Little Big Horn – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Emilio Salgari, perché la tigre ruggisce ancora https://www.carmillaonline.com/2024/10/23/emilio-salgari-perche-la-tigre-e-ancora-viva/ Wed, 23 Oct 2024 20:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84973 di Sandro Moiso

Paola Irene Galli Mastrodonato, Emilio Salgari. The Tiger Is Still Alive!, Fairleigh Dickinson University Press copublished by The Rowman & Littlefield Publishing Group, Lanham (Maryland- USA) – London (UK) 2024, pp. 432.

Inquadrato Salgari entro i suoi limiti stilistici, assolutamente evidenti, è doveroso riconoscergli un’influenza sul fantasticare giovanile – e non solo – che pochissimi suoi contemporanei hanno avuto. Quanto alla battaglia per la conoscenza, essa riguarda una domanda cruciale: ribalto in altra forma, volutamente provocatoria: qualcuno pensa che il più recente vincitore del Premio Strega soppravviverà al 2015, al 2025, al 2035? Mi permetto di dubitarne. [...]]]> di Sandro Moiso

Paola Irene Galli Mastrodonato, Emilio Salgari. The Tiger Is Still Alive!, Fairleigh Dickinson University Press copublished by The Rowman & Littlefield Publishing Group, Lanham (Maryland- USA) – London (UK) 2024, pp. 432.

Inquadrato Salgari entro i suoi limiti stilistici, assolutamente evidenti, è doveroso riconoscergli un’influenza sul fantasticare giovanile – e non solo – che pochissimi suoi contemporanei hanno avuto. Quanto alla battaglia per la conoscenza, essa riguarda una domanda cruciale: ribalto in altra forma, volutamente provocatoria: qualcuno pensa che il più recente vincitore del Premio Strega soppravviverà al 2015, al 2025, al 2035? Mi permetto di dubitarne. Invece l’effimero Salgari ci accompagna dalla fine dell’Ottocento e ancora non accenna a scomparire. Capirne il motivo dovrebbe importare a chiunque analizzi lo scrivere o scriva egli stesso. Attiene al motivo per cui, dall’alba dei tempi, gli esseri umani si raccontano storie e condividono l’immaginazione altrui. (Valerio Evangelisti, Perché Mompracem resiste ancora -2003)

Alla luce dell’analisi svolta da Paola Irene Galli Mastrodonato sull’opera complessiva di Emilio Salgari, il pur positivo giudizio espresso da Valerio Evangelisti potrebbe risultare ancora limitato e parziale. La studiosa, tutt’altro che nuova alla trattazione delle vicende letterarie e critiche ricollegabili alla figura del grande e, certamente, sottostimato autore di libri di avventure, nel monumentale saggio appena pubblicato in lingua inglese dalla Fairleigh Dickinson University Press riesce infatti ad attualizzare e a mettere in luce aspetti fino ad ora ignorati del lavoro, svolto spesso tra mille difficoltà ed angosce, non soltanto di carattere economico, dello scrittore nato a Verona nel 1862 e scomparso a Torino, per propria mano non ancora, cinquantenne nel 1911.

L’autrice ha conseguito un PhD presso la McGill University (Canada), in Letteratura Comparata, e ha trascorso gran parte della sua vita lavorativa presso l’Università della Tuscia (Viterbo) e quella di Potenza dove ha insegnato Lingua Inglese, Letteratura e traduzione in qualità di ricercatrice confermata. Ha pubblicato svariati libri, articoli e saggi sulla letteratura del XVIII secolo e del periodo rivoluzionario1. Inoltre ha pubblicato studi sulle letterature emergenti e l’inscrizione geografica dell’immaginario2.

