Luigi Magni – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 30 Oct 2025 21:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Estetiche del potere. Visibilità televisiva ed invisibilità cinematografica del potere politico italiano https://www.carmillaonline.com/2017/03/07/31133/ Mon, 06 Mar 2017 23:01:36 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=31133 di Gioacchino Toni

pot_0012Sappiamo come grazie alla televisione i politici entrino nelle case degli italiani e, mettendosi in scena, si rendano perennemente visibili, ma come sono rappresentati sul grande schermo i potenti nazionali?

In generale il cinema italiano, quando ha inteso confrontarsi col potere, tendenzialmente ha finito piuttosto col mettere in scena la sua invisibilità lasciando alla televisione, sopratutto negli ultimi decenni, il compito di renderlo visibile.

Ripercorrendo la storia della produzione cinematografica italiana uno degli autori che più direttamente ha indagato la visibilità del potere è sicuramente Roberto Rossellini che nel celebre [...]]]> di Gioacchino Toni

pot_0012Sappiamo come grazie alla televisione i politici entrino nelle case degli italiani e, mettendosi in scena, si rendano perennemente visibili, ma come sono rappresentati sul grande schermo i potenti nazionali?

In generale il cinema italiano, quando ha inteso confrontarsi col potere, tendenzialmente ha finito piuttosto col mettere in scena la sua invisibilità lasciando alla televisione, sopratutto negli ultimi decenni, il compito di renderlo visibile.

Ripercorrendo la storia della produzione cinematografica italiana uno degli autori che più direttamente ha indagato la visibilità del potere è sicuramente Roberto Rossellini che nel celebre La presa del potere da parte di Luigi XIV (1966) esplicita come la forza del Re Sole risieda nelle immagini che lo rappresentano; egli è il polo di attrazione dello sguardo della sua corte. Il film mostra come il potere del re risieda nella suo essere visibile sempre ed ovunque, anche grazie alla sua effige sulle monete. Nell’opera rosselliniana il potere non si esplica per via impositiva ma rendendo desiderabile ai sottoposti l’essere ammessi al suo cospetto ed il far parte del suo cerimoniale.

Un’ottima riflessione circa le modalità con cui la cinematografia nazionale ha affrontato i potenti la si ritrova all’interno del monumentale saggio Lessico del cinema italiano (a cura di Roberto De Gaetano), Volume II (Mimesis, 2015) [su Carmilla]  grazie allo studioso Gianni Canova che, nell’occuparsi proprio della voce “Potere” riferita al cinema italiano, indica nel film Bella addormentata (2012) di Marco Bellocchio una delle più lungimiranti riflessioni su di esso realizzate in Italia all’inizio del nuovo millennio.

In questo film i politici italiani sembrano totalmente delocalizzati; vagano «fra l’etere e il nulla» e, secondo lo studioso, soltanto nella scena in cui si mettono in posa per la foto istituzionale davanti ad uno schermo che mostra immagini di manifestazioni della loro formazione politica e del loro leader, «essi sentono in qualche modo di inverarsi, di uscire dall’indeterminatezza, dalla mancanza di ruolo e di identità. Ma nello stesso tempo, così facendo, trasformano i loro corpi in schermo, e fanno di sé il luogo in cui le immagini si manifestano e si concretizzano» (p. 429).

Secondo Canova questa sequenza «ci dice come i corpi “veri” non siano che il supporto su cui far vivere le immagini. Non sono più – come nel Novecento – il profilmico che lascia traccia e impronta di sé nell’immagine filmica, ma – molto più radicalmente – il supporto senza cui le immagini non sarebbero visibili. Detto altrimenti: i corpi non generano le immagini, le accolgono» (p. 429). Il film suggerisce come il potere sembri ormai risiedere «nell’ibrido generato dal connubio fra corpi e immagini, e come proprio lì, e solo lì, si materializzi la possibilità di incontrare e di vedere ciò che il potere è diventato, e di riconoscere le maschere con cui si nasconde, e di capire il gioco con cui colonizza i corpi per far vivere se stesso nelle immagini che lo costituiscono e, al tempo stesso, lo inverano» (p. 430).

Il cinema italiano sembrerebbe aver affrontato il potere politico a partire da un’idea negativa; esso viene tratteggiato come qualcosa che ha a che fare con l’inganno, l’intrigo, il complotto ed i suoi uomini tendono ad essere rappresentati come maschere grottesche e/o dispotiche. Nel corso del Ventennio fascista, Mussolini è riuscito ad occupare la scena tanto nel “paesaggio reale” che nell’immaginario degli italiani «non solo e non tanto esercitando il potere, quanto piuttosto recitandolo» (p. 435), ed il cinema in tutto ciò ha avuto un ruolo fondamentale. L’arma cinematografica lo ha spesso presentato come figura monumentale circondata da gerarchi o dalla folla. Se per il Re Sole di Rossellini «la conquista del potere coincide con la conquista dell’immagine», dunque si rende necessaria l’espulsione dei sudditi dall’inquadratura, nel caso di Mussolini, invece, è necessario il bagno di folla; «Il duce si fa ritrarre fra la gente. Vuole che il cinema mostri il popolo che lo guarda. L’atto del guardare il duce (e dell’ammirarlo, adorarlo, apprezzarlo) fa parte dello spettacolo» (p. 437). Canova propone alcuni esempi di come il registro della visibilità non rappresenti però l’unica strategia di raffigurazione del potere da parte del fascismo; nel film Camicia nera (1933) di Giovacchino Forzano, ad esempio, l’immagine di Mussolini è soltanto evocata, la sua presenza è avvertita, anche grazie al sonoro, ma non si vede.

Nel dopoguerra il confronto del cinema italiano con il potere politico diviene difficile, per certi versi è come se i registi non trovassero il modo di rappresentarlo in un sistema democratico. «Per il cinema italiano del dopoguerra – quanto meno, per la maggior parte di esso – il potere reale è quasi sempre osceno: agisce cioè – letteralmente – fuori scena, si esercita al di là della sfera del visibile […] Si preferisce inseguire una visione del potere come Leviatano nascosto, come Moloch crudele, come rete invisibile di interessi e di complicità […] Il potere è opaco. Resiste allo sguardo. Non si lascia osservare» (pp. 441-442).

pot_001Nella cinematografia nazionale non di rado il potere è stato messo in scena attraverso i luoghi in cui si manifesta e, non di rado, maggiore è la visibilità dei luoghi, minore è la sua visibilità. Canova porta come esempio di totale identificazione tra potere e luogo in cui risiede L’ultimo imperatore (1987) di Bernardo Bertolucci. In questo caso «la Città Proibita suggella un’idea di potere come dispositivo separato e distaccato dal luogo in cui si esercita: il potere dell’imperatore infatti risiede nel palazzo, ma si esercita fuori da esso, in un “fuori” di cui l’imperatore non solo non ha accesso, ma non ha neppure conoscenza e visione: quando l’avrà, ciò implicherà automaticamente anche la perdita del potere» (p. 443). Nella Città Proibita di Bertolucci non è il potere ad essere spettacolo per la corte, come avveniva nel Re Sole di Rossellini, ne L’ultimo imperatore il potere diviene spettatore dello spettacolo organizzato dalla corte per lui.

