licantropi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il patto del lupo (Nightmare Abbey 22) https://www.carmillaonline.com/2023/07/15/il-patto-del-lupo-nightmare-abbey-22/ Sat, 15 Jul 2023 20:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78190 di Franco Pezzini

Alexandre Dumas, Il signore dei lupi (Le meneur de loups), ed. orig. 1857, trad. dal francese di Camilla Scarpa, introd. di Max Baroni, nota finale di Léon Thoorens, pp. 392, € 16, Agenzia Alcatraz, Milano 2022.

La grande critica può continuare a considerare Dumas (padre) estraneo all’“alta” letteratura o addirittura alla letteratura in quanto tale, confinandolo nel paraletterario, ma credo che l’interessato se ne faccia ampiamente una ragione: e sicuramente ce ne facciamo una ragione noi, consegnando allo sgabuzzino dei giudizi inutili un certo tipo polveroso di lettori con la [...]]]> di Franco Pezzini

Alexandre Dumas, Il signore dei lupi (Le meneur de loups), ed. orig. 1857, trad. dal francese di Camilla Scarpa, introd. di Max Baroni, nota finale di Léon Thoorens, pp. 392, € 16, Agenzia Alcatraz, Milano 2022.

La grande critica può continuare a considerare Dumas (padre) estraneo all’“alta” letteratura o addirittura alla letteratura in quanto tale, confinandolo nel paraletterario, ma credo che l’interessato se ne faccia ampiamente una ragione: e sicuramente ce ne facciamo una ragione noi, consegnando allo sgabuzzino dei giudizi inutili un certo tipo polveroso di lettori con la molletta sul naso e deliziandoci ai capolavori che invece, diavolo di un uomo, Dumas è riuscito a sfornare e restano letture di intatta freschezza. Oltre che narrativamente solide e magari profonde.

D’accordo, aveva i suoi ghost writer a preparargli una base con ricerche storiche mirate; e d’accordo, a volte giocava sul concetto di autoralità nei termini molto disinvolti in uso nel primo Ottocento – si pensi solo al suo L’assassinio di rue Saint-Roch, che copia la Rue Morgue di Poe adattandola spudoratamente, o invece ai romanzi su Robin Hood che ancor oggi vengono stampati a suo nome, mentre si tratta di un noiosissimo romanzone storico di  Pierce Egan il Giovane (serializzato nel 1838 e riunito in volume nel 1840, Robin Hood and Little John: or, The Merry Men of Sherwood Forest, tradotto in francese da Marie de Fernand con lo pseudonimo Victor Perceval, e costituente quasi in toto il contenuto dei due pseudodumasiani Le Prince des Voleurs, 1872 e Robin Hood le Proscrit, 1873). Insomma, le trappole non mancano: e ciononostante parliamo di un autore di due secoli fa – rendiamoci conto – che, quando sui testi lavora davvero, quando vi lascia il “tocco Dumas”, si fa leggere a tutt’oggi con piacere assoluto, complice, irriducibile a qualunque critica acida. Un piacere del racconto, del prendersi tempi per parentesi che non sono mai off topic ma ci richiamano al gusto dell’evocazione di un mondo, ci fanno parteggiare accanitamente per un personaggio o per l’altro, ci fanno uscire diversi da come siamo entrati a contatto col volume. Solo in queste pagine, meravigliose per il piacere con cui Dumas affabula sono la scena della pesca in stagno, della cena dal balivo Magloire (narrata con un senso del gusto – nell’accezione più propria – che fa ricordare come lo scrittore abbia varato anche un incredibile Grand dictionnaire de cuisine, apparso postumo nel 1873), della tentata seduzione di Madama Magloire, del clima della raffinata camera della contessa di Montgobert… E insomma, come suol dirsi, avercene oggi, di scrittori tanto capaci di spalancare mondi a ripetizione, di donarci storie che accedono – letteralmente – al mito (I tre moschettieri, Il conte di Montecristo…).

Di nuovo: d’accordo, non tutto Dumas presenta la stessa vitalità vorace delle opere precedenti il 1848-1850. Come scrive Léon Thoorens nella bella appendice biografica Dumas, cent’anni dopo in coda a questo volume:

 

Dumas rientrò a Parigi nel 1853 e non si sentì mai più a suo agio nel mondo nuovo che nasceva, così diverso da quello che aveva sognato. Perché Dumas è il tipico uomo del diciannovesimo secolo – del primo diciannovesimo secolo, quel secolo che scoppia in lacrime nel 1848 e va in frantumi nel 1851. Quel diciannovesimo secolo è naïf, magniloquente, talvolta verboso, ma anche generoso, pieno di linfa giovane e di fede nell’avvenire. Sarà la seconda parte del secolo a essere stupida, puritana e matematica. Gli anni tra il 1848 e il 1850 segnano una cesura, un taglio netto. Si sa che ci sono due Hugo, e che, se avessero potuto incontrarsi, non avrebbero avuto simpatia l’uno per l’altro. Ebbene, anche i Dumas [si intende Dumas padre] sono due, e il secondo ha nostalgia per il primo, ma si distacca da lui sempre di più, mano a mano che gli anni passano. Non è per pura noia che uno scrive le proprie memorie, e le completa indefessamente con divagazioni e ricordi (Causeries, Souvenirs) e romanzi a sfondo autobiografico (Ange Pitou, Il signore dei lupi). Non è mai un caso neppure che un romanziere, limpido nello sguardo e nel riso come lo era l’autore de I tre moschettieri, si converta alla letteratura fantastica. Il fantastico, come la poesia (esso ne è, d’altra parte, una forma), è sempre un canto di sconcerto, di una ferita.

 

Di una crisi identitaria, potremmo dire, o della trasfigurazione di una vita cui cerchiamo di riconoscere nuove dimensioni: e Le Meneur de loups, 1857, fa proprio parte di questa seconda fase. Certamente un gioiello, ancora vivo a tratti d’ironia scintillante, ma non privo di connotati malinconici: una di quelle opere minori che restano una festa per il lettore e in fondo per il critico, con un ottimo ritmo, storie gustose che non permettono al romanzo di languire, un continuo rilancio di trovate fantastiche e non… insomma, riproporlo oggi in un catalogo di belle sorprese come quello di orrore e fantastico francofono di Agenzia Alcatraz, resta meritorio.

Da un lato, un’uscita come questa aiuta a fare chiarezza su affermazioni totalmente infondate che talora vediamo circolare. Secondo le quali, per esempio, l’influenza di Hoffmann in Francia si rifletterebbe in una serie di imitazioni per lo più derivative, i capolavori scarseggerebbero, il naturalismo la farebbe da padrone… il tutto sulla base di giudizi maldigeriti (o forse mal interpretati) di Lovecraft nel suo pur interessante L’orrore sovrannaturale in letteratura che però riflette i suoi gusti, i suoi pregiudizi – ai francesi mancherebbe “l’innato misticismo dello spirito nordico”, motivazione che odora di vecchiume – e anche le sue mancate conoscenze. Peccato che da allora la critica sia andata avanti e, da parte di chi vi attinge senza distinguo e con parecchia naïveté, la devozione fideistica verso un autore pur grande come HPL non faccia parte dei suoi strumenti utili.

Al contrario, il fantastico di Dumas costituisce una rilettura estremamente originale di quello alla Hoffmann: si pensi solo a La donna dal collier di velluto (dove Hoffmann addirittura è l’attonito protagonista, 1849) o ad altri di quei Mille et Un Fantômes (sempre 1849) che Dumas regala ai lettori stanchi delle tristezze della realtà. Con questo Signore dei lupi attinge per esempio a un sottofondo cupissimo, quasi un senso di colpa latente e comunque un peso greve sull’immaginario francese in chiave folk horror: ormai lontani dai licantropi gentili della narrativa cortese o dagli altri eroici & furenti delle compagnie guerriere germaniche, quelli che emergono tra il XIV e il XVII secolo soprattutto tra Francia e Germania sono creature miserabili, vittime innocenti di accuse comunitarie, profili psicopatologici di marginali della storia e dell’immaginario, malati sessuali – in qualche caso presunti serial killer – o comunque devianti che i roghi inceneriscono a grandi numeri (tra i ventimila e i centomila casi, a seconda di stime certo imprecise ma impressionanti). Quest’eccesso colloso di ombra si collega poi a tutta una mitologia del lupo che resta sottotesto dai miti antichi alle fiabe, e che oggi non siamo più in grado di comprendere: il predatore per antonomasia, congiunto di re e fondatori, magari nemico degli stregoni che danneggiano i campi (il rinvio agli studi di Carlo Ginzburg è d’obbligo), è ammirato fino all’invidia e insieme oggetto di inarginabile sadismo in pratiche di caccia condotte con caratteri di crudeltà superiore a qualunque giustificazione razionale.

Collegato o meno alla licantropia, il lupo si acquista dunque fama di animale del diavolo: e a parte le predazioni ordinarie, condotte talora da singoli esemplari, talora da branchi in inverni di fame, un fenomeno diverso è quello consacrato alla pubblica notorietà con il celebre caso della Bestia del Gévaudan, 1764-1767 (circa 210 attacchi, con 113 vittime e 49 feriti), la cui esatta natura resta oggetto di discussione. Che si tratti di un lupo non è certo – potrebbe essere una bestia feroce d’importazione, fuggita da qualche circo, poi ulteriormente trasfigurata per isteria collettiva e meccanismi immaginali (in alcune caratteristiche di lupo-leone sembra richiamare certe Tarasque del tardo periodo di La Tène, in un’apparente e spiazzante sopravvivenza di elementi iconografici arcaicissimi su creature infere). Ma l’aspetto meno noto al grosso pubblico è che parecchie altre “bestie” lupesche infestino la Francia tra il Sei e il Novecento: da Evreux 1633-34 all’Auxerrois 1731-34 e di nuovo 1817, a Brive 1783, nel Vivarais 1809-16, nella Gargaille 1819, a Tendu-Mosnay 1878, persino nel Cézallier 1946-51… Vogliamo proprio liquidare questo sovraccarico di ombra, sorta di straniante doppio fondo della saga del Signore dei lupi, come un accidente di un immaginario non altrettanto mistico di quello nordico?

D’altra parte, senza spoilerare il godibilissimo intreccio, è un fatto che Dumas riesca a giocare il tema con estrema libertà e in modo molto libero: non pensiamo dunque di trovarci davanti la classica storiella cinematografica tipo Universal – a volte gustosamente arredata, ma fin troppo lineare – di uomini-lupi ammazzatutti. La narrazione qui è molto sottile perché ci racconta anche altro. Facciamo un passo indietro.

