letteratura italiana – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 19 Oct 2025 22:35:26 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Et in arcade ego https://www.carmillaonline.com/2025/06/07/et-in-arcade-ego/ Sat, 07 Jun 2025 20:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88808 di Franco Pezzini

Orazio Labbate, Cravuni, pp. 128, € 16, Grey Interzona, Napoli 2025.

“Pescò sotto la sedia un pacco di cereali Frostie’s violati da scritte in miniatura quasi da commentario giuridico medievale. La sedia ricordava quelle papali epperò di inferiore qualità, una sedia superstite di molti papi morti su di essa”.

“Nenti, non funzionava l’arma”.

Come in genere le codificazioni mitiche letterarie, anche quella del gotico siciliano di Orazio Labbate si allarga progressivamente sull’onda di creazioni, suggestioni e trovate successive. Chiusa così la prima trilogia (Lo Scuru, 2014 e 2024; Suttaterra, 2017; Spirdu, 2021) che offre un [...]]]> di Franco Pezzini

Orazio Labbate, Cravuni, pp. 128, € 16, Grey Interzona, Napoli 2025.

“Pescò sotto la sedia un pacco di cereali Frostie’s violati da scritte in miniatura quasi da commentario giuridico medievale. La sedia ricordava quelle papali epperò di inferiore qualità, una sedia superstite di molti papi morti su di essa”.

“Nenti, non funzionava l’arma”.

Come in genere le codificazioni mitiche letterarie, anche quella del gotico siciliano di Orazio Labbate si allarga progressivamente sull’onda di creazioni, suggestioni e trovate successive. Chiusa così la prima trilogia (Lo Scuru, 2014 e 2024; Suttaterra, 2017; Spirdu, 2021) che offre un impianto anzitutto linguistico ma anche tematico (ossessioni e possessioni, catabasi ctonie, viaggi sciamanici e ritorno dei morti, ibridazioni cultuali, retaggi inferi arcaici), gettate le basi di una tassonomia febbrile ma perfettamente giustificata per il panorama che ha fondato le sue fantasie (L’orrore letterario, 2022), aperte le porte a una nuova – non diversa perché contigua – ramificazione nella direzione del mito (La Schiaffiatùra, 2024), l’autore le offre ora un nuovo sviluppo triforcuto come una zampa artigliata o il tridente di qualche divinità.

Cravuni (molto bella la veste grafica) è infatti la prima avventura di una trilogia pensata in modo transmediale: se da Lo Scuru stanno infatti emergendo a posteriori un videogioco e un film – linguaggi entrambi seminali per l’orizzonte narrativo di Labbate –, al contrario Cravuni è pensato a monte come prodotto che si muove sui tre piani. Senza tradirne alcuno: la scrittura è quella curatissima, indocile, delirante e francamente mannara degli altri romanzi, lingua delle ombre per scendere sotto le lande dove Ade rapì Kore e dove non si è mai sicuri se interagiamo – se siamo noi stessi – vivi a questo mondo, quindi una lingua letteraria in senso proprio; ma gli sviluppi visivi e d’azione trascinano già dentro gli spazi videoludici e cinematografici, deserti e cieli mossi, luoghi equivoci, miniere. Che ci piaccia o no, i diversi linguaggi sono ormai imprescindibili dall’occhio di un narratore: e come i vecchi gotici si muovevano negli spazi di altre arti – architettura, pittura, ovviamente teatro… – per definire le proprie oscurità, così oggi il gotico migliore si muove nel dedalo di tali differenti dimensioni. Walpole non avrebbe scritto il suo Castello d’Otranto senza l’appoggio del teatro da un lato, di architettura e arti figurative dall’altro; e per altro verso, Füssli ha influito direttamente su Mary Shelley e Poe, Le Fanu e Stoker, non solo nella sagoma-tormentone del suo Incubo dipinto, ma per tutto ciò che in generale vi sta dietro di allucinatorio, spettacolare e febbricitante.

Del tutto coerente dunque lo sviluppo crossmediale per cui è stata appositamente fondata la sinergia Grey Interzona (edizioni Polidoro, casa di produzione multimediale Grey Ladder, sviluppatore di videogiochi Tiny Bull Studios), la natura per Cravuni di “arcade letterario” – nel senso della parola “inglese arcade […], che indica genericamente una galleria commerciale, [e] significa in questo caso sala giochi” (Wikipedia) – con la scelta di un ritmo incalzante e uno sviluppo paginale congruo all’avventura.

Che richiama d’altronde (riflessioni non nuove, ma bello vedervi conferma) a una dimensione di mistero specifica del gotico. Mistero proprio nel senso tecnico, di riti collettivi appartati che nel mondo antico in chiave religiosa definivano attraverso azioni rituali più o meno indicibili il rapporto con la natura (agricoltura, eccetera) e via via con una sopravvivenza oltremondana; ma nella chiave moderna e laica di una società urbana, la natura passa quasi solo attraverso la percezione degli eventi nascita, sessualità e morte, che soltanto una narrazione fortemente intrisa di simbolo può dire. Proprio nell’esperienza di chi vive una sensibilità – e magari prassi comunitarie: rapporto con le arti, eventi, persino abbigliamento – nel segno del gotico è evidente che una certa mitopoiesi non si esaurisca nella facile mascherata, afferendo piuttosto a un linguaggio interiore con cui trattare per simboli e allusioni le grandi domande. Un linguaggio interiore fatto – si è detto – di riti (laici, per carità, ma densi di simbolismo) e brandendo oggetti transizionali e “liturgici”: e a ben vedere anche certe prassi videoludiche presentano elementi in senso lato rituali e il ricorso a certe attrezzature. Cravuni capitalizza tutto questo: la catabasi in scena sembra presentare delle componenti rituali, di azione “sacra” (nel senso di essere compiuta da figure divine).

E proprio coi piedi ben saldi tra miti e misteri, Labbate narra nella lingua e coi topoi del gotico siciliano – il rapporto tra America polverosa delle grandi strade e calcinate origini trinacrie, le mostruosità e il sincretismo ctonio – la vicenda naturaliter poliziesca (cfr. le partizioni individuate in L’orrore letterario) di un detective un po’ all’Angel Heart. Ma il paganesimo che sostanzia l’oscurità non è qui quello dei culti ibridati degli schiavi, bensì quello del mito antico mediterraneo, non meno meticcio e incerto. Se nella prima trilogia il substrato “cristiano” – con tutte le virgolette del caso, perché grondante antichi miti inferi del paganesimo – era più marcato, qui la sovrapposizione / compenetrazione è con gli dei di una grecità ben poco luminosa: siamo nei territori minacciosi dell’Apollo con il coltello in mano di Detienne, dei cani inferi di Ecate – l’uomo-cane Calorio (di nome Larrie, come l’uomo lupo Larry Talbot dei vecchi horror Universal) –, di una mafia trasfigurata in consorzio spettrale.

Il detective Frank LaBella, orbato di un occhio nel segno di quelle mutilazioni mitiche che lo accomunano a Odino e altri ciclopi, abbandona l’Oklahoma per tornare a Riesi in provincia di Caltanissetta, da dove veniva suo nonno. Sta seguendo una pista privata, l’orrendo omicidio di sua madre, e intanto specula sul Divino, in una continua opposizione venata di blasfemia tra le sue divinità misteriche – sfuggenti come i Grandi piccoli di Samotracia – e il Dio cattolico. Non è troppo strano: LaBella è a sua volta una divinità, un Apollo impegnato in una teomachia notturna, allucinata e fitta di oggetti simbolici e desueti alla Francesco Orlando come improbabili attrezzi liturgici (spadini, una forchettina a due punte, un graal di metallo, una bottiglietta di amaro, coltellini, “varie piccidde armi nate da un accoppiamento tra armi che facevano parte di altre armi”, su un altare “svariati oggetti che sembravano da toilette”, immaginette eccetera) nonché d’ombre di Cerberi e Arpie. Ma tutto il quadro è fervente di echi: i cannocchiali di Pino Badrose, carpentiere e “archeologo delle coscienze” (Efesto? vive tra i fornelli), sembrano usciti dalla bottega dell’equivoco Coppola de L’uomo della sabbia di Hoffmann, a ricollegare alla più solida tradizione gotica dell’onirico e della visione smaniante.

Dimentichiamo le malinconie romantiche da ritorno dell’emigrato, canzoni come Torno a casa o Paese mio. Qui come per il Giuseppe Buscemi di Suttaterra – amico del nonno di LaBella – è un ritorno dal sapore di morte legato a un bigliettino: la scrittura, in Suttaterra di una lettera, ha sempre potenzialità nel segno del passaggio. Il vilain con cui fare i conti è il tenebroso Boss Tony Lavuru (un Ermes degradato, deformato come in un altorilievo tardivo) di una Mafia spiritica, e LaBella dovrà affrontarlo.

La presenza di cereali (Kellogg’s Frosties, Kellogg’s d’Ermes e altro), in tutta questa storia, rimanda al loro ruolo negli antichi misteri, Eleusi e non solo, ma anche a un’antieucarestia nel segno dell’infezione; e lontano dagli scintillii di La Cabala di Thornton Wilder e dall’umbratile claustrofobia fiamminga di Malpertuis di Jean Ray, il ritorno degli antichi dei – a volerlo definire con Aby Warburg – si consuma nel sordido. Con Jung e Hillman “Gli dèi sono diventati malattie”, ma di statuto divino è anche l’incredibile psicopompa Cuncittina Bity con cui nascerà un amore. Nonché un nuovo sottogenere narrativo, il thriller della mitologia siciliana criminale, che qui trova qui un visionario, iniziatico cominciamento al ritmo serrato del videogioco. “Siamo costituiti di membra condite da stanchezze mostruose”. E a sovvenirvi, tanto più nei nostri tempi bui, ci sostengono le storie.

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Sei stato gotico, Giovanni https://www.carmillaonline.com/2025/04/05/sei-stato-gotico-giovanni/ Sat, 05 Apr 2025 20:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87738 di Franco Pezzini

Giovanni Arpino, Un’anima persa, prefaz. di Bruno Quaranta, pp. 144, € 18, Cliquot, Roma 2024.

“Ho sempre avuto paura, ma oggi è ancora diverso, oggi appena sveglio sento già tra le costole un trasalimento angoscioso, che batte, fa male, che non riesco a soffocare con le sole forze della ragione […] Gli avvenimenti di queste prime ventiquattr’ore in città mi si stringono intorno come la gola di un profondissimo pozzo”.

Più che “Un giallo estremamente romanzesco” come definito da Guido Piovene che lo celebrò, Un’anima persa di Giovanni Arpino (1927-1987) è essenzialmente un romanzo gotico – come del [...]]]> di Franco Pezzini

Giovanni Arpino, Un’anima persa, prefaz. di Bruno Quaranta, pp. 144, € 18, Cliquot, Roma 2024.

“Ho sempre avuto paura, ma oggi è ancora diverso, oggi appena sveglio sento già tra le costole un trasalimento angoscioso, che batte, fa male, che non riesco a soffocare con le sole forze della ragione […] Gli avvenimenti di queste prime ventiquattr’ore in città mi si stringono intorno come la gola di un profondissimo pozzo”.

Più che “Un giallo estremamente romanzesco” come definito da Guido Piovene che lo celebrò, Un’anima persa di Giovanni Arpino (1927-1987) è essenzialmente un romanzo gotico – come del resto riconosciuto da Fabio Camilletti e altri cultori del genere. Gotico nelle dinamiche – un protagonista orfano e smarrito come certe titubanti madamigelle radcliffiane, una magione misteriosa dal sentor di castello con misteriosi scricchiolii notturni, uno zio finto-buono detentore di loschi segreti e manipolatore patologico (un po’ alla Silas), una zia di conclamata ingenuità, la sua matura domestica “storta e minuta” che borbottando offre imbeccate al protagonista, un pazzo recluso in una stanza a imitare un serpente con lingua dardeggiante, il tema del malato che succhia il sangue dei vivi, uno spioncino per occhieggiare come voyeur, un gioco torbido di doppi, un’identità nascosta, un rondò straniante tra bene e male, una donna di vita legata come in un dungeon, figure umbratili che si consumano nottetempo nella dispersione del gioco d’azzardo… e una conclusione raggelante –, il romanzo è però anche gotico nell’ambiguità d’ambiente.

Il romanzo esce per Mondadori nel 1966. Una decina d’anni dopo, Dino Risi ne trae un film (1977), lo dota di interpreti straordinari (Gassman, Deneuve) ma sposta la vicenda a Venezia, tradendo uno dei connotati di base, una sorta di meta-personaggio retrostante la vicenda: la Torino appiccicosa e avvizzita del caldo di luglio dei primi anni sessanta in cui il narrante diciassettenne Tino, orfano e reduce dal collegio, giunge per gli esami di maturità classica nella palazzina signorile oltre Po degli abbienti zii Calandra. Si attende con ebbrezza la città vitalistica del boom e di Italia ’61, delle fabbriche e delle automobili – e tra zabaglioni, caffè ben zuccherati e calmanti (l’ormai obsoleta simpamina) si trova invece in uno spazio appartato, impenetrabile e onirico più simile alle dimore dei quadri di Italo Cremona e del gruppo Surfanta. Un finto, lieto candore regna nella casa asfittica, claustrofobica e omertosa dove la zia Galla si sdilinquisce per il coniuge ingegnere tanto buono: mostruosamente, morbosamente buono nell’accudire da solo il fratello “professore” impazzito in Africa e recluso come la Bertha Mason di Jane Eyre… procurandogli periodicamente persino una prostituta per offrirgli qualche soddisfazione fisica, nella comprensione aureolante e nelle ampie vedute da modernità subalpina della devota (e ricca) moglie. La casa – un dedalo di stanze aperte o chiuse, di corridoi, di passaggi dalle scale per occhieggiare – e la città rappresentano forse gli oggetti più geniali di questo romanzo, a trapiantare l’intera vicenda nell’onirico e le sensazioni di Tino in una risacca di emozioni insieme collose e inquietanti. “Tutto s’è consumato in questa notte, dal momento in cui il Duca e il cameriere Luigi hanno ricondotto di peso a casa l’ingegner Calandra, o forse soltanto il suo spettro”.

Attraverso una straniata catabasi in un mondo di perplessa fascinazione, dove le pellicole demenziali girate dal Professore rilasciano un sapore diffuso di non-senso e di spettacolo del farlocco, tutto precipita verso una conclusione dove il sordido e il degradato prevalgono persino sul tema in sé della follia. Sordido e degradato velati dalla quinta rispettabile di un decoro molto piemontese: e Tino vi troverà la sua traumatica iniziazione alla realtà – un esame di maturità per lui ben più crudo di quello consumato in sottotono nelle aule scolastiche. Una discesa agli inferi che tuttavia sembrerà lasciarlo prostrato: la storia di formazione si conclude in sostanza con un fallimento – a meno che non si consideri successo una traumatica iniziazione al dubbio degli adulti. Fallimento individuale, del resto, nel caso di Tino ma collettivo nell’affresco della canonizzata borghesia dell’ossequiato Ingegnere – di nome oltretutto Serafino, come esponente d’una gerarchia angelica – nella capitale della Fiat.

Forte di una scrittura straordinaria – dove tutto si regge grazie a un equilibrio stilistico scintillante, una scelta affilata del lessico, e una costruzione maliziosamente brillante del tragicomico, Un’anima persa finisce con l’offrire un quadro disperato che non si esaurisce nel follia ombelicocentrica del singolo ma in silenzi, maschere e derive interpella crudelmente la facciata di un intero mondo. Lorenzo Mondo scrisse che Un’anima persa era il romanzo più torinese tra quelli pubblicati fino a quel momento da Giovanni Arpino: dove l’ex capitale Torino mostra un suo volto misterioso e nero – gotico, appunto – non di satanismi d’accatto ma di ambiguità e finzioni d’un intero assetto sociale.

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Dino Buzzati: un immaginario in espansione https://www.carmillaonline.com/2025/01/13/dino-buzzati-un-immaginario-in-espansione/ Sun, 12 Jan 2025 23:01:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86288 di Luca Cangianti

Alberto Sebastiani, Expanded Buzzati. Tra letteratura e fumetto, Serra, 2024, pp. 184, stampa e ebook € 44,00.

Ricerca del senso della vita, angoscia dell’attesa, fluire del tempo, solitudine, ineluttabilità del destino, simbolismo dei luoghi. Sono questi alcuni dei temi emblematici di un classico della letteratura italiana contemporanea: Dino Buzzati, scrittore, drammaturgo, poeta, giornalista e pittore. Tale gamma creativa, già di per sé molto ampia, ha finito per trascendere la stessa persona dell’artista e ha creato un universo in espansione che spazia dagli spettacoli di marionette, al teatro, al cinema, alla televisione fino ai fumetti. A questo fenomeno è dedicato “Expanded [...]]]> di Luca Cangianti

Alberto Sebastiani, Expanded Buzzati. Tra letteratura e fumetto, Serra, 2024, pp. 184, stampa e ebook € 44,00.

Ricerca del senso della vita, angoscia dell’attesa, fluire del tempo, solitudine, ineluttabilità del destino, simbolismo dei luoghi. Sono questi alcuni dei temi emblematici di un classico della letteratura italiana contemporanea: Dino Buzzati, scrittore, drammaturgo, poeta, giornalista e pittore. Tale gamma creativa, già di per sé molto ampia, ha finito per trascendere la stessa persona dell’artista e ha creato un universo in espansione che spazia dagli spettacoli di marionette, al teatro, al cinema, alla televisione fino ai fumetti. A questo fenomeno è dedicato “Expanded Buzzati” di Alberto Sebastiani. Si tratta di uno studio di spessore accademico, ma scorrevole e godibile anche da un pubblico generico, interessato a capire come lo spirito del tempo metabolizzi e riproduca immaginario.