Marco Ferreri nel film L’udienza (1972) tratta la questione dell’invisibilità del potere attraverso la storia di un individuo ossessionato dal voler parlare col pontefice che, in tutto il film, non si vede mai se non attraverso immagini televisive. In lungometraggi come questo è ai palazzi del potere che spetta il compito di surrogare l’invisibilità del potere.

Anche le scenografie giocano un ruolo importante nel cinema italiano che intende rappresentare il potere; sono diversi i film in cui esso si esprime attraverso la scenografia, si esprime mettendosi in scena, allestendo la propria visibilità, come avviene ad esempio in Galileo (1968) di Liliana Cavani ed In nome del Papa Re (1977) di Luigi Magni.

In diverse opere, ricorda lo studioso, al potere si allude ricorrendo a figure allegoriche. Nel film Il potere (1972) di Augusto Tretti il potere, nelle sue diverse articolazioni, si nasconde dietro le maschere di belva indossate da tre personaggi, in Prova d’orchestra (1979) di Federico Fellini il compito allegorico è affidato ad un grande maglio che entra in scena sul finale distruggendo tutto, mentre, in Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini, è la villa degli orrori a funzionare da ambientazione in cui si muovono i quattro notabili della Repubblica Sociale Italiana. In questo ultimo caso il film suggerisce come il potere politico prenda forma e si strutturi nel rituale e nelle relazioni «che i quattro potenti inscenano nella villa con l’aiuto delle loro vittime, ma anche dei collaborazionisti, dei servi e delle meretrici da bordello che fungono da narratrici» (p. 452).

Nel suo contributo a Lessico del cinema italiano, Canova traccia una “mappa tipologica” dei potenti messi inscena nel cinema nazionale. La prima tipologia individuata è quella “dell’affarista cinico” ed a tal proposito viene citato il lungmetraggio Le mani sulla città (1963) di Francesco Rosi come opera che mostra come il fine ultimo del potente sia la conservazione e la perpetuazione del proprio potere.

Una seconda tipologia viene indicata nel “corrotto corruttore” ed in questo caso lo studioso porta come esempio Il portaborse (1991) di Daniele Luchetti, film che sottolinea come il potere sia tale anche grazie a chi ne è privo.

Come terza tipologia Canova indica quella “dell’astuto naïf” facendo riferimento a film come Benvenuto Presidente! (2013) di Riccardo Milani, Viva la libertà (2013) di Roberto Andò e Viva l’Italia (2012) di Massimiliano Bruno che suggeriscono come soltanto i personaggi ingenui siano oggi in grado di conferire al potere credibilità.

La quarta categoria individuata dallo studioso è quella del “mellifluo untuoso” ed il film Todo modo (1976) di Elio Petri viene segnalato come uno dei pochi esempi in cui, in un sistema democratico, il popolo (lo spettatore) venga indicato come sostanzialmente responsabile del potere che ha contribuito a creare.

Come quinta tipologia viene indicato “l’insabbiatore mimetico”, figura esemplarmente interpretata da Ugo Tognazzi in uno degli episodi de I mostri (1963) di Dino Risi, in cui, dietro alla maschera di devota rispettabilità del potere, si cela la capacità di farla franca sempre e comunque.

“Il pharmakon grottesco” rappresenta una sesta tipologia e qua Canova, oltre ai classici Vogliamo i colonnelli (1973) di Mario Monicelli ed Il federale (1961) di Luciano Salce, si sofferma sulla figura interpretata da Antonio Albanese nei film diretti da Giulio Manfredonia Qualunquemente (2011) e Tutto tutto niente niente (2012). A proposito di tale personaggio lo studioso afferma che «Nella sua opulenza cafona, Cetto La Qualunque non è solo un monumento alla volgarità italiana. È un pharmakon, o un parafulmine. Scarichiamo su di lui tutta la negatività che ci insidia e ci assedia. Ce ne liberiamo. Forse, nel vuoto sospeso del raccapriccio che ci si insinua sotto la pelle, quando ridiamo compiamo un esorcismo. E ci assolviamo dal timore di essere anche noi come lui» (p. 465).

La settima categoria indicata è quella del “fantoccio ridicolo” e, secondo Canova, un film come Forza Italia! (1978) di Roberto Faenza finisce con l’applicare ai politici «quelle categorie della derisione e dello scherno che sono da sempre al centro dell’atavica propensione degli italiani a ridere di tutto e di tutti […] che alla fine tutto assolve e tutto dimentica, e rende tollerabile o tollerato nella realtà quel medesimo potere che viene carnevalescamente irriso nello spazio dello spettacolo e della finzione» (p. 466). Inoltre, sostiene lo studioso, «Da un film come Forza Italia! alla satira televisiva del nuovo millennio, un filone importante della cultura italiana si è ostinata a fare dell’uomo di potere, al tempo stesso, un mostro e un pagliaccio. Col risultato paradossale di assolverlo: perché il mostro annulla il pagliaccio, e il pagliaccio neutralizza il mostro» (p. 467).

Il saggio di Canova sottolinea, inoltre, come tra le patologie del potere, il cinema italiano abbia scelto di concentrarsi sul tradimento, il trasformismo, l’arbitrio e alla presunzione di impunibilità. Per quanto riguarda il trasformismo ed il tradimento lo studioso, oltre che su Senso (1954) ed Il gattopardo (1963) di Luchino Visconti, si sofferma su Noi credevamo (2010) di Mario Martone, individuando in tale opera «un film imprescindibile per rintracciare la retorica e l’ideologia del potere nel cinema italiano perché […] drammatizza uno scontro di poteri: da un lato il vecchio potere che muore, dall’altro un nuovo potere che nasce e che ambisce a scalzare e a sostituire in fretta il vecchio. Il punto di vista di Martone sposa e adotta […] il punto di vista di chi non ha il potere e ambisce a conquistarlo: quel “noi credevamo” non solo insiste sulla dimensione collettiva dell’adesione a un progetto di conquista del potere, ma sottolinea anche – con forza – la dimensione fortemente fideistica che anima l’azione dei giovani rivoluzionari […] Forse non si è ancora ragionato abbastanza sul ruolo talora fondamentale della passione nell’agone politico, e il film di Martone ha il merito di conferirle una centralità precedentemente impensabile» (p. 473).

