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Dracula è morto, viva Dracula

[Il film muto Drakula halála di Károly Lajthay è la prima pellicola “ispirata” – in modo molto libero – al personaggio di Bram Stoker di cui si abbia concreta documentazione storica (su qualche precedente esistono dubbi). Purtroppo non disponiamo della pellicola originale, considerata perduta (e oggetto di fantasiose ricreazioni apocrife): è difficile dire se in un futuro potrà riemergere, ma è possibile farsi un’idea piuttosto precisa dei contenuti attraverso foto e novelization rintracciati. In Italia la prima persona a occuparsi di Drakula halála in modo dettagliato [...]]]> di Jenő Farkas e Mária Szepes, nota di Franco Pezzini

Dracula è morto, viva Dracula

[Il film muto Drakula halála di Károly Lajthay è la prima pellicola “ispirata” – in modo molto libero – al personaggio di Bram Stoker di cui si abbia concreta documentazione storica (su qualche precedente esistono dubbi). Purtroppo non disponiamo della pellicola originale, considerata perduta (e oggetto di fantasiose ricreazioni apocrife): è difficile dire se in un futuro potrà riemergere, ma è possibile farsi un’idea piuttosto precisa dei contenuti attraverso foto e novelization rintracciati. In Italia la prima persona a occuparsi di Drakula halála in modo dettagliato è stata la scrittrice Cristiana Astori con il romanzo Tutto quel buio (Elliot, 2018), in cui a cercare il lost film era la cacciatrice Susanna Marino, protagonista di una godibile serie di polizieschi cinefili dal profumo fantastico. Un interesse particolare è offerto anche dalla presenza come co-sceneggiatore del film di Mihály Kertész, poi più noto come Michael Curtiz, il cui nome resta legato a capolavori come Casablanca.

In attesa della pubblicazione in italiano della suggestiva novelization espressionista (in dodici brevi capitoli) proponiamo qui alcuni paratesti del ripescaggio a cura del professor Jenő Farkas (1944-) docente del Dipartimento di lingua romena dell’Università ELTE di Budapest, autore dei libri Drakula vajda históriája (La storia di Dracula Voivode, Casa editrice accademica, Budapest, 1989) e Drakula és a vámpírok (Dracula e i vampiri, Palamart, Budapest, 2010). È stato lui a trovare nel 1995 la sceneggiatura del film perduto, ripubblicandola per la prima volta in ungherese nel 2010, proprio all’interno del volume Drakula és a vámpírok, con la prefazione della scrittrice Mária Szepes – importante testimone di una remota stagione cinematografica magiara – che qui si propone. (Franco Pezzini, traduzioni di Agnes Banhidi Agnesoni.)]   

 

La morte di Dracula (1921), di Jenő Farkas

La sceneggiatura del perduto film muto La morte di Dracula (Drakula halála) di Károly Lajthay è stata pubblicata in ungherese nel 1924 a Timișoara. […] Si presenta come trasposizione romanzata della sceneggiatura del film del 1921, scritta da Lajos Pánczél […]. Gli autori della sceneggiatura sono Károly Lajthay e Mihály Kertész (meglio conosciuto come Michael Curtiz).

[…] Su mia richiesta, nel 1999, Mária Szepes scrisse la prefazione per la prima edizione dopo quella del 1924. Ho pubblicato questa versione della prefazione nel mio libro Drakula és a vampírok (2010), pubblicato dalla mia casa editrice Palamart, a Budapest. […]

[…] La morte di Dracula, conosciuta con il titolo originale Drakula halála, è un film muto ungherese del 1921 diretto da Károly Lajthay. È considerato la prima pellicola in cui compare il personaggio di Dracula, anche se spesso viene dimenticato a causa della sua estrema rarità: si tratta di un film perduto, di cui oggi sopravvivono solo pochi frammenti e documenti (fotogrammi, sinossi, manifesti).

La storia non segue direttamente il romanzo, benché sia stato il primo film basato sul Dracula di Stoker. Una giovane ragazza di nome Mary Land ha il padre morente in un manicomio di Vienna, e lo visita ogni giorno. Dopo la morte del padre, per riposarsi, Mary trascorre una notte nell’istituto, dove incontra un uomo misterioso e inquietante. Quest’uomo, il suo ex insegnante di canto, afferma di essere il conte Dracula. L’uomo è ossessionato da lei e sembra esercitare su di lei un’influenza soprannaturale. Mary non sa più se ciò che vede sia reale o frutto della propria follia. Dracula appare, scompare, la perseguita, la minaccia. Lei è intrappolata in un incubo in cui sogno e realtà si fondono.

La trama si evolve in tensione psicologica: Dracula è un vero vampiro o semplicemente un malato in delirio come lei?

Il film gioca più sulla suggestione, sull’atmosfera e sull’incubo a livello psichico che sull’orrore visivo diretto. Dracula non è il personaggio centrale, ma una figura inquietante, simbolica, forse immaginaria. Il film avrebbe avuto un’atmosfera espressionista, con scenografie e luci molto stilizzate, sullo stile del cinema tedesco dell’epoca.

 

Prefazione (1999) di Mária Szepes

Considero interessante e carica di valore simbolico la richiesta di Jenő Farkas di scrivere una prefazione sulla sorte del film di Károly Lajthay Dracula, presentando la sceneggiatura e il suo studio che analizza il fenomeno Dracula.

Per una persona come mi trovo a essere io, nata sotto la monarchia, ancora lucida e viva in quest’epoca strana, di crisi, lo sguardo indietro a un’epoca  incomparabile vede sovrapporsi e connettersi innumerevoli strati di ricordi. Oltretutto con la memoria fotografica di chi è scrittore.