In primo luogo Sebastiani certifica, anche con dettaglio quantitativo, la presenza e la notorietà di Buzzati nel dibattito culturale attraverso un’analisi di 253 testi online. In secondo luogo individua due elementi alla base del processo generatore: «il corpo dell’autore, da persona a personaggio, e la sua opera in generale. Infatti, anche se Il deserto dei Tartari e Un amore sono senz’altro i romanzi più ripresi, l’espansione dell’universo narrativo di Buzzati non riguarda un singolo romanzo, ma la sua opera, o una sua buona parte.» E così ci imbattiamo, ad esempio, nelle indagini del giornalista-investigatore Odino Buzzi – alter ego dello scrittore –, protagonista seriale di quattro graphic novel ambientate negli anni sessanta. Un altro esempio sono le strisce di Sturmtruppen di Bonvi in cui una buffa sentinella nazi-tedesca viene lasciata a scrutare «l’orizzonten, e non appena arrifano i nemiken telefona al comando dando l’allarmen». Ovviamente, in omaggio al Deserto dei Tartari, i «nemiken» non si fanno vedere, ma la situazione permette all’anonimo «soldaten» di esporre una surreale ed esilarante cronaca immaginaria della missione. Altrettanto degno di interesse è il fumetto Topolino e il cappotto da 1 dollaro in cui il racconto buzzatiano La giacca stregata fa da ipotesto e dà vita a una parodia in cui «la celebre vicenda della giacca che elargisce soldi, strumento del patto con il demonio, diventa una storia natalizia a lieto fine».

Sebastiani considera il fumetto «come uno dei centri gravitazionali della narrazione contemporanea, uno dei luoghi della riscrittura delle relazioni e degli equilibri tra media e arti. Linguaggio verbo-visivo, di natura anfibia, capace di sfruttare in modo intensivo una intertestualità». Ricorda inoltre «come Buzzati stesso attingeva all’immaginario della pop culture, anche criticamente, per cui low e high culture erano entrambi presenti nel suo orizzonte culturale e tra le sue fonti.» Del resto questo scrittore non solo era un appassionato e competente lettore di fumetti, ma grazie alla sua opera sperimentale del 1969, Poema a fumetti, in cui rielabora in chiave moderna il mito di Orfeo ed Euridice, è considerato anche l’antesignano della graphic novel.

«Ora, però», conclude Sebastiani, «Buzzati è diventato parte di quell’immaginario, a cui attingono autori letterari e fumettisti. Un dialogo che dimostra quanto Buzzati non solo appartenga, ma sia radicato e vivo, persino archetipico, in una tradizione narrativa, in prosa e per immagini, coerente con la sua produzione “anfibia”.» Una produzione che, immergendosi nell’inconscio collettivo, continua a generare nuove onde creative.

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Quali forze possono mutare la materia? https://www.carmillaonline.com/2024/10/04/quali-forze-possono-mutare-la-materia/ Fri, 04 Oct 2024 20:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84700 di Giorgio Bona

Angelo Lumelli, La vecchiaia del bambino Matteo, pp. 240, € 20, Qed, Praia a Mare 2024.

A volte succede di procedere lungo il corso della vita con una scrittura che ti accompagna senza lasciarti un attimo, togliendo anche il respiro.

Dico questo perché non è facile seguire la ricerca dell’incantesimo come Angelo Lumelli ne La vecchiaia del bambino Matteo: un vuoto d’aria risucchia la mente dentro un vortice dove improvvisamente si scopre il mondo e, come accade, i ricordi del passato, quelli di cui non si può fare a meno, vanno mescolandosi con il presente. Se un viaggio [...]]]> di Giorgio Bona

Angelo Lumelli, La vecchiaia del bambino Matteo, pp. 240, € 20, Qed, Praia a Mare 2024.

A volte succede di procedere lungo il corso della vita con una scrittura che ti accompagna senza lasciarti un attimo, togliendo anche il respiro.

Dico questo perché non è facile seguire la ricerca dell’incantesimo come Angelo Lumelli ne La vecchiaia del bambino Matteo: un vuoto d’aria risucchia la mente dentro un vortice dove improvvisamente si scopre il mondo e, come accade, i ricordi del passato, quelli di cui non si può fare a meno, vanno mescolandosi con il presente. Se un viaggio dal passato diventa l’inizio verso una sognata libertà, questo viaggio rappresenta la scoperta della vita… e se la felicità è per natura anarchica e sovversiva allora ci si accorge che vale la pena inseguirla.

Non so quanto Matteo ci sia in Lumelli e quanto Lumelli in Matteo, ma in questa intensa narrazione che non tralascia un attimo il ritmo e non permette di rifiatare, ci sono cinquanta anni che corrono in fretta, dal dopoguerra fino a ritrovarsi nei conflitti dell’età contemporanea: di qui un’atmosfera di ciclicità storica che fa emergere il microcosmo dei personaggi quasi a offuscare un’idea di progresso.

Eccoci dunque in un momento prodigioso del 1900, all’inizio della nostra storia contemporanea, con tre bambini in una classe elementare degli anni cinquanta, in un paesino del Basso Piemonte, legati da una profonda e sincera amicizia che li accompagnerà fino ai giorni nostri.

I buoi usati dai contadini, le lampade a petrolio, gli attrezzi di un tempo in cui la tecnologia non aveva ancora cambiato tradizioni e usanze, si presentavano davanti agli occhi in una visione fiabesca, emanando qualcosa di miracoloso. E quando i tre bambini diventeranno adulti, trasferendosi in tre città diverse, Milano, Torino e Genova, non dismetteranno le loro attese sulla vita, ancora fluide durante l’infanzia ma destinate a non essere rispettate dal futuro.

Leggiamo l’estratto da un capitolo che ha per titolo Il grande volo dei tacchini.

 

L’impresa di saltare un giorno la scuola l’ho realizzato da solo, in quinta, senza motivo apparente. Volevo fare un peccato vero, documentato, non quei peccati nascosti che facevano pena!

Fu irresistibile: ho visto la gamba destra della maestra Concetta che scompariva dentro la porta: dall’alto in basso l’orlo della gonna a quadri, poi il polpaccio affusolato, poi la scarpa con il tacco alto – e la maestra aveva finito di entrare in classe!

Questa scena solenne, me l’ero meritata, guardandola da dietro l’angolo, dove mi ero fermato, sporgendomi pochissimo.

Non ero sicuro di voler saltare la scuola: mi sono trovato fuori ed era molto bello, molto strano.

Adesso potevo correre ovunque! – Fu allora che la libertà – chi l’avrebbe immaginato? Non seppe più cosa fare guardandosi intorno, interdetta, con una faccia da scema, un’incapace.

Si sentiva il suo imbarazzo – credo bene, dopo essersi spacciata per chissà chi, chissà cosa, come quella che apre le porte!

Allora non potevo saperlo, ma sentivo, seppure oscuramente, che il senso delle cose nasceva nello stretto, cioè dentro, non saprei come dire diversamente – dentro, non fuori – dentro, dove tutto è contato, conteso – che fare adesso? – senza i muri di casa, di scuola, l’odore di gesso, di cancellini?

Cosa stava facendo la maestra Concetta, ormai che erano quasi le dieci? – Era già passata tra i banchi? – Quante volte?

Fu allora che mi venne l’idea di usare la libertà contro se stessa – vediamo come la prende! – e mi avviai verso la scuola, tornando indietro – deciso a confessare la mia impresa, pronto alla punizione – che non arrivò – oh maestra Concetta! – finalmente liberato – sfuggito alla libertà, a gambe levate – ditemi voi!

 

D’altronde mentre la lingua del quotidiano è contraffatta e intransitiva, la lingua che viene da dentro nasce spontanea per diventare ricerca, come una piccola figlia da allevare e da crescere, bambina teoria di tanti passaggi della mente, attenta soltanto alla verità della propria testimonianza.

Ecco questo passaggio importante: tenere a mente o essere lì, sulla pagina, per cui tutta la poetica si esprime attraverso una lingua sotterranea che trova lo sgorgare di un’acqua limpida e pulita da una ricca sorgiva di piena consapevolezza, espressa in un linguaggio colto e profondo.

Il mondo dove si muove Matteo è di una totalità dinamica, la sua visione sembra non avere incertezze: lunghe riflessioni, certamente, lunghe pause di pensiero dentro un ritmo poetico incalzante, un adagio che il tempo ha frenato e ripreso a corrente alternata.

Tanto ci sarebbe ancora da dire di questo libro che è una fiammata nel cielo terso, forse perché questa narrativa avvicina la poesia e la accarezza, forse perché implica una sovversione dei sensi e dei sentieri lirici. Non c’è da capire, bisogna agire, perché la parola va assunta, sussurrata senza proclami o stridenti grida, la parola accarezza il cuore.

Il lavoro di Lumelli è un lavoro minuzioso e ricercato sulla lingua: il suo raccontare scava le parole, mostra attenzione ai particolari, al loro significato verbale, uno stare al mondo a testa alta senza finzioni. Lumelli in questo romanzo penetra in osmosi la membrana della poesia e la sua ricerca del testo si semplifica attraverso un ascolto che muove il linguaggio nella sua espressione più estrema e autentica.

Così le vibrazioni di una vita che si inoltra nel tempo si riverberano nella lettura della storia, e più profondamente come una pianta che ha radici nel sangue, nell’immensità dell’essere: non solo letteratura ma respiro e stella di un grande viaggio che attraversa mezzo secolo.

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L’orizzonte degli eventi di Vittorio Giacopini https://www.carmillaonline.com/2024/06/06/lorizzonte-degli-eventi-di-vittorio-giacopini/ Thu, 06 Jun 2024 20:03:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82795 Mondadori, Milano 2024, 302 pagine, 20 euro

di Marc Tibaldi

“Lo zingaro che mi appare in sogno ha gli occhi azzurri”, già nell’incipit troviamo tre di molti concetti-chiave di questo romanzo: zingaro, sogno, occhi azzurri. Zingaro come rifiuto dei confini, resistenza a ogni assimilazione, nomadismo, alterità disturbante, assenza di mentalità di vittima. Sogno come immaginazione non sottomessa e verifica critica degli assunti surrealisti – la poesia, la rivoluzione, l’amore – a un secolo di distanza dal Manifesto di André Breton e compagni.

Il ritorno del sogno nella letteratura ci pare già un grande obiettivo, ma, attenzione, senza cadere nel freudismo letterario, [...]]]> Mondadori, Milano 2024, 302 pagine, 20 euro

di Marc Tibaldi

“Lo zingaro che mi appare in sogno ha gli occhi azzurri”, già nell’incipit troviamo tre di molti concetti-chiave di questo romanzo: zingaro, sogno, occhi azzurri. Zingaro come rifiuto dei confini, resistenza a ogni assimilazione, nomadismo, alterità disturbante, assenza di mentalità di vittima. Sogno come immaginazione non sottomessa e verifica critica degli assunti surrealisti – la poesia, la rivoluzione, l’amore – a un secolo di distanza dal Manifesto di André Breton e compagni.

Il ritorno del sogno nella letteratura ci pare già un grande obiettivo, ma, attenzione, senza cadere nel freudismo letterario, storicamente consunto e neanche nella ripetizione formale dell’avanguardia francese, di cui mantiene gli orizzonti della rivolta (trasformare il mondo, cambiare la vita).Occhi azzurri: sono quelli dello Zingaro, coprotagonista del romanzo, l’alterità disturbante. Non so se Giacopini volesse creare anche un riferimento diretto a Profezia, celebre poesia di Pierpaolo Pasolini, tratta da Poesia in forma di rosa, che è stata riproposta e riletta in maniera opposta in occasione delle molte tragedie mediterranee dei migranti, ma la potente immagine di […] Alì dagli occhi azzurri / uno dei tanti figli di figli / scenderà da Algeri, su navi / a vela e a remi. Saranno / con lui migliaia di uomini / coi corpicini e gli occhi / di poveri cani dei padri / sulle barche varate nei Regni della Fame […] è impossibile non ritorni in mente, anche per la genesi di questa poesia dedicata a Jean-Paul Sartre. Alla fine degli anni Cinquanta, il filosofo aveva da poco presentato I dannati della terra di Franz Fanon e aveva raccontato, al geniale e contradditorio poeta bolognese-friulano romano, “la storia di Alì dagli Occhi Azzurri”.

Il romanzo esplora il mondo della marginalità contemporanea attraverso il dialogo onirico e reale tra l’io narrante e lo Zingaro, intrapreso tra le pieghe dell’evento pandemico; adotta una struttura narrativa densa di rimandi e sorprese, suddivisa in tre parti (Sogno, Notte, Viaggio); affronta temi come la guerra, la stasi del presente e le mutazioni del capitalismo; si distingue per un carattere espressionista, dove epifanie soggettive si alternano tra protesta e amore per la complessità del mondo. Il magnifico risvolto di copertina (arte nobile come dimostrarono Italo Calvino, Giorgio Manganelli, Leonardo Sciascia, Elio Vittorini…) ci segnala che

“il personaggio che dice ‘io’ quasi non ha il tempo di presentarsi: lo Zingaro appare subito in scena […] e, salvo rare assenze, la tiene occupata sempre. Lo Zingaro viene da lontano, è il freak, il drop out, il filosofo, il profeta. Entra ed esce portando saggezza e provocazione, gioca, straccia le facili verità, fustiga le eredità culturali, fa linguacce a buonismi e isterismi. […] Stabilisce con l’autore un dialogo serrato” – tanto da sembrare un io sdoppiato, aggiungiamo noi – “uno scambio sbilanciatissimo di opinioni. I due si scontrano e si incontrano, viaggiano lungo le rotte del presente, attraversando la pandemia, la crisi climatica, le migrazioni, lo stimolo costante dell’informazione e il progresso scientifico. Sorta di nano nietzschiano, che porta alla luce la voce degli ultimi, lo Zingaro conduce alla verità negletta, al passato obliterato, alla fine del tempo. I due protagonisti si scontrano e si annientano, fino ad arrivare al limite degli eventi, letteralmente al buco nero destinato a inghiottire il loro addio. Siamo di fronte a un romanzo pamphlet che ruota intorno alla consapevolezza della Storia e del tempo […] Parla a chi vuole intendere, e per una volta questa limitazione deve essere interpretata come una sfida vera, come coraggio intellettuale”.

Se, come scriveva Valerio Evangelisti, “il neoliberalismo è stato capace, attraverso un uso quasi scientifico dei mass media, di penetrare nei nostri cervelli e svuotarli di tutti i contenuti non funzionali. In pochi anni, ha compiuto un assalto senza precedenti alla sfera dell’immaginazione, infettandola con non-valori, false certezze e illusioni ottiche ispirate da una logica mortificante che vede il più forte come avente non solo il diritto di vincere la lotta per la vita, ma anche il diritto accessorio di calpestare il vinto, ignorando la sua umanità”. Se come scriveva Lucien Goldmann: “lo scrittore si muove all’interno di diversi sistemi: uno è quello dell’insieme della letteratura, a cui deve giocoforza rapportarsi, l’altro è quello della società in cui vive”, allora per Giacopini uno dei campi prioritari della battaglia politica è proprio l’immaginario, così come per Evangelisti. Questo significa che non ci serve una letteratura consolatoria o edificante che racconta la realtà in modo intimista-descrittivo o secondo i canoni scontati dell’impegno o dell’autofiction.

Giacopini lo fa in questo suo nuovo romanzo. Significa che la paralisi immaginativa e – dalla pandemia in poi – può essere interrotta con la ripresa di un’azione rivoluzionaria che ribalti il “cronosisma” in cui siamo prigionieri. Per farlo è necessario “capire in pieno l’innocenza dell’immaginazione”, come dice Luis Buñuel in un esergo del romanzo. Ecco allora che il canale di Suez viene bloccato, si forma una Comune internazionalista di marinai ribelli, un circo misterioso vaga per le terre d’Europa, una missione Oms costruita con criteri di gender equality è alla ricerca delle Cause del Morbo, un’astronave fantasma vaga nello spazio verso il gran buco nero. Notre Dame va in fiamme … Scrive l’autore a proposito del suo libro “Un romanzo è (o dovrebbe essere) un caleidoscopio spiazzante, un maledetto dedalo, un labirinto […] l’immaginazione va dove vuole lei (metodo Bunuel) senza giustificarsi di niente, senza alcun perbenismo”.

Fabrizio De Andrè canta in Khorakhané (a forza di essere vento): “Saper leggere il libro del mondo / Con parole cangianti e nessuna scrittura” senza imbalsamare la lingua e l’immaginazione – “come un rame a imbrunire su un muro”, che a nulla serve. Canzone che ha fatto arrabbiare i codificatori della lingua rom, senza capire che in quel brano – come nel romanzo di Giacopini, non è di lingue-madri e di lingue di stato che si tratta, ma di lingue-figlie, che non temono la contaminazione e il divenire. È l’immaginazione frutto di una lingua-figlia quella di L’orizzonte degli eventi, piena di fabulazioni e accadimenti, di invenzioni narrative, linguistiche e concettuali che si rincorrono velocemente prima della calma finale. Una felicità della mente.

“Occhi Azzurri mi assilla, esorta, pungola: è tempo di partire, gaggio, è tempo di andare. Sbattezzati da tutto, fatti zigano”.

