mi ricordavo d’essere soldato. Assassino potenziale. Addirittura candidato comandante di un plotone di morti o di assassini. Ero un simbolo anch’io, non solo la cravatta! Un simbolo vivente, minaccioso. Scendevo per le pendici dell’altipiano in rivoletti rossi, sprizzavo dall’Isonzo, infelicissimo fra i fiumi. Ero la guerra, ufficialmente. Ero l’idiozia, la follia, la tracotanza che si perpetuavano. Era opportuno che il mio nodo alla gola me lo rammentasse, di tanto in tanto: giocavo un gioco sporco, anche se molto più divertente del previsto.

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