Nel 1851, appesantito da pesanti debiti e problemi politici (il golpe di Luigi Napoleone Bonaparte lo vede tra gli oppositori), con la prospettiva della galera davanti, Dumas ripara frettolosamente in Belgio e lì riprende a scrivere come un forsennato, iniziando anche questo romanzo: lo chiuderà nel 1856 per pubblicarlo l’anno dopo. Possiamo stupirci che egli, quale cornice, vi racconti vividamente, gustosamente, nostalgicamente qualcosa della propria infanzia? Soprattutto quando la vita va avanti a scossoni, non siamo un po’ tutti bisognosi di riprenderne i fili, di raccontarci chi siamo o siamo stati, per capire meglio cosa potremo ancora essere?

Ma già tra le pieghe di quel narrare, su come si sia trovato a fronteggiare il lupo archetipico che c’entra sempre un po’ coi nostri inferi, c’è anche altro materiale fantastico. In un esilarante dialogo (1805) con il padre dello scrittore nel preambolo-cornice, il vecchio custode Mocquet se ne esce nella dichiarazione d’essere stato incubato – cioè oggetto di oppressione onirica – dalla presunta strega ma’ Durand, da giovane amante di Thibault, il signore dei lupi. Dunque ecco incubi, streghe… il panorama notturno si allarga. Dodici anni dopo (1817), ecco un Mocquet invecchiato affrontare con Alexandre quindicenne un lupo che sfugge alle pallottole normali ed è toccato solo da quelle contrassegnate con la croce (ma non ferito o ucciso: occorrerebbero d’argento o d’oro – variante meno nota rispetto alla vulgata sui licantropi). Conclude dunque trattarsi del lupo di Thibault, cioè del diavolo…

Il protagonista Thibault di cui ora Mocquet racconta la storia viene collocato storicamente attorno al 1780, in una Francia Ancien Régime che in provincia cova ancora strascichi di medioevo. La zona in cui vive dipende dal barone Jean de Vez, grand louvetier (cioè ufficiale caccialupi) di Luigi Filippo d’Orléans IV, dunque grande cacciatore non solo per vocazione ma per incarico, che cerca invano di stanare e abbattere un certo lupo nero che fa un po’ pensare a una sua balena bianca. E di nuovo, come spesso nel fantastico, un elemento chiave è quello identitario: in grazia di “un’istruzione superiore a quella propria della sua condizione” il malinconico, neppure trentenne Thibault – zoccolaio, cioè fabbricatore di zoccoli – vive con sofferenza il suo status sociale tanto umile, vorrebbe fare un salto verso classi ben più elevate. Il linguaggio conservativo di fiabe e leggende mette in guardia contro desideri di cambio di classe e sottolinea il prezzo livido che l’invidioso dovrà pagare, ma l’impressione è che qui si tratti soprattutto di un modulo narrativo: “«Oh! Maledetto sia il giorno», gridò Thibault, «in cui ho desiderato qualcosa di diverso da ciò che il Buon Dio ha posto a portata di mano per un onesto artigiano!”. Qualcosa che certo condurrà il transfugo sociale a un ben diverso status identitario sotto l’egida del Grande Scimmiottatore, il diavolo: il tutto attraverso una serie di assunzioni di identità una più falsa dell’altra, ma anche via via più compenetrate in carne e sangue, fino a fargli smarrire la stessa natura umana. Eppure la solidarietà del narratore – e dello stesso lettore – verso Thibault non si esaurisce nel topos romantico di simpatia per i maledetti. In effetti, “non si sceglie un personaggio, sono i personaggi a scegliere noi; e che fosse buono o malvagio, io fui scelto da quel personaggio”. Un caso? Difficile non vedere, almeno in parte, il profilo di Dumas, l’uomo che si fa da solo (giunge a Parigi ventenne con il solo bagaglio di una bella scrittura), diventando, da incolto che era, un intellettuale e un autore tanto celebre, sia pure al prezzo che lo porta all’esilio…

Ovviamente il primo incontro tra zoccolaio e barone è destinato a finir male, e in realtà anche i rapporti con gli altri personaggi: l’angelicatissima e noiosina Georgine Agnelet, detta Agnelette; la birichina e sensibile mugnaia di Coyolles di cui si invaghisce con un occhio ai proventi della sua attività, e il cugino di lui invaghito della mugnaia; il balivo Magloire e sua moglie, ai quali Thibault si presenta come benestante; il giovane barone Raoul di Vauparfond, che permetterà al Nostro un altro e più viscerale scambio identitario; la stessa contessa di Montgobert, che di nuovo può richiamare il Dumas lettore di Poe (L’appuntamento, nel racconto 1834 dell’americano: qui, “Vi trovò un biglietto su cui erano scritte queste sole parole: Fedele all’appuntamento”)… ma il gioco è scoperto, il lettore è solo incuriosito su come falliranno i vari rapporti, dopo essere stato accompagnato in giro dall’esuberante cicerone Dumas. Che riesce a rendere fiabescamente divertente anche il dialogo col lupo nero che sarebbe il diavolo (o almeno un diavolo), ed evidenzia che gli apparenti vantaggi recati dal suo aiuto presentano tutti un retrogusto dannoso.

 

«Allora, dicevamo», riprese il lupo, come se nulla fosse accaduto, «che non posso garantirti che avrai tutto ciò che de­sidererai di buono».

«Dunque non posso aspettarmi nulla da voi?».

«Al contrario, perché io posso garantirti che tutto ciò che di cattivo desidererai per il prossimo, si avvererà».

«Beh, e a me che ne verrà in tasca?».

«Sciocco! Un moralista ha detto: “C’è sempre, nella sventu­ra del nostro amico più caro, almeno un granello di soddisfa­zione per noi”».

«L’ha detto un lupo, questo? Non sapevo che tra i lupi vi fossero dei moralisti».

«No, era un uomo».

«L’hanno impiccato?».

«No di certo, l’hanno nominato governatore di una pro­vincia del Poitou. È ben vero, però, che in quella provincia ci sono parecchi lupi. Ora, se nella sventura del nostro miglio­re amico c’è sempre qualcosa di soddisfacente, capirai bene quanto di soddisfacente ci possa essere nella sventura del tuo peggior nemico!».

«C’è del vero in questo», disse Thibault.

«Senza contare che c’è sempre modo di approfittare della sventura del prossimo, che sia amico o nemico».

«In fede mia, voi avete ragione, signor lupo», rispose Thibault dopo qualche attimo di riflessione. «E voi mi accordereste questo potere in cambio di cosa, esattamente? Andiamo, do ut des, non è così?».

«Sì. Ogni volta che esprimerai un desiderio che non ti arrecherà profitto, io voglio che mi sia ceduta la proprietà di una piccola parte della tua persona».

 

E più tardi, in quella che difficilmente può essere letta come un’edificante esortazione alla virtù:

 

«Oh, quanto a invidia appartieni all’angelo caduto, che è il mio padrone e anche il tuo; solo che, mancandoti l’intelligenza per desiderare, tra i mali, un male che potesse giovarti, forse sarebbe stato più vantaggioso per te rimanere onesto».

 

Per proseguire:

 

Da quando gli uomini hanno inventato il battesimo, non si sa più come prenderli, e c’è bisogno che, in cambio di qualche concessione da parte nostra, essi ci cedano una parte dei loro corpi su cui noi possiamo metter mano.

 

Una parte che in fondo si limita, scoprirà lo zoccolaio, a qualcosa in apparenza molto contenuto: “Un capello per il primo voto, due per il secondo, quattro per il terzo, e così via di seguito, sempre raddoppiando”. Con tanto di scambio d’anelli (un sogghigno che sfugge a Dumas, impoverito dalle richieste economiche dell’ex moglie Ida Ferrier, proprio a seguito dello scambio di anelli matrimoniale)…

Ad aggiungere nuovi danni ai guasti dettati dai desideri diabolici sono gli stessi sensi di colpa del goffo Thibault, che non è un cattivo diavolo. In compenso si ritrova – ed è una delle soluzioni più affascinanti del romanzo – a capo di un branco di lupi con cui condurrà una propria guerra privata agli uomini desiderosi di ucciderlo.

“Meglio piuttosto che io incominci subito a narrare la mia storia. / Dico la mia, sebbene forse dovrei dire la storia di Mocquet”: un rapporto di innovazione narrativa che non ha nulla a che vedere con le presunte imitazioni derivative accusate da una critica superficiale. Così come in La donna dal collier di velluto Dumas riportava – a suo dire – la voce di Nodier, rimodulando genialmente una leggenda metropolitana d’epoca: che però nelle sue trovate e mezzetinte, nella sua geniale rielaborazione, diventa assolutamente sua. A ricordarci che le storie consegnateci dobbiamo riprenderle noi in mano – sapendo che tanto quelle sciabordano tra gli uomini dall’inizio della storia. È come noi le riprendiamo in mano che fa la differenza: fino a metamorfizzarle in qualcosa di unico. “E a Thibault parve di vedere il lupo nero crescere, allun­garsi, piantarsi sulle due zampe di dietro e allontanarsi in forma d’uomo, mentre gli faceva un cenno di saluto con la mano”.

 

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Lo schermo mannaro https://www.carmillaonline.com/2019/11/25/lo-schermo-mannaro/ Mon, 25 Nov 2019 22:08:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=56433 di Franco Pezzini

Stefano Leonforte, Guardatevi dalla luna. Il cinema dei licantropi, pp. 463, € 24, LEIMA, Palermo 2019

(Questi giorni di Torino Film Festival, in cui un’ampia retrospettiva è dedicata all’horror/gotico e varie pellicole toccano proprio il tema della mutazione, sembrano una giusta cornice per segnalare il volume in esame, in effetti appena uscito. Il testo che segue è la mia Prefazione.)

È abbastanza chiaro che una percentuale importante dei miti ascrivibili alla nebulosa del gotico riguardi in qualche modo la questione dell’identità; o per meglio dire delle sue crisi, dei turbamenti [...]]]> di Franco Pezzini

Stefano Leonforte, Guardatevi dalla luna. Il cinema dei licantropi, pp. 463, € 24, LEIMA, Palermo 2019

(Questi giorni di Torino Film Festival, in cui un’ampia retrospettiva è dedicata all’horror/gotico e varie pellicole toccano proprio il tema della mutazione, sembrano una giusta cornice per segnalare il volume in esame, in effetti appena uscito. Il testo che segue è la mia Prefazione.)