* * *

L’ampiezza di riferimenti e rimandi di L’orizzonte degli eventi è rintracciabile nel percorso delle pubblicazioni di Vittorio Giacopini, che comprende saggi come Scrittori contro la politica; Fuori dal sistema. Il linguaggio della protesta; la cura della raccolta di scritti di Albert Camus, Mi rivolto dunque siamo. Scritti politici; Al posto della libertà. Breve storia di John Coltrane; e con Goffredo Fofi: Prima e dopo il sessantotto. Antologia dei Quaderni piacentini; e vari romanzi, tra cui: Re in fuga. La leggenda di Bobby Fischer, Il ladro di suoni, L’arte dell’inganno, Non ho bisogno di stare tranquillo, dedicato alla figura di Errico Malatesta, Roma, e la raccolta di racconti Il manuale dell’eremita, un gioiello memorabile, che narra il rapporto contradditorio tra il mago di Messkirch, ossia Martin Heidegger, con René Char e Paul Celan, in cui si possono trovare alcune delle, anche nostre, debolezze intellettuali ed etiche.

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Luca Rastello e le parole 2 (II parte) https://www.carmillaonline.com/2024/05/12/luca-rastello-e-le-parole-2-ii-parte/ Sun, 12 May 2024 20:00:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82335 di Franco Pezzini

[Qui la prima parte]

2. Sui tempi penultimi, tra Undici buone ragioni per una pausa e I Buoni

Il terzo capitolo del saggio di Elia Faso La vivisezione. Responsabilità e scrittura in Luca Rastello – intitolato “Undici buone ragioni per una pausa: netto come una lama di rasoio e calmo come una conversazione” – riguarda non un romanzo ma una raccolta di racconti, incentrati non casualmente sul tema della penultimità. Il fatto è che a fianco della scrittura di articoli e saggi giornalistici, Rastello deve occuparsi di Madame Problema, la malattia terribile che gli conta i giorni: [...]]]> di Franco Pezzini

[Qui la prima parte]

2. Sui tempi penultimi, tra Undici buone ragioni per una pausa e I Buoni

Il terzo capitolo del saggio di Elia Faso La vivisezione. Responsabilità e scrittura in Luca Rastello – intitolato “Undici buone ragioni per una pausa: netto come una lama di rasoio e calmo come una conversazione” – riguarda non un romanzo ma una raccolta di racconti, incentrati non casualmente sul tema della penultimità. Il fatto è che a fianco della scrittura di articoli e saggi giornalistici, Rastello deve occuparsi di Madame Problema, la malattia terribile che gli conta i giorni: di qui la riflessione sulla penultimità come tempo di cui riflettere e parlare. La lunghissima gestazione di Piove all’insù è giunta a maturazione dopo la scoperta della malattia, ma questa lo costringe a un lavoro anzitutto interiore e a un sapore diverso – non lugubre e non disperato, ma segnato da un’urgenza – di una serie di esperienze e lettura delle cose. Nella raccolta tornano argomenti e – persino accentuate – tecniche stilistiche (enumerazioni caotiche, enunciati troncati a metà, strategie di rarefazione della soggettività…) già incontrati in Piove all’insù e già in La guerra in casa:

 

un mancato re­portage sulla dismissione della Casa Militare Umberto I per i veterani delle guerre nazionali in Storie di soldati; l’abban­dono e il suicidio di una ragazza tossicodipendente al carcere delle Vallette in Un fico; l’anziano Mario scopre che a uno dei suoi migliori amici, militare in pensione come lui, è sta­ta diagnosticata una malattia oncologica in Najone (Un’altra storia di soldati); un ex ladro di reperti archeologici asiatici ricorda con l’amante le avventure giovanili e le opere salvate dalla distruzione in Torino-Milano; il primo viaggio in Bosnia per salvare i profughi dalle guerre jugoslave nella Leggenda di Delfino; le commemorazioni a Rosario dell’attivista Claudio Lepratti, assassinato dalla polizia durante le proteste del 19 dicembre 2001 contro la crisi argentina in Passanti; un maia­le con dubbiose speranze sul futuro che spiega le differenze fra la macellazione artigianale e quella industriale della sua specie in Ti faccio vedere come muore il maiale; il viaggio di ritorno di Nune, compagna del guerrigliero armeno Karen Ochanjanyan, nella città distrutta di Yerevan e il suo trasferi­mento ad Agdam in Cornici concentriche; l’occupazione e la riattivazione delle macchine da parte degli operai di una fab­brica di ceramiche a Neuquén in Patagonia in L’infinito (qui, ora e adesso); l’autore riesce a recuperare all’ultimo momen­to l’introvabile zainetto con bambole incorporate chiesto in regalo per Natale dalla figlia piccola in Noir con bamboline; i disagi di alcuni pazienti oncologici dovuti all’ospedalizzazio­ne e al caldo in Luglio.

 

Su certe espressioni quasi stenografiche, che rimandano a episodi vissuti difficilmente o impossibilmente ricostruibili, è interessante riandare alle annotazioni autografe dei diari di Rastello – una messe di materiali virtualmente ricchissima ma quasi indecrittabile – a base di nomi, parole-chiave, frantumi d’espressione pressoché incomprensibili anche per le persone a lui più vicine, e le cui implicazioni sottese restano nella penna.

 

Anche in Undici buone ragioni per una pausa è in gioco la dialettica fra chiarezza e oscurità tipica della narrativa di Ra­stello: quanto più la serie di racconti si avvicina al genere del re­portage o alla materia biografica dell’autore, tanto più i referenti reali si opacizzano, producendo un senso di indeterminatezza e rarefazione della narrazione.

 

E si è parlato di ricorso a qualcosa di simile all’effetto bokeh, che vede sfocare lo sfondo di una fotografia fino a renderlo irriconoscibile, lasciando però a fuoco la figura in primo piano. Il trattamento così enfatizzato non riguarda solo la materia biografica, ma anche i generi di scrittura – ed è interessante notare come i racconti della raccolta si relazionino con suoi articoli e saggi: con la differenza che al rigore dell’informazione in questi ultimi offerta, in chiave di racconto si può sottrarre una serie di elementi, lasciando spazio a divagazioni e riflessioni. Tanto più che “(r)endersi conto dell’ineluttabilità delle cose ultime permette di vivere diversamente le penultime”. “Rastello si rappresenta sempre più come uno spettatore incapace di comprendere ciò che gli succede intorno”: se insiste sull’io è per denunciarne la relativa difficoltà conoscitiva – e non per sedurre il lettore a una complicità, ma per denunciare limiti propri o del sistema, e la maturità non è del personaggio ma del narratore. Di nuovo a sfuggire alle strettoie narcisistiche dell’io è funzionale il cedere la parola ad altri, con l’uso del tu.

Ma la dimensione enigmistica di espressioni presenti come cifrate torna nell’indice, dove aggiunge ai titoli alcuni concetti – o parole-chiave – tra parentesi: qualcosa che offre latitudini interpretative più ampie. La consuetudine a udir parlare l’autore apre del resto connessioni anche diverse. Dove nell’intermezzo Pausa tra questi racconti Rastello scrive:

 

Basta guardare la quinta enigmatica di un rebus, un tavolino con un mazzo di carte di cui si scorge una figura, un fiasco che viene tappato da un uomo in camicia mentre due gendarmi trascinano via una donna in catene, la pianta di sapone, le ranocchie arboree e una rosa pallida dimenticata sul selciato, per sentire che il tempo si è fat­to immobile e la corsa è sospesa: è evidente che la “Settimana enig­mistica” è scritta da Dio in persona (,)

 

si tratta di un’immagine, la piazza del rebus, che tornava con frequenza nel suo modo di esprimersi e di immaginare. Quell’immagine che troviamo per esempio la sera in certe piazzette dei borghi piemontesi fuori dall’osteria in cui abbiamo appena bevuto un bicchiere: un tavolo sulla piazza con un mazzo di carte e qualche oggetto surreale all’ombra del campanile, un clima sospeso e onirico, lunare, vagamente enigmatico – o enigmistico, in riferimento alla surrealtà delle illustrazioni dei rebus. E, in fondo, della nostra vita.

Come nel rebus finale di Piove all’insù in riferimento alle linee narrative del romanzo,

 

l’indice di Undici buone ragioni per una pausa fornisce la possibilità di una lettura delle singole storie come emblemi o allegorie, scene in miniatura il cui enigma è risolvibile scoprendo che significa qualcos’altro (etimologia, appunto, di “allegoria”). Ecco perché questi racconti sono insieme “cose penultime” (UBR, p. 9, corsi­vo nel testo) e pause: l’estrapolazione di un tratto temporale dal suo contesto permette alla narrazione di sospendere il tempo, con un’immersione di narratore e narratario in una realtà che estromette (almeno per la durata del racconto) le “forme obbli­gatorie […] dei giorni feriali” (UBR, p. 100), il flusso della quoti­dianità che impedisce di vedere le cose diversamente dalla loro apparenza superficiale.

 

E tra le cose penultime figurano i sogni, in questa raccolta presenti in più forme. Non solo quelli di Piove all’insù, relativi a un’intera generazione, ma i nostri personali: di nuovo, tornando alla vita dello scrittore, merita ricordare le lussureggianti epopee oniriche che regalava agli amici e poi dimenticava, ma a quel punto venivano conservate da altre memorie. Spesso vi entravano un palazzo labirintico e pagine di avventure più o meno scatenate e surreali (ma non è questa la sede per parlarne).

 

 

Un buon modo per guardare il mondo è giocare a riconosce­re i luoghi abitati da un dio” (UBR, p. 118, corsivo nel testo), si legge in Penultimissima, la parte finale della cornice. Abbiamo già visto come questi riferimenti mistico-esoterici di Rastel­lo non abbiano un significato propriamente magico-religioso, ma siano piuttosto metafore per le oasi di senso da cercare in un deserto di insensatezza e fallimenti. È lo stesso autore che precisa: “Aver perso il numinoso è un guaio. Il numinoso è il contrario del sacro da predicatore e delle certezze dei fonda­mentalisti” (UBR, p. 118, corsivo nel testo); anzi, in Penultimis­sima una delle vie che portano al numinoso sono i paradossi delle speculazioni matematico-filosofiche di Pitagora, Zenone di Elea, Galileo Galilei e Georg Cantor su continuo e disconti­nuo, infinito e finito.

 

Dove però lo stesso concetto di infinito trova declinazione un po’ particolare, illuminata nell’indice dal riferimento aggiunto tra parentesi: “9. L’infinito (qui e ora e per adesso) (comunismo)”, guardando alla “scommessa utopica contro l’ordine economico-sociale dell’aldiquà, di cui si è ormai introiettata l’inevitabilità a livello globale”. Altre parole chiave sono il polisemico fantasma/fantasmi, e sosta. Ma il rischio a fronte di una simile raccolta, avverte Faso con una serie di esempi dalla critica, è la sovrainterpretazione – in particolare delle “fonti”.

Altro tipo di sovrainterpretazione, si può aggiungere, è quello circolante a livello pubblico sull’ultima opera trattata nel saggio di Faso al capitolo quarto, “I Buoni: l’inferno delle buone intenzioni” – un’opera pure ascrivibile, nella sua urgenza, alla stagione della penultimità. Non è il caso di soffermarsi a lungo in questa sede su quanto scritto a suo tempo e qui da Faso molto ben sintetizzato, il giochino stantio delle presunte corrispondenze puntuali tra figure del romanzo e personaggi reali (al netto di ispirazioni effettive ma assai più generali, relative a fenomeni e profili umani non così rari nel mondo dell’impegno solidale, più che a ritratti di individui particolari – che non meriterebbero tutta quell’attenzione). E neppure sulla pagina penosa che ha visto figure di pubblico peso – persone oltretutto che dovrebbero considerare la fattispecie prova come sacra – stigmatizzare un romanzo che doveva ancora uscire e dunque difficilmente avevano letto, elencandone episodi inesistenti con una superficialità che basta a valutare la qualità e fondatezza delle loro recensioni.

Adriano Sofri, che in precedenza aveva dato la stura a questa serie di critiche discutibili, in un commento pungente alla risposta di Rastello, mostra di non aver capito lo spirito e la personalità dell’autore, laddove questo scriveva di “‘un male che io per primo mi porto dentro…’” e aggiungeva “Don Silvano [il vilain della vicenda] sono io”. Al netto di una certa dimensione beffarda, birichina, che in Rastello è presente, quando Sofri pontifica che “‘Io per primo’ è certo un’esagerazione, forse una superbia”, non ha capito affatto l’uomo dietro l’autore e i suoi rovelli personalissimi per aver controfirmato per anni certe logiche a carico di parti più deboli. Era di questi soggetti privi di corifei illustri che Rastello ricordava i visi umiliati e le sofferenze passategli davanti, prima ancora delle maschere degli “eroi” a cui una certa critica mostrava invece tanta ossessiva attenzione.

Il vuoto tiro al piattello avviato da questi critici si colloca del resto a monte di una serie di reazioni scomposte: possiamo ricordare Rastello stupito più che arrabbiato quando all’improvviso presentazioni del libro già programmate “saltavano”, con imbarazzate non-giustificazioni dei Don Abbondi di turno, e sui social gli sciacalli impazzavano contro di lui. Come scrive Faso,

 

Ognuno è responsa­bile delle proprie interpretazioni discutibili, autore compreso; ma non è stato lui a inquinare il dibattito in partenza con re­azioni scomposte e insinuazioni personali, al contrario di chi scrive di una “partecipazione corale all’assalto da parte di diversi esponenti della fu Lotta continua” (l’unico “esponente della fu Lotta continua” è Sofri, che ha solo scritto una recensione), di chi promette che “brinderà” quando “un giudice non si berrà la storia del romanzo. Anzi, potrebbe essere un’aggravante” e di chi si chiede “già, chi vuol mettere le mani sui beni confiscati?”, come se Rastello appartenesse a qualche lobby talmente potente da poter scalzare Libera. Tutto questo ha ostacolato un dibattito costruttivo su argomenti etico-politici fondamentali e sulla forma concreta con cui venivano affrontati nel romanzo.

 

Faso dubita della concreta utilità di alcune argomentazioni di Rastello a riportare il discorso sul senso del romanzo: il “Don Silvano sono io” – che i distratti recensori non hanno infatti capito – e il tono apocalittico con cui chiudeva la sua replica agli accusatori:

 

il finale del romanzo, che Gian Carlo Caselli (forse con un rifles­so […] professionale) legge come un’istigazione al linciaggio, è in­vece una metafora che ora posso a cuore saldo applicare a me stesso e ai miei illividiti accusatori: arriva per tutti, immancabilmente, un dies irae. Il mio non è neanche fra molto e io so, con coscienza se­rena e pulita, che il loro sarà peggiore.

 

La morte, lo sapeva, per lui si avvicinava: e nel dicembre in cui raccontava agli amici che la battaglia medica era perduta, e le spiegazioni richieste all’oncologo (“In concreto, cosa mi succederà?”), relazionava anche gli sviluppi del caso I Buoni. Ma sul punto – che in fondo coinvolge tutto il romanzo – torneremo. Diciamo fin d’ora che le reazioni scomposte degli accusatori confermano il quadro critico evocato nel suo romanzo, e l’urgenza di un grosso esame di coscienza in quel mondo. Che si è invece richiuso sterilmente a riccio: e lucidissime restano le parole di Daniele Giglioli (Per Luca Rastello. Piove all’insù. I Buoni) che Faso riporta a proposito delle critiche aggressive di Caselli e Nando Dalla Chiesa.

I Buoni, di nuovo un lavoro sulle parole e il loro utilizzo, si articola in tre parti con tre personaggi come focus (Andrea in L’uomo dal paradiso, Aza in Scuola di empietà e Adrian in L’uomo dall’inferno), in moto idealmente inverso alla Commedia dantesca. Dal sottosuolo da incubo di Bucarest oggetto di un vecchio reportage di Rastello, ed esplorato qui dal giornalista e “operatore umanitario” Andrea Vitaliano, si passa al panorama delle sue mitologie rassicuranti, delle buone intenzioni che non recano aiuto sostanziali ma una smaccata autolegittimazione, e soprattutto a una lingua “maledetta perché riesce a persuadere in modo magico non solo la destinataria, ma anche l’emittente (‘Ci crede mentre lo dice’)”: laddove Aza, che in quel mondo vive e ascolta le promesse di lui, lo richiama vanamente alla responsabilità delle parole, “che per essere tale deve essere non intermittente”.

E quando lei si presenta nella città di Andrea (non menzionata, come peraltro prima Bucarest, ma riconoscibile come Torino) e viene avvicinata dai suoi partner – prima Mauro e poi lo stesso Andrea – alla onlus In punta di piedi, poi abbreviato I piedi, del carismatico don Silvano, si renderà presto conto che l’apparente paradiso è in realtà un’azienda spregiudicata, dove “per avere risultati bisogna sporcarsi le mani”. Rastello ha in mente l’evoluzione che nella Torino postindustriale degli anni Ottanta conduce molte organizzazioni del sociale a trasformarsi in aziende per mantenersi e competere in un mercato che dispone di poche risorse. Con un’istituzionalizzazione della relazione di aiuto alla base dell’azione solidale organizzata che evolve in relazione di potere trasformando cittadini in utenti, e traghettando a due riforme occulte: quella del welfare privatizzato, e quella del lavoro, con la decostruzione dei diritti del lavoro dipendente. E senza controlli, perché il prestigio morale dei Piedi vi rende possibile una serie di brutture. Il fatto è che “nel sociale si può tutto”, il dissenso è represso tra lusinghe, manipolazioni dei sensi di colpa e aggressioni verbali (e qualche volta fisiche) e l’omertà è imposta per timore di ritorsioni.