“Salgariana di vecchia data”, come lei stessa si definisce, ha pubblicato inizialmente un saggio sulle due Indie di Salgari e Forster ( 1996) e ha proseguito con un saggio del 2001 sul “caso” Salgari, tradotto in francese e citato all’estero. Ha proseguito poi con la pubblicazione di svariati articoli e di due volumi collettanei3, perseguendo, con ferma volontà, il tentativo di inserire i romanzi avventurosi dell’autore italiano all’interno degli studi post-coloniali e sulle culture contemporanee. Prefiggendosi, come afferma ancora la stessa «l’obiettivo di inserire Salgari nel discorso critico e postcoloniale in inglese per colmare un vuoto di ricezione che dura da troppo tempo». Ritrovandosi così indirettamente dalla parte dello stesso Valerio Evangelisti, quando questi affermava che:

Emilio Salgari gode oggi di ampio interesse da parte della critica. Si tratta però, nella maggior parte dei casi, di un interesse tra il bonario e il divertito, teso a inquadrare il “fenomeno Salgari” – che si impone come tale in virtù della sua capacità di parlare a intere generazioni, spesso condizionandone l’immaginario – in una nicchia ai margini della storia della letteratura italiana. Magari si destruttura la prosa salgariana, si cercano i meccanismi della sua “magia”, ma quasi sempre si finisce per individuarne il cuore nel colorito e nel pittoresco. Secondo me c’è ben di più, ed è la connessione stretta tra l’opera di Salgari e l’intero universo della narrativa popolare, con la sua capacità di destare emozioni durature e di riproporle a dispetto del tempo trascorso4.

Anche se il discorso di Paola Irene Galli Mastrodonato si è di fatto approfondito e, in qualche modo radicalizzato, trovandosi anche a polemizzare, per alcuni versi, con un’altra studiosa del “Capitano”, Ann Lawson Lucas5, che per Einaudi ha curato il volume dei «Millenni» dedicato a Salgari: Romanzi di giungla e di mare (2001), che aveva definito Salgari come una “spugna” capace di assorbire influenze e nozioni provenienti da letture e impressioni giornalistiche senza riconoscergli, invece, la grande capacità di rielaborazione e invenzione riconducibili, entrambi, allo sforzo immane di ricerca di dati storici, sociali, antropologici e geografico-naturalistici così come di fonti originali di informazione che costituirono sempre la fitta rete strutturale che avrebbe retto ogni testo salgariano.

Emilio Salgari. The Tiger Is Still Alive! si articola intorno ad una introduzione, in cui si ripercorrono brevemente le vicende “personali” dello scrittore, e a cinque densi capitoli che ne affrontano ognuno qualche aspetto particolarmente significativo, accompagnati da una ricchissima bibliografia di quasi venti pagine che raccoglie una grande quantità di contributi dedicati al medesimo, sia in Italia che all’estero, oltre che da un elenco delle sue opere.

Il primo capitolo espone la dimensione planetaria delle avventure narrate da Salgari, mentre il secondo si sofferma sulla dimensione epica della resistenza contro l’imperialismo britannico contenuta all’interno del ciclo delle Tigri di Mompracem. Il terzo, che si ricollega direttamente al secondo, esplora la dimensione indiana dei Misteri della Giungla Nera collegandola alla rilettura italiana che giungerà fino ai film di Sollima con protagonista l’attore indiano Kabir Bedi e all’influenza della stessa su uno scrittore importante come Amitav Ghosh, che in alcuni suoi romanzi non solo ha chiamato direttamente in causa l’autore italiano e, in particolare, le “sue” Sunderbans, le foreste di mangrovie in cui le acque del Delta del Gange e di altri grandi fiumi si mescolano a quelle salmastre dell’Oceano, di cui parla proprio nel ciclo indiano, ma ne ha anche tratto ispirazione nella costruzione di un’epica moderna indiana in cui il ricordo del passato coloniale e la lotta anticoloniale si mescolano all’avventura con la A maiuscola6.