Leggendo il saggio di Jenő Farkas [appunto la presentazione della sceneggiatura] mi tornano in mente nomi, personaggi, ricordi dolenti. So bene cosa il XX secolo, atteso con grande entusiasmo, abbia realizzato delle speranze del popolo e dei grandi cervelli: quasi niente. Mentre ha recato molte delusioni, dolore, lutti, fallimenti. Persino più che esperienze e consapevolezze sulla mancanza di strade da percorrere. E sulle tragiche conseguenze di decisioni sbagliate…

Ma ora parliamo delle reazioni strane dell’Ungheria ‒ sconfitta nella prima guerra mondiale ‒ in tutte le dimensioni della vita comunitaria. La dittatura proletaria rossa di breve durata é stata seguita dalle rappresaglie del “distaccamento” di destra, non meno crudele e senza freni. Il nostro piccolo paese mutilato scelse un governatore imposto dai vincitori, che ballava come i suoi signori comandavano. Il nostro paese dovette affrontare, sotto tremendi pesi, la svalutazione monetaria, l’enorme inflazione, la fame, la miseria diffusa, eppure in qualche modo iniziò ad esistere. E con uno stile nel complesso europeo. Gli scrittori scrivevano. I teatri erano attivi. I caffé lavoravano. E nonostante il loro stato miserabile, a pezzi, Buda e Pest in particolar modo riflettevano la parentela con Vienna. Il “mozi” [cinema] termine così abbreviato da Jenő Heltai dalla lunga parola “mozgòkép” (immagine mobile) uscì dal Luna Park ed entrò nelle caffetterie per proseguire poi in cinema piccoli e grandi, per il momento con i sottotitoli, muto, ma con successi sempre più notevoli. I suoi creatori, tra cui erano anche mia madre e mio padre Béla Balogh [rispettivamente Mária Kronémer (1883-1953), conosciuta con il nome d’arte Margit Kornai, cantante e attrice, e il padre adottivo Béla Balogh (1885-1945), regista: dopo la morte del padre, l’attore Oziás Scherbak (1877-1911), sua madre sposò Balogh nel 1915], al tempo credevano ancora che il genere cinematografico fosse un’arte e non una pura industria, produttrice di profitto. Prima la fabbrica di film Astra fondata da mia madre, poi dal 1920-1924 lo studio di vetro Star a Pasarét producevano all’anno dieci-quindici lungometraggi, in seguito riproposti innumerevoli volte e approdati anche all’estero.

Anche attrici ungheresi, sotto nomi d’arte, si esibivano all’estero. La nostra Sári Megyeri  in seguito diventata famosa, recitava nei film tedeschi come Sacy von Blondel [1897-1983, attrice, scrittrice, poetessa, giornalista, stella del cinema muto, protagonista in quarantanove film ungheresi e tedeschi]. Anche Luci Kovács col nome Lucy Doraine appariva spesso come protagonista in quelle stesse produzioni [nata Ilona Kovács 1898-1989, prese parte a più di venti film tra il 1918 e il 1931 e fu sposata con il regista Michael Curtiz dal 1918 al 1923]. Antonia Farkas, moglie di Sándor Korda [nata Mária Antónia Farkas, poi nota come María Korda o Korda Mária o Maria Corda, 1898-1976, star del muto in Germania e Austria], ebbe un successo mondiale per un breve tempo come la Bella Elena.

Il nostro Mihály Várkonyi [1891-1976, primo attore ungherese a girare un film negli Stati Uniti, ma attivo anche in film britannici e italiani] di bell’aspetto, attore di teatro e di film, firmò contratti con la societá cinematografica di Cecil B. deMille, di fama mondiale. Recitò con il suo bel profilo romano nel ruolo di Pilato [in Il re dei re, 1927], col nome Victor Varconi.

Bela Lugosi [Blaskó Béla Ferenc Dezső, 1882-1956] che era comunista, lasciò il paese nel 1919, dopo la dittatura rossa e andò in America. In Ungheria era considerato un attore mediocre. Arrivò al successo con la presentazione di Dracula […].

Dopo la prima guerra mondiale in Ungheria emergevano circoli spiritisti come in una strana ondata di sovratensione, moltiplicandosi e attirando come magneti senza spirito gli esistenzialisti, i falliti spirituali ed economici. Anche la mia famiglia ebbe un breve periodo di fascinazione, ma eravamo troppo professionali per accettare le produzioni di dilettanti che traghettassero le loro scipite prediche da una forma all’altra di comunicazione. A ripensarci oggi, nel nostro sviluppo questa fase era tuttavia di qualche importanza per i dibattiti a cui ci induceva. Eravamo portati ad occuparci di cose che spaziavano a tutti i rami della filosofia, delle scienze e delle arti. Le sette spiritistiche del tempo, paragonate alle sette dei nostri giorni – alcune anche innocue, ma per la maggior parte pericolose, folli e nate per ingannare ‒ avevano la forza di un contagio.

Conobbi Károly Lajthay nella Caffé House New York quando avevo quattordici anni: eravamo lí con i miei genitori per festeggiare la notte di san Silvestro, organizzata dall’Industria Cinematografica. Disse ai miei genitori di volermi assumere per una parte nel film Leánybecsület (Onore di ragazza, 1923) che stava girando. Non prendemmo sul serio la sua richiesta, ce ne dimenticammo persino. Lui peró tornó sulla carica. Le scene con me andavano riprese nello spazio freddo, gelato di vetro di Pasarét.

Lajthay con la sua abilità vertiginosa prese in mira il capitale e le zone erogene di un produttore di champagne che finanziava il film. La sorella minore della famosa star Ossie Oswalda, Hannie Reinwald recitava come protagonista. È tuttora in uso che sorelle e fratelli attori ricorrano a diversi cognomi d’arte. Con mia grande sorpresa la piacente giovane aveva una lussazione dell’anca. Ma all’uomo danaroso piacque anche cosí, perchè già al primo giorno delle riprese sul petto della ragazza splendeva un fermaglio rettangolare di brillanti. Sopra era scritto Lapa [dal nome degli studi di produzione cinematografica Lapa di Budapest, dove viene girato anche La morte di Dracula]. Naturalmente le malelingue del mestiere immediatamente trovarono nella parola il gioco di parole beffardo: “Lajthay palit fogott” “Lajthay ha preso un pollo” [espressione ungherese che significa: “Lajthay ha preso un perdente, un fallimento”].