Per quanto riguarda l’arbitrio Canova cita In nome del popolo italiano (1971) di Dino Risi e Detenuto in attesa di giudizio (1971) di Nanni Loy come esempi di film in cui la giustizia viene esercitata arbitrariamente ed in maniera vessatoria nei confronti del cittadino. In questi film, come in Porte aperte (1990) di Gianni Amelio e Tutti dentro (1984) di Alberto Sordi, il potere si esprime col medesimo volto: «Arcigno, severo, vessatorio, feroce. Un potere che non si esercita quasi mai nella legalità ma quasi sempre nell’arbitrarietà e nell’impunità» (p. 478).

Circa l’impunibilità, lo studioso non poteva che soffermarsi su Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) di Elio Petri, film che «Ribadisce la teatralità del potere e fa della maschera il linguaggio necessario ad affermare se stesso in quanto forma del dominio» (p. 480). Canova, ragionando sul doppio finale dell’opera, si concentra sul fatto che le tende vengono ad un certo punto chiuse celando all’osservatore il contenuto della stanza in cui convergono i diversi interpreti del potere: «Non è dato di sapere cosa accadrà realmente nella stanza in cui il potere si è riunito. Abbiamo visto cosa è accaduto nella camera da letto (che non è più da tempo luogo proibito allo sguardo), ma l’interdetto a vedere si è spostato e trasferito nella camera del potere. Che ancora una volta celebra se stesso, e perpetua la propria fantasia di immunità e di impunibilità, in un regime di fatale e impenetrabile invisibilità» (p. 482).

pot_002Nel cinema degli ultimi decenni film come Vincere (2009) di Marco Bellocchio, Il divo (2008) di Paolo Sorrentino ed Il caimano (2006) di Nanni Moretti, hanno fatto ricorso a maschere su un registro espressivo allegorico-grottesco al fine di mettere in scena, rispettivamente, Mussolini, Andreotti e Berlusconi.

Il film di Bellocchio, secondo Canova, è un «atto d’accusa nei confronti dell’eterno fascismo italiano: cioè quella disposizione – antropologica prima ancora che psicologica, ideologica o sociale – fatta di ribellismo anarcoide e di succube servilismo, di velleitarismo arrogante e di tracotante narcisismo […] di odio nei confronti del diverso e di disprezzo nei confronti delle donne, che da qualche secolo a questa parte attraversa la nostra storia (e il nostro sentire) e che periodicamente produce quei rigurgiti collettivi che portano buona parte dei maschi italiani a farsi possedere dalla smania irrefrenabile di andare in giro per le strade indossando camicie dello stesso colore, organizzando ronde punitive contro chi indossa camicie diverse, contro chi pensa in modo diverso, contro chi adora altri dei o chi si illude ci siano altri, possibili modi di amare» (pp. 490-491). Il regista in questo caso mette in scena «lo scompenso che si crea fra una donna che è e resta corpo (fremente, piangente, ferito) e un maschio che – grazie al potere che incarna – da corpo si trasforma in fantasma di pietra, perennemente assente e al tempo stesso sempre incombente, pesante, castigante, oppressivo. Vincere rilegge il fascismo come pratica di annientamento dei corpi e come colonizzazione fraudolenta delle menti» (p. 491).

L’opera di Sorrentino mette invece in scena i meccanismi del potere e la sua immortalità. Il regista qui «predilige una maschera in bilico fra il folclorico e il cinefilo: quella del vampiro. […] gli dei, come i vampiri, non muoiono mai. Hanno bisogno del sangue e delle vite degli altri, e se le prendono. E aborrono la luce. Il divo Giulio, non a caso, vive di notte. Non dorme mai. Gira con la scorta per le vie deserte di una Roma fantasma in lunghe e solitarie passeggiate notturne. E passa il tempo a spegnere gli interruttori di casa sua. I veri divi non sono quelli che godono all’accendersi delle luci, ma quelli che decidono quando le luci si possono spegnere» (p. 487). L’Andreotti di Sorrentino è dunque la quintessenza della segretezza e dell’inaccessibilità.

Infine, il film di Moretti affronta «l’inafferrabilità di Berlusconi in quanto ipostasi del potere e, al contempo, la difficoltà di rappresentare l’Italia contemporanea» (p. 484). Canova sottolinea come il film trasmetta la sensazione della disgregazione, gli stessi diversi Berlusconi che compaiono risultano scollegati l’uno all’altro.

L’accumularsi in questo paese di quelli che, non senza ipocrisia, vengono definiti “misteri irrisolti”, ha contribuito a creare una filmografia nazionale caratterizzata dall’idea che «dietro a ognuno di questi fatti si celino la volontà inconfessabile e la strategia delirante di un potere segreto, impunito e spietato: una sorta di “dietrologia” ossessiva e compulsiva che evoca incessantemente la presenza fantasmatica di un “burattinaio” non identificabile […] come per rimuovere o giustificare l’incapacità della società italiana di individuare i responsabili reali di quei crimini e di trovare una spiegazione razionale per ognuno di quei “misteri” irrisolti» (p. 493).

Un caso esemplare di incidenza del complottismo nella rappresentazione del potere riguarda il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro; si pensi ad esempio, a lungometraggi come Il caso Moro (1986) di Giuseppe Ferrara o Piazza delle Cinque Lune (2003) di Renzo Martinelli. La teoria del complotto si è venuta costruendo su effettive pagine oscure della storia italiana ma, osserva Canova, «l’idea che nessuna verità sia possibile, e che dietro ogni fatto di cronaca ci sia una trama oscura inaccessibile e indecifrabile per l’opinione pubblica democratica è talmente diffusa e pervasiva, e coinvolge tanto il cinema dei grandi autori […] tanto la ricognizione sul passato […] da configurare davvero una visione del potere – e forse perfino un “sentimento” del potere, e un immaginario del potere – segnati paranoicamente dall’opacità, dalla segretezza e da una impenetrabilità che tanto più vengono riconfermate quanto più si tenta (o si finge) di volerle infrangere e illuminare» (p. 495).