Il quarto capitolo è invece dedicato al Corsaro Nero e al ciclo caraibico di pirati, amore e vendetta. Ma è il quinto a costituire il boccone più succulento per quanto riguarda la revisione degli studi critici sull’opera di Salgari. Non a caso, quindi, è intitolato proprio all’eredità di Emilio e alla necessaria decostruzione non solo degli studi letterari a lui dedicati, ma anche della concezione, contenuta nella maggioranza degli stessi, che vede separati l’alto e il basso, il popolare e il colto nell’ambito dell’invenzione letteraria.

In quest’ultimo non soltanto si sottolinea con forza la continuità degli elementi antimperialisti, anticolonialisti e antirazzisti contenuti nei suoi romanzi, ma se ne scopre e difende la sostanziale modernità interpretativa degli elementi “realistici” e/o storici che fanno da sfondo o scenario dei fatti narrati. A partire da quella classica che, nel contesto degli studi letterari, si pone più spesso: «Chi è un autore popolare e cos’è un testo popolare?».

La ricezione del pubblico e la diffusione di un testo oppure la popolarità di un autore e dei suoi personaggi, fanno certo parte della risposta. Una risposta che, però, troppo spesso separa il sottotesto, il contesto e gli elementi di riflessione contenuti in un’opera o di un autore di “successo” da quelli riconosciuti come tali in un testo o in un autore “colto”. Il paragone che l’autrice stabilisce, per fare ciò, tra i romanzi salgariani e quella che ritiene l’opera letteraria popolare più celebre e diffusa di tutti i tempi – Rebecca di Daphne Du Maurier, pubblicata nel 1938 – e quello successivo di questa con La nausea di Jean Paul Sartre, si rivela subito molto interessante per comprendere come, troppo spesso (per non dire sempre), la critica accademica rifiuti di riconoscere nelle opere popolari le stesse valenze, sia a livello di contenuto che interpretative, di quelle ritenute “colte”. In questo caso l’esistenzialismo riconducibile ad entrambe, ma riconosciuto soltanto nella seconda.

L’autrice dello studio, nel difendere la modernità e la complessità dell’eredità letteraria di Salgari, afferma:

Mi si lasci iniziare [… ] rivedendo proprio ciò che è stato considerato il suo tallone di Achille, il suo stile letterario. Se noi consideriamo infatti la mimesis come “imitazione” o “convenzione” noi dobbiamo tutti concordare sul fatto che si allontana decisamente dal realismo mimetico (così come, ad esempio, fece Byron) sia per le sue trame esotiche che per le contaminazioni linguistiche contenute nelle stesse. Per questo motivo è profondamente antinaturalistico e antimimetico, sia positivista (per la sua visione enciclopedica planetaria) che anti-positivista (la trama dei Misteri della Giungla nera oppure la distopia delle Meraviglie del Duemila), mentre Alfredo Luzi ha accertato definitivamente l’originalità e la qualità della tecnica “post-moderna” di Salgari basata su ciò che Édouard Glissant ha definito come una “rete di riferimenti”, l’abilità di inserire “nuclei narrativi di finzione all’interno un tessuto di eventi reali”, un tratto distintivo della sua lingua meticcia e creola, irrispettosa delle regole”. Come ho dimostrato, sebbene in una forma ancora obbligatoriamente incompleta, la prosa di Emilio è allo stesso tempo “visuale” e “visionaria”, aperta ad un paesaggio “utopico”, l’eccezionale frutto di una scrupolosa riscrittura delle fonti consultate7.

Non potendo, però, per motivi di spazio e tempo indagare completamente la riflessione dell’autrice sui riferimenti della cultura pop, cinematografica e televisiva ai romanzi salgariani, preme a chi recensisce qui il testo sottolineare ancor alcuni elementi messi in risalto da Paola Irene Galli Mastrodonato.