Aza stessa – ribattezzata Lea dal Grande Capo don Silvano – impara che nel gruppo vi sono due codici diversi, uno palese per gli illusi, l’altro occulto per chi sale nella piramide e “rende peccatori. Dunque perdonabili. E attraverso il perdono il capo ti possiede. È solo a quel punto che fai davvero carriera. Altrimenti sei una meteora”. Da cui un atteggiamento di dissociazione dei piani (Faso cita il distinguo tra codice “posizionale” e “proposizionale” studiato da Alessandro Grilli) che sarebbe inadeguato definire ipocrita: “i personaggi dei Buoni sono since­ramente convinti della necessaria dissociazione dei ‘due piani della realtà’”, quello buono dove tutto è innocente e l’altro dove tutto è lecito perché si parla di organizzazione e soldi. Insomma le parole, ancora.

Tanto più che il codice palese con le sue mitologie plasma “la forma del mondo”: come commenterà lo stesso Rastello,

 

(q)uesta manipolazione retorica dei linguaggi che diventa costru­zione sociale della realtà è uno degli aspetti che più mi interessava affrontare nel romanzo.

Io creo la realtà dominando il linguaggio. In tutte le comunità chiuse, non importa se profit o non profit, in tutte le comunità “fi­nalizzate”, la costruzione sociale della realtà attraverso il linguaggio diventa costruzione totalitaria.

 

Attraverso un’intera biblioteca di letture tra cui brilla ancora una volta Furio Jesi (in particolare Cultura di destra): i valori di don Silvano e dei suoi accoliti sono quelli che Jesi definisce “linguaggio delle idee senza parole”, cioè quello che dice e insieme cifra in simboli, non importa quanto poveri e stereotipati. E in riferimento a tutto un linguaggio sciattamente retorico – che Rastello conosce da anni di frequentazioni del terzo settore, non solo del Gruppo Abele – ecco fornirne ironicamente un piccolo prontuario:

 

Aza scrive, impara, conserva, dosa: […] non dimentica di spor­carsi le mani, metterci la faccia, mettere testa, di non tirarsi indie­tro, senza se e senza ma, e di guardare avanti, costruire futuro, speranza, e la memoria che si fa impegno, a piccoli passi ma con molta forza, e la fatica, il cammino, il primato della persona, soprattutto la condivisione, un cammino di condivisione, condivisione da co­struire, senza se e senza ma, appunto, e il morso che ti permette di lavorare senza stipendio, la frusta dell’oltre, e sì, anche il passo lento del montanaro, e i muri che parlano e restituiscono memoria, dalla sede dei Piedi e dai beni confiscati, e soprattutto la legalità, e sempre la memoria.

 

Parole-chiave che diventano feticci: e se già in La guerra in casa si sviluppava il tema dei “pericoli della memoria che instaura diritti proprietari sul passato”, anche qui troviamo una “legittimazione identitaria nel culto del passato e nel culto dei morti”. Qualcosa che entra in un sistema più ampio di comunicazione social:

 

Sarebbe semplificante ridurre tutto ciò al kitsch della comu­nicazione massmediatica; al contrario, “poiché si tratta di mani­polazioni e tecnicizzazioni”, sono “operazioni con precisi fini […] politici”: da una parte, costruiscono “un’ideologia e un assetto ben definito di rapporti sociali”; dall’altra si pongono come una “di­dattica esoterica” che fornisce fini superiori in cui credere […].

 

A capo, come ben lo delinea Giglioli in Critica della vittima, spicca una “delle figure sociali sempre più diffuse nella politica contemporanea, il leader (vittimista) delle vittime”, che brandisce un vittimismo ricattatorio per sfruttare un legame emotivo tra parti dagli interessi diversi: fondamentale a quel punto l’individuazione di un nemico di cui dichiararsi vittime.

“Al feticcio della memoria proprietaria e vittimista si affianca il feticcio della legalità”. Questa dovrebbe essere un utile metodo, una procedura sana ma non un valore in sé (che è piuttosto la giustizia, da essa concettualmente ben distinta): altrimenti per esempio lo stato nazista, fortemente legalitario, sarebbe stato un’epifania di equità. Ma il paradosso della feticizzazione della legalità a tutela delle gerarchie del gruppo è che

 

sono i Piedi stessi a non rispettarla con lo sfruttamento lavorativo e con la prevaricazione verbale e fisica dei sottoposti; appena qualcuno lo fa notare, se va bene viene insultato con epiteti come ‘sindacalista da stracci’ (B, p. 139) e se va male viene picchiato, come Luciano quando insiste nel richiedere la regolarizzazione della sua posizione lavorativa.

 

I valori esonerano da responsabilità, e in loro nome si può esser pronti a falsificare i dati reali: e la scena di don Silvano che si trova costretto a scrivere (far scrivere da Aza) a Luciano “per indurlo a ritirare la denuncia a suo carico […] diventa il miglior esempio di come il narratore vivisezioni le tecniche discorsive di falsificazione della realtà”. Con un profluvio di virgolette “ironiche” che richiamano quanto scritto da Victor Klemperer sul loro utilizzo in LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo (Giuntina, 1998), “per ‘insinuare dubbi sulla veridicità’ e far ‘apparire menzogna l’affermazione riportata’”.

 

La manipolazione del passato si accompagna alla manipolazio­ne del presente, resa possibile anche da chi si dovrebbe opporre ad essa ma manca di quella precisione che, come abbiamo visto, secondo Rastello è necessaria a decostruire i discorsi che alterano la realtà.

 

E i “dialoghi vivisezionano le buone intenzioni dei membri di In punta di piedi, perché rivelano con crudezza quali rapporti di potere vengono legittimati dall’ordine del discorso vigente”: delusa e impotente, Aza sceglie di voltare le spalle e sparire nel nulla.

Lasciando comparire Adrian, L’uomo dall’inferno, “a cui è rimasta solo la Bibbia per interpretare il mondo che gli sta intorno: per questo si attacca ad essa in modo monomaniacale”. In particolare alcuni libri anticotestamentari – il libro di Ezechiele – hanno fornito lingua a questa parte del romanzo: e le lotta dell’ex-bandito Adrian contro l’idolatria lo vedrà andare in collisione coi feticci di don Silvano e dei suoi accoliti. “Anche queste caratteristiche di Adrian trovano riferimenti pre­cisi in Cultura di destra di Jesi: la violenza e l’integralismo religio­so del protagonista ricordano quelli dei legionari della Guardia di Ferro, romeni come lui”. Attraverso vari dialoghi, Adrian cerca di capire: ed escogita alla fine una soluzione che però risulta fallimentare – torniamo alla categoria del fallimento in Rastello – perché magari elimina don Silvano, ma non la sua macchina mitologica.

Faso aveva anticipato la valutazione che I Buoni sia “significativo per la resa formale e per i temi affrontati ma forse meno riuscito come romanzo”, e a questo punto giustifica la sua valutazione (di preziosa pacatezza, va detto):

 

La finzione romanzesca di Piove all’insù era riuscita a mesco­lare la storia pubblica con la vita particolare del protagonista; la dialettica fra tempo circolare e tempo lineare aveva permes­so un’apertura a spirale verso il futuro, invece di una chiusura del cerchio con una giustizia poetica che ricorda certi finali di Quentin Tarantino; lo stile sobrio si valeva più dell’alternanza di narrazione e riflessione che di uno specifico tono del rac­conto, che per quanto sostenuto rischia di cadere nella mo­notonia; la chiarezza, nella sua dialettica con l’oscurità, per­metteva una produzione di senso che apriva il campo a diverse opzioni, proprio perché non si poneva come definitiva. Nei Buoni, invece, l’intonazione profetica polarizza la contrad­dizione fra chiarezza e oscurità: in questo modo il narratore rende lucido e inequivocabile il suo giudizio sui personaggi, ma sacrifica le possibilità romanzesche che emergevano dal chiaroscuro di Piove all’insù.

 

E un ulteriore motivo di debolezza starebbe nella “postura sdegnata del narratore”, visto che “la dizione aforistica si esaspera in un continuo sarcasmo che smaschera il Male peggiore, cioè quello coperto dai valori superiori”. La voce narrante

 

non si ferma all’obbiettività che sarebbe richiesta a un etnologo, ma sceglie a sua volta la crudeltà: l’analisi diventa giudizio satirico, la decostruzione diventa vivisezione; in questo modo il narratore si pone come un divoratore crudele che solo dopo aver fatto a pezzi il corpo discorsivo di una collettività malefica può inghiottirlo, cioè raccontarlo, nel proprio corpo discorsivo: “la crudeltà del divoratore stinge preliminarmente sul cibo, che altrimenti non gli riuscirebbe appetibile” [cfr. F. Jesi, Il tempo della festa].

 

Il genere romanzo,

 

nel suo sviluppo moderno, si è interessato “più di capire che di giudicare”, e quindi “di commedia piuttosto che di satira”; nei Buoni, però, questo “processo di transizione da satira a romanzo” sembra essersi bloccato al suo primo stadio:

 

e laddove il narratore-protagonista di Piove all’insù nell’interpretazione della realtà aveva fatto i conti con i propri limiti, la voce narrante de I Buoni “subordina la comprensione della realtà al giudizio spietato su di essa”. Il tutto, con un montaggio del testo che nel primo caso conciliava complessità e chiarezza, nel secondo intricava la lettura tra dentro e fuori romanzo (intendendosi con ciò anche gli autocommenti dell’autore) con un continuo ancoraggio alla realtà empirica che produce anche effetti testuali. Al rischio di restare troppo attaccato all’attualità vorrebbe fare bilanciamento l’intonazione profetica con l’apertura a temi di portata generale e forse universale, ma tale postura “monopolizza il tono della narrazione e rischia di opprimere il racconto con la condanna dell’oggetto della rappresentazione”.

La satira: vero, come accennato, chi conosceva Rastello ricorda una certa dimensione di beffa, diciamo pure di risata, che lui sapeva ben iniettare anzitutto nella serietà della vita (Madame Problema compresa: nella Lettera alle pulci in forma di testamento parlerà di “Quella vita per cui mi sono sempre sentito fortunato, per cui la sera mi veniva da ridere – anche nei momenti infernali – ed era pura gioia”) e poi anche nella scrittura. Il suo amore per Tolkien – radicato in letture di quegli anni Settanta in cui Il signore degli anelli era noto come “la bibbia degli hippie” prima dell’imporsi dei tentativi di espropriazione da parte di una vulgata falsante e becera dell’estrema destra pre-meloniana (alcune parole di lei su Tolkien sono indicative di una lottizzazione che nulla c’entra coi contenuti reali) – gli faceva certo ricordare l’episodio in cui Galdalf, con una risata, spezza l’incantesimo di Saruman. Di fronte al potere e alle sue magie (quella della parola sopra ogni altra), il beffardo Till Eulenspiegel di Torino risponde coi suoi mezzi, trasformandone la retorica in filastrocche e mostrandone la bieca dis-sacertà – l’empietà citata nel testo –, contro ogni paludamento. È il buffone che a esso si ribella (consideriamo che gli attacchi siano venuti da posizioni di potere e relativi cortigiani), non per cooptare spazi – come altri intellettuali della piazza, grandi narcisi sempre con la paletta alzata dell’io, io, io – ma in funzione di libertà. Salvo constatare raggelando di essere stato lui pure partecipe dell’empietà: ecco la vergogna – che altri, a differenza di lui, non conoscono, ignorando un intero ventaglio di redde rationem che prelude persino a qualunque esito metafisico. Che, vorrei dire, prelude persino al dato di bilanci di fine vita, di una “Pallida mors [che] aequo pulsat pede pauperum tabernas regumque turres”: infatti quando sentiamo registrazioni o leggiamo interviste gonfie di retorica dei buoni e dei loro cortigiani, grazie al lavoro di Rastello quelle parole rivelano echi diversi, incespicano, esplodono in chiazze d’unto. Dunque I Buoni è satira? In qualche dimensione sì, ma il lavoro sulle parole è troppo sapiente e sottile per ridurre il risultato a elegante pasquinata. La costruzione del tutto è genuinamente letteraria, a partire dal gioco di ambiguità in scena, dal rondò di poteri che si rapportano, si inanellano, a volte si scontrano.

E infatti,

 

(n)onostante tutte le sue imperfezioni, I Buoni non cede al “ricatto della proposta” (B, p. 117) per concentrarsi sulla pars destruens della forma di vita, cioè del “complesso di norme divenute habitus”, dell’azione solidale organizzata. Se eccede in crudeltà appesantendo il tono del romanzo, almeno la vivisezione non si rovescia nella consolazione di un lieto fine e lascia la pars construens ai lettori che preferiranno altre forme di vita. Per quanto possa essere attrezzato dal punto di vista letterario o ideologico, uno scrittore non può produrre una nuova prassi etico-politica o trasformarne una vecchia da solo: se si vantasse di avere la soluzione pronta sarebbe l’ennesimo mitografo.

 

Si possono condividere senz’altro le perplessità e l’analisi di Faso: la domanda che possiamo porci è sul perché Rastello, ben consapevole della maggiore solidità di altri sistemi di costruzione della voce, abbia scelto per I Buoni un registro tanto distante da quello di Piove all’insù. Le risposte possibili potrebbero essere varie.

Anzitutto il dato contingente – maledettamente serio – del tempo che gli sfuggiva dalle mani e dunque di un senso di urgenza che non permetteva il lunghissimo, complessissimo lavoro di cesello condotto sul primo romanzo. Intendiamoci, l’autore restava un perfezionista e probabilmente per quello ci resta tanto poco del romanzo che stava scrivendo alla fine, Dopodomani non ci sarà: la fretta non gli permetteva uno stile frettoloso. Ma un parallelo tra I Buoni e il primo romanzo si impone. La distanza tra Piove all’insù come uscito in libreria e la protoversione condivisa con amici anni prima era assai marcata: non solo il testo è stato asciugato drasticamente (in parte per riconsiderazioni autonome dell’autore, in parte per i consigli dell’editor) riducendone di molto la lunghezza ed eliminando/unificando personaggi e storie, ma sono cambiati anche alcuni toni (per esempio, alcune sfumature di incertezza sono state “risolte” con una voce più netta). Nel caso invece de I Buoni, il testo condiviso coi protolettori era molto simile a quello poi uscito – anche perché, va detto, l’autore si era a quel punto smaliziato parecchio nella scrittura, e gli editor sono certamente intervenuti assai meno.

D’altra parte Rastello pensava a I Buoni da anni. C’è stata una lunghissima elaborazione durante la quale la storia ha preso forma (per molto tempo in termini assai vaghi) raggiungendo in ultimo l’assetto di quella pubblicata. Sembra difficile pensare che a quel punto, tempo stringente a parte, il romanzo potesse svilupparsi come troppo diverso.

La sensazione è in effetti che la minore perfezione come romanzo conduca fuori da un’analisi letteraria in senso stretto. Piove all’insù è stato costruito con enormi ricerche sul passato, con le domande di un panorama storico e una serie di perplessità dell’autore. I Buoni guarda invece alla scottante situazione dell’oggi, e se non userei a cuor leggero il termine “denuncia”, è un fatto che entri a piedi uniti in una situazione che gridava un bisogno di chiarezza. Di questi temi nessuno parlava, per una serie di ricatti retorici che per essere smontati richiedevano una doppia competenza, politica e culturale, e un curriculum inattaccabile. Inattaccabile sul passato, per le esperienze indiscutibili dell’autore, ma – vorrei dire – anche sul futuro, perché il tumore divorante di Rastello (situazione nota, anche se lui non ne ha mai fatto ostentazione) non permetteva ai buoni di attaccarlo troppo apertamente. Gli attacchi ci sono stati, tanti e velenosi, ma chi credeva di riconoscersi doveva mostrare pietas almeno apparente… e soprattutto non suscitare polveroni. La risata, la beffa, li stanava – li ha stanati.

D’altronde proprio quella condizione, il sapersi alla fine, gli doveva far sentire leciti toni che altrimenti sarebbero apparsi sopra le righe. A chi scrive e, mi auguro, a grandi numeri di lettori di questo libro è ignota l’esperienza di trovarsi condannati a morte, con tutte le angosce e fatiche relative per la durata di anni: a quel punto il tono profetico mi sembra non solo concesso ma in qualche misura inevitabile dato il punto di osservazione, e tale da influire sugli assetti normali di scrittura. Questo romanzo è già un testamento, ne echeggia la lingua “solenne”, la forza d’urto (il pensiero va al testamento di Petronio, pieno d’ironia, con cui accusava Nerone demolendone l’immagine): anche per questo ha fatto tanta paura ai buoni. Si aggiunga quanto espresso da Faso nelle Conclusioni:

 

Credo che con I Buoni Rastello abbia pagato un prezzo molto alto al tentativo di una critica non reazionaria all’“azione solidale organiz­zata”, catechismo e consolazione tutt’ora ritenuti intoccabili da buona parte della popolazione moderata e progressista italiana; il costo di questa sfida si sente nel monologismo esasperato del narratore, probabile espressione della consa­pevole solitudine in cui si trovava l’autore parlando esplici­tamente di questi argomenti.

 

Tanto più che le grida di dolore di Rastello erano trasparentemente “dall’interno” del mondo solidaristico: non volte dunque – lo si ripete per i duri di comprendonio, o i critici in malafede – a danneggiare l’impegno civile, ma solo a chiedergli un sacrosanto rigore. A chiedergli non affari spregiudicati ma servizio serio, e autocritica su meccanismi che altrimenti lo ricondurrebbero a sottotipologia di un mero neocapitalismo sregolato.

Proprio pensando senza santini all’uomo Rastello – viscerale, appassionato, ispido, spesso tempestoso nelle reazioni – ne troviamo la voce ne I Buoni senza minuetti o infingimenti: non è più il tempo della diplomazia, e può mostrare il groppo (non lo sterile rancore di cui è stato accusato con meschinità da qualcuno) tenuto dentro per anni in seguito al contatto ulcerante con le storture di varie realtà dell’“impegno”. Tanto più che ormai vede le oscenità evolvere in prassi politica ed economica sempre più diffusa, in abusi delle parole sempre più smaccati. Con tutti i sensi di colpa e la vergogna per aver accettato troppo a lungo simili pratiche e storytelling.