Come esempi di film che invece evitano di ricorrere al complottismo, Canova segnala Diaz – Non pulire questo sangue (2012) di Daniele Vicari e Buongiorno, notte (2003) di Marco Bellocchio. Nel primo caso il lungometraggio «si stacca dalla cronaca, o dall’idea di film-requisitoria, per costruire una scena del crimine che è tanto più sconvolgente quanto più addossa le responsabilità del massacro non a questo o qual funzionario-carogna, ma a un sistema che può permettersi impunemente la sospensione delle garanzie democratiche come forma perversa di controllo e di repressione violenta del dissenso sociale […] Vicari non cade nell’errore di confondere la sala cinematografica con un’aula di tribunale, né pretende di affidare al suo film una sentenza giudiziaria. Piuttosto cerca di mettere in scena i meccanismi (ma anche i linguaggi, i fantasmi, le mitologie, i fraintendimenti, le ideologie) attraverso cui uno Stato di diritto (e gli uomini che lo rappresentano) possono arrivare a usare la tortura esercitata su persone indifese come mezzo di dominio» (p. 497).

Buongiorno, notte affronta invece il “caso Moro” evitando il registro del realismo ed il regista «non insegue il “feticismo del documento” caro al cinema complottista, né sbandiera dossier esclusivi su cui edificare improbabili controinchieste. Il suo film sceglie piuttosto la strada dell’apologo e dell’immaginazione poetica, fin dal titolo» (pp. 498-499). Nell’opera di Bellocchio, che evita dietrologie, la narrazione adotta il punto di vista di una brigatista che sogna un finale diverso per la vicenda ed il racconto è confinato all’interno dell’appartamento-prigione mentre alla televisione spetta il compito di far entrare tra le mura gli eventi esterni. Così facendo, «riducendo la realtà storico-politica a una sorta di fuori campo, Bellocchio si concentra cioè sui gesti, gli sguardi e le relazioni chiasmiche che si intrecciano all’interno dell’appartamento fra il prigioniero (il dominante divenuto dominato) e i suoi sequestratori (i dominati che aspirano a essere dominanti)» (p. 499). Il registro del doppio, suggerisce lo studioso, attraversa l’intero film; il potere ed il contropotere che prende il suo posto, la protagonista che conduce una doppia vita, il mondo tra le mura dell’appartamento ed il mondo esterno che appare sullo schermo televisivo, il registro del reale ed il registro onirico e visionario.

mimesis-roberto-de-gaetano-lessico-cinema-italiano-volCome Luigi XIV nel film di Rossellini, «anche il potere democratico contemporaneo vuole che la sua vita si svolga tutta sempre sotto gli occhi dei cittadini/sudditi: ed è la Tv a inverare questa volontà. Come Re Sole, la Tv è sempre lì, perennemente accesa, e incessantemente pronta a mostrare i riti e le cerimonie del potere. A renderle autorevoli e desiderabili. Il potere sa di essere lì, nelle immagini che lo presentificano e lo diffondono, lo espandono e lo celebrano. E lì, spudoratamente, si mette in scena» (p. 503). Canova individua alcuni film che prendono atto del ruolo televisivo e, dopo decenni di invisibilità ed irrapresentabilità del potere sul grande schermo, «da qualche anno a questa parte il cinema italiano ha constatato la propria ontologica impossibilità di competere con la Tv nel rendere visibile in tempo reale la quotidianità del potere (e, in fondo, anche la sua ordinaria banalità) e ha deciso – con lungimirante saggezza – di ripartire da qui. Dalla comprensione che il potere è ormai prima di tutto nelle immagini che quotidianamente lo visualizzano. Così il cinema ha iniziato, sempre più intensamente e convintamente, a lavorare su queste immagini. A riesumarle. A rimontarle» (p. 503).

L’archivio televisivo diviene una fonte da cui attingere ed a tal proposito Canova indica film come La mafia uccide solo d’estate (2013) di Pif – Pierfrancesco Diliberto e Belluscone. Una storia siciliana (2014) di Franco Maresco.

Nel primo caso l’autore «non è ossessionato dalla necessità di mostrare il volto del potere: l’ha già fatto la Tv. Il suo film si limita a usare le immagini già prodotte e a risemantizzarle grazie a un ready made che le porta ad esprimere “altro” rispetto a quello che avrebbero dovuto esprimere quando furono realizzate. In questo modo il cinema, scalzato dalla televisione (e ora anche dagli altri media digitali) nella capacità di dare un volto al potere, recupera il proprio ruolo centrale nel sistema dei media rivendicando la capacità di rivedere e risignificare le immagini che altri media hanno prodotto» (p. 503).

Nell’opera di Maresco il potente Silvio Berlusconi, evocato e deformato sin dal titolo, è presente nel film solo a livello catodico, come fantasma dell’etere. «Una storia siciliana è un racconto di ascesa e caduta: comincia con la caduta (Berlusconi annuncia in Tv le sue dimissioni da Presidente del Consiglio […] e finisce con il ricordo sbiadito dell’ascesa (con un Berlusconi di 20 anni più giovane che pronuncia il celebre discorso della “discesa in campo”)» (p. 505). Alle immagini di repertorio è affidato il compito di riflettere sul fantasma di Berlusconi e sugli effetti del berlusconismo. Per certi versi è davvero come se Berlusconi vivesse soltanto all’interno delle immagini televisive che ne hanno costruito il mito e dal film, sostiene Canova, si evince come siano le immagini ad aver preso il potere tanto che l’immaginario berlusconiano continua ad influenzare l’immaginario collettivo anche dopo Berlusconi. «È a queste immagini che bisogna ricorrere, ed è su di esse che bisogna lavorare, per cercare di capire qualcosa di quel potere che esse disincarnano e, al contempo, rendono immortale» (p. 505).

A conclusione del suo scritto, Gianni Canova, si chiede se «il cinema italiano non ha saputo rappresentare la democrazia perché non è mai riuscito a capirla o – al contrario – perché ha capito fin troppo bene la sua essenza, e ne è rimasto traumatizzato?» (p. 505). Nel complesso, probabilmente, ciò è avvenuto per entrambi i motivi ma, da parte nostra, siamo portati a credere che, nonostante alcune e significative eccezioni, nella maggioranza dei casi, il cinema italiano, al pari del resto della cultura nazionale, si è accontentato di raccontarci dell’opacità del potere e di oscuri ed innominabili burattinai. Forse, se da una parte il sonno della politica – il non voler vedere e parlarne – negli intellettuali italiani ha contribuito a generare mostri (di comodo), dall’altra, la televisione ha talmente sovraesposto i politici nazionali da renderli poco appetibili al grande schermo. E forse lo stesso pubblico cinematografico non è stato, e non è, così desideroso di vederseli spuntare, oltre che in casa, quotidianamente ed a tutte le ore, anche nel buio di una sala su schermi monumentali che i politici nostrani oggettivamente faticano a riempire.