Il primo, che si ricollega direttamente all’impianto antiimperialista dell’autore, è legato al primo kolossal del cinema italiano e forse mondiale: Cabiria di Mario Pastrone, realizzato nel 1914, tre anni dopo la scomparsa di Salgari. Tratto liberamente dal suo romanzo Cartagine in fiamme, ma la cui sceneggiatura attribuita a Gabriele D’Annunzio, cancellando l’autore originale, avrebbe completamente ribaltato l’impianto anti-romano e le caratteristiche dei personaggi principali.

Fatto che rivela anche, come sottolinea ancora la ricercatrice, l’inconsistenza dell’accusa di “fascismo” rivolta ad un autore scomparso undici anni prima dell’avvento del regime mussoliniano, la cui unica colpa era, e per molti versi rimane, quella di essere stato uno degli autori italiani più letti, in Italia e all’estero, del Novecento. Periodo fascista incluso. Accusa che, se si pensa al peso successivamente attribuito ad autori per l’infanzia come Gianni Rodari (strettamente ricollegabile al periodo filo-sovietico e stalinista del PCI, ancora dopo la seconda guerra mondiale), appare francamente proditoria e ridicola.

L’ultimo punto che l’autore di queste insufficienti righe vorrebbe ancora sottolineare è quello del ruolo delle figure femminili nel contesto dell’opera salgariana. Tralasciando le figure di Marianna, Jolanda e molte altre eroine ancora, compresa la coraggiosa Capitana dello Yucatan, è dalle pianure del Far West che queste ricevono il massimo splendore, unendo un differente interpretazione del mito del West in chiave anti-razzista e anticoloniale a quella di donne rappresentate obbligatoriamente come deboli, indifese, destinate ad essere soltanto vittime, madri, sorelle e amanti fedeli. A differenza di Minnehaha e Yalla protagoniste della trilogia western: Sulle frontiere del Far West, La scotennatrice e Le selve ardenti.

Oltre ad anticipare gli spaghetti-western di sessant’anni dopo, con il coinvolgimento di giovani e avventurosi italiani nelle vicende narrate, la trilogia metterà al centro della vicenda la resistenza dei nativi al progressivo avanzare dei coloni bianchi e dei massacri perpetrati dagli stessi e dall’esercito degli Stati Uniti nei confronti degli abitatori originali delle grandi pianure dell’Ovest. Non a caso la vendetta della figlia di Nuvola Rossa si compirà soltanto con il massacro del Little Big Horn, dove il colonnello Custer e i suoi uomini pagheranno il prezzo delle angherie perpetrate precedentemente sulle tribù più indifese.

Ma non è soltanto il riconoscimento in anticipo della violenza subita dai popoli amerindi a colpire il lettore, poiché anche la forza delle figure di donne guerriere all’interno delle differenti tribù Apache, Sioux Oglala, Cheyenne o altre ancora è stata riscoperta e sottolineata nelle ricerche storiche e antropologiche al femminile condotte negli ultimi decenni. Ricerche che rivelano come l’importante ruolo delle donne sciamano e guerriere, esattamente come nelle tradizioni nordiche, appartenesse totalmente a società che troppo spesso sono state ridotte a primitive, barbare e maschiliste. Creando un modello femminile immaginario di cui, purtroppo, sembra ancora nutrirsi tanto femminismo perbenista in stile Me Too.

Come si è già detto, soltanto ragioni di spazio obbligano il recensore a fermare qui la sua ricapitolazione della ricchezza di osservazioni, riflessioni e riletture che il bellissimo e interessantissimo testo di Paola Irene Galli Mastrodonato avanza in quasi ogni pagina e non rimane che augurare che lo stesso testo trovi al più presto un editore per la sua pubblicazione anche qui in Italia, da troppo tempo adusa alla boria di una critica letteraria insufficiente e stantia, anche quando, e forse soprattutto, si pensa “progressista”.


  1. La rivolta della ragione, 1991; Storia della vita e tragica morte di Bianca Capello. Genesi di un racconto si successo del Settecento, 2009 e “Romans gothique anglais et traductions françaises: l’année 1797 et la migration des récits”, 1986, che è stato in seguito inserito nella Cambridge History of the Gothic nel 2020.  