Come già accennato, Lajthay era un tipo da Pest, di buon aspetto, vocione, nervoso, dinamico, vigoroso. Furfante e originale. Dirigeva gli uomini urlando, una mano nella tasca, l’altra alla bocca, mangiando le unghie. La moglie-bambina guardava con sorpresa il suo uomo adorato, che era una preda simile all’anguilla sgusciante, uno tsunami per le donne. L’attuale sposa-bambina stava seduta tutta la notte come un coniglietto stregato nei club “Fészek” (Nido) o “Otthon” (Casa), mentre il marito giocava a carte, quasi sempre perdendo. Non mi ricordo se questo film abbia avuto successo. Non avevo visto neanche Dracula. […].

Dopo tanto tempo, nel 1989 mi cercarono da Los Angeles a proposito di un mio libro strano, su cui avevo lavorato cinque anni, e iniziato da ventinovenne. Era stato pubblicato nel 1946 diventando un bestseller. Ma finì cestinato e bruciato con tanti altri libri nell’età Rákosi. Il titolo era: A vörös oroszlán (Il leone rosso), sottotitolo: Az öröklét bájitala (L’elisir della vita eterna). Il fuoco gli fece bene. Volò da fenice dalle suoi ceneri. Nel 1984 venne pubblicato da Heyne Verlag di Monaco, dove lo ristamparono otto volte […].

Una coppia ungherese di psicologi e il loro gruppo s’erano innamorati del tema. Mi avevano cercata per anni. Credevano fossi morta. […]. Poi mi trovarono, tutti contenti. Ricevetti un invito solenne da parte loro e dalla loro compagnia per Upland da dove usavano scendere ogni giorno a Los Angeles, nella clinica neurologica in cui lavoravano. Fu con loro che trovammo la casa a Hollywood di Mr. Forester [Forrest J Ackerman]. Aveva il soprannome Mr. Forry, come lo chiamavano i suoi amici. Editava una rivista horror. Era anche il primo che pubblicava la science fiction-T. Ovviamente aveva un sacco di soldi. Teneva corrispondenza con tutto il mondo della fantascienza. Adorava l’horror. Ma più di tutti Bela Lugosi. Conservava ogni pezzo di abito, ogni effetto d’uso, come un reperto da museo. Scriveva di lui in ogni sua rivista. Purtroppo alla mia povera amica, la psicologa signora Bondor, era capitato di dover tradurre in inglese, secondo la richiesta di Mr. Forry, l’unica poesia ungherese incredibilmente lunga di Lugosi. Grace Bondor sudava sangue durante il lavoro, perchè la poesia era molto brutta.

Invece Mr. Forry si rivelava un padrone di casa amorevole. Nella sua casa enorme – dove a volte in cucina preparavano il pranzo anche per quattrocento persone – mi fece sedere nella poltrona di Abraham Lincoln. Mi permise di provare anche l’ascensore che serviva per sua madre novantenne a raggiungere il piano superiore. L’ascensore era l’esatta copia di quello famoso presentato nel film Testimone d’accusa.

Per quanto riguarda il personaggio Dracula, non solo il romanzo di Stoker raggiunse un inaspettato, enorme successo, ma lo incassarono anche gli innumerevoli film, tra i quali molti davvero di valore e dignità artistica. Sul tema il regista danese Carl Theodor Dreyer creò un capolavoro pieno di simboli meravigliosi, dall’atmosfera indimenticabile e dalla bellezza straordinaria: Vampyr – Il vampiro. La strana avventura di David Gray. I tedeschi, per non usare il nome sotto diritti di Dracula, fecero il miglior film sui vampiri con il titolo Nosferatu. Il protagonista principale di nome Max Schreck riuscí a creare un capolavoro unico con il proprio personaggio paurosamente credibile.

Non mi meraviglio affatto che alla fine della nostra epoca critica il mito di Dracula torni a risorgere. Perché proprio lui avrebbe dovuto restar fuori dai drammi tremendi del palcoscenico mondiale del nostro pianeta?

                                                                                                            Budapest 1999

 

Note sulla scrittrice Mária Szepes, di Jenő Farkas

Nel 1997 chiesi a Mária Szepes, grande studiosa di letteratura esoterica e occultismo, di scrivere la prefazione per la riedizione della sceneggiatura del film Drakula halála (La morte di Dracula) di Károly Lajthay, e lei accettò con entusiasmo. Il suo testo sul regista e sull’atmosfera della prima industria cinematografica ungherese fu pubblicato per la prima volta nel libro Drakula és a vámpírok, 2010.

Nel 1995 scoprii la sceneggiatura (filmkönyv in ungherese) di Drakula halála con l’aiuto di un amico, Béla György, storico e bibliotecario-ricercatore presso la Biblioteca Nazionale Széchényi di Budapest. Quest’opera di piccolo formato risultava così deteriorata da non essere più accessibile al pubblico. Il mio amico ne fece una fotocopia, poiché il testo era completamente consumato e lacerato. Dopo aver incontrato l’autrice nella sua casa di Budapest, le presentai in dettaglio la sceneggiatura e ne pubblicai due importanti estratti sulla rivista Filmvilág (1997/12), tredici anni prima della traduzione inglese di G. Rhodes, che ridurrà questo contributo a un semplice “rapporto”.

Tuttavia non fu colpa di G. Rhodes. Un anno dopo, nel 1998, l’americano Lokke Heiss dedicò un articolo al film di Károly Lajthay nel numero di ottobre della rivista newyorkese Cinefantastique, basandosi sulle informazioni che avevo fornito a József Pocsai, collaboratore del documentario La strada per Dracula.

Come si evince anche dalla prefazione di Mária Szepes, l’autrice conobbe personalmente Károly Lajthay durante la sua giovinezza e, in qualità di attrice bambina, recitò in uno dei film del regista. Fu l’ultima testimone oculare a parlare con autenticità di Lajthay e della sua personalità. Allo stesso tempo, lo scritto è un documento molto prezioso sulla fase iniziale della storia della produzione cinematografica muta ungherese.