Il che riporta a uno dei nodi del volume: assai più che di vilain più o meno sgomitanti, lui sta parlando di parole. Di artifici retorici, di strategie di conquista degli animi (e delle anime) con un linguaggio che ne I Buoni viene superbamente notomizzato. Quasi come in un saggio, forse più che in un romanzo “classico”: ma con risultati di lucidità rara, ed era questo che gli interessava anzitutto portare alla pubblica attenzione.

Un romanzo formalmente più equilibrato e meno satirico, posto che l’autore avesse tempo e voglia di scriverlo, sarebbe servito meglio allo “scopo”? Sinceramente è difficile dire. Se per Piove all’insù, a fronte di una struttura tanto complessa, alcuni critici non hanno saputo riconoscere che la storia si conclude eccome e altri ne hanno travisato il significato, qui la provocazione doveva essere chiara. Resta il fatto che I Buoni è un romanzo – non il migliore dell’autore, si può serenamente concordare, ma ricco e intelligente, lucidissimo e per qualità di scrittura non esauribile in una mera satira – che guarda all’esterno della macchina narrativa in un modo molto particolare. Accordandosi in questo ad altre opere “strane” degli ultimi decenni, oggetti narrativi non identificati eccetera. Le recenti parole di Goffredo Fofi sul “Corriere del Mezzogiorno – Campania” 28 aprile 2024 confortano questo tipo di analisi.

I suoi nemici contavano del resto sul fatto che la voce di Rastello si spegnesse rapidamente e un sipario venisse tirato sul suo lavoro: l’ottimo testo di Faso e la quantità di iniziative in memoria dello scrittore stanno mettendo in scacco tali aspettative.

Le Conclusioni sono avviate da una citazione da Dopodomani non ci sarà, o meglio da ciò che ne resta: un moncone, che non lascia presagire quanto il risultato concluso sarebbe stato, come I Buoni, esplosivo (e altri, diversi buoni non sanno di potersi asciugare la fronte per il sollievo della mancata uscita). Scrive Faso che nella scrittura di Rastello

 

la mediazione della narrativa non è né una menzogna dilettevole né un ricorso all’immagina­rio da parte di chi non sa essere pragmatico; al contrario, come scrive Adorno della mediazione dialettica, essa è “il processo di risoluzione del concreto in sé stesso”: nell’indagine della vita particolare la letteratura diventa una “conoscenza veramente allargante”, perché “indugia presso il singolo fenomeno finché, sotto l’insistenza, il suo isolamento si spezza” e coltiva in sé “la duplice e simultanea esigenza di lasciar parlare i fenomeni come tali – il ‘puro osservare’ – e di tener presente ad ogni istante il loro rapporto con la coscienza come soggetto”.

[…] I Buoni risulta non riuscito appieno proprio perché la crudel­tà della critica ha preso il sopravvento sulle opzioni della me­diazione narrativa. Forse anche perché Rastello, in quel libro, sembra essersi convinto, con Adorno, che “non si dà vita vera nella falsa”, cioè che non ci sia redenzione possibile di un’esi­stenza individuale e sociale così mistificata dal Male; il resto della sua opera, invece, anche quella postuma, tiene ferma l’e­sigenza che ha portato Fortini a correggere Adorno: “non si dà vita vera se non nella falsa”. È lo stesso Rastello a scrivere che la “tensione alla verità” portata dalla precisione “ha i caratteri di un’utopia, di qualcosa a cui si può soltanto tendere, a cui ci si può tutt’al più approssimare all’infinito” […] Chi conosce soltanto “la forma del vero e non quella del necessario” è capace di un’opposizione radicale, ma è destinato al fallimento davanti alla complessità morale dei suoi simili.

Negli altri libri Rastello ha preferito rappresentare personaggi “relativi”, capaci di cambiare dopo i fallimenti cercando fra il vero e il necessario la mediazione del possibile e rinunciando alle proprie convinzioni narcisistiche: alla debolezza biologica e al male sociale non rispondono con un collasso nel nichilismo, ma “trasformando il proprio principio di individualità in un luogo di raccolta” dei tu incontrati quasi per caso, vivi e morti, la cui singolarità ricorda il loro “inscalfibile diritto di residenza […] nella vita”. Non eroi che “oppongono un no radicale alla ‘prosa del mondo’”, ma “figuranti” disposti alla “negoziazione con l’esistente” […]

Siano essi i testimoni reali della Guerra in casa, i genitori ro­manzeschi di Piove all’insù o le diverse persone incontrate in Undici buone ragioni per una pausa, queste “approssimazioni d’uomini” vivono nella prosa del mondo e insieme le resistono con scelte responsabili, spesso non rivendicate, che permettono loro di prendersi cura delle relazioni con gli altri. È la vivisezio­ne che il narratore compie su sé stesso e sulle rappresentazioni date a permettergli di interpellarli e riscoprirli.

 

E conclude:

 

la canonizzazione postuma da tanta parte di un mondo editoriale e accademico che ai tempi ave­va isolato Rastello, era rimasto indifferente o aveva alzato solo una timida difesa nei suoi confronti, suona più come un modo (inconscio o meno che sia) per legittimare i superstiti, piutto­sto che per fare i conti con un’eredità esigente; lo stesso libro che state leggendo non sarà esente da questi rischi. E forse an­che per questo la ricezione migliore dell’opera di Rastello si trova più fuori da quel mondo che dentro: nella compagnia del Teatro Patalò, che dal 2020 porta in giro per l’Italia una lettura scenica di Dopodomani non ci sarà, commovente perché capa­ce di riprodurre sul palco la sobrietà stilistica del testo; negli operatori sociali che, identificandosi nei discorsi di Rastello, hanno messo in discussione il proprio attivismo e i gruppi di cui facevano o fanno parte; nelle testimonianze di familiari e amici raccolte nel documentario Un passo più in là, in cui si può vedere e sentire quanto la conoscenza di Rastello abbia segnato le loro vite; nelle parole del profugo bosniaco Samir Zenkić che si trovano nel retro di copertina di Dopodomani non ci sarà: “Se salvi anche uno solo salvi tutto il mondo. E pensa a quante vite ha salvato Luca. Finché ci saranno persone come lui esisterà il mondo”.

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Luca Rastello e le parole 2 (I parte) https://www.carmillaonline.com/2024/05/04/luca-rastello-e-le-parole-2-i-parte/ Sat, 04 May 2024 20:00:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82233 di Franco Pezzini

Elia Faso, La vivisezione. Responsabilità e scrittura in Luca Rastello, pp. 238, € 22, Mimesis, Milano-Udine 2024.

 

 

Voci e pronomi tra La guerra in casa e Piove all’insù

Secondo me è così che bisogna lavorare: mettere sotto il proprio fuoco ogni pratica, ogni retorica, ogni identità […]. Se l’intellettuale oggi ha un ruolo è ancora e sempre quello del vivisettore. Non bisogna enunciare valori, costruire speranza, ma smontare le retoriche, far fuori le immagini e le pratiche rassicuranti e concilianti […] come narratore il mio compito è soltanto (altrimenti sarebbe delirio di onnipotenza) vivisezionare le retoriche [...]]]> di Franco Pezzini

Elia Faso, La vivisezione. Responsabilità e scrittura in Luca Rastello, pp. 238, € 22, Mimesis, Milano-Udine 2024.

 

 

  1. Voci e pronomi tra La guerra in casa e Piove all’insù

Secondo me è così che bisogna lavorare: mettere sotto il proprio fuoco ogni pratica, ogni retorica, ogni identità […]. Se l’intellettuale oggi ha un ruolo è ancora e sempre quello del vivisettore. Non bisogna enunciare valori, costruire speranza, ma smontare le retoriche, far fuori le immagini e le pratiche rassicuranti e concilianti […] come narratore il mio compito è soltanto (altrimenti sarebbe delirio di onnipotenza) vivisezionare le retoriche dominanti, che paralizzano l’agire democratico. Chi di mestiere fa il parolaio ha il compito di usare le parole come arieti contro le rappresentazioni rassicuranti. [L. Rastello, Piccola apologia della vivisezione. Intellettuali e potere, inter­vista a cura di E. Donaggio e D. Steila, in “alfabeta2”, 27 novembre 2011]

 

Concludo con una supplica: se mai accadesse di mettermi addosso la definizione di “Scrittore” e di darmi all’enunciazione di nobili valori, tiratemi i pomodori. [L. Rastello, Dell’orazione civile. Ovvero: che cosa possa fare uno scrittore per la democrazia, in A. Pascale, L. Rastello, Democrazia: cosa può fare uno scrittore?, Codice, Torino 2011]

 

A distanza di quasi dieci anni dalla morte, e nonostante le speranze degli offesi dal romanzo I Buoni su una sordina alla sua produzione, Luca Rastello (1961-2015) conosce oggi sempre nuovi lettori. Ciò anche grazie a uscite di scritti incompiuti (Dopodomani non ci sarà. Sull’esperienza delle cose ultime, introd. di Monica Bardi, Chiarelettere, 2018) e alla riproposta di materiali della sua vita di giornalista (Uno sguardo tagliente. Articoli e Reportage 1986-2015, a cura di Giorgio Morbello, Chiarelettere 2021). C’è poi un interessante documentario di G.P. Amandola, M. Carnemolla, S. Gianandrea, F. Modica, Un passo più in là. Un viaggio con Luca Rastello, Rai Teche e Centro di Produzione Rai di Torino, 2017, con alcuni materiali video aggiuntivi su focus particolari; c’è una sezione monografica “Luca Rastello, scrittore” a cura di Andrea Brondino, Luca Chiurchiù e Lorenzo Marchese nel volume 20 (2021) della rivista “Contemporanea”. Non si contano poi gli interventi, le giornate di studio, le serie di incontri a tema su un panorama di lavoro eccezionale interrotto da una morte troppo precoce ma già tale da fornire una ricchissima messe di chiavi e provocazioni: tanto più che, di fronte a una prosa tanto densa, l’esigenza non è solo di leggere ma di rileggere, per cogliere dimensioni, strati, implicazioni alle quali una prima lettura non può rendere giustizia. Non si contano neppure i giochini di appropriazione surrettizia, depotenziata, della figura di Rastello: fin da qualche intervento un po’ naïf la sera della commemorazione nel luglio 2015, gli spasmodici tentativi di metterlo in qualche scatola (certi “Io e lui” autocelebrativi, per affettare un “Io lo conoscevo bene” magari a colpi di lettere private), di lottizzarlo – si parli di intellettuali modaioli o madamine/madamini in cerca di visibilità – magari cercando strategie di autenticazione un po’ oblique, di ridurlo ridicolmente a due dimensioni di comodo, sono tutti conati tra il losco e il kitsch destinati a scontrarsi con un profilo reale, incomprimibile, spesso ispido, la cui irresolubile complessità è documentata dai suoi testi, e forse particolarmente dai romanzi. Ora esce per Mimesis questo bellissimo saggio sulla sua scrittura letteraria a firma di un giovane studioso di valore, Elia Faso: un testo la cui importanza merita un’attenzione puntuale.

Certo, Rastello non è stato solo un romanziere, e probabilmente la sua opera letteraria va integrata con il ricorso ad altre chiavi: ma partire da lì pare fondamentale. Come scrive Faso,

 

In diverse occasioni di autocommento, Rastello mostra di credere che la scrittura letteraria non sia né una pura reinvenzione né una copia della realtà, ma una sua interpretazione complessa non meno valida di quelle prodotte dalle scienze umane e naturali. La letteratura, come tutte le forme di discorso, partecipa infatti alla “costruzione sociale della realtà”; “costruzione”, però, non implica relativismo, come in certa “smagata temperie postmoderna” per cui non ci sarebbe differenza fra i vari tipi di discorso. Al contrario, l’“opera di precisione” della scrittura può opporsi alle ideologie che rendono “accettabile l’inaccettabile”, con “una enorme mole di forzato lavoro mentale finalizzato a produrre il desiderio di vivere entro il meccanismo dominante”.

 

Vari critici hanno affrontato con vari tagli, e maggiore o minore profondità la produzione di Rastello (prendendo anche qualche brutto granchio, come chi attribuisce tout court all’autore opinioni e comportamenti del protagonista di Piove all’insù o ravvisa parentele letterarie del tutto infondate, per esempio con quel Tondelli alla cui opera Rastello rivolge motivate critiche, stroncando decisamente i “tondellismi”). Ma il lavoro che occorreva, e con cui tutti gli studi futuri dovranno fare i conti – per completezza, equilibrio, intelligenza, profondità, saggezza di toni – è questo che si presenta. Non si limita a contestualizzare l’opera di Rastello all’interno di filoni critici più ampi, repertoriandone le voci con sapienza, ma lavora – come faceva lo stesso soggetto dello studio – direttamente sulle parole. Ricchissimo il lavoro di vivisezione condotto da Faso sul linguaggio di Rastello, ricchissima l’analisi delle posture interiori dietro ciascuna scelta espressiva.

 

Accogliamo anche la provocazione dell’autore a criticarlo: non perché si sia autoin­coronato “Scrittore” e si sia dato all’enunciazione di nobili valori, cosa che non ha mai fatto; ma perché il rigore stilistico, che gli ha permesso di produrre opere così riuscite come La guerra in casa e Piove all’insù, è sfociato nei Buoni in una postura enfatica e irrigidita, perdendo in complessità romanzesca quel che ha gua­dagnato nella spietata lucidità della critica.

 

E ben vengano le critiche equilibrate, costruttive di chi cerca di capire, dopo gli attacchi scomposti o sciacalleschi e i tentativi di “ammorbidimento” di quanto invece scritto con preziosa, “spietata lucidità” dall’autore. Il lavoro di Faso – che diventa un’ottima occasione anche per riprendere in mano questi libri importanti – è articolato in quattro ampi capitoli, più Introduzione e Conclusioni.

Il primo capitolo, “La guerra in casa: testimonianza individuale e storia collettiva”, affronta anzitutto il quadro generale che conduce il narratore a interessarsi della ex-Jugoslavia e all’azione solidale per i profughi della Bosnia come sfondo del suo singolarissimo testo (appunto) La guerra in casa, edito da Einaudi – non senza dibattito interno, pare – nel 1998. Sorto

 

(d)alla continua autoanalisi (etico-politica, più che psico­logico-sentimentale) necessaria a non cadere nelle trappole dell’’ambiguità degli aiuti umanitari’, dal confronto con le storie di chi scappa e di chi rimane nelle nuove repubbliche balcaniche, dall’inchiesta sul campo e dalla raccolta di infor­mazioni,

 

il testo resta comunque un’opera radicalmente diversa dai

 

tanti reportage bellici che negli anni Novanta hanno goduto di un’ampia diffusione su tutti i media, dai giornali alla televisione, contribuendo più o meno volontariamente a una spettacolarizzazione del dolore delle vittime della prima guerra del Golfo e delle guerre jugoslave, spesso appiattita sul sentimentalismo ad effetto, nociva all’analisi storica e all’azione politica che avrebbero dovuto ostacolare con più efficacia quei conflitti.

 

L’angoscia di Susan Sontag per l’indicibilità dell’esperienza a Sarajevo “motiva precise scelte stilistiche e strutturali” e la scelta stessa di abbinare singole storie in soggettiva e scenari geostorici contestualizzanti in un’opera etichettata come non-fiction: ma

 

Se di non-fiction di deve parlare, […] sarà meglio farlo seguendo un’utile indicazione di Donnarumma [cfr. R. Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, il Mulino, 2014], quella di usare questa categoria solo “se ci rivela che ogni discorso sulla realtà è consapevole della propria natura artificiale senza per questo essere ridotto a finzione”.

 

Il tutto, affidando alla scrittura quell’“ossimorica ‘corruzione salutare’” che a suon di fallimenti permette di perdere un’innocenza originaria – e quindi “un poco dell’atteggiamento didattico e coloniale che caratterizza tanta parte di quel continente sfuggente e ambiguo che si agita e si impegna sotto le bandiere della pace”. Dove fondamentale è la categoria del fallimento, chiave in realtà ricorrente in tutta la produzione di Rastello, tra “buone intenzioni” più o meno catafratte di valori ideologici e responsabilità “sottratte a un simile trattamento mitografico”:

 

L’azione umanitaria acquista, credo, tanto più valore quanto più si sgancia dall’ideologia umanitaria, da quell’immaginario nutrito di carità e supplenza che non riconosce la dignità e la responsabilità delle vittime,

 

sfuggendo cioè a un paradigma vittimario progressista e deresponsabilizzante, a smarcare le vittime dallo “dello stato di minorità di un’identità cristallizzata”. Emblematica la figura del cecchino, il “mostro”, che Rastello ha avuto modo di incrociare in un paio di occasioni, sbattendo nel fatto che

 

la cosiddetta “identità etnica”, tanto essenzializzata e irrigidita dalla propaganda nazionalista e da molti commentatori del conflitto, non è dunque una questione di ontologia, ma di attribuzione. Tale attribuzione è effettuale: sei di una certa etnia perché te lo impongono gli altri, siano essi “della tua parte” o “dell’altra”, e dopo che te l’hanno imposto puoi venire assassinato per questo.

[…]

La soggettività di Darko [l’ex-cecchino] e degli altri personaggi della Guerra in casa (autore compreso) subisce una degradazione, che viene combattuta sia con il riconoscimento delle condizioni storiche che opprimono gli individui, sia con la decostruzione dei discor­si disumanizzanti e desoggettivanti che li circondano.