È abbastanza chiaro che una percentuale importante dei miti ascrivibili alla nebulosa del gotico riguardi in qualche modo la questione dell’identità; o per meglio dire delle sue crisi, dei turbamenti e delle perversioni, dei dubbi e delle domande che il rapporto con l’io e con le sue umbratili dimensioni “sorelle” (Es, Ombra, Doppio… teniamoci larghi) spalanca nella percezione dell’uomo moderno. Suggestioni come quella – essenzialmente stokeriana, sulla base di spunti folklorici piuttosto vaghi – del vampiro che non si rifrange nello specchio, a implicare che forse non ci riconosciamo in quella nostra rifrazione vampiresca, ne rappresentano solo la punta dell’iceberg.

Il bel libro che avete tra le mani incalza appassionatamente, con ricchezza di dati, uno dei filoni di questa inquietudine. Il modo cioè in cui una delle arti che già in radice ammiccano con più forza alla dimensione dello specchio – cioè il cinema, attraverso una quantità di elementi come luci, schermi, la stessa riproduzione del movimento che mima il nostro – affronta uno di questi dedali identitari, il rapporto sofferto tra uomo e bestia: non una bestia esterna, ma quella che l’uomo stesso può essere nel suo profondo o diventare.

Però attenzione, non una bestia a caso: e gli antropologi hanno dedicato ampi studi alla “strana” scelta di attribuire la parte del villain per eccellenza proprio al lupo – e non ad animali in fondo più pericolosi, come l’orso che invece pare tanto carino e coccolabile o quel leone che in antico s’incontrava in tutta Europa, e in effetti risulta ben presente nell’immaginario ma con altre valenze simboliche. Un lupo oggetto di un mix di odio (fino a connotazioni di vero e proprio sadismo nel tipo di caccia riservatogli) e di ammirazione: e per capire qualcosa di più dobbiamo risalire a un passato davvero remoto, quando questo bellissimo ed elegante animale appariva accreditato come il predatore per antonomasia – a cui dunque guardare quale modello nell’ambito di comunità umane altrettanto predatorie –, fratello libero del fedele e sottomesso cane, associato per assonanze onomastiche alla luce (lupo/λύκος, luce/λευκ-, λυκ-, cfr. λευκός, “brillante, chiaro, bianco”) e addirittura assunto a icona totemica, divina o eroica d’eccellenza. Non stupisce che per molto tempo l’assimilazione al lupo venisse cercata, in quelle che sono le prime esperienze attestate di licantropia come fenomeno rituale (in certi arcaici culti arcadi, per esempio); anche se già in antico l’immaginario poteva prevedere casi di “mutazione” non voluta. L’ingresso in un mondo diverso, prima quello classico e postclassico – che vede sopravvivere alcune esperienze come eccezionali – e poi quello cristiano, marginalizzerà fino a rendere penose forme di “diversità” o condannabili collusioni con le tenebre le tensioni verso una mutazione in lupo (o in altri animali). Tramite suggestioni folkloriche e vaghi echi dei processi a presunti mannari tra Cinque e Seicento il tema passerà nella narrativa gotica e romantica e in ultimo al cinema.

Fin qui sembra tutto facile: un lascito di tempi remoti, qualcosa che in fondo coinvolgerebbe poco le nostre emozioni di gente che i lupi li vede solo nei documentari, o al massimo vive la dialettica “pro o contro” tra ambientalisti e cacciatori. Ma è davvero tutto qui? Non proprio. Il fatto è che per capire un po’ meglio gli aspetti duplici dell’icona lupesca dobbiamo scavare più a fondo: perché il lupo non era solo immagine, odiata o ammirata di volta in volta, del predatore di capi di bestiame, accidentalmente spinto da contesti estremi ad attaccare gli uomini. È ben più ampia e oscura la dimensione implicata: e per esempio alla sfera simbolica e alla stessa etimologia del lupo rimanda la dea Lissa (Λύσσα), nata dalla Notte e dal sangue dell’evirato Urano, patrona del furore cieco negli esseri umani e anche della rabbia canina, che farebbe diventare il cane feroce come un lupo – cioè appunto mutare in lupo.

Di più: sulla base di una lunga elaborazione fin dal neolitico, il lupo e lo stesso cane sono associati alla sfera infera, nell’ampio spettro delle sue declinazioni. Di solito pensiamo al canino Anubi (dal sembiante non di sciacallo ma di un canide selvatico nordafricano imparentato proprio con il lupo), o agli dei inferi dei Greci, Ade, e degli Etruschi, Ajta, effigiati con il capo coperto da una pelle di lupo; oppure alle mitologie norrene che proietteranno quest’ombra di morte addirittura a livello cosmico ed escatologico, quando i lupi Hati e Skǫll si ingoieranno Luna e Sole e il padre dei due, l’arcilupo Fenrir, divorerà Odino. Ma lupesco è il mostro che emerge da un puteale – forse l’Olta sconfitto da Porsenna secondo Plinio il vecchio – effigiato su urne etrusche nei musei toscani; e non manca l’ipotesi che lo stesso sfuggente demone Caco ucciso da Ercole nell’area della futura Roma possa identificarsi nella figura con corpo umano e testa di lupo dell’arte villanoviana ed etrusca. Emblematica è poi la cosiddetta Tarasque di Noves, statua di un mostro antropofago dalle fauci di lupo ritto su due teste umane, conservata nel Museo Calvet di Avignone, e che nell’aspetto può richiamare la sagoma irsuta attribuita tanti secoli dopo alla Bestia del Gévaudan. La si è attribuita ai celtoliguri Cavari, associandola alla violenza delle acque della Durance al guado del Maupas (malus passus), ma è plausibile che la sua valenza mitica rimandi una predazione assai più generale e di carattere infero.

Se la discesa agli inferi può essere – lo sappiamo bene – una dimensione esistenziale concretissima nel corso del nostro itinerario terreno, l’incontro con questo lupo nelle profondità di noi stessi si rivela qualcosa di terribilmente serio: qualcosa che offre al pathos del Larry Talbot di turno – e la maschera sofferta di Lon Chaney Jr. può in fondo testimoniarlo – un sapore assai più autentico e vicino. L’immagine del puteale che pone in comunicazione la nostra vita quotidiana con i suoi abissi continua a parlare a distanza di tanti secoli: la bestia lupesca è pronta a eruttarne, per assidersi nella terribile maestosità dell’icona al Museo Calvet e infine straziarci. Possiamo chiamarla in tanti modi, lutto, dimensione di perdita, male di vivere: qualcosa comunque che rimanda a una forza infera che lacera e divora, che muove dalle nostre profondità e si apposta al malus passus di qualche momento dell’esistenza. Non abbiamo bisogno di coprirci di peli per sentir irrompere il lupo interiore, come specchiato ritualmente dalla liturgia profana del film horror. E il mito gotico torna a gettare qualche (livida) luce su ciò che abbiamo dentro, su ciò che siamo.

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Underworld https://www.carmillaonline.com/2019/07/07/underworld/ Sun, 07 Jul 2019 20:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53393 di Alessandra Daniele

L’attuale contrapposizione fra europeisti e populisti ci viene raccontata come una versione semplificata della saga di Underworld, con gli europeisti nel ruolo dei vampiri, e i populisti in quello dei lycan, i licantropi. La similitudine è calzante: i vampiri sono aristocratici crudeli e corrotti, i lycan, a lungo asserviti ai vampiri e sfruttati come cani da guardia, hanno ragione di ribellarsi, ma sono comunque lupi, belve, che pure nella loro forma umanoide continuano a seguire le brutali e ferine logiche del branco. Nella realtà però, e nella stessa saga di Underworld, le [...]]]> di Alessandra Daniele

L’attuale contrapposizione fra europeisti e populisti ci viene raccontata come una versione semplificata della saga di Underworld, con gli europeisti nel ruolo dei vampiri, e i populisti in quello dei lycan, i licantropi.
La similitudine è calzante: i vampiri sono aristocratici crudeli e corrotti, i lycan, a lungo asserviti ai vampiri e sfruttati come cani da guardia, hanno ragione di ribellarsi, ma sono comunque lupi, belve, che pure nella loro forma umanoide continuano a seguire le brutali e ferine logiche del branco.
Nella realtà però, e nella stessa saga di Underworld, le cose sono più complicate, ci sono ibridi vamp-lycan, doppiogiochisti e voltagabbana d’ogni specie.
Inoltre, nel mondo reale il vero capobranco dei populisti mannari è indubbiamente un vampiro, Vladimir Putin, che li adopera come truppe di terra contro la rivale casata vampira di Aquisgrana, presieduta da Merkel e Macron, che però ha comunque vinto 4 a zero la partita delle nomine europee anche con la complicità del governo Grilloverde, che in cambio ha temporaneamente evitato la procedura d’infrazione. Perché i populisti mannari nostrani hanno tutto dei canidi, tranne la fedeltà.
Rispetto alla saga, nel nostro mondo non ci sono nobili ribelli alla Selene, né tanto meno eroi messianici alla Lucian, ma i doppiogiochisti abbondano sempre più aggrovigliati negli inciuci come un Laocoonte, non di marmo, ma di merda.
C’è però una verità semplice e lineare che la saga e la realtà condividono in pieno: per entrambe le specie di predatori bipedi, gli umani come noi sono soltanto cibo.
Invece di dividersi nella scelta fra le due, una dicotomia falsa quanto la democrazia che sostiene, tutti gli umani dovrebbero organizzarsi per combatterli entrambi.
Non sono certo invincibili come vogliono sembrare.
I vampiri sono accecati dalla superbia, i licantropi dalla fame.
Il vantaggio evolutivo della specie umana, anche sui predatori più feroci, è sempre stato l’intelligenza. Adoperiamola, prima che sia troppo tardi.

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Racconti orribilissimi dal Satyricon https://www.carmillaonline.com/2016/11/08/racconti-orribilissimi-dal-satyricon/ Tue, 08 Nov 2016 22:08:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34481 di Franco Pezzini

locandina_satyricon_jpg[Si propone qui un brano dai testi di Satyricon. L’odissea di Encolpio, un ciclo di incontri sul celebre romanzo latino in corso di presentazione a Torino. La scena è quella del famoso banchetto di Trimalchione, dove a un certo punto vengono narrate due storie di argomento fantastico. Per la traduzione utilizzo quella di Andrea Aragosti, dell’edizione Bur 2009.]