  2. Ai confini dell’Impero. Letterature emergenti (1996) e Geo-Grafie: percorsi di frontiera attraverso le letterature (1999).  

  3. Il tesoro di Emilio: omaggio a Salgari (2008) e Riletture salgariane (2012).  

  4. V. Evangelisti, op. cit., p. 180.  

  5. A. Lawson Lucas, La ricerca dell’ignoto. I romanzi di avventura di Emilio Salgari, Leo S. Olschki, Firenze 2000.  

  6. Si vedano in particolare i romanzi della trilogia ruotante intorno alla Guerra dell’Oppio: Mare di papaveri, Neri Pozza Editore,Vicenza 2008; Il fiume dell’oppio, Neri Pozza, Vicenza 2011 e Diluvio di fuoco, Neri Pozza, Vicenza 2015.  

  7. P.I. Galli Mastrodonato, Emilio Salgari. The Tiger Is Still Alive!, Fairleigh Dickinson University Press copublished by The Rowman & Littlefield Publishing Group, Lanham (Maryland- USA) – London (UK) 2024, p. 380. Traduzione a cura del recensore.  

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True West https://www.carmillaonline.com/2024/01/31/true-west/ Wed, 31 Jan 2024 21:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80887 di Sandro Moiso

Daniele Pasquini, Selvaggio Ovest, Enne Enne Editore, Milano 2024, pp. 360, 18 euro

E l’America non è più l’America, non più un mondo nuovo: è tutta la terra. (Americana – Elio Vittorini)

Il romanzo di Daniele Pasquini fotografa, si fa per dire, il momento in cui l’affermazione di Elio Vittorini citata in epigrafe iniziò a diventare realtà, già sul finire del XIX secolo. In Europa e in Italia. Il tempo in cui il cosiddetto mito americano inizio a concretizzarsi al di qua dell’Oceano Atlantico proprio grazie alle iniziali trionfanti esibizioni del Wild West Show ovvero il circo [...]]]> di Sandro Moiso

Daniele Pasquini, Selvaggio Ovest, Enne Enne Editore, Milano 2024, pp. 360, 18 euro

E l’America non è più l’America, non più un mondo nuovo: è tutta la terra. (Americana – Elio Vittorini)

Il romanzo di Daniele Pasquini fotografa, si fa per dire, il momento in cui l’affermazione di Elio Vittorini citata in epigrafe iniziò a diventare realtà, già sul finire del XIX secolo. In Europa e in Italia. Il tempo in cui il cosiddetto mito americano inizio a concretizzarsi al di qua dell’Oceano Atlantico proprio grazie alle iniziali trionfanti esibizioni del Wild West Show ovvero il circo messo in piedi da William Fredrick Cody, in arte Buffalo Bill.

Una gigantesca macchina dello spettacolo che metteva in scena la “conquista” dell’Ovest selvaggio americano e le imprese “eroiche” dello scout dai lunghi capelli attraverso l’impiego di più di mille tra uomini e animali e con un incasso annuale di circa un milione di dollari, di cui un 10% costituiva, secondo l’”eroe del West”, l’utile garantito. Un gigantesco affare destinato a modificare l’immaginario europeo, dopo aver esaltato quello degli americani che non avevano mai vissuto quelle esperienze.

E che, a ben guardare, non aveva vissuto in “forma eroica” nemmeno il protagonista che, però, poteva vantare di aver abbattuto 4286 bisonti nel corso di diciassette mesi trascorsi, in qualità di scout dell’esercito e cacciatore per i costruttori delle ferrovie destinate ad unire il continente americano da un oceano all’altro, e di ave “preso” lo scalpo di Mano Gialla, un capo guerriero Sioux da lui ucciso in battaglia.