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Divine Divane Visioni (Cinema porno 08/11) – 66 https://www.carmillaonline.com/2015/01/15/divine-visioni-porno-66/ Thu, 15 Jan 2015 22:00:37 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=19961 di Dziga Cacace

Lo vedi quante cose che ci sono da salvare, con la guerriglia culturale? (A.F.A.)

ddv6601732 – Tant’è, Flags of Our Fathers è un film destrorso di Clint Estwood, USA 2006 Ormai ‘sta faccenda dell’idolatria sbarazzina e manifesta di Eastwood mi pare cominci a diventare proprio una veltronata pericolosa. Perché ci risiamo anche stavolta: come in Salvate il soldato Ryan di Spielberg, qui si racconta tronfiamente dell’ultima guerra “giusta” degli Stati Uniti e, siccome viviamo in anni in cui – tanto per cambiare – gli USA si ritengono in missione per conto di Dio a menare mazzate per il mondo, alla fine l’assunto [...]]]> di Dziga Cacace

Lo vedi quante cose che ci sono da salvare, con la guerriglia culturale? (A.F.A.)

ddv6601732 – Tant’è, Flags of Our Fathers è un film destrorso di Clint Estwood, USA 2006
Ormai ‘sta faccenda dell’idolatria sbarazzina e manifesta di Eastwood mi pare cominci a diventare proprio una veltronata pericolosa. Perché ci risiamo anche stavolta: come in Salvate il soldato Ryan di Spielberg, qui si racconta tronfiamente dell’ultima guerra “giusta” degli Stati Uniti e, siccome viviamo in anni in cui – tanto per cambiare – gli USA si ritengono in missione per conto di Dio a menare mazzate per il mondo, alla fine l’assunto autoassolutorio è che se avevamo ragione da vendere allora – con nazi e musi gialli –, vuoi che abbiamo torto marcio oggi con quegli arabi isterici e puzzoni? E son mica io che mi faccio i film, eh, è Clint, perbacco! Flags of Our Fathers ci racconta di come una foto (quella celeberrima della conquista del monte Suribachi, in quell’isolaccia vulcanica di merda che è Iwo Jima) abbia significato moltissimo per la vittoria finale alleata e per risparmiare vite, anche giapponesi. E allo scopo ci si servì pure della menzogna e della più bieca propaganda… e questa sarebbe la parte più interessante e problematica del film, sennonché c’è una retorica di fondo – le immagini della bandiera, gli sguardi persi nel vuoto, la voce interiore del protagonista – che tutto appesantisce, calcando la mano su aspetti patriottici ed esistenziali che non avevano alcun bisogno di essere spiegati e dispiegati come una gigantesca stars and stripes. E anche il montaggio e la costruzione a incastro della vicenda, con le progressive scoperte e i dolorosi ricordi che affiorano, non mi son piaciuti per niente: meccanici, prevedibili e sempre un po’ fuori luogo. E non mi han fatto impazzire neanche le facce degli attori e la fotografia. E… insomma: ‘sto film mi ha fatto proprio cagare, diciamolo dritto come va detto, esteticamente e politicamente. A proposito della foto famosa, tra l’altro: l’autore, Joe Rosenthal, si è battuto una vita per difendersi dalla diceria che la foto fosse organizzata ad arte. Tutto nasce da un equivoco: il reporter ha visto dei marines che innalzavano la famosa bandiera. È accorso sulla cima del vulcano e ha fotografato un secondo gruppo di soldati che ripeteva (autonomamente) il gesto e dopo gli ha chiesto di posare sotto la bandiera. Quando Rosenthal ha spedito i rullini (non sapendo come avesse fotografato, mica c’erano le digitali, pora stella) ha fatto una sommaria descrizione del materiale e credendo che la foto migliore fosse quella in posa, l’ha indicata come tale. E da lì l’equivoco, corroborato dai sospetti di altri giornalisti e rilanciato più volte nel corso degli anni, al punto che alcuni hanno anche suggerito di ritirare il Pulitzer vinto con lo scatto. E invece era una bella fotina originale, brutti infingardi. Ma ribadisco: il film è confuso, non riuscito, destrorso e imperialista, tiè. (Dvd; 19/1/09)

ddv6602733 – L’isterico Cani arrabbiati di Mario Bava, Italia 1973
Straculto inedito per 25 anni che non riesco ad apprezzare granché (perché lo trovo interessante sì, ma anche bruttino, ecco perché) e che i critici estrosi portano in gran stima, come concentrato pulp ante litteram di efferata ultraviolenza, turpiloquio scatenato e generale insensatezza criminale, cose che – non si discute – 40 anni fa erano decisamente una bella botta. Però del primato me ne frega assai (a me importa chi fa le cose bene, come Pelé col Brut 33, non per primo) e questa regia di Bava padre è lontanissima dal suo classico tocco magico e sognante: è iperrealistica, sadica e compiaciuta di una rozzezza registica sicuramente programmatica ma per nulla affascinante nel suo sgangherato pauperismo. Dunque: c’è la classica rapina a mano armata che va subitissimo in vacca, con strascico di morti e fuga con ostaggio femmineo sulla macchina di uno sfigato che sta portando all’ospedale il figlio malato. Il “Dottore” sembra saperla lunga però si accompagna a due psicopatici, l’esuberante “Trentadue” (al cui confronto i 24 centimetri di Siffredi sono una bazzecola) e il sanguinario “Bisturi” (un inedito Don Backy, che sembra il giovane Stallone, isterico e sudato, tanto quanto il film stesso). Recitazione non particolarmente curata, montaggio scomposto, dialoghi acidi, fotografia lattiginosa, musica di Stelvio Cipriani pessima. Molta azione (anche psicologica) e ritmo non disprezzabile in un’Italia che sembra arcaica: il finale è riuscito, abbastanza inaspettato seppur intelligentemente anticipato dai titoli di testa, ma il film – nel complesso – mi pare che appaghi il gusto per la rarità di certi cinesegaioli piuttosto che essere un capolavoro misconosciuto come si va dicendo. (Dvd, gennaio 2009)