Trimalchione si rivolge all’amico Nicerote che sta troppo zitto, chiedendo di narrare una storia che gli è capitata: e costui, messe le mani avanti sul timore che [...]]]> di Franco Pezzini

locandina_satyricon_jpg[Si propone qui un brano dai testi di Satyricon. L’odissea di Encolpio, un ciclo di incontri sul celebre romanzo latino in corso di presentazione a Torino. La scena è quella del famoso banchetto di Trimalchione, dove a un certo punto vengono narrate due storie di argomento fantastico. Per la traduzione utilizzo quella di Andrea Aragosti, dell’edizione Bur 2009.]

Trimalchione si rivolge all’amico Nicerote che sta troppo zitto, chiedendo di narrare una storia che gli è capitata: e costui, messe le mani avanti sul timore che gli intellettuali a tavola ridano di lui – ma, a ben pensarci, che je frega? – “tali parole proferite” (secondo la formula di Virgilio ironicamente richiamata) inizia il racconto.
Anche lui è un ex-schiavo, e la vicenda risale a prima della sua liberazione. A quel tempo gli piaceva la donna dell’oste Terenzio, tale Melissa di Taranto, “magnifica lardona” che però lui corteggiava soprattutto – bontà sua – “perché era perbene” e gli gestiva i soldi con onestà. Schiattato il partner di lei mentre era in campagna, lo schiavo Nicerote fa di tutto per non lasciarla sola in quel momento critico: e profittando dell’assenza del padrone a Capua per affari, si fa accompagnare da un ospite della casa – “un soldato, forte come un orco” – per un pezzo di strada. Partono “verso l’ora del canto dei galli, la luna splendeva che sembrava il sole di mezzogiorno” (plausibilmente il plenilunio), e a un certo punto arrivano in mezzo a un cimitero.

“[…] il mio uomo si mette a farla in mezzo alle pietre tombali; io tiro in lungo canticchiando e conto le steli. Poi, come rivolsi lo sguardo al mio accompagnatore, quello si svestì e depose tutti i suoi indumenti sul ciglio della strada. Non avevo più una goccia di sangue nelle vene e ero stecchito come se fossi morto. Lui invece si mise a pisciare torno torno ai suoi vestiti e d’un tratto diventò lupo. Non crediate che io scherzi; non direi una balla per tutto l’oro del mondo. Ma, come avevo principiato a dire, dopo che diventò lupo, cominciò a ululare e fuggì nel bosco. Io, sulle prime, non mi raccapezzavo su dove fossi, poi mi accostai per raccogliere i suoi vestiti: ma quelli erano diventati di pietra. Io sono morto di paura come nessun altro. Ciò nonostante impugnai la spada e zac zac tirai fendenti alle ombre, finché non arrivai alla cascina della mia amica”.

Quando però vi mette piede Nicerote è l’ombra di se stesso, sudato da grondare e con gli occhi sbarrati, e per poco non gli viene un coccolone: e solo quando si è un po’ ripreso, Melissa, stupita di quel suo girarsene in piena notte, commenta che ad arrivare prima, beh, avrebbe dato loro una mano. Un lupo infatti ha sterminato le pecore, prima che uno degli schiavi riuscisse a piantargli una lancia tra capo e collo… Spaventatissimo, Nicerote attende la luce per tornare di corsa dal padrone “come l’oste ripulito”, riferimento che allude alla favola Fur e Caupo di Esopo: lì un oste si vede sottratta la tunica nuova da un ospite che lo spaventa fingendo appunto di essere licantropo.
Ripassando però presso il cimitero, i vestiti pietrificati del soldato non ci sono più, solo tracce di sangue: e quando rientra a casa trova l’uomo a letto, col dottore gli medica il collo. Con quel tipo lì, che è evidentemente un lupo mannaro, Nicerote preferisce poi non avere più contatti. E la gente di quella storia pensi ciò che vuole…
Il racconto costituisce la prima testimonianza occidentale di licantropia come mutazione involontaria (cioè non collegata con rituali metamorfici come in Bucoliche VIII, 95-99); e se qualcuno ne relativizza il valore documentale per l’evidente carattere di intrattenimento, in realtà si basa comunque su tutto un patrimonio di storie folkloriche (come quelle che Plinio, St. nat. VIII 80, derubrica a menzogne “a meno di prendere per buone tutte le favole dei secoli passati”) ed elementi rituali. A partire da un contesto fortemente evocativo di quel tema morte che corre ossessivamente nel Satyricon: l’evento è innescato dal decesso del partner della “magnifica lardona” Melissa, spingendo il narratore ad addentrarsi nella notte; la scena coinvolge un soldato “forte come un orco” (“fortis tanquam Orcus”), similitudine dall’eco infera, e avviene sotto una luna “che sembrava il sole di mezzogiorno”, cioè non solo piena ma in apparenza relativa a un altro ordine di tempo ed esistenza, un notturno mezzogiorno dei morti; il tutto si consuma tra le tombe. Ma la morte può avere anche connotazioni rituali, legate a un rito di passaggio: il soldato si spoglia per assumere l’altra identità; tutto attorno agli abiti orina in cerchio come una bestia che segni il territorio (si noti che aveva già liberato la vescica almeno in parte), a innescare una duplice funzione magica. Da un lato infatti le vesti divengono di pietra, cioè simili alle stele tombali – qualcosa che sul piano pratico permette di ritrovarle (conditio sine qua non del tornare uomo, in certe tradizioni, e sembra alludervi lo stesso testo di Esopo), ma insieme le ascrive al contesto di morte. D’altro canto le tradizioni su metamorfosi in lupo citano spesso la traversata di un corso d’acqua quale momento del passaggio/frontiera tra identità diverse: qui in luogo dell’acqua c’è l’orina di demarcazione. Quanto al motivo folklorico della ferita riportata dal lupo che permetterebbe di identificarlo in un uomo similmente vulnerato, tornerà con valore probatorio a distanza di secoli in vari processi a lupi mannari.
Del resto il lupo, associato dalla tradizione indoeuropea all’aspetto magico e terrifico della sovranità (nel contesto latino Romolo, figlio della lupa, circondato dalla scatenata schiera dei lupi-capri Luperci), viene spesso accostato a divinità non solo della guerra (per esempio il Marte padre di Romolo) ma della morte (gli dei inferi dei Greci, Ade, e degli Etruschi, Ajta, col capo coperto da una pelle di lupo). In un testo che di richiami alla predazione e insieme alla morte sembra tutto intessuto il lupo è insomma di casa; e a fronte della documentata esistenza in varie parti del mondo di società cultuali del furore guerriero improntato a un’idea di metamorfismo licantropico (in senso ampio – guerrieri-orsi eccetera – o invece specifico lupesco), non pare strano che qui a metamorfizzare sia un soldato.
La stessa partenza “verso l’ora del canto dei galli” in un’ora incerta tra notte e alba richiama a un’intera nebulosa simbolica. Alla scelta infatti di identificare il dio lupo/sterminatore di lupi in Apollo Febo, cioè lo Splendente, non è probabilmente estranea l’associazione onomastica tra lukos/“lupo” e leukos/“luce”: un’affinità dal significato non chiarissimo ai filologi e che interessa il più vasto bacino delle lingue indoeuropee. Ma gli intrecci simbolici tra lucis diurna e lupus che col suo ululato ne marcherebbe i limiti – alba e crepuscolo – rimanda a suggestioni così antiche e diffuse da far pensare a un’origine preistorica.
Nicerote conclude “Intellexi illum versipellem esse”. Com’è noto, l’italiano “lupo mannaro” viene dal latino tardo lupus hominarius, cioè “lupo mangiatore di uomini” oppure “lupo simile all’uomo”; in modo analogo si sono formati l’inglese wer(e)wolf, dove wer sta per “uomo” (latino vir), il tedesco werwolf, il francese loup-garou (con garou per wer, oppure tautologicamente per garwolf – che già significherebbe “uomo-lupo”) e l’antico francese warouls, warous, vairout, varivals. Ma il termine usato da Petronio e in generale dagli autori latini è versipellis (da qui vertit pellem, “che muta / rivolta la pelle”) in base all’idea che il pelo del lupo mannaro cresca verso l’interno del corpo; e all’associazione “lupo – pelle / pelliccia” rimandano l’antico slavo vlŭkodlakŭ, lo sloveno volkodlak, il polacco wilkolak, il russo volkolak, e il bulgaro vŭlkolak.
Come sappiamo, la credenza nella possibilità che l’uomo si muti in forma animale (e particolarmente in fiere) è pressoché universale: ma nell’esperienza occidentale è il lupo a far da mattatore, fin da un passato antichissimo. E in effetti l’episodio sembra avere valore più ampio in un romanzo dove nella sola, esigua parte conservata appaiono un personaggio, Ascilto, che frusta come un Luperco, un Lica (che figurerà nel prosieguo dell’opera) e il rimando a un Licurgo (presente nella parte iniziale perduta) con radici onomastiche che evocano il lukos/“lupo”, e una suggestione cannibalica nell’ultima parte che richiama al mito di Licaone e all’idea di un intero popolo metamorfizzato in lupi. Il genere umano, nel Satyricon, mostra senza pudore le proprie propensioni predatorie.
Comunque il racconto ha suscitato sensazione, e Trimalchione avalla la serietà di Nicerote. Aggiungendo che anche lui ha da raccontare “una storia raccapricciante: è come quella dell’asino sul tetto” – un modo un po’ buffo di evocare situazioni che raggelano per la loro alterità. Ma è suggestivo pensare che Apuleio, per le avventure dell’asinificato Lucio, abbia presente non solo genericamente il Satyricon ma il brano come qui introdotto – e di cui in effetti offrirà un controcanto.
Come Trimalchione narra nel suo modo colorito, lui era ancora uno schiavetto quando se n’era morto il favorito del padrone, “un gioiello, un cocchino, e pieno di numeri”. La madre piange, tutti sono riuniti per la veglia funebre: ed ecco “d’un tratto le streghe attaccarono a stridere: pareva il cane quando insegue la lepre”. In realtà nel Codex Traguriensis attraverso il quale conosciamo la Cena Trimalchionis si dice soltanto “strigae coeperunt”, “le streghe iniziarono”: la frequente lettura integrativa “stridere strigae coeperunt”, che evoca il verso caratteristico alla base del nome strix, fa a pugni con la similitudine del “cane quando insegue la lepre” – che sembra piuttosto richiamare l’ansimare del segugio da caccia o forse il lamento della lepre. Notiamo comunque la continuità con il racconto precedente sia nel vago sottotesto erotico – prima l’amante Melissa, qui il favorito del padrone – sia nel fatto che anche le streghe sono versipelles, mutanti, cioè donne capaci di rendersi invisibili e soprattutto trasformarsi in animali. Anche se Ovidio nei Fasti (VI 131-168, col racconto del piccolo Proca futuro re di Alba) appare incerto sulla natura originale di questi volatili inferi affini alle Arpie, donne mutanti oppure uccelli demoniaci, nell’imbarazzo di conciliare l’immaginario sugli arcaicissimi demoni femminili responsabili delle morti in culla con il folklore sulle streghe umane.
Con la famiglia c’è un cappadoce gigantesco, fortissimo (nuovo elemento di continuità col racconto precedente, là il soldato “fortis tanquam Orcus”), che si lancia fuori ad affrontarle spada alla mano (ancora continuità col precedente, un attacco contro il mondo invisibile, come quando Nicerote tirava fendenti alle ombre)