 

(Semplice nota in margine su ciò che l’autore sapeva invece trattenere nella scrittura: come raccontato poi agli amici, quando ha modo di esplorare la tana del cecchino di Turbe, non solo trova

 

(s)ulla parete […] tracciato a vernice spray nera un enorme disegno raffigurante un guerriero cetnico: la bu­stina sui capelli lunghi e folti, la gran barba selvaggia, il rosario al collo e due grandi coltelli alle mani. Era così che Boško [come i bosniaci chiamavano il cecchino] amava raffigurarsi, dunque. Per terra c’erano bottiglie vuote e una quantità incredibile di riviste pornografiche,

 

ma anche qualcos’altro omesso da Rastello per pudore, per non farlo liquidare come mezzuccio narrativo laddove la realtà stessa può suonare naïf, cioè una copia di Guerra e pace sul letto di Boško.)

E per lasciare spazio alla soggettività degli interlocutori, l’autore si serve di varie strategie, in particolare alcune di rarefazione della soggettività autoriale. Laddove in molta parte “della cosiddetta non-fiction degli ultimi anni l’‘esibizionismo ricattatorio’ degli autori è usato come un ‘dispositivo di intimazione di realtà’, Rastello cerca continuamente di sottrarre l’esposizione di sé alla narrazione”, si fa mero ascoltatore o osservatore o informatore impersonale: “La narrazione delle esperienze di Rastello è piuttosto una cornice per il racconto delle storie altrui”. Nella scelta stessa dei pronomi, con “una configurazione particolare della dialettica io/tu e io/tu/noi” e spesso rovesciando il suo io “nel tu dell’allocuzione del personaggio che gli sta raccontando la propria storia”. Una scelta sviluppata in due direzioni:

 

da una parte il discorso del tu, del personaggio, è riferito in un lungo discorso diretto – a volte occupa la maggior parte di un capitolo – o in un discorso indiret­to riconoscibile come discorso riportato; dall’altra l’io sceglie fra i tanti racconti possibili quali entrano nel suo libro e quali no, e inserendoli in una cornice composita li fa interagire fra loro.

 

Dove il passaggio cruciale è che “l’autorità dell’io non sta tanto nella sua esperienza vissuta, quan­to nella rielaborazione formale di storie che rimangono di altri”, con rispetto della soggettività degli individui incontrati, incompresi finché ridotti a oggetti del discorso, “con le con­suete implicazioni tipologiche – il cecchino, il profugo, il volonta­rio, ecc.”.

Altra tecnica di decentramento dell’io è quella che potrebbe chiamarsi “estrofles­sione enunciativa: nei discorsi del testo l’io dell’autore viene ten­denzialmente reso con un tu, nel tentativo di non rinchiudersi nella sua soggettività e di osservarsi dall’esterno”. Un modo per reagire a quell’egocentrismo narcisistico che rende poco sensibili nei confronti dell’altro (una visione del citato documentario Rai Un passo più in là. Un viaggio con Luca Rastello permette di cogliere nei discorsi di taluni testimoni un ricorso all’io sgomitante assai meno trattenuto). Ma queste sono solo alcune delle strategie narrative sull’uso dei pronomi portate avanti da Rastello e incalzate da Faso per “attraversare le nebbie discorsive in cui tutti si trovano immersi”:

 

I blocchi fra “l’umanitarismo buono” e “l’indifferenza cattiva” non esistono in natura, ma si formano nell’irrigidimento delle posizioni; irrigidimento a cui i membri del Comitato possono involontariamente contribuire tanto quanto gli esterni.

 

Timori, questi sull’irrigidimento delle posizioni argomentative, che richiamano le letture di Furio Jesi sulla differenza tra mito genuino – “inteso come eterno pre­sente disponibile a tutti e non come passato rievocato a fini di le­gittimazione del presente” (Rastello, Il mito, per decostruire, in G. Fofi, a cura di, Il racconto onesto. 60 scrittori, 60 risposte, Contrasto, 2015) – e mito appunto tecnicizzato: “il mito tecnicizzato serve le retoriche del potere, il mito genuino è un efficace strumento critico, invece, per decostruirle” (ibidem). Tecnicizzato è per esempio il mito brandito da governanti e intellettuali serbi – dall’accademia ai romanzieri – con uno sciovinismo basato proprio sulla mitologia vittimaria, cancellando o manipolando disinvoltamente centinaia di anni di storia. Ma la manipolazione del mito tecnicizzato accomuna in realtà figure come il serbo Milošević, il croato Tudjman con le sue rievocazioni degli ustascia e lo stesso presidente bosniaco Izetbegović che nel contesto dell’assedio di Sarajevo avvia la radicalizzazione islamica di una classe dirigente fino a quel punto laica.

D’altra parte

 

Rastello indaga i legami (ingarbugliati ma non inestricabili) fra la forma economica e la forma ideologica del vivere sociale, senza trascurare nessuna delle due cadendo in un materialismo gretto da una parte o in uno spiritualismo valoriale dall’altra.

 

Tanto più che gli slogan politici martellati finiscono con l’infettare le stesse dimensioni private e persino persone dalle esperienze culturali diverse, come i caschi blu di Srebrenica che ripetono ritornelli serbi.

 

Non si può rispondere alle mitologie belliche e nazionaliste con altre mitologie che, nonostante le buone intenzioni, pre­suppongono lo stato di minorità delle persone a cui si riferisco­no. Altrimenti si arriva allo stesso risultato: instaurare un rap­porto di potere e privare di agency le vittime.

 

Ed emblematica è la situazione del profugo bosniaco Izmet, schiacciato dalla mitologia che un ambiente torinese “solidale” gli cuce addosso, disapprovandolo per la sua inerzia e reificandolo nella figura del profugo fannullone. Il suo lungo racconto permetterà di capire molte cose, e Izmet diverrà – come già voleva – testimone di accusa al Tribunale internazionale sui crimini di guerra: senza vittimismi da stereotipo, e mirando invece a ristabilire una giustizia collettiva.

Un punto collegato – proprio attraverso la puntuale narrazione di Izmet – è il nesso tra memoria, precisione e storia: “come resistere ai rischi della mitologizzazione dell’esperienza vissuta e della sostituzione dell’analisi con ‘il racconto individuale e l’opinione personale’”? Un punto su cui oggi ferve tutto un dibattito, solo però agli albori all’epoca dell’uscita del libro. Scettico persino sull’uso metaforico del concetto di memoria collettiva, e memore di alcune fondamentali affermazioni di Primo Levi, Rastello si esprimerà così ne Il presente come storia (Edizioni dell’Asino, 2015):

 

come ha scritto recentemente Daniele Giglioli nella sua Critica della vittima, la memoria istituisce con il passato un rapporto pro­prietario. La memoria si appropria del passato. Non è mai neutra; è sempre la mia memoria, la nostra memoria, la memoria delle vitti­me, la memoria di qualcuno nel cui nome si parla. E serve per lo più a legittimare l’azione nel presente di qualcuno che diventa portavo­ce, detentore, mediatore dei possessori di memoria. Osservazioni banali, se non fosse per questo culto di massa che ci ha accecati. Tutti i nazionalismi sterminatori dell’ultimo secolo hanno avuto la memoria come propria bandiera […].La memoria è preziosissima, fondamentale, a condizione che sia sussunta nella fatica della storia, la fatica cioè di mettere molte in­terpretazioni, molte “memorie”, su un tavolo […] e di negoziare tra interpretazioni diverse, accettando anche di arrivare a un accordo artificiale, perché l’obiettivo, per certi versi impossibile, è di capire il passato. Il culto feticistico della memoria rivela i suoi piedi di argilla non appena se ne rovesci l’assunto di base. Non è vero che il passato si ripete se non lo si ricorda. È vero purtroppo che il passato si ripete se non lo si capisce.

 

Rileggere simili riflessioni nell’odierno contesto in cui la critica a Israele su Gaza vede contrapporre come automatismo falsante un certo passato di sterminio aiuta a sottolineare quanto le pagine di Rastello ci siano ancora essenziali.

Per certo, si tratta di capire il senso di La guerra in casa: come chiariva l’autore,

 

Questo è un libro di storie, non di storia. Queste pagine non intendono dare un’interpretazione complessiva della guerra ju­goslava, anche se non sfuggono all’ambizione di fornire qualche alimento al lavoro di ricostruzione degli eventi che hanno insan­guinato l’altra sponda dell’Adriatico fra il 1990 e il 1995, allinean­do dati e testimonianze anche su alcuni aspetti oscuri di quella tragedia.

 

Ma, puntualizza Faso, l’impersonalità del discorso scientifico negli “scenari” (le ricostruzioni storiche)

 

non significa apoliticità: al contrario, se l’“i­deologia umanitaria” ha posto le sue fondamenta sulla morale individuale che può diventare una marxiana “falsa coscienza” (GiC, p. 91), la storiografia mostra la sua vocazione politica; non nel senso di “faziosità” a cui spesso la si riduce, ma nella caratte­ristica della distanza indicata, fra gli altri, prima da Weber e poi da Wieviorka.

[…]

Distanza, dignità, responsabilità […] sono i cam­pi semantici che cercano di resistere alla falsa immediatezza, per usare una locuzione cara ad Adorno. Sono concetti che si contrappongono alle retoriche delle mitologie tecnicizzate e che puntano sulla precisione, parola chiave per Rastello.

 

Con il valore del documento ad allontanare la pretesa di un accesso immediato alla realtà, forma di impegno anche etico e limite alla soggettività: “nella precisione che lo costituisce si richiede alla memoria di superare il suo rapporto proprietario con il passato e di confrontarsi con la complessa molteplicità della realtà”. D’altra parte i documenti non sono neutri, e come ricorda lo stesso Rastello in merito alle cartine in calce al volume, “Niente è più fuorviante […] che assegnare alle cartine geografiche – soprattutto a quelle indicanti una composizione etnica – un attributo di oggettività”: e merita andare al volume per i chiarimenti “delle falsificazioni e delle semplificazioni che hanno portato agli accordi di Dayton”. Quanto agli almeno novemila morti di Srebrenica, il

 

discrimine principale non sta nei militari serbi comandati da Mladić o nel numero di persone uccise, ma nei buoni: la reto­rica dell’inevitabilità della strage è stata funzionale a rimuovere la sua evitabilità da parte delle “truppe di pace” e di buona parte del “mondo civile” che osservava immobile; mentre si impediva l’uso della forza a chi tentava di difendersi si è trasformata la vio­lenza storica e politica in un altro dei tanti tristi apologhi della metafisica del male.

 

Dove il “mondo civile” è chiamato pienamente in correo.

L’ultimo snodo, sintetizza Faso, è un “Uscire da sé senza cadere dentro gli altri”: allo “sguardo che non guarda” – la spettacolarizzazione che non fa capire – Rastello oppone procedimenti (nel senso già chiarito) di “corruzione dello sguardo”. La scrittura che considera anche il fallimento nell’afferrare la realtà mostra un’importante funzione esplorativa negli sforzi “di uscire da sé senza instaurare un diritto proprietario sugli altri”:

 

L’indagine sulla realtà resiste al soggetto a causa della sua oscurità ma, proprio nella sua ambiguità, permette ancora qualche “via di fuga”, come dirà il narratore del libro successivo Piove all’insù: via di fuga per l’io/tu dell’autore/personaggio, per il tu della figlia [ancora piccola, che vede giocare e un giorno dovrà affrontare la “concretissima colpa di vivere qui”], per il tu del lettore.

 

E il secondo capitolo riguarda proprio “Piove all’insù: perché il possibile non diventi necessario”. Stavolta un romanzo vero e proprio, che segue nel 2006, dunque a distanza di ben otto anni da La guerra in casa. Conclusa, almeno nelle linee di fondo, l’attività sulla Bosnia (i profughi accolti in Piemonte attraverso la rete organizzata con l’apporto importante dell’autore – e anche in casa sua nel Canavese – in parte resteranno in Italia), Rastello lavora a varie riviste, affronta la morte dei due genitori e si ammala a sua volta di tumore. La diagnosi è terribile. Il libro esce dopo che ha subito un intervento chirurgicamente estremo e quando sta affrontando pesanti terapie: un passaggio che apre una quantità di domande.

È possibile che una primissima provocazione – almeno in nuce – per il libro venga da un progetto proposto parecchi anni prima da Antonietta Bruzzone Chiama (già insegnante di matematica di Rastello al liceo, e interlocutrice di Sergio Solmi) appunto a un gruppo di ex-allievi: una sorta di inchiesta sugli anni Settanta al D’Azeglio, per cui Rastello giovanissimo intervisterà vecchi compagni di scuola con un casereccio registratore a cassette. Nel dopo-Bosnia, formandosi alla scrittura giornalistica, eccolo dunque riprendere in forma molto più ambiziosa l’idea del ripescaggio di testimoni di un’epoca per costruire una storia che in realtà va ben oltre, e che si compenetra con l’idea di un’inchiesta sul golpe Borghese, ma senza banalità consolatorie o complottismi da feuilleton. A dare una spinta ulteriore è la riflessione sul lavoro a fronte del licenziamento della moglie, una sorta di perdita di identità sociale che interpellava sugli sviluppi di una vita collettiva in cui accettiamo cose per cui un tempo ci saremmo ribellati: e, in dialogo con lei (un tu, di nuovo), il “come siamo diventati così?” finisce col ricondurlo – tra continuità e discontinuità col presente – alle vicende degli anni Settanta. Riduttivo però esaurire in quella rammemorazione (come spesso avvenuto in sede critica) il senso del libro: come scrive Faso,

 

Se la si considera dal solo punto di vista quantitativo, la rap­presentazione delle vicende del protagonista sembra trovare un suo nucleo nel Settantasette, attorno a cui gravita l’intreccio con una cronologia non lineare che coinvolge gli anni preceden­ti e successivi; ma, prendendo in considerazione altri fattori, proporrò un’interpretazione diversa della struttura narrativa del romanzo e del ruolo del suo protagonista: è vero che la traiet­toria del racconto orbita intorno agli anni Settanta, ma compie un giro più largo che, fra gli altri effetti, ha quello di rovesciare l’importanza della soggettività insieme ingombrante e debole del protagonista per lasciare le decisive scene finali alle scelte del padre, fino a quel momento rimasto dietro le quinte.

[…]

sarà meglio considerarlo un romanzo senza ulteriori attributi, se all’abusato termine “ro­manzo” si restituisce uno dei suoi sensi più proficui, quello di arte che tenta di raffigurare “la totalità estensiva della vita”, di tecnica linguistica e narrativa che grazie alla mimesis permette agli esseri umani di prendere “coscienza di sé in quanto esseri particolari, gettati nel tempo, collocati in un mondo e posti in mezzo agli altri”.

 

Un chiarimento già sufficiente a dare il senso della ricchezza e dell’equilibrio con cui l’autore di questo saggio avvicina l’opera di Rastello.

E tutto si sviluppa proprio a partire dal tu della compagna licenziata (e che resterà anonima), a cui il narratore scrive delle email, riflettendo, ricordando e confessandole anche che da ragazzi – per far colpo su di lei – le avesse spacciato per proprie le parole di un “Urania”. Dopo vari tentativi, riuscirà infine a identificarlo nell’onirico e psichedelico Opzioni, di Robert Sheckley (“Urania” 689, 1976 – uscito non a caso subito prima del Settantasette).

Torniamo però a sottolinearlo, anche se dovrebbe essere ovvio: a parlare è un narrante-protagonista, Pietro Miasco, la cui vita ha singoli punti di comunanza con l’autore ma un tale numero di altri divergenti da non potervisi assolutamente identificare – ciò che vale anche per una serie di giudizi sulla realtà, le sue posizioni non sono quelle di Rastello. Una figura peraltro, quella di Miasco, che per lo scrittore rappresenta in qualche modo una vecchia conoscenza. Nei numeri di prova di una rivista fondata da Rastello con un gruppo di amici negli anni Ottanta, L’Opera al Rosso (più precisamente nel n. 1, Città), figura tra gli altri un suo racconto Storia sdrucciolevole, che inizia: “Il mio nome è, per il momento, Pietro Piasco. Non sono del tutto la persona che scrive, credo”. Il passaggio da Piasco, toponimo piemontesissimo, a Miasco, sembra insomma non aver comportato alterazioni a questo denunciato sfalsamento di identità tra autore e narrante, a dispetto di quanto ravvisato da qualche critico:

 

Rastello preferisce invece inserire il suo narratore-protagonista in un gioco di soggettivazione e desoggettivazione tipicamente letterario. […]

Se nella Guerra in casa per poter al tempo stesso estroflettere l’io e rispettare lo statuto di storia vera del testo Rastello aveva costruito un particolare dispositivo enunciativo che permetteva l’alternanza io/tu, in Piove all’insù organizza invece dei dispo­sitivi narrativi. L’“esasperata enfasi sull’Io, luogo delle finzioni riparatrici e protettive” vissuta dal protagonista adolescente trova un efficace contrappeso nella soggettività del narratore, portatrice di un’istanza di verità “eccentrica, centrifuga, proiet­tata verso il fuori; estrema dunque, alla lettera, per diritto e per definizione”.