La scrittrice Mária Szepes è morta all’età di 99 anni il 3 settembre 2007. Con la ristampa di tale prefazione desideriamo rendere omaggio all’eccezionale carriera di questa romanziera, poetessa, attrice e maestra spirituale. Il suo romanzo A Vörös Oroszlán, Il leone rosso, pubblicato nel 1946 con lo pseudonimo di Mária Orsi, le portò fama mondiale. Tuttavia, poco dopo, con la nazionalizzazione delle case editrici sotto il regime comunista di Mátyás Rákosi, molte copie del romanzo furono sequestrate e distrutte.

Solo poche vennero salvate dal filosofo Béla Hamvas, che lavorava alla Biblioteca Nazionale Széchényi, perseguitato dal regime. Dal 1984, Il leone rosso fu pubblicato negli Stati Uniti in ungherese, e successivamente in tedesco e in inglese. Der Rote Löwe, pubblicato nel 1985, fu eletto Libro del mese in Germania e acclamato come un “capolavoro della letteratura esoterica”. Altri romanzi, come I sette adepti di Raguel (Raguel hét tanítványa in ungherese), furono pubblicati in tedesco nel 1993 in due volumi: Das Buch Raguel: Der Berg der Adepten e Weltendämmerung, riflettendo un universo che mescola fantastico, esoterismo e occultismo.

Mária Szepes era nata a Budapest con il nome di Magdolna Scherbach, in una famiglia di ebrei ungheresi legata al mondo del teatro. Suo padre, Sándor Papir (vero nome: Scherbak Oziás), era un bon vivant e una celebre stella del palcoscenico di Budapest, ma morì giovane. Sua madre, Mária Kronémer (nome d’arte: Margit Kornai), era anch’essa attrice. Dopo la prematura scomparsa del marito, sposò Galánthay Béla Balogh, un rinomato attore e regista appartenente a una nota famiglia teatrale. Insieme fondarono la casa di produzione Astra Filmgyár, un’impresa a conduzione familiare. Furono tra i primi a produrre con successo film muti e sonori. G. Béla Balogh diresse 50 film muti e 17 film sonori.

Dal 1916 al 1933, Mária Szepes intraprese la carriera di attrice cinematografica, spesso con lo pseudonimo di Magda Papir. Dopo il matrimonio con Béla Szepes, la coppia si trasferì a Berlino, dove visse fino all’Anschluss dell’Ungheria, alla fine della guerra. A Berlino, Szepes studiò letteratura, storia dell’arte e biologia. Tornata in Ungheria, lavorò inizialmente come giornalista, sceneggiatrice e scrittrice. Il suo primo romanzo, Il leone rosso. L’elisir della vita eterna, scritto in segreto durante la Seconda guerra mondiale, divenne un bestseller mondiale di letteratura esoterica. In seguito scrisse anche libri per bambini, tradotti in diverse lingue. Il romanzo è stato pubblicato per la prima volta in ungherese nel 1946, sotto la guida di Mária Orsi, dalla casa editrice Hungária; successivamente è stato riproposto negli Stati Uniti dalla Püski Publishing nel 1984 e poi a Monaco dalla Heyne Verlag (1984). È stato poi pubblicato in altre edizioni ungheresi: (con testo censurato) da Kozmosz Könyvek di Budapest nel 1984 e Háttér Lap- és Könyvkiadó nel 1989, (nel testo originale) dalla casa editrice Édesvíz Kiadó nel 1994. Il romanzo è stato proposto inoltre in diverse edizioni e-book.

Le opere di Mária Szepes appaiono influenzate da vari temi di fantascienza e di filosofie orientali (reincarnazione, teoria del karma…).

 

Il primo film su Dracula al mondo, di Jenő Farkas

Guardando l’ultimo remake di Nosferatu di Robert Eggers, mi trovo a pensare che se non fossero andate perdute le copie del film Drakula halála di Károly Lajthay, oggi la lista degli interpreti indimenticabili inizierebbe con il nome dell’austriaco Paul Askonas e non con Max Schreck. Dopo vengono Bela Lugosi, Christopher Lee, Boris Karloff, Lon Chaney, Klaus Kinski e Bill Skarsgård. La loro esibizione drammatica resta memorabile per il loro particolare aspetto. Anche Károly Lajthay ritenne così importante la prima maschera cinematografica del vampiro che nel 1920 lanciò un bando con una cifra enorme per prepararla. Secondo la rivista Színházi élet (Vita del Teatro) “non si può neanche immaginare una cosa più sorprendente e mistica”. E da allora la maschera è l’emblema inconfondibile dei film su Dracula. Quando Lajthay  alla fine del 1920 fece le riprese esterne a Melk, Wachau e Steinhof in Austria, e quelle interne a Budapest, F.W. Murnau ancora cercava le località di Nosferatu a Wismar  nel Nord della Germania e nei magazzini del sale di Lubecca. È da escludere che Murnau non avesse conosciuto il progetto del film di Lajthay e Kertész che stavano a Vienna, tanto di più che Bela Lugosi  ‒ andando da Vienna a Berlino ‒  fu interprete in film di Murnau e avrebbe potuto informare il regista del progetto cinematografico ungherese.

La prima del Dracula di Lajthay si ebbe nel marzo del 1921. “Si è svolta adesso la presentazione del film alla stampa ed ha avuto un enorme successo” (Színház és Mozi / Teatro e Cinema, 17.03.1921,) ma verrà proiettato nei cinema solo nel 1923. Al contrario, la creazione iconica di Murnau Nosferatu, eine Symphonie des Grauens (Nosferatu, una sinfonia dellorrore) fu proiettato dal marzo 1922 nei cinema ungheresi con grande successo.

Avete capito bene: nel 1921 Károly Lajthay varò in coproduzione austro-ungarica, la prima volta al mondo, il film Dracula (più tardi La morte di Dracula) con i protagonisti principali Paul Askonas e Margit Lux.