“[…] e infilza una di quelle da parte a parte, grossomodo a quest’altezza – sia salvo quel che tocco [ancora continuità, la creatura sovrannaturale ferita ma, scopriremo, senza che ciò impedisca danni gravi]. Noi sentimmo un mugolio ma loro – vi assicuro che sto dicendo la verità – non le vediamo. Allora il nostro gigante, rientrato in casa, si buttò sul letto ed aveva dei lividi lungo tutto il corpo, come se avesse preso delle frustate, perché era chiaro che lo aveva toccato una mano stregata [chi è toccato dalle striges presenta un colorito malato, cfr. Ovidio]. Noi, chiusa la porta, riprendiamo di nuovo la veglia ma, nel momento in cui la madre fa per abbracciare il corpo di suo figlio, toccandolo si accorge che si tratta di un manichino di paglia. Non aveva il cuore, gli intestini, niente di niente: era chiaro che le streghe avevano ormai rubato il corpo del ragazzo e lo avevano sostituito con un fantoccio di paglia. Mi dispiace, ma dovete crederci: esistono delle femmine che la sanno lunga, creature della Notte, e quel che sta in su lo fanno andare in giù [l’espressione è generica e può riferirsi all’idea che le streghe possano tirare giù gli astri, ma finisce con l’evocare il tema che nel romanzo poi risulterà un tormentone, l’impotenza]. Per quanto riguarda l’omone gigantesco, dopo quest’avventura non riacquistò più il colore naturale della pelle e, anzi, dopo pochi giorni morì pazzo furioso [nuova continuità, i due omoni in silenzio per tutta la storia alla fine giacciono su un letto]”.

Il tema della veglia al morto funestata da creature sovrannaturali, divenuto con Petronio un topos letterario, rimanda in effetti a un passato molto arcaico, preistorico. Nel richiamarlo, Apuleio attribuirà alle streghe la capacità di trafugare a morsi parti del viso dei morti (un motivo che elabora il tema degli uccelli lugubri pasciuti di cadaveri), o magari di portarne via il quid utile ai riti facendo cadere le parti inservibili: dove la suggestione innesca una vicenda illusionistica e complessa attraverso un narratore equivoco. Ma sufficientemente inaffidabile è anche Trimalchione, al di là del tono in apparenza preoccupato – da inquadrare in un contesto di superstizione diffusa, vedremo i colliberti angosciati – che Petronio osserva con divertito distacco. Anche il tema morte, comunque, avvicina il racconto al precedente.
È poi interessante che in Petronio il tema delle predatrici di bambini e l’altro delle manducatrici di morti si incontrino nella veglia funebre al corpo di un giovanissimo. Se per Ovidio le strigi sono use a nutrirsi di visceri o sangue di neonati, o piuttosto a somministrare umori venefici, causando lividori o segni cutanei (quasi a prefigurare di lontano i segni sul petto o sul collo dei vampiri “moderni”), eccole qui – grazie a improvvida sortita e rientro del Cappadoce – strappare via verso il regno dei morti, sostituire l’intero corpo con un fantoccio: dove il tema perturbante del manichino sostitutivo si basa su idee molto diffuse in magia (il meccanismo similia similibus, l’uso di imagines) ed evoca brividi d’orrore.
Encolpio e gli altri sono “stupefatti e al contempo convinti da questo racconto” – qualcosa che può dirla lunga sulle loro capacità critiche, tanto più dopo aver apprezzato la credibilità di Trimalchione – per cui baciano la mensa e scongiurano “le creature della Notte di non farsi vedere” quando col buio usciranno di lì dopo la cena per vagare nel dedalo della città. Se la metafisica degli ex-schiavi gaudenti non arriva più in là dell’orizzonte del magico (a sanzionare anche qui d’ironia il successo sociale dei liberti nel nuovo ordine imperiale, che a grandi numeri vede una degradazione dell’orizzonte filosofico e in generale della cultura), i colti studenti come Encolpio non appaiono meno fragili e la morte esonda, infestando ormai il convito come la Red Death di Poe.

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La costruzione dell’immaginario seriale contemporaneo https://www.carmillaonline.com/2015/08/31/la-costruzione-dellimmaginario-seriale-contemporaneo/ Mon, 31 Aug 2015 21:30:16 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24453 di Gioacchino Toni

immaginario_seriale_contemporaneoSara Martin, a cura di, La costruzione dell’immaginario seriale contemporaneo. Eterotopie, personaggi, mondi, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 187 pagine, € 16,00

Gli studi sulle serie televisive presentati dal volume curato da Sara Martin, si sviluppano dall’idea che la serialità si trovi ad essere al centro di una tensione trasformatrice della società contemporanea. La serialità viene analizzata a partire dal concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault, che individua con tale termine “quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in [...]]]> di Gioacchino Toni

immaginario_seriale_contemporaneoSara Martin, a cura di, La costruzione dell’immaginario seriale contemporaneo. Eterotopie, personaggi, mondi, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 187 pagine, € 16,00

Gli studi sulle serie televisive presentati dal volume curato da Sara Martin, si sviluppano dall’idea che la serialità si trovi ad essere al centro di una tensione trasformatrice della società contemporanea. La serialità viene analizzata a partire dal concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault, che individua con tale termine “quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l’insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano” (M. Foucault, Eterotopia, Mimesis 2010). Pertanto, la televisione, può essere individuata come “l’eterotopia per eccellenza”, nella sua continua giustapposizione, in un luogo reale, di spazi che generalmente sarebbero incompatibili. Il processo di costruzione di un nuovo immaginario dei mondi seriali, secondo la curatrice del volume, ricorre a spazi anomali entro i quali i personaggi agiscono al fine di “proteggere la dimensione di chiusura dell’eterotopia, in cui si collocano, restii (o impossibilitati) a concedere l’ingresso degli altri spazi al loro interno”. Due le forme assunte dalle eterotopie definite da Foucault: “eterotopie di crisi” ed “eterotopie di deviazione”. Nel primo caso si tratta di luoghi riservati a chi, in relazione alla società, si trova in stato di crisi, nel secondo si tratta invece di quegli spazi in cui vengono collocati i devianti rispetto alle norme imposte (cliniche psichiatriche, carceri…). Il volume ragiona su questa seconda forma, “indagando la scrittura e la costruzione di luoghi e personaggi altri”.

Nell’immaginario prodotto da alcune serie si hanno rappresentazioni del mondo che portano lo spettatore a vivere esperienze affettivo-sensoriali fantastiche in grado, in taluni casi, di essere strumento di comprensione della realtà. In altri termini si può dire che diventano dei miti in grado di inglobare lo spazio dello spettatore trasformandosi in luoghi di “creazione di risposte” relativamente alla società. Altre serie narrano il mito di fondazione di civiltà costituentesi sulla base di un nuovo ordine, derivato da un disordine maggiore sconfitto in maniera più o meno definitiva. Essendo le eterotopie, sempre seguendo Foucault, la contestazione di tutti gli altri spazi esercitata o attraverso l’illusione che denuncia l’illusorietà della realtà, o creando uno spazio perfetto ed ordinato quanto il nostro è disordinato e caotico, il saggio si propone di tracciare una mappa dei luoghi in cui prendono vita questi mondi. In tali spazi si collocano le cosiddette prison television series, come, ad esempio, OZ (HBO 1997-2003), Prison Break (Fox, 2005-2009) ed Orange Is the New Black (Netfix, dal 2013). Una società può far funzionare con modalità diverse un’eterotopia, come nell’esempio foucaultiano del cimitero: si tratta di uno spazio trasformatosi radicalmente nel corso del tempo, da “luogo integrato” allo spazio abitativo, a “luogo altro”, distinto sino a divenire simbolo del culto moderno dei defunti. Relativamente al rapporto luogo di sepoltura, defunti e città, Sara Martin individua il costituirsi di differenti mondi narrativi; dalle serie incentrate sugli zombie, come The Walking Dead (AMC, dal 2010) ed In the Flesh (BBC Three, dal 2013), alle storie di vampiri, come il vecchio Dark Shadows (AMC, 1966-1971), Buffy the Vampire Slayer (WB / UPN, 1997-2003) e True Blood (HBO, 2008-2014). Essendo le eterotopie connesse con la suddivisione del tempo, in diverse serie si assiste alla questione della rottura con il tempo tradizionale. Ad esempio, in Lost (ABC, 2004-2010) si ha una rottura tra il tempo dell’isola e quello fuori da essa ed in Person of Interest (CBS, dal 2011) i protagonisti ricorrono all’archivio visivo delle telecamere di sorveglianza, luogo in cui, al pari delle biblioteche e dei musei, il tempo “non smette di accumularsi”.