 

Al di là dell’enfasi critica diffusa sull’eccellente ricostruzione storica e su valutazioni un po’ emotive come di romanzo “avvincente”, Faso punta più acutamente a un’interpretazione strutturale del testo: non tanto in chiave di essenza unitaria – come, esemplifica, potrebbero essere “il Settantasette, il Padre, la Soluzione del ‘rebus’ finale” –, ma di ipotesi strutturali sui rapporti fra i diversi livelli del romanzo. Discute dunque il tema della velocità (in realtà l’accelerazione narrativa, sottolinea, è in dialettica con un rallentamento riflessivo) attraverso forme come l’enumerazione caotica a rappresentazione della molteplicità dispersiva del reale, il raffreddamento e insieme le scintille prodotte dall’estrazione dei ricordi, una certa mimesi del parlato, la stessa diversa ampiezza delle email costitutive del testo, con aforismi che frenano più che rallentare. Rifacendosi agli studi di Francesca Gatta, ascrive il testo alla tendenza alla saggificazione della scrittura narrativa recente e vi riconosce innesti linguistici anomali, articolazioni in ampie lasse per modalità di monologo, ma rimarca l’originalità e le differenze strutturali da altri casi nella narrativa recente, il rapporto in Piove all’insù tra dispositivo saggistico e dispositivo narrativo.

E soprattutto identifica una macrostruttura del testo con “sfasatura temporale fra capitoli e le inserzioni delle trame di quattro romanzi di fantascienza usciti nella collana Urania fra il 1976 e il 1978” (per la precisione: K. Trout cioè P.J. Farmer, Venere sulla conchiglia, Mondadori, 1976; J. Fast, La pietra sincronica, Mondadori, 1978; R. Sheckley, Il matrimonio alchimistico di Alistair Crompton, Mondadori, 1978; e il citato Opzioni, 1976): una rappresentazione “che ne rilevi l’andamento insieme spiraliforme e lineare” con circolarità temporale e narrativa “dal 1958 (inizio del coinvolgimento del padre del protagonista nelle trame eversive) al 2002-2003 (vigilia della morte di Agnelli)”. E le quattro trame degli “Urania” contribuiscono a rafforzare l’idea di un tempo caotico tra epos e romanzo (impossibile qui dar conto in dettaglio delle ricche argomentazioni di Faso), con tanto di ironici interventi di “istanze metanarrative […], come il ‘Comitato per la Salvaguardia dell’integrità del Racconto’ (PaI, p. 169), che tentano goffamente di trattenere la coesione testuale”. Ma le folli trame degli “Urania” finiscono col trovare nessi con le vicende del protagonista, a partire da un romance che a un certo punto si frammenta irreversibilmente. La tentata incarnazione dell’Uomo Nuovo liberato nella sessualità e nella politica conduce però al fallimento delle sue intenzioni rivoluzionarie, schiacciato com’è sulla molteplicità dispersiva del movimento del Settantasette: e di nuovo ecco le opposizioni de La guerra in casa, astrazioni desideranti contro precisione, intenzioni contro responsabilità, in riferimento “non solo a categorie morali, ma anche a scelte linguistiche e storico-politiche”. Ma la volontà di “non prendere il potere” si rovescia “nel rifiuto dell’assunzione di qualsiasi responsabilità, nel qualunquismo dell’‘età di Tersite’ (PaI, p. 165)”:

 

Vuoi liberarti del tuo male? Liberati del tuo destino. Torna indietro, cambia il corso della natura, ringio­vanisci, non invecchiare. Tersite che suggerisce l’impossibile ai prìncipi achei. Ulisse, eroe di un’epoca seria, lo espelle dal mondo degli uomini, lo bastona e lo caccia per qualcosa che dopo quella mattina a Torino sarebbe diventata invece la regola del mondo nuovo: ringiovanisci, non invecchiare, non morire, non diventare.

 

Una postura interiore che finisce con il rivelarsi congrua alla stessa struttura narrativa a spirale, che “collega in un comune fallimento vita pubblica e privata”. Il fatto è che “(c)ome nell’Ultracapitalismo apocalittico degli Urania, il potere politico-economico ha saputo assorbire le buone intenzioni del Settantasette e le ha paradossalmente realizzate”. Ma il tu relativo alla compagna e il lui sul padre (“il senso di responsabilità con cui […] ha affrontato la propria morte […] permetterà al figlio di scoprirne la passata assunzione di responsabilità etico-politica”) tornano infine a toccare la spirale dell’io, a permettergli di superare il narcisismo sterile, a uscire dall’egocentrismo verso un nuovo futuro. Dove, superando la lettura riduttiva del “documento”, il testo rivela la sua forza nella

 

particolare configurazione della forma romanzo; grazie ad essa egli riesce a praticare una vivisezione di quelle narrazioni dominanti che tanto infastidiscono Fofi perché usate dalla “parte ‘emersa’ della generazione” che “ha continuato a farsi bella e a occupare il presente”.

 

Faso affronta infine acutamente il motivo della Torino magica come affrontato da Rastello, sul filo della lettura fondamentale di Praga magica di Angelo Maria Ripellino (Einaudi, 1973), per un accumulo di motivi che nulla concedono all’esoterismo facile, smarcandosi solo dal richiamo ripelliniano al Kitsch in nome di una precisione decostruttiva.

Al termine della disamina del romanzo, è possibile smantellare l’abbaglio critico su un finale che non concluderebbe: l’indovinello con cui si chiude il romanzo (la simbolica dell’alchimia, il discorso su eros e femminilità) in giustapposizione all’allarmante trionfo di Agnelli morente è in realtà illuminante. Di contro al nuovo mondo di lugubre trionfo del denaro sulla politica, l’unione serena del protagonista con la compagna sarà elemento di resistenza.

  1. Continua
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La Labbazia degli incubi (1) https://www.carmillaonline.com/2024/04/13/la-labbazia-degli-incubi-1/ Sat, 13 Apr 2024 20:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81938 di Franco Pezzini

Gorgó, Trinacria e la Schiaffiatùra

 

Si dice che scese tra gli uliveti simile al capitombolo

della notte, un essere tremendo come un’apparizione

in difficoltà, col capo avvolto da piccoli serpenti e

insieme da minute corone di spine piene di animazione.

 

Orazio Labbate, La Schiaffiatùra. Nascita, doppelgänger e scomparsa della gorgone buterese, Italo Svevo, Trieste-Roma 2024.

La trilogia del gotico siciliano partorita nel tempo da Orazio Labbate (cfr. qui e qui) non poteva che condurre a una serie di sviluppi – più che innesti, si tratta cioè di ineludibili e coerenti gemmazioni. Leggerle alla luce [...]]]> di Franco Pezzini

Gorgó, Trinacria e la Schiaffiatùra

 

Si dice che scese tra gli uliveti simile al capitombolo

della notte, un essere tremendo come un’apparizione

in difficoltà, col capo avvolto da piccoli serpenti e

insieme da minute corone di spine piene di animazione.

 

Orazio Labbate, La Schiaffiatùra. Nascita, doppelgänger e scomparsa della gorgone buterese, Italo Svevo, Trieste-Roma 2024.

La trilogia del gotico siciliano partorita nel tempo da Orazio Labbate (cfr. qui e qui) non poteva che condurre a una serie di sviluppi – più che innesti, si tratta cioè di ineludibili e coerenti gemmazioni. Leggerle alla luce di una ormai lunga storia del gotico pare quanto mai opportuno: sia per richiamarne il radicarsi in uno sviluppo letterario del genere troppo spesso svilito alla percezione di lettori e scrittori nei suoi effetti più facili e naïf, laddove invece traghetta non-detti ulceranti, inquietudini serie, turbamenti epocali; sia per rimarcarne il carattere di ricerca e laboratorio, di inventio continua e lucida, scipita da tanti adagiamenti mediocri nella formula conchiusa e invece sempre fertile a chi sappia spalancarla e lavorarci. Il cantiere di Labbate, la sua Labbazia degli incubi, è appunto sempre aperto come una forgia ben avviata.

Sviluppi, dunque, alla trilogia. Il primo naturalmente in chiave di sistematizzazione teorica, saggistica, con il piccolo repertorio sull’Orrore letterario uscito per Italo Svevo nel 2022: a radicare idealmente il suo gotico siciliano nella storia della letteratura italiana contemporanea. Ma un secondo sviluppo, questa Schiaffiatùra, rimanda idealmente assai più indietro nel tempo, e con un linguaggio narrativo-sapienziale da testo (anti-)sacro e sovversivamente mitologizzante. Se mythos è – da antica accezione – parola importante, merita comprendere in che senso.

Assai più indietro nel tempo: non solo per il richiamo agli antichi miti mediterranei (greci, e insieme vertiginosamente meticci) e al lascito ctonio pagàno sottesi alla trilogia, ma per il ruolo non accidentale che il topos qui ripreso della Gorgone riveste all’alba del gotico. Se cioè Medusa, o l’arcaica figura-ombra ecatea da cui irrompe nei cataloghi mitologici classici – diciamo genericamente Gorgó, nella forma contratta di allarme d’un intero catalogo di pericoli notturni (Mormó, Gelló, Lamó…) – finisce in effetti con il rappresentare la dea-mostro/alpha, all’origine e all’omphalòs del discorso occidentale sul mostruoso e insieme sul Femminile, a sovrapporsi a una Sicilia omphalòs del Mediterraneo, essa insieme non perde la dimensione di maschera fatale: la reliquia numinosa di un dramma mitico e rituale che resta sotteso al linguaggio nero del gotico e insieme ne innerva esplicitamente il modellarsi storico. Il gorgoneion come maschera di sconcerto pietrificante e rivelazione fatale di verità connota infatti ossessivamente l’esperienza della rivoluzione e l’idea stessa di libertà “alla francese”, impastati con l’idea di un Terrore che dona alla scrittura del gotico scioccanti echi storici e svela nessi denunciati con lucidità per esempio da Sade.

La Schiaffiatùra si inserisce insomma in una tradizione letteraria non solo risalente e genuina, ma dagli echi – vorrei dire – necessari per capire un’operazione come quella di Labbate: ben collocabile e insieme innovativa sull’orizzonte di un gotico mediterraneo fin dall’Otranto walpoliana e dai suoi immediati sviluppi. D’altra parte proprio in Walpole troviamo un richiamo congruo alla lettura di questo nuovo testo: là dove la seconda edizione del Castello d’Otranto, quella firmata dall’autore con il nome vero, altera alcuni versi di un altro Orazio – il poeta latino – nella citazione d’incipit  “Vanae / fingentur species, tamen ut pes, & caput uni / reddantur formae”. In sostanza le immagini che appaiono “vanae” e la bizzarria delle parti estreme di creature chimeriche sorte come da deliri febbrili conducono egualmente (a differenza che nell’originale latino) a una forma completa, a un senso artistico, a un’efficacia reale. Ciò che si riscontra nelle “formae” tenebrose di queste pagine, con le continue epifanie quasi lisergiche o allucinatorie del demone/divinità protagonista, e il controcanto delle citazioni iniziali da Guénon ed Edgar Wind. Dove due sembrano le chiavi per decrittare sequenze tanto imbizzarrite d’immagini.

Anzitutto quella dei miti sottostanti la trilogia: miti ctoni, inferi, tellurici, legati a una gnosi perturbante come di oscuri gruppi ereticali brandenti blasfemia e inversioni. Un’epopea forse carpocraziana, nicolaita, se non fosse che il sesso evocato non ha granché d’un nesso di libertino & soteriologico e si innerva piuttosto in ipotetici e oscuri misteri agrari, in incubi rurali, in beffarde paure notturne delle campagne. In questo contesto, di Gorgoni ne esisterebbe una pluralità: dove prima viene idealmente la tripode Trinacria (una Sicilia archetipica e mostruosa) e solo dopo, come circonfusa da un nimbo colloso di oscurità, l’indicibile Schiaffiatùra emersa nella zona arida e fatale di Butera, centro della geografia del gotico di Labbate.

Sorta di trickster carnascialesco, vorace e voluttuoso, ipostasi di orrore nelle sue epifanie tra “animelle di campagnoli morti” e “demonietti lussuriosi”, la Schiaffiatùra inverte la crescita verso l’alto dei rami degli alberi sovvertendone “l’intuizione del bene” e obbliga i cani, i gatti, i gechi a rovesciare la testa (ecco le inversioni associate nel mondo latino alle streghe), imbeve la terra di un sangue corrotto in disturbante, inconveniente profanazione di quello eucaristico, strappa imprevedibilmente alle campagne buteresi “il senso prensile della materia”. Dio della menzogna e degli oracoli, protegge “bricconi, bugiardi, mistificatori, bestemmiatori, viaggiatori buteresi. Coloro che amano di nascosto tra le selve e nei trogoli”, salvo poi ingannarli senza pietà. Opera soprattutto per confondere e “rendere i cristiani mescolanze mostruose” a suon di insultanti ricombinazioni anatomiche, come nella walpoliana sovversione dei versi dell’antico Orazio; e per disorientare i fedeli scatenando “in essi visioni di second’ordine”. Del resto, gli “esseri inferiori, ricchi di infingimenti e assenti della più alta dignità, operano nell’orrore tra il vuoto e la terra”. Di suo, la “Schiaffiatùra rappresentava daccapo: la morte alla carne, la morte allo spirito, il punto di rovesciamento delle croci, il buffone che si traveste di ogni divino mediatore cristiano per curarsi con il contrario dei suoi simboli”.

Una certa complessità da magistero gnostico avvolge le operazioni dissacramentali dell’entità, e non è questa la sede per seguirne il filo: ma l’autore ben riesce a offrire all’antiteologia della gorgone rurale una vertigine genuina tra ostie blasfemizzate, possessioni di statue, straniate veggenze. Fino alla fine della sua parabola mitica, o se si preferisce agli ultimi capitoli del suo cacovangelo. Dove cioè prende avvio quanto così anticipato:

 

Vi era nell’incorporea psiche della Trinacria il proposito di generare un Doppelgänger della Schiaffiatùra. Nel sinistro carnevale perpetuo della sua psicologia germinavano considerazioni su una morte scherzosa del demone obliquo a lei indigesto poiché contrario al macabro riso embriogenico.

 

Il che condurrà alla sconfitta del demone. Segue Compendio fotografico: i territori della Schiaffiatùra, cioè una breve raccolto di foto d’una Butera scabra e impressionante, dall’apparenza tempestosa.

Indubbiamente in queste pagine che stillano nigredo, umori putridi e sogni intossicati si coglie la lezione di Ligotti – non quello modaiolo feticizzato superficialmente dai nerd, che allargano solo il lovecraftismo degli stentatelli a un nuovo oggetto da altarini biascicando facile l’orrore, l’orrore, ma il maestro sornione di stile dalla disperazione onesta: però con Labbate si va ben oltre e a maggiore profondità, in grazia di una ricchezza variegata di letture ben al di là dell’horror. Ricordare la mole di opere recensita settimanalmente da un autore in fondo giovane, a corona di una pregressa formazione vastissima, permette di non cadere in equivoci grotteschi.

La prima cifra è insomma quella del gorgoneion gnostico, idealmente alla base delle livide e tortuose fedi della trilogia, dei suoi climi ossessi, delle sue comunità infestate. Ma, come detto, c’è una seconda chiave, fondamentale per capire quest’opera e ricondurla a uno statuto di mito, parola importante: e cioè quella della lingua, della voce. La Schiaffiatùra è in qualche modo la lingua stessa della trilogia, ne illumina la voce sul piano delle visioni come il saggio L’orrore letterario lo fa sul piano critico dell’analisi di un filone. Ne colloca insomma le catabasi e i guizzi beffardi, le sfide e provocazioni: e come la Gorgone classica urla a lingua spiegata, così La Schiaffiatùra racconta la lingua immansueta del suo autore, i suoi rituali immaginali, la potenza di fuoco del suo approccio letterario.

Però c’è un terzo sviluppo, dopo il saggio critico e il racconto sapienziale: ed è quello del manifesto sul gotico siciliano. Vi torneremo a proposito della prossima riproposta in libreria del seminale Lo Scuru.

(1. Continua)

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Le fiabe di Gomòria https://www.carmillaonline.com/2023/06/17/le-fiabe-di-gomoria/ Sat, 17 Jun 2023 20:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77691 di Franco Pezzini

Carlo H.(akim) De’ Medici, Leggende friulane, ed. orig. 1924, prefaz. di Antonella Gallarotti, con venti illustrazioni di Cleo Miradic, pp. 95, € 12, Cliquot, Roma 2023.

Carlo H.(akim) De’ Medici, I topi del cimitero, ed. orig. 1924, con gli inediti della raccolta Crudeltà, 1927, prefaz. di Federico Cenci, illustrazioni dell’autore, pp. 139, € 18, Cliquot, Roma 2019.

 

“Tu, certo, rechi nella coscienza tua il rimorso – lieve, sia pure, poiché sei indurito nel vizio – di un peccato d’amore commesso e non espiato… Non negare! [...]]]> di Franco Pezzini

Carlo H.(akim) De’ Medici, Leggende friulane, ed. orig. 1924, prefaz. di Antonella Gallarotti, con venti illustrazioni di Cleo Miradic, pp. 95, € 12, Cliquot, Roma 2023.

Carlo H.(akim) De’ Medici, I topi del cimitero, ed. orig. 1924, con gli inediti della raccolta Crudeltà, 1927, prefaz. di Federico Cenci, illustrazioni dell’autore, pp. 139, € 18, Cliquot, Roma 2019.

 

“Tu, certo, rechi nella coscienza tua il rimorso – lieve, sia pure, poiché sei indurito nel vizio – di un peccato d’amore commesso e non espiato… Non negare! Lo leggo nelle tue pupille inquiete.

È necessario dunque che tu interrompa il tuo viaggio e mi segua”.

 

Per quanto circonfuso di mistero, lo scrittore e giornalista italiano Carlo Hakim De’ Medici (Parigi, 29 agosto 1887 – Como, 1 ottobre 1956, data di morte appena emersa dopo lunghe ricerche, soprattutto dello studioso Furio Gaudiano), figlio di un ricco banchiere ebreo parigino e vissuto a lungo a Gradisca d’Isonzo in provincia di Gorizia, ha di recente recuperato una certa notorietà per il bel romanzo gotico Gomòria. Racconto magico (ed. orig. 1921: Cliquot, 2018, con le meravigliose illustrazioni liberty dell’autore), in cui mixa con prosa elegante temi e suggestioni di due romanzi di Huysmans, Là-bas (da lui tradotto nel 1929 per Corbaccio) e À rebours, in un risultato strano e originalissimo che occhieggia in qualche tratto a racconti folklorici italiani.