La presentazione visuale del vampiro Dracula non fu un pensiero fortuito, infatti la storia del vampiro in inglese aveva conquistato i lettori ungheresi.  La traduzione del romanzo di Bram Stoker, Drakula, fu la prima ad accompagnare il conte vampiro dall’Inghilterra al Continente. Dopo due settimane dall’uscita del romanzo a Londra, 1897, lo scaltro proprietario  del Budapesti Hírlap (Giornale di Budapest) lo pubblicò in ottantaquattro puntate sul suo quotidiano. Il traduttore, il proprietario del giornale di buona fama, aggiornò il testo e lo adattò, mantenendo solo il cinquanta-sessanta per cento del testo originale “per una miglior comprensione”. Lo stesso giornale in maggio pubblicò il romanzo in un libro di seicento pagine, completando le parti mancanti; ancora tre edizioni lo seguirono all’inizio del secolo, poi cinque nuove traduzioni fino ai giorni nostri.

Károly Lajthay e Mihály Kertész (in seguito premiato con l’Oscar come Michael Curtiz) furono i primi a riconoscere le possibilità di fare un film dal romanzo di Stoker e insieme scrissero il dramma horror Drakula. Károly  Lajthay realizzò il film Drakula tra fine 1920 e inizio 1921 (poi  con il titolo La morte di Dracula). Lajos Pánczél [1897-1971, giornalista, scrittore, critico cinematografico] ne offrì la novelization e la pubblicò a Timișoara nel 1924. Panczél seguì con attenzione il lavoro del regista e come redattore del giornale Ujsàg in un articolo elogiò l’importanza del film e la visita del regista nel 1931 a Budapest:

 

Károly  Lajthay a Budapest. Il regista eccellente degli anni del dopoguerra che in Ungheria e anche all’estero ha diretto molti film di grande successo – tra l’altro è stato lui a portare sullo schermo per la prima volta Dracula – da alcuni giorni è in visita a Budapest e sta trattando per preparare due film sonori. (Újság, 01.10.1931.)

 

Purtroppo le copie del film di Lajthay sono andate perdute. Molti ricercatori hanno provato a cercarle. Scegliendo una strada diversa, io, seguendo le orme del film, ho raccolto le annotazioni ufficiali rimaste dell’epoca, articoli dei giornali, report illustrati delle riprese, interviste con il regista e con i protagonisti, comunicati, manifesti, inserzioni e pubblicità. Il passo successivo è stato la ricerca del copione. Nel 1995 il bibliotecario-storiografo, mio amico Béla György, mi preparò la riproduzione di una copia della novelization pubblicata a Timișoara, il cosiddetto romanzo dal film che era in pessimo stato. Lo conservo tuttora [nel mio articolo “A magyar Drakula” (Filmvilág / Il mondo del film, 1997, n. 12) parlo dettagliatamente della storia della nascita del film-libro di Lajthay, La morte di Dracula. Cfr. anche Lokke Heiss:  Dracula Unearthed... Digging up details on the lost 1921 silent film, the first inspired by Stoker’s Count, in Cinefantastique (1998, ottobre, 90-92.)].

Sulla  base di queste preziose reliquie seguiamo passo passo la nascita del Dracula ungherese. Guardiamo dunque – con precisione giornaliera – i più importanti documenti (per la prima volta nella loro interezza) ed eventi, possibilmente in tutta la loro ampiezza per offrire ai professionisti internazionali informazioni di prima mano.

Anzitutto, l’estratto dell’atto di nascita autentico e inoppugnabile del film muto La morte di Dracula si legge nel Belügyi Közlöny (Bollettino Ufficiale del Ministero dell’Interno):

 

Il Comitato Reale Nazionale Ungherese per la Revisione Cinematografica ha trovato  accettabile, in base all’ordine 66/1923, la proiezione dei seguenti film: 40. La Morte di Dracula (Lapa) dramma in 4 atti prodotto nella fabbrica di film Lapa nel 1921 e lungo 1448 metri (Belügyi Közlöny,  25.03.1923)

 

Nei giornali appare così per la prima volta il titolo La morte di Dracula per il film conosciuto fino a quel momento semplicemente come Dracula. Lo stesso Comitato darà permesso solo agli spettatori sopra i sedici anni di guardare il Nosferatu di F.W. Murnau.

La prima notizia ufficiale di stampa del film di Dracula viene da Károly  Lajthay. Finalmente vi si chiarisce la questione dell’autore: Lajthay scrisse la storia con Kertész Mihály. I protagonisti principali erano esclusivamente degli attori austriaci o tedeschi, le riprese invernali furono fatte nel 1920. Attori ungheresi per ora non sono citati. Il titolo Dracula è menzionato anche da Komödie di Vienna. Ecco la risposta di Lajthay nella rivista Színházi Élet (Vita del Teatro):

 

Registi ungheresi a Vienna. La produzione cinematografica a Vienna è quasi interamente in mano ungherese, perché qui predominano i registi ungheresi. Korda e Kertész hanno avuto un successo senza precedenti. Il Seine Majestät das Bettelkind [Il principe e il povero, 1920], diretto da Sándor Korda, è poi uscito a Budapest. L’avete visto alla presentazione stampa di oggi e avete potuto constatare senza ombra di dubbio che è perfetto. Kertész ha ora completato il suo ultimo film, intitolato: Cherchez la femme. Il film è stato proiettato oggi “in casa”, davanti a un pubblico invitato. Chi ha avuto la fortuna di assistere a questa presentazione ha parlato con autentico entusiasmo di questo nuovo capolavoro di Kertész. Il ruolo femminile principale in questo film è ovviamente interpretato da Lucy Doraine. Korda e Kertész vengono costantemente bombardati da offerte provenienti da Italia e Germania, non ultima quella secondo cui Kertész dovrebbe dirigere l’ultimo film di Henny Porten, che non sarebbe altro che un sequel di Anna Boleyn [regia di Ernst Lubitsch, 1920]. Korda ha anche iniziato a recitare nel cinema, con la moglie Antónia Farkas e l’italiano [Alberto] Capozzi. Anche i film di Szöreghy erano brillanti. Io sto facendo la regia del mio film Dracula, che abbiamo scritto insieme con Mihály Kertész. Con le riprese esterne sono quasi pronto. Sono state girate vicino a Helimental Melk. Le riprese interne le voglio fare nello studio della Fabbrica del film Corvin perché uno studio simile cosi perfetto non esiste a Vienna. Il 2 gennaio verrò a Budapest, con i protagonisti principali. Hanno avuto una parte ottima nel film Magda Sonja, Anna Marie Hegener, Lene Myl, Paul Askonas. Porto con me l’operatore migliore di Vienna, Hösst [Eduard Hoesch]. Il film è grande, pieno di motivi d’interesse. I plen air invernali sicuramente offriranno uno spettacolo di prim’ordine. (Színházi Élet, 1920)