Nel suo intervento, Roy Menarini, sottolinea come da qualche tempo le serie televisive non soffrano più della sindrome di inferiorità culturale nei confronti del cinema. Lo studioso individua in Avatar (2009) di Jeames Cameron un esempio di riconquista di mercato, nei confronti della televisione, da parte del cinema, attuato attraverso il ricorso al 3D, come elemento di “valorizzazione della sala”. Anziché sfidare le serie televisive sulla complessità del racconto, il cinema sembra optare per una particolare “esperienza di visione” ed una generale “semplificazione simbolica”. Il cinema cerca, in altre parole, di conquistare per via tecnologica quanto non riesce più a garantire in termini narrativi. A proposito di questi ultimi, Menarini sottolinea come anche i registi cinematografici che, in un primo tempo, hanno insistito su “rompicapi narrativi”, come lo stesso Quentin Tarantino, siano passati a racconti più lineari. La produzione contemporanea statunitense, soprattutto di carattere spettacolare, ha optato per strategie commerciali volte ad intrecciare le serie televisive con i prodotti cinematografici, in transmedia storytelling in cui i due prodotti si dimostrano l’uno l’espansione dell’altro. In ciò la produzione della Marvel è maestra, con tanto di ulteriore prolungamento nei videogames. La serialità televisiva contemporanea, secondo l’analisi di Menarini, ha raccolto la nozione di drama offrendo spazio a soggetti solitamente propri del cinema indipendente di nicchia, ampliando ed intorbidendo i riferimenti culturali. Tale complessificazione dei prodotti audiovisivi si traduce, dal punto di vista imprenditoriale, in strategie di marketing e di targeting sempre più elaborate basate su algoritmi e software di profilatura degli utenti sempre più elaborati.

Marta Boni, nel suo scritto, ragiona circa la capacità dei racconti seriali di costruire mondi con geografie che si sovrappongono a quelle reali. Quando si parla di mondi, sottolinea la studiosa, si parla di un sistema complesso non riconducibile né ad una storia né ad un solo medium. “Una serie è un sistema complesso, provvisto di confini, che tiene insieme vari racconti e che, grazie alla ‘saturazione’ delle capacità cognitive dello spettatore attraverso la molteplicità, ottiene il risultato di costruirsi come mondo consistente, esplorabile a piacere e, come tutte le eterotopie, può essere il luogo in cui una società pensa i propri confini ed elabora la propria identità”. L’epopea mette in ordine un mondo così come alcuni mondi seriali inglobano lo spazio dello spettatore divenendo luoghi di “creazione di risposte sulla società”. Il mito, conclude l’autrice, si costruisce per sedimentazione, si sviluppa nella ridondanza e nella permanenza di frammenti nello spazio sociale, è un processo storico di costruzione della memoria collettiva ed i mondi seriali “emergono nel tempo come degli spazi flessibili al punto da diventare sistemi, o ‘ecosistemi’, delle presenze durevoli nell’universo mediale contemporaneo”.

game-of-thrones-daenerysMaria Comand si sofferma sui personaggi della serialità fantasy sottolineando come questi non costituiscano un caso diverso rispetto a quelli di altri mondi di fantasia, visto che per entrambi lo spettatore impiega i medesimi procedimenti di comprensione ed adesione. Nell’analizzare il dibattito che si è sviluppato attorno alla serie Game of Thrones (HBO, dal 2001), l’autrice mette in risalto come attorno ad alcuni personaggi si sia sviluppata una riflessione assai approfondita. Sulla figura di Daenerys Targaryen, ad esempio, si scontrano interpretazioni che vanno da chi, accusando la serie di sessismo (Myles McNutt ha a tal proposito coniato il termine sexposition), stigmatizza i comportamenti della ragazza perché “esprimerebbero una subordinazione a codici di comportamento androcratici, giacché usa il proprio corpo per emanciparsi”, a chi, invece, la considera “un’icona progressista-femminista, in virtù del suo intendere la leadership come espressione carismatico-empatica e come cura degli altri”. Secondo Comand, questo serrato dibattito prova, prima di ogni altra cosa, l’esistenza di Daenerys: “come soggetto del dibattito pubblico, nella vita immaginativa, simbolica e affettiva degli spettatori, questa donna Nata dalla Tempesta e Madre dei Draghi esiste”. Evidentemente, sostiene la studiosa, “l’incredibilità non implica automaticamente scarsa credibilità o l’incapacità di coinvolgere, incantare, suscitare sentimenti e interrogativi”, tanto che, con estrema naturalezza, si arriva a chiedersi se Daenerys Targaryen sia o meno femminista.

Alberto Brodesco analizza il rapporto tra teorie scientifiche e trame seriali che struttura un immaginario scientifico-mediale ove la cultura pop “trova nutrimento nella scienza che sfida il senso comune”. L’autore sottolinea come, a differenza del cinema del passato in cui la scienza solitamente compare attraverso la figura dello scienziato pazzo che valica il confine del consentito, la fiction contemporanea “mostra la scienza costretta dalla sua stessa episteme a spingersi al di là dei limiti della mente umana”. Per lo spettatore la legittimazione fornita dalla scienza regala alla narrazione un’atmosfera, in cui si fondono mistero e razionalità, utile al mantenimento di quell’ambiguità che rappresenta “uno dei cardini su cui si reggono le narrazioni estese”.

Decisamente approfondita risulta l’analisi della complessa struttura di Game of Thrones (HBO, dal 2001) realizzata da Luca Bandirali ed Enrico Terrone. Viene dai due indagato il ruolo narrativo dello spazio nel conflitto messo in scena dalla serie. In tale opera, sostengono gli autori, il legame strutturale tra spazialità, conflitto e forme di vita raggiunge livelli estremi di articolazione e proliferazione. Lo spazio qua è l’oggetto della contesa tanto che il mondo di Game of Thrones risulta cartografato con estrema cura. In uno dei quattro continenti, Westeors, suddiviso in sette regni, abbiamo il centro focale di tutta la vicenda. Chi tra i sette regni, perennemente in conflitto tra di loro, occuperà King’s Landing, ove si trova il trono, si troverà a governare su tutti gli altri. Al di là dei conflitti interni, i pericoli per Westeors vengono da nord, oltre la barriera, dai barbari bruti che premono sulla frontiera per fuggire dalla minaccia dei “non-morti” mentre, da sud, la minaccia viene dall’ultima discendente dei Targaryen, un casato spodestato restato senza stato. Da nord la minaccia ultima è rappresentata dai “non-morti”, mentre da sud da un esercito “ibridato con forme di vita non umane, i draghi”. Lo scontro finale pare destinato ad essere quello tra umani e non-umani.
Bandirali e Terrone analizzano dettagliatamente la complessa sigla iniziale della serie rilevandovi un’elaborata presentazione della struttura spaziale e narrativa. La sigla offre le esatte coordinate geografiche della serie e varia leggermente in base alle località maggiormente coinvolte nella narrazione della puntata. In essa compare anche un’enigmatica forma sferica: “Se la mappa rappresenta lo spazio geografico, il topos, come condizione fondamentale della narrazione (…) questa sfera rotante, con le sue effigi di draghi, cervi e antichi condottieri, sembra piuttosto voler condensare le altre dimensioni fondamentali della storia: l’epos come incombere di un passato leggendario, il kratos come pervasività delle relazioni di potere, e il telos come tensione verso un futuro nel quale si addensano progetti, obiettivi, speranze, timori”. Ulteriore approfondimento riguarda la complessa orchestrazione degli spazi e, secondo gli autori, quando la serie “abbandona la tipica verbosità del fantasy e mette in scena il potere dello spazio, raggiunge l’apice della propria rilevanza estetica in una fusione perfetta tra progetto narrativo, stilistico e ideologico”.

Alice Cucchetti si occupa dei fenomeni fandom legati alle produzioni seriali partendo da una definizione di fan inteso come “fruitore che opera sul proprio oggetto di culto un investimento emotivo, affettivo, performativo. Descriversi come fan di un prodotto (culturale oppure no) corrisponde a dare agli altri e a se stessi una definizione di sé. E di conseguenza riconoscere come simili le persone che condividono la stessa passione”. Con il termine fandom si indica, pertanto, una comunità di fan composta da cultori che “adottano un approccio attivo e dinamico nei confronti del testo”. Il materiale idolatrato viene saccheggiato dai fan e rimodellato secondo esigenze di carattere creativo ed emotivo che, non di rado, sfocia in una “produzione derivata” che integra l’oggetto di partenza o se ne distacca totalmente. Le produzioni culturali narrative si prestano alle dinamiche di fandom per diversi motivi, tra questi hanno un ruolo importante la spiccata componente d’evasione, il “potenziale di immedesimazione intimamente personale” e la possibilità di intervenire, sia come “sforzo immaginativo” che come “agire produttivo”, nella manipolazione del complesso “universo narrativo finzionale”. Risulta evidente come le produzioni seriali, televisive e non, amplifichino tali dinamiche. L’autrice ricorda come il primo fandom riconosciuto sia relativo al personaggio di Sherlock Holmes al punto di imporre ad Arthur Conan Doyle di “resuscitare” il protagonista dopo averlo fatto morire in un racconto del 1893. Sul celebre investigatore sono poi stati prodotti oltre duecento film e diverse serie televisive che hanno offerto ai fan ulteriore materiale su cui investire energie ed emozioni. Tra le produzioni televisive spicca per popolarità, la serie Sherlock (BBC, dal 2010), che vanta un fandom particolarmente attivo sul web. L’universo narrativo di Doyle, in effetti, contiene diverse caratteristiche utili alla creazione del fenomeno fandom: la dimensione seriale, la chiamata in causa del lettore/spettatore coinvolto nel metodo deduttivo anche grazie alla figura di Watson come suo alter ego ecc.
In generale, la serialità televisiva, sostiene Cucchetti, apre a forme di gradimento basate, oltre che sulla ripetizione e sulla variazione infinita, sulla competenza intertestuale del pubblico. Tale tipo di fruizione si è intensificato nel corso della cosiddetta “Golden Age seriale” caratterizzata da “narrazioni stratificate e complesse, una forte orizzontalità, una moltiplicazione dei personaggi e delle relative storyline, un approfondimento di temi trasversali, filosofici e/o morali. È una tipologia di racconto che pretende di essere fruita collettivamente”. Il fenomeno fandom non deve però essere percepito esclusivamente come attività “dal basso” visto che le produzioni non mancano di stimolare la nascita di tali fenomeni mettendo a disposizione materiale in abbondanza: “la grassroot convergence” interagisce con la “corporate convergence”.
Circa la “potenza di fuoco” che alcuni fandom sono in grado di dispiegare, l’autrice riporta il caso di Firefly (Fox, 2002), ove le veementi proteste dei fan per la cancellazione della serie dopo pochi episodi (trasmessi dall’emittente televisiva disordinatamente e con una collocazione di palinsesto infelice) hanno convinto la Universal Pictures a riprendere il discorso interrotto attraverso la realizzazione del lungometraggio cinematografico Serenity (2005). Caso, per certi versi, ancora più eclatante riguarda la serie Veronica Mars (UPN / CW, 2004-2007), teen drama poliziesco cancellato dopo tre stagioni. Il creatore della serie e l’attrice protagonista hanno chiesto direttamente alla comunità di fan di contribuire, attraverso un crowdfunding, al finanziamento di una nuova produzione. Lanciata la raccolta dei 2 milioni di dollari necessari sulla piattaforma Kickstarter, questi sono stati ottenuti dopo sole 24 ore ed, a fine raccolta, sono stati raggiunti più di 7 milioni di dollari. In entrambi i casi si capisce come, nonostante l’insuccesso della normale programmazione, “una nicchia di pubblico apparentemente ristretta ma motivata da una passione intensa è un’audience fruttuosa e potente quanto (e forse più) di una larga massa debole”. L’intervento di Alice Cucchetti si chiude toccando una questione importante circa lo sviluppo delle comunità di fan: come influirà sulla fruizione sociale del prodotto seriale la scelta di piattaforme streaming, come Netfix, di rilasciare tutti gli episodi della stagione contemporaneamente?