Imprese che avevano contribuito grandemente alla sconfitta delle ultime tribù di nativi ribelli, più ad opera della fame che del coraggio e del valore dei cavalieri in blu, i quali proprio a Little Big Horn, nelle Black Hills, avevano subito una delle più dure sconfitte militari ad opera delle tribù Lakota, Cheyenne e Arapaho riunite da Toro Seduto e guidate da Cavallo Pazzo.

In una battaglia, avvenuta il 26 giugno 19876, durante la quale, in soli venticinque minuti di combattimento, un distaccamento di diverse centinaia di soldati, comandati dal colonnello George Armstrong Custer fu completamente distrutto insieme allo stesso comandante. Un’onta che sia nello spettacolo, dove veniva riprodotta prima la battaglia e poi lo scontro avvenuto successivamente tra William Cody e Mano Gialla, che nella miserabile realtà delle stragi di nativi americani lo scalpo tolto ad un altro capo Sioux avrebbe dovuto lavare via.

Occorre partire da questa lunga digressione storica per entrare nelle maglie di un romanzo avvincente e realistico allo stesso tempo. Una storia in cui il vero West sembra appartenere più alle terre della Maremma in cui si svolge e ai suoi butteri che non alla narrazione fattane da allora in tante dime novel e, successivamente dall’industria del cinema nata sulle coste del Pacifico, dalle parti di Los Angeles.

Una Maremma in cui, realmente, si incrociarono i cowboy e gli indiani, sotto tutela, di Buffalo Bill e i butteri che lavoravano suule grandi proprietà terriere delle famiglie nobili di un regno d’Italia formatosi da pochi anni e in cui il brigantaggio costituiva già un enorme problema. Per lo Stato, ma anche per la popolazione comune e i ceti sociali più poveri che, oltre ad essere tormentati e decimati dalla presenza della malaria, dovevano fare i conti sia con le vessazioni dei rappresentanti della legge in divisa che con quelle di chi faceva finta di ergersi a loro protettore.

Non fa sconti ai banditi dell’epoca il giovane scrittore fiorentino (classe 1988) che lavora come addetto stampa nel settore editoriale, ma che ha esordito nella narrativa con Io volevo Ringo Starr nel 2009 (Intermezzi editore) e ha proseguito con altri racconti, pubblicati in antologie e riviste, oltre che con un altro romanzo pubblicato nel 2022 da SEM: Un naufragio.

Ma non fa sconti nemmeno alle nostrane “giacche blu” dell’epoca ovvero i carabinieri che avrebbero dovuto proteggere le popolazioni, ma che pensavano soprattutto, nelle parole dell’autore, a “parasi il culo” nei confronti dei superiori. A qualsiasi livello gerarchico.
Una storia, sicuramente, antieroica ma con il profumo dell’avventura, soprattutto quest’ultima legata alla crescita di uno di giovani protagonisti delle vicende, Donato, figlio di un buttero burbero, taciturno e dedito al duro lavoro della doma dei cavalli, della cura del bestiame lasciato crescere nei terreni in parte paludosi posti a sud e a nord-est dei monti dell’Uccellina.

Un paesaggio aspro, spesso inospitale per l’uomo, ma ancora selvaggio in cui le storie di violenza, stupri, sparatorie, compravendita del corpo delle giovani donne o dei cavalli e delle bufale si intrecciano con quelle di finti e canaglieschi “eroi” privi di pietà per chiunque sia, come nel caso del brigante Occhionero, oppure con quelle di carabinieri giovani e impauriti che si pensano eroi, ma destinati soltanto a sparire senza lasciare memoria di sé, se non per qualche irrimediabile errore o atto di codardia.

Storie che si intrecciano con quelle di un gruppo di indiani, tra i quali spicca quella di Alce Nero, aggregati al circo americano e che, per un attimo, immaginano, in quelle lande per loro troppo strette, limitate e abitate, di ritrovare un po’ della gloria irrimediabilmente perduta. E storie di donne, giovani e meno, che come sempre sono destinate a portare il peso della famiglia, del lavoro necessario intorno a quello dei butteri, delle violenze e delle perdite più irreparabili.