ddv6603734 – Viva Viva Santana! di Tom McQuade, USA 1988
Siccome mi sono imbarcato nella missione impossibile di raccontare la storia dell’incompreso compagno Carlos Santana, non posso esimermi dal vedere alcuni dvd che aspettano nella mia videoteca da eoni. Questo è un documentario che nel 1988 celebrava i vent’anni di carriera della band del magico chitarrista, con tante clip (dal 1969 fino al 1987) tratte da concerti o apparizioni televisive. Ogni tanto Carlos commenta e racconta e magari copre una splendida Samba Pa Ti del 1973 (argh!). Però l’idea è carina, le immagini incredibili, i completini del leader atroci. Per uno come me è il Nirvana, per qualunque altra persona non so. La cosa migliore è il pezzo conclusivo di un concerto tenuto a Santo Domingo nell’arena tipo teatro greco de La Romana (già di per sé una location kitschissima: l’ho visitata con imbarazzo primomondista quindici anni fa e i locali si vantavano che lì si fosse esibito Nicola Di Bari, per dire): un improvviso e violento acquazzone tropicale costringe a chiudere la baracca prima che qualcuno ci rimanga secco, fulminato attaccato allo strumento. Ma i Santana non mollano, le percussioni impazzano, la chitarra è senza freni e il pubblico è galvanizzato e balla nella pioggia, riparandosi con dei cuscini rettangolari che sembrano delle pizze da consegnare. A fine brano l’organizzatore nervosissimo annuncia che il concerto è finito per garantire l’incolumità dei musicisti ma dalle facce contrariate capisci che la band sarebbe andata avanti a rischio scossa mortale. Eccezionale: se il buon gusto latita nell’abbigliamento e in certe esagerate soluzioni musicali, comunque Santana rimane uno dei più grandi di sempre. Siccome non è cool nessuno lo ricorda mai, anzi, semmai ne mette in evidenza i peccadillos, ma per me nessuna musica rock ha corazon y cojones come la sua. Se voglio l’epica vado con lo Springsteen del 1978; se voglio salire a un livello diverso di percezione del reale datemi gli Allman Brothers del 1971; se devo sfogarmi, urlare e ballare prendo i Deep Purple del 1972. Ma se voglio tutte queste cose assieme, un po’ di jazz e anche una spruzzata di orgogliosa cafonaggine, beh, c’è solo Carlito. (Dvd; 23/1/09)

ddv6604735 – Il pessimo Signore e signori, buonanotte di Luigi Comencini, Nanni Loy, Luigi Magni, Mario Monicelli, Ettore Scola, Italia 1976
Un orrendo film a episodi firmato oltre che dai registi anche dai più grandi sceneggiatori nostrani (Age e Scarpelli, Pirro, Maccari, De Bernardi, Benvenuti) tutti riuniti in militante cooperativa e interpretato – tolto Sordi – dai senatori della commedia all’italiana Gassman, Tognazzi e Manfredi, più Villaggio e Mastroianni. Ma il risultato è deludente, freddo, pretenzioso e fuori misura: non fa ridere quasi mai (salvo forse l’episodio “di costume” del Disgraziometro – a me il Villaggio carogna diverte sempre), non fa granché pensare quando c’è un intento satirico esplicito ed è minimamente più interessante solo quando emerge una vena poetica (Tognazzi barbone, per esempio) o semplicemente realistica. L’ideale palinsesto di un futuribile terzo canale – che dà l’ossatura al film – risulta perlopiù una raccolta di sketch e barzellette di scarsa efficacia politica e credibilità, una sorta di qualunquismo “di sinistra” facilone che riesce difficile accettare come impegno reale, anche quando se ne avverte una sincerità (seppure mal espressa, vedi l’episodio napoletano Sinite Parvulos). Per quel che mi riguarda ritrovo quel cinismo di certo cinema italiano anni Settanta, greve e strafottente, col solito umorismo sui dialetti, sui morti di fame, sui difetti fisici, per non parlare delle tette messe lì perché fanno allegria a noi maschiacci che denunciamo i fascisti, la CIA, la chiesa, la tivù, le forze dell’ordine e i politici ma alla maniera nostra, da cazzoni. Mah, una fetecchia di film: solo un anno dopo un film commerciale senza pretese – vituperato dalla critica parruccona – come Il… Belpaese racconta e satireggia gli anni Settanta molto meglio, anche senza vantare i galloni autoriali di questa porcata. E non mi metto a citare neanche i primi Fantozzi, dài. (Dvd, febbraio 2009)

ddv6605736 – Bellissimo, lo ammetto, Letters from Iwo Jima di Clint Eastwood, USA 2006
Più intenso, umano, delicato – e decisamente riuscito – del film dedicato ai soldati americani a Iwo Jima, questo Letters nobilita il dittico di Eastwood. Però non illumina a posteriori Flags of Our Fathers mentre esserne l’ideale controcampo in qualche maniera gli nuoce, perché il dietrologo che s’annida in me ne vede la funzione equilibratrice e democristiana. Là guerra necessaria e giusta, qui guerra imposta e salvata solo dal proprio onore, ma comunque guerra sbagliata. Però dico sempre un sacco di vaccate, per cui non son neanche tanto sicuro di essere d’accordo con ciò che ho appena scritto. Letters from Iwo Jima è narrato pacatamente ed è atroce, lirico e commovente. È bella la struttura, funziona il montaggio, abbacina la fotografia e splendono gli attori, tutti in parte. Bello e straziante, sofferta e doverosa lode a Clint. Boh. Sarà che sono stremato dal sonno. Infatti Elena è molto simpatica, di giorno: amabilmente grassa e ridanciana. La notte però è meno gradevole. Ieri sera è andata a letto alle 20.10 e si è addormentata in pochi minuti in braccio a me che le cantavo Nebraska di Springsteen. Siccome non so andare oltre la seconda strofa, forse è per sapere come va a finire la murder ballad che s’è svegliata alle 21.00. L’ha riaddormentata Barbara, ma alle 22.15 la piccina ha urlato come Bruce Dickinson degli Iron Maiden. Da genitori responsabili l’abbiamo lasciata fare e si è riaddormentata di nuovo. Alle 23 è ripartito l’urlo Scream for me Long Beach che stavolta ci ha un po’ turbato, avendo nervi ormai fragilini. Però Barbara l’ha nuovamente assopita. A mezzanotte invece è stata un po’ più dura e son serviti 40 minuti per calmarla mentre io divoravo furiosamente a morsi un Negronetto. Avete presente il libro d’auto aiuto Fate la nanna? L’ha scritto un argentino (secondo me un nazista in fuga) senza figli, molto rigido con genitori e neonati, e non serve veramente a un cazzo, ecco. Alle 2 e 40 Sofia ha un attacco di tosse degna di Sandro Ciotti ed Elena viene prudenzialmente spostata in camera nostra per non farla svegliare. Cosa che però accade pochi minuti dopo, tanto che ne approfitta per ciucciare una tetta di Barbara che è troppo stravolta per far resistenza come consigliano tanti pediatri belli riposati perché la notte dormono, loro. Siccome alle 6 la palla di lardo richiede ancora latte bisogna darglielo se si vuol provare a sonnecchiare ancora un’oretta. Infatti alle 7 e 30 Elena si sveglia fresca come una rosa, sorridente e gutturale, pronta a una nuova giornata di borborigmi entusiasti. Siamo stremati. (Dvd; 8/2/09)

