Led Zeppelin – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 14 Dec 2025 09:25:41 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Divine Divane Visioni – 85 https://www.carmillaonline.com/2022/07/14/divine-divane-visioni-85/ Thu, 14 Jul 2022 20:00:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72543 di Dziga Cacace

Chi vive sperando, muore cagando. Lorusso, isoletta dell’Egeo che non conta un cazzo, 1941. Sono anche un autore. Buonanotte.

981 – La guerre est déclarée di Valérie Donzelli, Francia 2011 Mi son reso conto che non c’è verso: alla fin fine, per quanto mi sforzi, vedo pochi film che non siano firmati da maschietti. Non mi pongo particolarmente il problema quando devo scegliere ma la realtà che mi si propone è sconsolante: i film firmati da donne sono pochissimi e io, con le mie visioni, non [...]]]> di Dziga Cacace

Chi vive sperando, muore cagando. Lorusso, isoletta dell’Egeo che non conta un cazzo, 1941. Sono anche un autore. Buonanotte.

981 – La guerre est déclarée di Valérie Donzelli, Francia 2011
Mi son reso conto che non c’è verso: alla fin fine, per quanto mi sforzi, vedo pochi film che non siano firmati da maschietti. Non mi pongo particolarmente il problema quando devo scegliere ma la realtà che mi si propone è sconsolante: i film firmati da donne sono pochissimi e io, con le mie visioni, non faccio altro che fotografare le percentuali figlie di un sistema maschilista, dove i registi sono maschi e i produttori sono maschi. Tendenzialmente, eh, perché ci sono sempre ovvie e virtuosissime eccezioni, ma se guardiamo i grandi numeri questo accade. Il pippello è ovviamente dovuto ai sensi di colpa, sensi di colpa che aumentano quando vedo un bel film come questo, firmato da Valérie Donzelli. Non so neanche come ci sono arrivato ma è stata una bella sorpresa. Juliette e Romeo sono giovani e innamorati appassionatamente: un figlio sembra la logica conseguenza. Vediamo l’ansia genitoriale, la difficoltà di imparare giorno per giorno a fare da papà e mamma e i primi dubbi, le ansie, il pensare di non capire qualcosa per concludere che si è troppo apprensivi. Però il bimbo, Adam, cresce male, non parla, vomita all’improvviso, non riesce a stare in piedi. E allora comincia un rosario pietoso di visite, di sguardi imbarazzati, di responsi detti a bassa voce, fino a quello finale, il peggiore che un genitore possa sentirsi dire: vostro figlio ha un tumore al cervello. Un tumore di quelli brutti. La narrazione è pulita, essenziale senza essere brutale, ma invece con momenti di vita straordinari, liberatori, perché il bimbo soffre e i genitori sono annichiliti da questo calvario e una serata con degli amici, un bacio rubato, una fuga dal dovere, diventano momenti di serenità esistenziale impagabile, fino al prossimo esame. Combattono una guerra assieme al loro figliolo, una guerra logorante, senza tregua dove non c’è alcuna certezza né eroismo. Io nulla sapevo del film prima di vederlo e al termine scopro che i protagonisti hanno vissuto sulla loro pelle tutto questo dolore e hanno saputo restituirlo con umanità e asciuttezza, senza compiacimenti familiari e ricatti emotivi. Un film bello e intenso: cercàtelo! (10/10/12)

982 – Quasi amici – Intouchables di Olivier Nakache e Éric Toledano, Francia 2011
Torniamo al cinema, quello vero, dopo tempo immemorabile e l’occasione ce la fornisce un parrocchiale vicino a casa, gestito da fratacchioni francescani molto attivi. Il giovedì poi è giornata ideale: c’è la pulizia delle strade e fino a mezzanotte si trova parcheggio. Vi assicuro: è cosa non da poco in questa fetente città che è Milano. La sala è ampia e confortevole e Barbara mi fa sedere in mezzo a un sacco di gente, nel centro geometrico perfetto della platea. Sa benissimo che sono un eccentrico (perlomeno in termini spaziali), ma si impone. Sono tutti over 60 e non so se sentirmi giovanissimo o vecchissimo anch’io. Pavento catarri grassi, tossi asinine, borborigmi digestivi, dentiere che ballano tra le gengive, sordità gravi, cellulari dimenticati accesi e “eh?” a ripetizione. E invece saranno tutti bravissimi. Quando Quasi amici finisce, al primo titolo le luci vengono subito accese, con l’effetto di un flash al fosforo sulla retina. Tutto non si può avere, del resto. E il film? Beh, è indubbiamente piacevole per quanto con una trama abbastanza telefonata e che rischia pericolosamente di essere edificante. Dunque: Philippe è un ricco vero, sfondato, ma tetraplegico e condannato alla sedia a rotelle. Per scommessa assume come badante Driss, un giovane nero della banlieue dalla lingua scioltissima. Funzionerà a meraviglia. Recitazione inappuntabile di Omar Sy e François Cluzet, diversi momenti piacioni che effettivamente piacciono molto, sceneggiatura con qualche esitazione nel finale un po’ allungato. La scelta del terreno di confronto tra i due attori è notevole e la banalità del plot (tipico scontro che produce crescita reciproca tra due situazioni diametralmente opposte – ricco/povero, bianco/nero, vecchio/giovane, colto/ignorante, paralitico/ballerino, chiacchierone/laconico etc.) è attualizzata e resa vivace da una marea di idee: ogni episodio va a segno e si sorride anche per le situazioni e le facce, senza dare troppa enfasi alle battute. E poi devo dire che la regia non è pigra anche in termini fotografici, cosa rara in queste pellicole medie, per il grande pubblico. Film accattivante, gestito con delicatezza e altrettanta capacità di ridere grasso senza mai scadere nella volgarità, politicamente scorretto in maniera naturale, accettabile, senza che si voglia fare la faccia cattiva apposta. Poi, certo, è un film consolatorio, ma ogni tanto un po’ di consolazione, in questa vita, che c’è di male? Perché no? E detto tra noi, con l’emancipazione dello spettatore, quale film ormai non è consolatorio, che sia prevedibile o prevedibilmente imprevedibile, eh? (Questa non ve l’aspettavate, ma pensateci). (Cinema Rosetum, Milano; 11/10/12)