Ombre fiabesche – ma soprattutto oniriche e macabre, a tratti ironiche e meditabonde – emergono però anche nella bella raccolta I topi del cimitero, dedicata “al mistico e satanico / fratello mio / Gaetano Trevi di Montegufo / assassinato alla Malanotte”, cioè il sovreccitato protagonista di Gomòria, in un malizioso e divertito crossover narrativo. Il volume, arricchito anche qui dalle straordinarie illustrazioni dell’autore, recupera i quattordici racconti dell’originale del 1924 e, dal successivo Crudeltà che doveva rappresentarne una versione riveduta e aggiornata, 1927 (stesse splendide xilografie, sette storie identiche, altre cinque modificate, due omesse) quattro racconti nuovi.

Leggendo questi testi visionari e raffinati, ritroviamo a tratti le lezioni di Poe (i topi in un ambiente ecclesiastico, le navigazioni oniriche, le straniate amnesie e gli amori dai connotati estremi, i conversari grotteschi col diavolo, i cadaveri che restano sotto ipnosi o certe storie comiche sul nero), di Villiers de L’Isle-Adam (alcuni contesti erotici crudeli e straziati), magari di certo Meyrink (la componente misticheggiante e onirica) o piuttosto di Ewers (immagini disturbanti come le statue di cera inglobanti il sangue d’una defunta), nonché un naturale dannunzianesimo d’epoca. Leggendo, viene alla mente per tipi d’atmosfera la scena del Dracula di Coppola in cui, contro le leggi di natura, le boccette di profumo nella stanza delle spose del Conte stillano verso l’alto: una suggestione insieme onirica ed estenuata, nell’ambito d’una raccolta che pare un po’ forzato ridurre alla luce dell’iniziatico e dell’esoterico per cui pure l’autore nutrì interessi specifici. In queste pagine De’ Medici parla dei misteri dell’interiorità e dell’immaginario, del sogno e del dubbio, del sentimento strapazzato che a distanza d’anni lascia strascichi. Alcuni racconti (come “Per la mia pace” o “La felicità”) sono gioielli dell’umorismo nero, altri incalzano un’inquietudine filosofica frutto di riflessioni d’epoca e d’ansie personalissime (“Dopo”, “Ogni sera”, “Madrigale”), altri ancora echeggiano, al di là d’ogni maniera o stereotipo, delusioni dolorose in apparenza personali (“Offerta”, “L’idolo”).

Il leggendario de I topi del cimitero appartiene essenzialmente al registro narrativo del gotico, ma non stupisce che in altri scritti De’ Medici punti più direttamente a suggestioni folkloriche. Come appunto in un volume proposto in questo giugno nell’ambito della meritoria riscoperta dell’autore portata avanti da Cliquot, Leggende friulane, uscito in originale novantanove anni orsono per Bottega d’Arte di Trieste: oggi edizione speciale in carta pregiata fuori collana, in numero limitato, con illustrazioni dell’autore qui occultatosi sotto lo pseudonimo/anagramma Cleo Miradic. Il contenuto sono sei testi frutto di ricerche attente tra storia e geografia del Friuli orientale – contea di Gorizia e Gradisca, più una puntata esterna fino a Cividale – ma assenti in quanto tali dall’autentico corpus folklorico dell’area. Si tratta infatti di novelle reinventate dall’autore con un occhio a quelle circolanti (emblematico “La Dama Bianca”, unico testo a giocare di sponda a una leggenda esistente) e ampie, consapevoli libertà alla stessa storia locale, a evocare quello che la prefatrice definisce giustamente “Medioevo alternativo” ma che è in fondo il mondo proprio di tanti racconti popolari e saghe (si pensi solo agli Attila e Teodorico resi disinvoltamente contemporanei dal Nibelungenlied). Non stupisce che queste leggende – che dall’uscita del volume nel 1924 saranno sussunte in raccolte folkloriche come “autentiche”, del pari a quanto avvenuto con altri testi d’autore, per esempio di Carlo Michelstaedter ed Egone di Roccanera, e come un giorno forse avverrà con le trame dei film di Lorenzo Bianchini, si pensi solo a Oltre il guado, 2013, ambientato proprio nelle foreste del Friuli – mostrino il passo cupo, torbido e maliziosamente affabulatorio che abbiamo imparato a riconoscere come di De’ Medici. Il quale invece non riuscirà a comporre la vagheggiata, monumentale opera trattatistica Passeggiate friulane su cui aveva raccolto tanto materiale.

Quanto a cupezza non c’è che attingere al bacino della storie tradizionali dell’area friulano/slovena: dove non si contano tra l’altro le storie di amore finite male, come quella paradigmatica di Veronica di Desenice, fatta affogare dal padre del partner Federico II di Celje. In questo senso, a connotare Leggende friulane (frutto tra l’altro di un’età tra Otto e Novecento dove dipinti e opere musicali su medioevi più o meno farlocchi e melodrammi di dame in costume dilagano) non è tanto un sapore costante di originalità – al netto delle libertà di reinvenzione dell’autore e di qualche impennata visionaria – quanto la scrittura elegante, anticata e tanto godibile.

Si parte dunque da “La Dama Bianca”, storia di un peccato d’amore soltanto virtuale (donde l’incipit a questo pezzo) pagato a carissimo prezzo dalla povera Esterina da Portole, già malmaritata e murata viva. Poi “Adalgisa della Groina”, nuova storia d’amore infelice tra Gisulfo, bel valletto rimasto a casa del signore di Gorizia partito crociato, e la giovanissima aristocratica del titolo: al ritorno dopo anni dei crociati, destinata a un vecchio compagno d’armi del padre, la ragazza si uccide e la rosa dal suo petto lanciata per Gisulfo (prontamente sepolto in carcere) resta a galleggiare sempre fresca nelle acque del torrente vicino. Segue “Fra’ Mauro l’eremita”, su un pio monaco dalla vita leggendariamente lunga – conosce nel 489 il fuggitivo Odoacre e conforta Rosmunda dopo il 568 del passaggio di Alboino: nutre il sogno di costruire una chiesa alla Madonna in cima al roccioso Na’ Poklu, ma pecca di orgoglio e temerarietà comandando l’opera al diavolo e finisce male. “Ginevra la Bellissima” vede la tentata violenza alla protagonista da parte di un vecchio nobile cui era stata promessa, ma in grazie di una preghiera la giovane – attesa invano al castello dello sposo – onde evitare lo stupro riesce a farsi mutare in marmo. Il predatore impazzisce per lo shock e (scarsa consolazione) lo sposo darà infine un vano bacio nuziale alla fronte pura della statua. Persino quando salvate, le donne insomma finiscono male: e alcune in modo piuttosto bizzarro. Come in “La Spiritata di Gradisca” – così si chiama un torrione eretto sul cosiddetto Sperone degli spiriti – che si sofferma sull’origine del nome: Lucia, servetta di osteria, veglia nel locale un cavaliere ferito, che prima di ripartire a combattere i Turchi le lascia surrealmente il proprio cuore in custodia. Interrato per maggiore sicurezza alla fuga di Lucia, il cuore verrà però inopinatamente trafugato da una sirena, col risultato che Lucia impazzisce. Rimasta lì a cercare il prezioso cuore, finirà murata per errore nel torrione della Spiritata in costruzione. In ultimo, “La beffa di Richinvelda”, narra in un fantasioso e macabro contesto alla Poe la terribile vendetta del patriarca Nicolò di Lussemburgo, fratello di Carlo IV imperatore, contro i congiurati responsabili dell’assassinio del suo predecessore Bertrando: nella scena finale, a finir male in una chiusa non spoilerabile è – ennesima donna – la madre di uno di questi. In quasi tutti i racconti la triste sorte appare collegata a qualche colpa o atteggiamento criticabile dei protagonisti: ma l’autore non è interessato ad ammannire una moraletta, e si colloca piuttosto con dignità nella lunga storia del gotico italiano.

Al netto insomma dell’enfasi un po’ abusata posta sull’esoterico che pure corteggiò (e che estasia soprattutto un certo tipo di lettori nostrani), De’ Medici conferma insomma di essere soprattutto un sottile, elegante e godibilissimo narratore nero che, con il progresso degli studi e lo smascherarsi forse di ulteriori pseudonimi (i testi riconosciuti sono frutto di un arco breve di anni), potrebbe riservarci ulteriori, affascinanti sorprese.

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Da dietro il sipario del reale (IV): Rughe nei corpi, righe nei cieli https://www.carmillaonline.com/2023/06/03/da-dietro-il-sipario-del-reale-iv-rughe-nei-corpi-righe-nei-cieli/ Sat, 03 Jun 2023 20:00:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77425 di Franco Pezzini

L’itinerario fin qui battuto nel rapporto tra fantastico, reale e relative zone intermedie, liminali o incerte oltre ogni velame o cortinaggio, non può che approdare idealmente all’edizione 2023 del call per racconti brevi organizzato dal Premio Calvino insieme alla rivista “L’Indice” e al Book Pride di Milano, Visioni divergenti e corpi indisciplinati: una selezione che da 817 incipit ha visto emergere 35 prescelti da cui i dieci finalisti. Stavolta il fantastico non è infatti una chiave esclusiva o stringente, come nelle edizioni dei due anni precedenti che nel [...]]]> di Franco Pezzini

L’itinerario fin qui battuto nel rapporto tra fantastico, reale e relative zone intermedie, liminali o incerte oltre ogni velame o cortinaggio, non può che approdare idealmente all’edizione 2023 del call per racconti brevi organizzato dal Premio Calvino insieme alla rivista “L’Indice” e al Book Pride di Milano, Visioni divergenti e corpi indisciplinati: una selezione che da 817 incipit ha visto emergere 35 prescelti da cui i dieci finalisti. Stavolta il fantastico non è infatti una chiave esclusiva o stringente, come nelle edizioni dei due anni precedenti che nel titolo pure implicavano il tema della visione e delle visioni: quest’anno era peculiarmente in scena il corpo, e soprattutto su quello si sono provati i partecipanti. La visione si fa così visionarietà, febbre del misurarsi con l’oggetto-corpo nella sua materialità e nelle sue implicazioni interiori, sociali, ideologiche: come già detto in tante occasioni, del resto, fantastico non è tanto un contenuto quanto un modo di narrare e di vedere.

Come sintetizzato in sede di bilancio sullo speciale dell’“Indice” dedicato al call, i temi dei testi finalisti riguardano prevalentemente tre bacini ideali. Anzitutto quello di miti e riti della riproduzione in un mondo “altro” surreale o francamente distopico, affrontati elegantemente da Deborah Foss in Perfectum – uno dei due racconti dichiarati vincitori ex aequo dalla giuria tecnica del call – a evocare manipolazioni genetiche ma in fondo sociali, storie di umani costruiti (e non partoriti) per perverse istanze eugenetiche, contrapposizioni di gemelli rivali, modi ribelli di mettere al mondo figli tra libri & scritti contro una tecnologia ignorante, pretese governative d’avere nuovi cittadini, fin dall’infanzia, dai connotati di utili e orridi delatori, ricavandone solo grotteschi fantocci.

Meno estremo ma non meno ricco di implicazioni e suggestioni è l’altro racconto vincitore ex aequo, Equilibristi di Aquiles José Martínez Pérez che al tema della nascita “anomala”, qui dal corpo di un padre, abbina suggestioni di epopee di freak alla Leslie Fiedler, introducendo idealmente al secondo bacino tematico, le mutazioni (vere o presunte) legate all’età, alle opzioni sessuali o a fattori ben più sfuggenti. Ormai lontani dalle grandi biblioteche di metamorfosi di dei ed eroi (Ovidio, tanto per fare un nome), gli eredi del Lucio lucianeo/apuleiano e del Gregor Samsa kafkiano si confrontano con mutazioni talora più discrete, altrove scioccanti. Oana Rodica Alexandrescu, ne Il capello, affronta in forma surreale e ironica il tema dell’incanutire e del riconoscersi; il brillante, vertiginoso Repack di Alessio Penna lavora sul motivo – appunto – del repack di figurine, del rapporto coi padri, e sulla possibilità di un progressivo slittamento identitario a giocare similmente con ricordi e tasselli esistenziali; Nuovo mondo ofidico di Gaetano Pagano muove in un contesto onirico, febbricitante e magico, dove un mondo senescente ormai allo stremo impone di farsi rettili, quasi in un’involuzione all’età dei sauri. Ancora, Di padri e tritoni di Carlo Maria Masselli spalanca una saga di tonnare dove però la mattanza con gli arpioni e il canto della Cialoma non mirano a tonni ma a disturbanti tritoni dal volto umano (da cui la prassi di eliminarne subito la testa); mentre i pescatori si confrontano con una mutazione più “naturale” ma non meno devastante legata all’età.

Un’altra mutazione fisica, spiazzante ma all’inizio ben accolta, emerge poi in Più niente da toccare di Beatrice Sciarrillo, testo premiato dal pubblico, sull’imprevista (totale, resta un buco) scomparsa della pancetta di una bambina – il che introduce al terzo bacino tematico, su rapporti con la forma fisica socialmente accettata e conflitti di genere. Il densissimo Sull’origine del plurimillenario codice Dunbar di Anna De Rosa, riflette così di obesità (ribelle) e di intervento sugli archetipi estetici; il distopico Nel bene e nel male di Rita Siligato descrive la prova estrema organizzata da una società patriarcale per selezionare poche donne cui garantire un futuro controllato con matrimonio e figli, eliminando spietatamente le altre; Un musulmano frocio di Saif ur Rehman Raja, dove il “fantastico” è nella costruzione forzata e violenta di paradigmi normalizzanti, evoca crisi di altro genere legate al rapporto coi corpi, e per contro le metamorfosi di una politica fintamente “aperta” e pronta a sottoscrivere per utile i più retrivi diktat patriarcali.

Se questi sono solo i dieci finalisti, allargando agli altri dei 35 selezionati e all’ampio numero dei partecipanti con incipit si riscontra in termini molto diretti il successo della proposta di provocazioni narrative nel segno del fantastico – e, direi quasi, la necessità di ricorrere a un certo linguaggio per raccontare e raccontarsi meglio.

Un fantastico che del resto trova buona rappresentanza anche nella messe di romanzi di esordienti giunti alla competizione principale del Premio Calvino (per cui si contano grandi numeri di testi, più di ottocento nella XXXVI edizione che va ora a chiudersi con la premiazione del 6 giugno). Tra i tanti esempi che meritano menzione, pare bello ricordare qui un originalissimo romanzo di Claudio Conti premiato al Calvino un paio di edizioni fa e meritoriamente approdato di recente alle stampe, L’uomo che ha venduto il mondo, per Pessime idee (pp. 436, € 20), Roma 2022. Nelle sue pagine, a tratti esilaranti e grottesche, a tratti malinconiche e commoventi o invece impregnate d’angoscia, Conti mostra una capacità narrativa non comune nel gestire i paradossi (tempi, dimensioni) di un romanzo di fantascienza apocalittica: dove c’è però anche molto altro, dalle provocazioni religiose, filosofiche e scientifiche alla storia della modernità, delle sue mode e dei suoi miti – con tanto di apparizioni del David Bowie di The Man Who Sold the World. Divertente e divertito è l’impianto di note – comprese le note di note – sottostante tutto l’insieme, quasi a ricordare anche nei momenti più cupi l’esistenza di un gioco letterario, specchiato idealmente nell’altro gioco che si sospetta esista su un più vasto piano metafisico. Senza però dimenticare che si tratta in fondo di un romanzo – scopriremo da un certo punto in avanti – sulla perdita, che ci stana oltretutto sul tema delle possibilità esistenziali. Se avessimo fatto altre scelte eccetera: un ritornello pensieroso, nella vita di chiunque, che da un lato gioca con le provocazioni del multiverso e dall’altra lascia un sapore malinconico su tutto ciò che andrebbe perduto in altre serie causali, su tutto ciò che comunque perdiamo.

A connotare l’insieme, qualità di scrittura, intelligenza scintillante, fantasia pirotecnica: gli umani non si rendono subito conto delle implicazioni della comparsa di un’incomprensibile riga nel cielo, e sarebbe indebito spoiler dettagliare il meccanismo che regge una trama tanto complessa. Ho scritto gli umani, ma lo sguardo privilegiato è su un campionario piuttosto ristretto, scelto (emergerà) non casualmente e modellato in modo brillante attraverso dialoghi vivaci e siparietti di estrema godibilità – a partire dalla coppia del musicista black metal Gioele e della donna con cui ha scelto di condividere l’ultima avventura, Fede, figlia di un personaggio un po’ particolare che da un certo punto in avanti si rivela il vero protagonista e il maldestro colpevole degli eventi. Gli scorci poi dove irrompe la fantasia surreale (legata a un curioso blocco in fase REM) di Lisa, figlia di Fede e dell’equivoco ex-partner Tony (divo – si fa per dire – di un programma per bimbi sotto la pelliccia dell’orso Fromby), sono pirotecnie giocose alla Alice 2.0, con tanto di adeguato tessuto espressivo attraverso continue trovate linguistiche e persino di punteggiatura. La vicenda condurrà questo malassortito gruppetto di personaggi dal Piemonte alle grotte della lontana Svezia e forse più lontano – visto che, scopriremo, “Il Tempo è un luogo”. E solo il linguaggio fantastico riesce a farci davvero capire perché.

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