ddv6606737 – Gli imprevedibili turbamenti erotici di Cenerentola di Clyde Geronimi, Wilfred Jackson e Hamilton Luske, USA 1950
Il classico dei classici che mai avevo visto prima. Esilino però ben costruito, fiaba perfetta per Sofia. Devo dire che l’ho visto pensando ad altro, anche perché grazie a Elena ho raggiunto nuovi traguardi cognitivi e ho capito cos’ha provato Padre Karas nella famosa scena del vomito verde de L’esorcista. Vabbeh. Dove lavoro ormai siamo in tanti a esser diventati genitori per cui spesso, a pranzo, si finisce a parlare della figliolanza. E di cinema per bimbi, praticamente l’unico che vediamo. Ci scambiamo pareri e dvd e siccome siamo una redazione di zozzoni (e mi assumo la responsabilità più alta) ci siamo ridotti ad eleggere la miglior CILF, cioè il Cartoon I’d Like to Fuck. Personalmente voto sempre la Jasmine di Aladdin, conturbante bellezza orientale profumata di spezie. Trilli di Peter Pan non mi attizza per niente anche se essere una gnocca tascabile potrebbe rappresentare un bel vantaggio. Della Sirenetta ho già detto, paventando l’ipotizzabile connubio ittico-genitale. E questa Cenerentola? No, non mi attizza per niente, tutta in ordine, borghesissima, buonissima, con gli occhioni sgranati. L’unico momento in cui mi suscita pensieri sporchi è quando le sorellastre Anastasia e Genoveffa le stracciano addosso l’abito da sera impedendole di andare al gran ballo del principe. E in questa scena degna di un lesbo prison-movie, Cenerentola, scarmigliata, coi capelli mossi e il respiro affannoso ha un suo perverso perché. Ma solo lì, eh. Ragazzi, io devo tornare a dormire, prima o poi. (Vhs; 17/2/09)

ddv6607738 – Accontentiamoci di Asterix e i vichinghi di Stefan Fjeldmark e Jesper Møller, Francia 2006
Devo dare un’educazione alla piccina che va per i 4 anni: a casa mia Asterix è un totem da adorare e procedo con la proposizione di un film recente che ha radici antiche, infatti la storia ricalca l’albo Asterix e i normanni del 1966, ma sposta l’azione anche nelle terre del Nord dove vivono gli ottusi vichinghi che mangiano tutto condendo con panna e salmone. Alla trama si aggiunge una vicenda d’amore tra il giovane Spaccaossix (nel fumetto era Menabotte) e Abba, nuovo personaggio figlio di Grandibaff. Spaccaossix è vegetariano, pacifista (ergo smidollato) e gli piace la musica dance, mentre nel ‘66 era un capellone che amava il beat (da ascoltare rigorosamente all’Olimpix di Lutezia!). Accetto i tradimenti a Goscinny e Uderzo e trovo il film passabile nonostante certi giovanilismi (il linguaggio gergale atroce, il piccione SMS, la moglie di Grandibaff Ikea… tra vent’anni sarà obsoleto anche questo cartoon). Più che altro apprezzo la fedeltà del disegno, dai personaggi agli sfondi, anche nella resa tridimensionale; le musiche ruffianeggiano tra cover d’annata e qualche botta di modernità. Sofia ne rimane entusiasta, io – da vecchio fan – approvo sornione e generoso. Ma a parte francesi, bimbi e vecchi rincoglioniti (come me), a ‘sto film non trovo un pubblico. (Dvd; 14/03/09)

ddv6608739 – L’investimento piramidale in Lost – Quarta serie di J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber, USA 2008
Innanzi tutto, attenti agli spoiler, perché mi scapperanno. Dunque: sette mesi dopo la terza serie, ci buttiamo sulla quarta non appena la piccola Elena ce lo permette. Apro un inciso, doloroso: siamo arrivati anche a 13 sveglie notturne e a 3 notti bianche consecutive (il Festival del Samba di casa Cacace) ma adesso va leggermente meglio: ho deciso di dormire in camera col mostro. A intuito ho cominciato a intimarle degli ssssh, appena lei prende a lamentarsi nel sonno, perché la carogna non si sveglia mai però sbadiglia, piange, urla, singhiozza mentre dorme: forse è un precoce pavor nocturnus, forse sono i postumi della sesta malattia, forse l’anticipazione dei denti che stanno uscendo, forse è una bestemmia che non voglio qui riportare. Boh. Io più o meno sto sveglio fino alle 5 del mattino quando passo la palla a Barbara che s’è fatta nel frattempo circa 7 ore di sonno. Io ne dormo 3 e poi si riparte. Ho la faccia ridotta come un cesto di vimini, per capirci. Però – come dicevo – qualche mezz’ora si trova ed è sempre un piacere tornare a perdersi sull’isola, un piacere enorme. E anche un gran casino: adesso abbiamo anche i flashforward e i viaggi nel tempo che si sovrappongono a flashback di diversa “profondità” temporale, giocando spesso sull’equivoco se siano ambientati prima o dopo il crash landing che ha dato avvio alla storia. Ogni puntata ha in serbo qualche tranello e tu abbocchi all’amo se non stai attentissimo a tutti i particolari, come un cellulare troppo grosso per essere post salvataggio… cose così; una sfida continua ai tuoi sensi di spettatore, alla tua conoscenza dei meccanismi narrativi, alla tua credulità portata sempre più a livelli esasperanti. L’apparato tecnico è clamoroso come sempre (non pensi mai: è televisione; lo vedi sempre come cinema e a un livello superiore). Gli attori hanno facce eccezionali, a parte Evangeline Lilly, Kate, che mi irrita perché sembra un coniglio farcito di botox. Il cuore della serie è il fatto che c’è un futuro in cui è stato fatto credere che il volo 815 sia finito in fondo all’oceano e si siano salvati solo sei persone (gli ormai popolarissimi Oceanic Six). Ma come si arriva a tutto ciò? Chi ha organizzato la messinscena? Chi sono i sei? E gli altri? Fioccano anche le ipotesi teologiche. L’incredibile manipolatore Benjamin è Dio. O forse no, ma l’isola è il Paradiso. O l’Inferno. E sono tutti morti. O gli spettatori sono tutti morti. Io sono morto, su questo non ci piove. Non capisco veramente più una minchia, ma se E.R. è il drama televisivo per eccellenza, e 24 è il thriller perfetto, allora Lost condensa action, thriller complottistico, fantascienza e tutta la pop culture degli ultimi 40 anni in maniera sublime, realizzando la fiction perfetta, che ti fa prigioniero sull’isola che non c’è. Perso, per sempre, in attesa che ci spieghino cosa cazzo è successo. (Aggiungo: il finale della serie fa presagire brutte cose, e tempero l’entusiasmo di questo parere: all’improvviso mi son sentito come quelli che aderiscono ingenuamente a un programma di investimento multilevel, o comunque una di quelle truffe piramidali dove continui a versare soldi – e qui coinvolgimento spettatoriale – in attesa del riscontro finale… oh, non è che questi fanno crac e a me rimane in mano un pugno di mosche? Mah). (Dvd; aprile 2009)