Storie che, per forza di cose, sono narrate e ricordate da uomini che sono « tutti bugiardi, solo che di alcuni diciamo che hanno fantasia, e vengono chiamati artisti, o poeti, altri invece son chiamati imbroglioni, e son guardati con disprezzo, come se avessero violato qualche patto solenne con la realtà. Solo che contratti non esistono, perché alla verità in fondo hanno rinunciato tutti, sin da principio »1.

Riflessione che continua ancora in un’altra pagina: « Occhionero aveva capito che la verità è meno interessante di quello che vorremmo, e che fuggire dalla realtà è l’unico modo per rendere accettabile una storia. L’immaginazione rende più tollerabile la vita, chi vuol sapere che cosa c’è sotto resta sempre deluso »2.

Verità e finzione sono anche alla base della storia del West portata in giro per il mondo dal circo di Buffalo Bill, che in altra parte d’Italia avrebbe affascinato anche un futuro scrittore di avventure come Emilio Salgari3. Verità e finzione che non per nulla si incrociano anche attraverso le parole di personaggi di contorno, ma non secondari, come Mark Twain, Ned Buntline oppure i giornalisti delle cronache italiane del circo. Tra questi un tal Sigaretta, cui Pasquini affida un ulteriore ragionamento sulle conseguenze della diffusione del mito della felicità per tutti che il mito americano portava già con sé all’epoca, intravedendone il futuro fallimento

« Il problema è che tutti crederanno di poter essere brillanti e ammirati e amati come dèi. Ma capite da voi che questo espone la gente a delusioni a cui non è pronta. Quella che chiamano felicità in realtà è il successo, il potere. Tutti vorranno più soldi, abiti, cose con cui distinguersi, o cose con cui essere uguali a quelli che gli paiono felici. La ricerca della felicità, come dicono questi americani, genera un sacco di invidie, manie, pazzie. Quell’americano Cody […] ha vissuto mille avventure, tante da non riuscire a crederci. E continua a girare il mondo, a cercare di macinare soldi. Non è una cosa da pazzi? […] Finirà in massacro questo rivendicare il diritto alla gioia, alla risata. La chiamano felicità, ma è un altro modo per dire supremazia, ricchezza, possesso. Non può funzionare, è evidente»4.

Un mito nato sulla menzogna, in cui il massacro dei popoli nativi e della fauna selvatica è stato spacciato per gloria e avanzata della civiltà e in cui lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, qualunque sia il colore della sua pelle, per concorrenza e affermazione individuale, non può infatti portare altro con sé. Insieme alla miseria, alla morte o all’inutile vendetta che si riversano nelle e dalle ultime, tesissime pagine del libro.

Un romanzo avvincente e interessante allo stesso tempo che se avesse visto eliminare, prima di andare in stampa, qualche lungaggine narrativa, dovuta a descrizioni fin troppo dettagliate dei paesaggi e dell’ambiente e a qualche storia collaterale come quella del seguace di David Lazzaretti, oppure il sovrappiù di toscanismi, che talvolta rischiano di far ricadere l’opera nella nota di colore di carattere localistico, avrebbe potuto raggiungere, scusate se vi par poco, la secchezza e l’essenzialità di Cormac McCarthy.


  1. D. Pasquini, Selvaggio Ovest, Enne Enne Editore, Milano 2024, p. 75.  

  2. D. Pasquini, op. cit., p. 130.  

  3. cfr. E. Salgari, Arriva Buffalo Bill!, Antologia di articoli comparsi sul quotidiano “l’Arena” di Verona nei giorni 15, 16 e 17 aprie 1890, Pierluigi Perosini editore, Verona 1993.  

  4. D. Pasquini, op. cit., pp. 293-294.  

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