L’intervento di Veronica Innocenti passa in rassegna la serie televisiva Buffy the Vampire Slayer (WB / UPN, 1997-2003), preceduta dall’omonimo film per le sale cinematografiche di F. Rubel Kuzui del 1992. In entrambe le produzioni, sceneggiate da Joss Whedon, si narrano le vicende di una giovane californiana che, all’improvviso, scopre di essere la prescelta per difendere l’umanità da creature mostruose. Ibridazione, ribaltamento ed ironia nei confronti delle convenzioni di genere rappresentano i punti di forza di Buffy. La serie, caratterizzata da una forte instabilità delle identità dei personaggi e da una spiccata ibridazione dei generi, è strutturata su un sistema modulare ed, al pari di diverse altre produzioni seriali contemporanee, sostiene Innocenti, risulta contraddistinta da una “particolare sensazione di permanenza”. Abbandonati i sistemi tradizionali di narrazione procedurale, le forme testuali contemporanea si sono trasformate in “ecosistemi narrativi” caratterizzati per essere “sistemi aperti, abitati da forme narrative e personaggi che si modificano nello spazio e nel tempo (…); fondati su meccanismi di rimando e rimediazione; persistenti e resilienti, cioè durevoli e capaci di resistere alle perturbazioni (…); caratterizzati da una componente biotica preponderante, cioè da una materia narrativa viva e vitale, soggetta a processi di competizione, di adattamento, di cambiamento, di modifica”. Circa l’estensione del fenomeno Buffy ben oltre al medium televisivo, Innocenti sottolinea l’importanza del suo approdo nel mondo dei videogiochi, grazie al quale si allargano notevolmente le situazioni narrative e si permette al fruitore un ruolo decisamente più attivo. Il fruitore non si trova più a seguire una serie televisiva, ma, piuttosto, è chiamato ad “inseguirla” nei diversi ambiti mediali.

Il saggio di Paola Brambilla analizza Grimm (NBC, dal 2011), serie televisiva fantastico-procedurale ove il detective Nick Burkhardt, discendente dai “guardiani Grimm”, viene ad avere a che fare con creature demoniache. Grimm viene qua indagato “quale caso di evoluzione estetica e narrativa di una serie in relazione a fattori istituzionali e commerciali, legati alle esigenze dello scenario televisivo e mediale”. Dopo aver evidenziato come la forma iniziale della serie risulti influenzata dai meccanismi interni della broadcast television (che per sua natura è sottoposta ai controlli della Federal Communication Commision e deve prevedere i break pubblicitari, con ciò che ne consegue a livello di struttura narrativa), viene analizzata l’influenza sull’evoluzione stilistico-narrativa esercitata dal posizionamento nel palinsesto ed annesse strategie competitive. Elemento sfruttato al fine di accrescere la fidelizzazione risulta quello dell’incrementare il dialogo con i fan; ad esempio nella chiusura dell’ultima stagione compaiono sullo schermo note degli autori che, “strizzando l’occhio” al pubblico più affezionato recitano: “To be continued. Oh, come on. You knew this was coming”.

the-walking-deadLo scritto di Gabriele de Luca si occupa della rappresentazione dello straniero attraverso la figura del morto vivente in The Walking Dead (AMC, dal 2010). Prima di affrontare direttamente la serie, l’autore ricostruisce brevemente come la figura del morto vivente si presti a divenire nelle produzioni audiovisive contemporanee metafora “dello straniero, e più precisamente del migrante, quello irregolare, che si sposta clandestinamente, che viaggia senza i documenti necessari”. Analizzando le caratteristiche dello zombie, suggerisce de Luca, diviene possibile “riflettere sullo statuto attuale di questa figura” e sulla “rappresentazione dell’altro nei media contemporanei”.
Il classico dilemma circa la vera natura dei morti viventi torna anche in The Walking Dead: queste figure appartengono o meno al genere umano? I morti viventi della serie si presentano trasandati, pallidi, affamati e muti. “Gli zombie, come i migranti ridotti al silenzio dalle culture dominanti, sono muti, incapaci di articolare le proprie rivendicazioni, in grado a malapena di dialogare tra loro”. L’elemento che però sembra accomunare maggiormente zombie e migranti irregolari è la deindividualizzazione. I media rappresentano quasi sempre i migranti, esattamente come gli zombie, come folla, come orda che avanza col fine ultimo di sconvolgere la vita delle comunità civili. Tra le peculiarità della serie esaminata, de Luca individua il fatto che “la presenza dei walkers da stato d’eccezione diventa caratteristica costante di un mondo nuovo, rispetto al quale quello vecchio non è che un ricordo”. Una volta constatata l’impossibilità di sconfiggere il fenomeno dei morti viventi ed una volta scoperto che tutti, indistintamente, una volta morti si trasformano in zombie pur senza essere stati morsi da essi, ogni speranza di poter tornare alla vecchia società si spegne. La questione diventa allora quella di trovare forme di coesistenza, di costruire comunità nuove pur tra mille contraddizioni e difficoltà. L’elemento di novità introdotto dalla serie è che lo spunto narrativo dell’invasione dei morti viventi rimane presente ma viene pian piano relegato più sullo sfondo ed alla questione dello statuto degli zombie (umani/non-umani) “fa da contraltare un progressivo ed inesorabile assottigliarsi della barriera che separa uomini e zombie”. Anche gli esseri umani, via via, divengono sempre più lividi, sporchi, emaciati ed inclini ad impulsi violenti primordiali e l’assottigliarsi del confine che separa esseri umani e morti viventi è accompagnato da una “progressiva normalizzazione della situazione di eccezione”. L’accoglienza nei confronti di altri esseri umani si è data sul finire della terza stagione: all’interno della prigione-rifugio vengono accolti gli abitanti Woodbury, dopo che si è palesata la vera natura del Governatore. Resta da vedere se e come vi potranno essere modalità di apertura nei confronti dei walkers.

Les-Revenants-01Chiara Grizzaffi affronta la serie francese Les Revenantes (Canal+, dal 2012) in cui confluiscono i topoi di diversi generi, tra questi l’horror, il thriller ed il dramma. Seppure l’idea della serie derivi dal film omonimo realizzato nel 2006 da Robin Campillo, nella realizzazione seriale di Fabrice Gobert e Frédéric Mermoud, i cambiamenti sono parecchi. Venendo alla produzione di Canal+, le vicende narrate ruotano attorno ad un’immaginaria cittadina delle montagne francesi ai piedi di una diga, ove, pian piano, iniziano a far ritorno alle rispettive dimore personaggi deceduti da tempo. Il rapporto che si instaura tra questi personaggi che improvvisamente ritornano e gli abitanti della cittadina è al centro della vicenda. Altri elementi inquietanti si aggiungono, man mano, alla narrazione: la scoperta che il lago delimitato dalla nuova diga ricopre il vecchio paese sommerso da un’inondazione causata dal cedimento della precedente diga; il fatto che l’età di coloro che ritornano pare essere restata quella del momento della loro scomparsa mentre il resto del paese ha continuato ad invecchiare, l’inquietante figura della “guida spirituale” della comunità, i poteri che sembrano avere alcuni revenant, l’impossibilità di lasciare il paese da parte di chi tenta di andarsene e finisce poi per ritrovarsi sempre al punto di partenza, l’inspiegabile calo del livello dell’acqua del bacino delimitato dall’imponente nuova diga, la presenza di cadaveri di animali che sembrano essersi lanciati volontariamente nel lago, il fatto che alcuni dei revenant iniziano a manifestare piaghe di decomposizione sulla pelle dal sapore cronemberghiano ecc.
L’intera vicenda è contraddistinta, secondo Grizzaffi, da un tono perturbante; ciò che pur pare familiare allo spettatore, ben presto, a partire dalla sigla di testa, si presenta ad esso come estraneo. Se i primi episodi risultano “più intimisti”, gravitanti attorno al “conflitto psicologico” tra i personaggi, la trama sfocia, nell’approssimarsi all’epilogo, nel paranormale, lo scenario diviene post-apocalittico e la cittadina appare sempre più isolata dal resto del mondo tanto in termini spaziali che temporali, in una perturbante atmosfera sospesa in cui si mescola la temporalità bloccata dei ritornanti con lo scorrere del tempo dei cittadini che, pare, rallentare sempre più. Il finale pare zombie-oriented, con decine e decine di revenant che escono dalla foresta per dirigersi, tra le nebbie, verso l’abitato. Il rifiuto da parte dei vivi di consegnare Adèle ai revenant, porta allo scontro e l’ultima immagine ci mostra la città sommersa dalle acque.
La serie Les revenantes, sostiene acutamente Grizzaffi al termine del suo scritto, al di là dei riferimenti ai diversi generi (horror, thriller ecc.), “svela una complessità e una stratificazione maggiori: l’umanizzazione dell’orrore, il forte accento sui risvolti psicologici o sugli aspetti più banali del dolore e il rifiuto di motivare o spiegare la componente soprannaturale della trama, costituiscono una sfida per gli spettatori costretti a stare al gioco nonostante le regole – solitamente stabilite anche dalle coordinate di genere – in questo caso non siano chiare. (…) E, forse, tutto questo ci dice qualcosa anche sui tempi che stiamo vivendo: in un’epoca in cui l’oblio è un diritto da riconquistare e le tracce del nostro passato, soprattutto quelle digitali, sopravvivono anche alla nostra morte, rischiamo davvero di essere condannati al passato”.