ddv6609740 – L’esotico Kiriku e la strega Karabà di Michel Ocelot, Francia/Belgio 1998
Fiabona africana molto serena che a Sofia piace da impazzire: credo che l’avrà vista venti volte tra aprile e maggio. Lo dessero ora in un cinema, potrei salire sul palco e recitarne a memoria alcune scene, tipo Rocky Horror Show. Kirikù è un neonato da incubo che parla e cammina come un adulto e appena uscito dalla pancia di mammà decide di rimettere le cose a posto perché l’efferata strega Karabà ha ammazzato tutti i maschi del villaggio, gli ha tolto l’acqua e pretende i gioielli delle donne. Insomma una Totò Riina della giungla al cubo. Ma Kirikù, con la sua intelligenza, i consigli del nonno e l’aiuto degli animali scopre perché Karabà è così cattiva e incazzata. E risolve: lei diventa una gnocca maestosa, lui uomo fatto e presto vivranno tutti felici e contenti, copulando allegramente ai margini della savana. Film poetico e coloratissimo, dal ritmo pacato ma steady e accompagnato da belle musiche etniche di Youssou N’Dour. Il disegno sembra semplice ma è evocativo e ricchissimo di texture e composizioni geometriche e cromatiche. Karabà ha la voce di Veronica Pivetti, ma visto il perenne grugno sarebbe stata più giusta Irene. (Dvd; tutto aprile 2009 e oltre, aiuto)

ddv6610741 – Il rivelatore Little Miss Sunshine di Jonathan Dayton e Valerie Faris, USA, 2006
Molto carino e molto amaro. Sotto la buccia agrodolce c’è il veleno di una nazione che vuole e deve essere vincente e sta perdendo tutto da anni. Little Miss Sunshine è un film intelligente che molti sempliciotti hanno visto come una curiosa commedia dal piglio indie, ma così non è, non solo. Seguitemi nel mio carruggio: è l’autoanalisi di un paese abitato da bambini che non vogliono o non sanno diventare adulti, che desiderano a ogni costo un premio che li gratifichi, anche in modo vicario. Soldi, sesso, fama, e talvolta semplicemente affetto. Capito? Bene. Solo che non ho voglia di aggiungere altro, semmai vi vorrei parlare di un’altra cosa: Barbara e io ci stiamo avvicinando all’anno senza sonno, causa la piccola Elena. Quando sento gente entusiasta delle notti bianche che ormai qualunque sminchiatissima Pro Loco organizza, lo vorrei invitare a passarsi qualche seratina a casa mia. Siamo avvolti in una perenne nebbia mentale, ma ci sono alcune cose che ho imparato e voglio trasferire ai futuri padri. Allora: posso affermare con sicurezza che i bimbi sotto un anno non dormono, ma nel caso miracoloso che ciò avvenga bisogna evitare alcune cose che provocano la loro immediata sveglia. E sono:
A) L’accensione di una meritata sigaretta. Di solito il neonato attende esattamente la prima boccata, poi fa capire rumorosamente la sua disistima per il genitore fumatore e se si potesse tradurre la lallazione individuereste parole come “polmoni”, “cardiocircolatorio” e “cancro”, son sicuro.
B) La telefonata, specialmente se improcrastinabile e per lavoro. Mentre il segnale dà libero si può già apprezzare qualche singulto del piccino, ancora equivocabile per un’allucinazione sonora. Nel momento in cui il chiamato risponde, avete la certezza che invece il bimbetto è sveglio e quando provate a spiegare la situazione per richiamare più tardi, il neonato sta probabilmente urlando in maniera che non servano ulteriori delucidazioni.
C) L’accensione del PC. La casa tace nel buio e vi dite: potrò adesso concedermi un rilassante solitario sul PC? Potrò magari controllare la posta? Scrivere due righe? Sì, evvai! Accendete il PC e fin lì tutto bene. Ma se aprite un programma cominciano i guai. Il top del pericolo si raggiunge con l’apertura del gioco Hearts. Il demonio a orologeria strepita improvvisamente mentre state realizzando un cappotto epocale. Vi distrae, dimenticate il conto della carte e vi prendete una fracassata di punti. E dovete pure riaddormentare lo stronzetto.
D) La cosa più pericolosa: la defecazione. Siete sulla tazza, finalmente rilassati, in una fin troppo a lungo rimandata seduta espulsiva. Sta cominciando il download ed esattamente a metà strada avvertite l’urlo disumano della Belva che vi costringe a rimangiarvi tutto o a troncare a metà il discorso.
Tutte queste belle cose, per dirvi che nottetempo io ormai evito di fumare, telefonare, accendere il computer e sommamente cagare. Di solito finisce che mi rifugio in cucina dove ingurgito bulimicamente Caprice des Dieux interi, che sbuccio come banane e divoro tali e quali, ecco come son ridotto. (Dvd; 16/4/09)

(Continua – 66)

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

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