 

La presentazione alla stampa viennese di Dracula  avvenne nel febbraio del 1921 con grande successo, scrive la rivista Színház és Mozi (Teatro e Cinema):

 

Károly Lajthay, l’eccellente regista che vive a Vienna, ha terminato qualche settimana fa le riprese interne del dramma intitolato Dracula nello studio della fabbrica Corvin… È stato ora presentato alla stampa viennese e ha avuto un enorme successo. (Színház és Mozi, 1921)

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Il gabinetto del dottor Lajthay https://www.carmillaonline.com/2018/03/12/il-gabinetto-del-dottor-lajthay/ Mon, 12 Mar 2018 22:18:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44221 di Franco Pezzini

Cristiana Astori, Tutto quel buio, Elliot, Roma 2018, pp. 254, € 17,50

Partiamo da una foto: in un bianco e nero sgranatissimo, ma a suo modo straordinaria, onirica. Al primo colpo d’occhio notiamo una sorta di stilizzato baccanale di figure femminili (tre, a guardar bene) circondate da sagome sfuggenti: occupano due terzi dello spazio verso destra in un contesto di festa pagana tra fiori e musica – il capelluto in primo piano, che ostenta sulla schiena l’immagine di un gatto nero, pare stia suonando. Le tre donne e [...]]]> di Franco Pezzini

Cristiana Astori, Tutto quel buio, Elliot, Roma 2018, pp. 254, € 17,50

Partiamo da una foto: in un bianco e nero sgranatissimo, ma a suo modo straordinaria, onirica. Al primo colpo d’occhio notiamo una sorta di stilizzato baccanale di figure femminili (tre, a guardar bene) circondate da sagome sfuggenti: occupano due terzi dello spazio verso destra in un contesto di festa pagana tra fiori e musica – il capelluto in primo piano, che ostenta sulla schiena l’immagine di un gatto nero, pare stia suonando. Le tre donne e il seguito puntano verso sinistra: dove nel primo terzo della foto, dietro un parallelepipedo che forse è un altare, spicca una ragazza dallo sguardo straniato. Sta fissando quella festa per lei e per l’uomo tenebroso in piedi alle sue spalle con aria soddisfatta. È una festa di nozze.

C’è qualcosa di piuttosto spettrale, nei film che vanno perduti. L’evento triste e magari scellerato della scomparsa di un libro può permettere la sopravvivenza di citazioni (a volte potenziate dall’autorevolezza di chi le tramanda), di interi stralci o di quei riassunti che in fondo costituiscono delle rinarrazioni – infinitamente impoverite, è chiaro – dell’originale, ma almeno nel suo medesimo linguaggio scritto. Mentre è ben raro che di un film perduto sopravvivano sequenze: quando va bene resta qualche foto come appunto l’immagine appena descritta, con uno slittamento però verso un diverso tipo di linguaggio – quello fotografico, degnissimo ma diverso – e la perdita di movimento, luci, eventuale audio. Se i giochi d’illusioni del cinema hanno qualcosa a che vedere con la dimensione del fantasmatico, il film perduto è il fantasma di un fantasma. Anche se talvolta può riemergere.

Di film perduti si occupa Susanna Marino, protagonista di una serie di romanzi di Cristiana Astori. Ora felicemente passati da un altro ambito un po’ fantasmatico – le pubblicazioni da edicola, a volte veri gioielli che però sfarfallano per un tempo breve nel transeunte delle riviste – agli scaffali delle librerie per i tipi Elliot. Un passaggio in realtà attesissimo dopo il successo delle precedenti, scintillanti avventure della cercatrice di pellicole scomparse: testi dove il registro popolare (definizione tecnica, in nessun modo sminuente) svela una ricchezza di vivacità ma anche di cultura nella ricostruzione puntuale di mondi perduti assieme a quei film.

Stavolta è l’ambiguo collezionista torinese Altavilla ad arruolare Susanna alla ricerca di un lost film ungherese del 1921. Un’opera diretta dal transilvano trentottenne Károly Lajthay, già produttore e sceneggiatore, ma soprattutto attore di buon successo (almeno diciassette partecipazioni tra il 1916 e il 1920, a volte come Charles Lederle) e poi regista d’un certo nome (diciotto titoli tra il 1918 e il 1944); ma un’opera sbocciata in un paese il cui cinema nascente è stato travolto dalla Grande guerra. La settima arte in Ungheria si era sviluppata con entusiasmo, in forme anche molto originali: per esempio certe ibridazioni col teatro che vedevano brevi proiezioni seguite dall’irruzione in palcoscenico degli attori in carne e ossa, a interagire coi propri personaggi. C’era anche una produzione critica di qualità; ma l’impatto della guerra era stato rovinoso, e a proteggere il cinema non erano bastate le misure decise nel breve periodo della repubblica comunista di Béla Kun (marzo-agosto 1919) con la nazionalizzazione del settore contro la forza delle produzioni straniere. Chiuso quel periodo (quando artisti di sinistra come Arisztid Olt, all’anagrafe Béla Ferenc Dezső Blaskó, il futuro Bela Lugosi, sono costretti a lasciare il paese), e nonostante i registi ungheresi come Lajthay finiscano col dominare con la loro effervescenza la stessa piazza di Vienna, i contraccolpi sono stati troppi. Il nostro film viene girato per gli esterni in Austria (Vienna, valle di Wachau e Melk) e gli interni al Corvin Film Studio di Budapest e si parla di una première a Vienna nel febbraio 1921, su cui però grava uno strano silenzio; una prima a Budapest sarà solo nel 1923. Intanto in Ungheria è dilagata la crisi del sistema cinema, dalle produzioni alle sale: e in questo buco nero forse complicato da problemi legali o di censura scompare la pellicola che nel 2015 appunto Susanna è incaricata di ricercare. Inviata in una Budapest che ripiega i suoi innumerevoli passati in una sorta di incubo espressionista, dovrà fare i conti con morti orrende di altri cercatori della stessa reliquia; e in parallelo assistiamo a scorci di quel passato, incontrando Lajthay e l’attrice scelta come protagonista…