Pietro Bianchi analizza la serie True Blood (HBO, 2008-2014) a partire dall’ambientazione: il profondo Sud rurale degli Stati Uniti. Tale mondo ha esercitato un certo fascino sull’immaginario americano, tanto che numerosi sono i film ambientati in tale località che riesce a mescolare eccessi e contraddizioni. Non è difficile immaginare come la rappresentazione del Sud rurale si sia alimentata di stereotipi propri della cultura urbana nordamericana che hanno finito con il costruirne un’immagine in cui le contraddizioni sono portate all’eccesso; di queste terre si elogia la genuinità e l’autenticità ma al tempo stesso ci si spaventa per l’arretratezza tecnologica e culturale. Bianchi sostiene che ”True Blood non ci vuol fare vedere il Sud, ci vuole far vedere l’immagine del Sud. Quell’immagine che l’ha reso un oggetto del desiderio delle élite colte e urbane americane e dei film di Hollywood degli ultimi anni. Il fatto che di questo luogo vengano mostrati con insistenza i tratti di eccesso sessuale, fisico, estatico; o che venga continuamente riaffermato il surplus di autenticità e veracità, costituirà il filo rosso dell’intera serie. La presenza dei vampiri serve infatti a raddoppiare all’interno dell’intreccio, quello che la rappresentazione del Sud costituisce all’esterno nell’immaginario contemporaneo”. Nella serie si sommano gli eccessi propri delle creature soprannaturali con le esperienze umane quando queste si fanno estreme. L’esperienza dell’andare oltre la propria umanità, secondo Bianchi, “non ha niente a che vedere con il registro del magico o del soprannaturale, ma con qualcosa di estremamente razionale e che la psicanalisi definisce ‘pulsione di morte’”. Nella serie la comparsa dei vampiri si accompagna “all’impossibilità di alcuni personaggi di riuscire a fari i conti con la distruttività del godimento”. Tale ragionamento porta l’autore a concludere che di “soprannaturale”, nella serie esaminata, c’è proprio la pulsione di morte, ossia “un principio di superamento dei limiti del vivente che tuttavia si trova al cuore dell’umano” e le creature soprannaturali (vampiri, licantropi ecc.) “sono un modo per dare manifestazione a ciò che di innaturale vi è nell’essere umano, non un modo per mettere a tacere l’umano con ciò che umano non è”.

person of interestLo scritto di Valentina Valente si occupa di Person of Interest (CBS, dal 2011), serie che mescola thriller spionistico ed aspetti avveniristici di derivazione fantascientifica ma esplicitamente ancorata a questioni che toccano il mondo reale ormai disseminato di telecamere di controllo a circuito chiuso e banche dati utili a tracciare i profili degli individui. La “Macchina” in grado di riconoscere e mappare gli individui sfruttando CCTV e banche dati, compare in quanto commissionata, in seguito all’11 settembre, dal governo statunitense, al fine di sventare attacchi terroristici. Grazie all’integrazione umana dei due protagonisti, la Macchina si rivela in grado di fornire informazioni riguardanti anche crimini non di carattere terroristico. Ed è di questo uso che si occupa Person of Interest. Nella serie si esplicita, secondo Valente, una distinzione tra chi, avendo accesso agli “strumenti della conoscenza e dello sguardo”, dunque detiene il potere, e chi, è inconsapevole. La Macchina costituisce la linea di separazione tra questi due mondi. Altro elemento su cui si sofferma tale analisi riguarda le caratteristiche dei luoghi entro cui si dipana la narrazione. La biblioteca-rifugio rappresenta il luogo della ricerca e della pianificazione, tale spazio è l’unico a presentarsi allo spettatore come sicuro, tanto che non viene quasi mai inquadrata la porta di accesso al fine di rafforzare l’idea di spazio inviolabile. Il commissariato di polizia che, normalmente viene presentato nei film e nelle serie televisive come spazio sicuro, in questo caso appare come luogo concepito per “impedire la riservatezza”; si tratta di un’ambiente corrotto, potenzialmente pericoloso. L’ambiente principale, continua Valente, è la città, New York. In questo caso lo spettatore ne prende visione principalmente attraverso la videosorveglianza. I dispositivi video “non sono soltanto oggetti diegetici che per un breve momento caratterizzano la narrazione (…) o sono semplicemente gli oggetti prevalenti per lunghi brani narrativi (…), ma connotano la configurazione visiva dell’intera opera”. I dispositivi di sorveglianza oltre ad essere “oggetto diegetico” rappresentano una “modalità di fruizione di immagini” a cui il pubblico contemporaneo è abituato, perciò “la loro varietà di topologia di immagine non è spiazzante, ma amplifica la complessità della collocazione dello sguardo nella frammentarietà della metropoli contemporanea”.

L’analisi di Rossella Catanese e Valerio De Simone passa in rassegna Bates Motel (Universal Television Group – The Wolper Organization – A&E, dal 2013), serie che sembra un prequel anomalo di Psyco (1960) di Alfred Hitchcock. Le storie narrate si svolgono attorno alla famiglia Bates, nel corso dell’adolescenza di Norman. L’anomalia, se si vuole intendere la serie come prequel di Psyco, consiste nel fatto che la collocazione temporale contraddice tanto l’opera hitchcockiana, quanto il remake realizzato da Gus Van Sant nel 1998, essendo, la serie, ambientata in epoca a noi contemporanea e non prima degli anni Sessanta, nel caso anticipasse Hitchcock, né prima degli anni Novanta, nel caso decidesse di rifarsi alla versione di Gus Van Sant. Inoltre, cambia la località: un piccolo paesino sulla costa dell’Oregon, White Pine Bay, al posto della cittadina californiana di Fairvale. Bates Motel, pertanto, non può essere indicato né come un vero e proprio prequel, né, tantomeno, come, ennesimo, remake. Secondo gli autori la serie è piuttosto considerabile una rielaborazione, una rilettura di ambientazione contemporanea di un’opera ormai diventa classica. Dalla seconda metà degli anni Duemila sono numerosi i casi in cui vengono riprese opere cinematografiche o vecchie serie di successo ed ambientate ai giorni nostri con diversi cambiamenti. La serie Bates Motel, secondo Catanese e De Simone, può essere definita un “double re-imagined”: viene infatti doppiamente ri-immaginato ciò che non è stato mostrato precedentemente per poi collocarlo ai nostri giorni al fine di accrescere “il processo di identificazione” dei teenager. bates_motel_06Al fine di marcare lo stato di isolamento di Norman, viene mostrato indossare abiti “retrò”, per certi versi atemporali, differenziandolo così dalla comunità dei suoi coetanei vestiti invece in maniera contemporanea. Ulteriore elemento su cui si sofferma l’analisi riguarda il ruolo della crisi economica nella serie. Mentre in altre serie la crisi che ha attraversato gli Stati Uniti nel 2008, sostengono gli autori, risulta rappresentata come “evento traumatico di passaggio”, nella serie in esame diviene un elemento essenziale. “In Bates Motel il processo che ha generato la crisi viene capovolto: a generare la crisi non sono le speculazioni dei professionisti della borsa, bensì le proteste di un gruppo di ambientalisti” che mettono in crisi il business del commercio di legname, fino ad allora perno dell’economia locale, aprendo le porte alle attività illegali che sommergono la cittadina. È lo stesso dimesso motel a divenire emblema della crisi economica, motel che già nella versione hitchcockiana esibisce, nelle intenzioni del regista, il “grigio squallore della working class, i sogni infranti del benessere negato”. L’analisi di Catanese e De Simone insiste sulla centralità del motel segnalando come sin da Psyco di Hitchcock il set, composto da motel ed annessa casa sulla collina, sia pensato come “concretizzazione del paesaggio interiore del protagonista”, e finisca per rappresentare “il terrore collettivo per l’abiezione degli omicidi seriali, trauma culturale per gli Stati Uniti degli anni Cinquanta”. Il motel, nell’analisi esposta dagli autori, diviene “un’eterotopia, un luogo privo di riferimenti geografici o culturali, che condensa gli elementi aleatori e precari di un’idea di estraneità”, l’orrore non è più confinato nella spettrale casa sulla collina ma “appare improvvisamente nella banalità quotidiana e anonima del motel”, mentre l’isolamento dei due edifici, casa/motel, sembra replicare, simbolicamente, “l’io diviso del protagonista e contemporaneamente la sua dipendenza dalla personalità materna”.

L’ultimo contributo del libro curato da Sara Martin, è di Mimmo Gianneri e si occupa di Battlestar Galactica (Sci Fi Channel, 2004-2009), versione re-imagined della serie televisiva di fine anni Settanta Galactica (Glen A. Larson Productions – Universal TV, 1978-1979). La serie andata in onda a partire dal 2004 si inserisce nelle produzioni che intendono riprendere in maniera allegorica la società statunitense dopo l’11 settembre: “la flotta coloniale è alle prese con le conseguenze di un attacco al proprio cuore che si rivela fin da subito un’offensiva al proprio modello culturale e alle proprie certezze ideologiche”. Dal punto di vista stilistico la serie decide di adottare uno stile “documentaristico” con ambientazioni realistiche ed un “paesaggio sonoro costituito da suoni diegetici”. La colonna sonora riveste un ruolo fondamentale nella comprensione della filosofia della serie, tanto che l’analisi di Gianneri si concentra principalmente sul sonoro a partire dalla scelta di preferire al cliché della musica sinfonica, tipico di tanta fantascienza, sonorità non occidentali, al fine di sottolineare simbolicamente “la composizione culturalmente eterogenea della flotta in fuga”. Nell’economia del soundscape, sottolinea lo studioso, “la musica percorre una strada parallela a quella del sonoro diegetico realistico e aptico in una vera e propria divisione dei ‘compiti’. Se il suono diegetico è il prodotto del sudore, della fatica quotidiana e, in ultima misura del lavorio del metallo arrugginito che circonda le navi-prigioni perse in cerca di una ‘casa’, la musica extradiegetica rappresenta una forza esogena di pacificazione” E le rare occasioni in cui il sonoro diegetico ed extradiegetico dialogano, rimandano alla presenza di un’entità superiore tanto che il ritrovamento della Terra pare fondarsi sulla “capacità di cogliere e interpretare, da una prospettiva terrena – fatta di tradimenti, morti e ferite interiori – i segni divini (cioè musicali) percepibili”.

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