Partiamo da un aspetto intrigante di tipo classificatorio. Dal punto di vista “tecnico”, la saga di Susanna (chiamiamola così) presenta storie rigorosamente richiamabili alla nebulosa del poliziesco: delitti, pericoli nell’ombra, voltafaccia e colpi di scena, turbamenti della psiche, parecchia azione nel modo classicissimo del feuilleton (fughe sui tetti, discese per sotterranei, inseguimenti…) e comunque colpevoli umani; le venature nere strizzano l’occhio ora al thriller ora all’horror, ma appunto con una chiave interpretativa di tipo razionale. Eppure esistono forti motivi per considerare questi romanzi come compiutamente fantastici, e non soltanto per l’assunto di Borges che lo è tutta la letteratura.

Il fatto è che, almeno in prima battuta, il “fantastico” non è tanto un contenuto quanto un modo di guardare e di narrare: e ciò spicca in questa saga attraverso due coordinate. Da un lato quella soggettiva di Susanna: che non è la protagonista de Il favoloso mondo di Amélie e la sua vita è tutta un pasticcio, tra attacchi di narcolessia, angosciosi ricordi dell’amatissimo Edoardo di cui ha accidentalmente causato la morte, e un irrisolto problema di definizione personale (familiare, rispetto ai genitori ingombranti; professionale e lavorativa; anche sentimentale). Ogni indagine è anche una quest, in qualche modo di se stessa. Dall’altro lato c’è la coordinata oggettiva della narrazione, perché sappiamo che una storia apparentemente priva di contenuti “altri” può svelare sottofondi, echi, paradigmi del fantastico: pensiamo a uno dei romanzi più famosi della storia del poliziesco e in apparenza epifania di razionalità, Dieci piccoli indiani di Agatha Christie, in realtà tutto tessuto e sostenuto sottotesto da topoi mitici, visionari e fantastici. Sottotesto, appunto: e anche nella saga di Susanna, di genere essenzialmente poliziesco, il sottotesto è fantastico.

Dal primo punto di vista, soggettivo, dimentichiamo Lara Croft: Susanna non è un’eroina avventurosa per carattere, e all’avventura è in genere trascinata obtorto collo (spesso dal predatore di pellicole perdute Steve Salvatori, sorta di controcanto ironico e dalle mille risorse, complice/rivale e iniziatore – non a caso ha perso un occhio, quasi una mutilazione mitica – con cui lei mantiene una burrascosa dialettica di vaga attrazione e baruffe). Certo la Nostra, messa in gioco, sa mostrare iniziativa e tenacia; ma probabilmente proprio il suo statuto antieroico e autoironico è uno dei motivi del grande successo coi lettori. Accompagnato da una caratteristica che resta un po’ implicita, ma innerva le storie – appunto – sottotesto: un rapporto con il sonno (la narcolessia) e la morte (quella di Edoardo, che continua a portarsi addosso come un’ombra) che finisce con il proiettarla in una dimensione in senso lato sciamanica. È per esempio una costante che nelle sue avventure figuri a un certo punto un incontro con il mago Grey Angel (già il nome richiama a un certo tipo di immaginario da spettacolo pop) di un locale pubblico sui Murazzi di Torino, che però ormai non sembrano rappresentare più un’identità in carne e ossa e un luogo materiale: il lettore li percepisce come parte integrante dell’interiorità di Susanna, della sua vita mentale – una sorta di spazio per rielaborare le cose, una camera stagna con il passato – e dei suoi sogni, e il linguaggio è chiaramente quello visionario/fantastico. Ma qualcosa del genere accade più in generale per quelle sensazioni di Susanna che sconfinano nell’allucinatorio e nello spettrale: medium tra il mondo dei vivi e quello dei fantasmi di fantasmi – appunto i film perduti – Susanna è confinata quasi di necessità in una condizione liminare.

Però c’è anche un piano oggettivo, della forma-narrazione. Se nel primo volume della saga, Tutto quel nero, 2011, l’autrice affrontava la favola nera di un perduto film della carismatica attrice spagnola Soledad Miranda, richiamando un intero panorama di cinema di exploitation degli anni Sessanta, e il fiato delle sue ombre; se nel seguito Tutto quel rosso, 2012, il mistero e i cardiopalmi riguardavano Dario Argento ed estensioni sconosciute del film-culto Profondo rosso; se nella terza puntata, Tutto quel blu, 2014 (come i precedenti per Il Giallo Mondadori), Susanna si confrontava con un film e un autore ai più del tutto ignoti, cioè quell’enigmatico L’autuomo di Marco Masi, 1984, in cui suggestione fantascientifica e motivo politico si fondevano attraverso il motivo-simbolo dell’androide; se insomma le pellicole perdute e ritrovate rimandano a temi paradigmaticamente aperti al visionario e al fantastico (su Profondo rosso, formalmente thriller, vale quanto detto per il sottotesto), è in realtà tutto l’intreccio – impianto di trama, dinamiche tra personaggi, sapori d’ambiente – a intonarsi al tipo di cinema evocato, in termini che sfuggono ogni gabbia di corrucciato verismo. Perché i generi sono uno spazio di libertà, non gabbie asfittiche, e le relative demarcazioni – preziose per ragionare su alcune costanti o, più pragmaticamente, per capire su quale scaffale collocare un libro – rappresentano la classica scala da utilizzare e poi esser pronti a gettare via.

L’arrivo di Tutto quel buio non può che confermare una formula di successo: tanto più che il film cercato si muove a sua volta su una pista emblematicamente fantastica. Si tratta infatti del Drakula halála (La morte di Dracula), 1921, il primo film vagamente “ispirato” al Dracula stokeriano di cui esistano notizie articolate: il Nosferatu di Murnau uscirà l’anno dopo, 1922, mentre di precedenti Dracula ricordati dai repertori cinematografici – uno russo e forse uno rumeno, entrambi 1920 – sappiamo troppo poco e possiamo solo fantasticare (sarebbe affascinante capire qualcosa di più sul contesto in cui fermentarono, per esempio sulle eventuali metafore politiche di quello russo; tralasciamo invece, perché comportano altri discorsi, i Conti Dracula spuri apparsi in contesti diversi nella cinematografia anni 1910-18). È insomma Drakula halála il primo film su cui gli studiosi di Stoker possono concretamente ragionare dell’estensione di un mito, e che affascina per una quantità di motivi. Anzitutto le implicazioni di immaginario geografico: il Dracula stokeriano non è un voivoda valacco ma un conte – appunto – ungherese, e il rapporto provocatorio del tema con l’Ungheria tramite una protoproduzione filmica risulta particolarmente intrigante anche a prescindere dai successi più tardi di Lugosi (il fatto stesso che anche le altre prime trasposizioni filmiche del romanzo – la russa e la rumena citate, la tedesca di Murnau – non muovano nel mondo anglosassone di Stoker ma nell’Europa centro-orientale pare interessante). In secondo luogo per i soggetti coinvolti, e le loro dinamiche: per esempio con il regista Lajthay collabora alla sceneggiatura quel Mihály Kertész poi meglio noto come Michael Curtiz, dopo il trasferimento in America che lo condurrà a successi come Casablanca; per contro una certa nebbia avvolge le vite degli altri nomi di cast & crew – in particolare la misteriosissima Margit Lux interprete della protagonista Mary Land, ma anche gli altri, noti ai repertori ma in termini più o meno elusivi. Ancora, il taglio prescelto: della pellicola perduta sopravvive infatti una novelization di Lajos Pánczél, 1924, che mostra come la sceneggiatura marcasse una netta distanza dalla trama stokeriana, nel segno di una rilettura del romanzo allucinatoria e psichiatrica (inevitabile pensare a Krafft-Ebing, a Freud…) molto austroungarica. Aggiungiamo che di tutto l’insieme sopravvivono poche locandine e alcune incredibili foto. Come quella di Paul Askonas nel ruolo di Dracula, una vera e propria maschera straniante di deriva psichica; o l’altra descritta all’inizio, in cui Mary sta sognando – ma sogna davvero? – la sua festa di nozze con Dracula nel tripudio delle altre spose e delle creature della notte…

Non spoileriamo qui sulla trama di Tutto quel buio, sulle ricostruzioni necessariamente libere ma ragionevoli e drammaticamente efficaci offerte dall’autrice ai profili sfuggenti di Margit Lux e di Lajthay – e sull’avventura di Susanna che la condurrà, cercando quei sessantacinque minuti di pellicola, sui bordi del pozzo nero del Male del Novecento. Torniamo piuttosto a quanto detto: se il conte Dracula di Stoker – che conosciamo solo attraverso i diari dei suoi nemici, quasi tutti profili psicologici un tantino disturbati – potrebbe persino non esistere e leggersi come mera fantasia di un gruppo di menti sovraeccitate e sessuofobe, un simile rapporto ambiguo tra spiegazioni “razionali” e fantastico investe sia la trama del Drakula halála sia la ricchezza di spunti di un romanzo – certo – poliziesco, che però non si esaurisce in quella formula. E richiama i lettori alla necessità di un approccio più duttile ai generi e a una maggiore problematicità del discorso oggi corrente sul fantastico.

Se il primo modello del Dracula stokeriano era molto più “poliziesco” del risultato finale, è attraverso gli echi di un linguaggio fantastico che lo spazio del vampiro – chiamiamolo così – può svelare una realtà terribilmente seria, che fermenta in modo tragico dal piano dell’interiorità e dei rapporti interpersonali a quelli della grande Storia. È sempre attraverso quel linguaggio che possiamo riconoscere un senso più pregnante e profondo al rapporto di Susanna coi morti, a certi casi fortuiti della trama (se i morti stessi chiamano la sciamana, non c’è più nulla di “casuale”), alla catabasi finale in tutto quel buio in cui Susanna può riordinare gli ultimi tasselli. È la sua solitudine a renderla tanto recettiva e permetterle anche in questa quest di scoprire qualcosa di sé – e qualcosa abbandonare, in modo consapevole. Piccola grande parabola della capacità del cinema di lavorare sulla luce e sul buio per far emergere ciò che altrimenti resta tra le pieghe, Tutto quel buio è – al di là di ogni lettura di superficie, che pure è lecita e persino divertente – un romanzo profondo, poetico e a tratti davvero emozionante, struggente. Con un epilogo cinefilo delizioso.

Quanto detto basterebbe da solo a far riconoscere ottimi motivi di fascinazione nel romanzo di Astori. A rafforzarli è però un altro elemento: il fatto cioè che in parallelo all’indagine di Susanna anche l’autrice finisca col condurne una propria sul film perduto, con risultati – a dispetto del suo understatement o forse anche grazie a quello – piuttosto clamorosi. In seguito alle sue indagini per Tutto quel nero veniva infatti ritrovato il film “impossibile” con Soledad Miranda (in macchina assieme al marito, sulla stessa strada presso Lisbona dove i due avranno anni dopo l’incidente a lei fatale), già considerato pura leggenda da gran parte della critica; in seguito alle ricerche per Tutto quel blu riemergeva il perduto L’autuomo. Per Tutto quel buio l’autrice si è avvalsa della consulenza di una delle massime autorità sul Drakula halála, Gary D. Rhodes dell’Università di Belfast, che le “ha recentemente rivelato di aver trovato altro materiale, proprio in quel di Budapest: la scoperta ci fa sperare che prima o poi venga alla luce anche questa pellicola, o almeno una parte significativa di essa”. Confidiamo in Susanna.

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