986 – Les amants réguliers di Philippe Garrel, Francia 2005
Sono 4 anni che mi aspetta lì, sulla mensola, messo tra le visioni urgenti. E poi ce n’è sempre una e si rimanda, sinché una sera – questa – frego Barbara e la inchiodo. Prima le propongo un Mizoguchi (giappo immoto in b/n), poi un Kalatozov del ’65 in russo e sottotitoli in inglese e infine Les amants réguliers. Che almeno è dell’ultimo decennio. La cosa le pare liberatoria, ma non le dico della durata: 3 ore secche. E non sapevo neanche io che saremmo stati chiamati a una tenzone di altri tempi: di Garrel ho giusto visto 14 anni fa J’entends plus la guitare, di cui ho ricordi vaghissimi e non precisamente entusiastici. Qui abbiamo dei giovanissimi reduci dal maggio ’68 appena trascorso, ancora tramortiti dall’esperienza. Artisti, studenti, fancazzisti che si ritrovano in una casa dove nascono amori, fughe, tradimenti. La prima ora del film è veramente una sfida ai nostri sensi anestetizzati da editing spedito, sintesi narrative estreme e ricchezza scenografica. Qui si parte lentissimi, con scene che durano eternità, senza che la semplice idea del montaggio abbia mai sfiorato la regia. È come se funzionasse da gradimento all’entrata: il regista seleziona il suo pubblico. Non siamo noi a sceglierci il film, e il film che procede alla decimazione e poi accoglie i sopravvissuti. Stringiamo i denti, non con qualche moto d’irritazione: se la sintesi è intelligenza, ti vien da pensare che Garrel sia stupido del tutto. Barbara è scocciatissima e non riesce a entrare nella vicenda, sbuffa e mi maledice: “Ma se io non l’ho mai sentito, ‘sto Garrel, ci sarà ben un motivo, no?”. Poi, però vieni trascinato dalla narrazione indolente e anche da un certo affetto per il protagonista François, poeta renitente alla leva e ribelle placido e innamorato. Perlomeno accade a me, conquistato nonostante un finale improvviso come una coltellata nella schiena. Non so bene come spiegarlo, ma questi ritmi, queste immagini antiche, questa inattuale messa in scena, riportano alla mia mente tanto cinema visto nei cineclub una decina di anni fa, La maman et la putain, Godard, Bertolucci ovviamente (e c’è un omaggio spudorato, con strizzata d’occhi in camera). È autoerotismo, lo so, ma chi dice che non abbia le sue qualità, eh? Il film è il racconto di una sconfitta in fondo produttiva (di esperienze, di conoscenza) dei giovani sessantottini di Parigi, ma senza la lagna del “quanto avevamo ragione”. Il regista ci fa vedere come fossero belli e puri i protagonisti di quell’epoca con semplicità, senza retorica, senza nostalgie reazionarie. C’è il rifiuto delle armi, la lotta con la (propria) paura, il volto duro della Legge e dei militari, la poesia come fuga e l’oppio che funziona sia come anestetico che da propellente della creazione e in ultima lettura anche come portatore di morte (intellettuale). Tanti temi, affrontati con un linguaggio autoriale sincero, quasi ingenuo, totalmente fuori tempo ma anche accordato a quell’estetica sessantottina: formato in 4/3, bianco e nero contrastatissimo, belle facce, pochi dialoghi emblematici che paiono ogni volta tranches di discorsi colti per caso, sussurrati, perché non c’è bisogno di declamarli. Musiche pianistiche suadenti (un incrocio innaturale tra Satie e i Beatles (!)) e l’improvvisa dissonanza di Nico (che era stata compagna del regista) con un brano straniante del 1981. L’attore principale è il figlio del regista, quel Louis Garrel già protagonista proprio di The Dreamers che fa andare in deliquio orgasmico qualunque femmina conosca; lei è l’intensa Clotilde Hesme. Bel film, carico di significati e memorie. Ah, questo film che parla d’amicizia e condivisione e chiacchiere e sorrisi e tradimenti, mi porta a segnarmi – come futuro ammonimento, se diventerò un vecchio bilioso e misantropo – che veramente avevano ragione Vinicius, Endrigo e pure Ungaretti: La vita, amico, è l’arte dell’incontro! (Dvd; 30/10/12)

990 – La bocca del lupo di Pietro Marcello, Italia 2010
Questo è un film splendido, un colpo al cuore immediato e un’endorfina a lento rilascio per il cervello. In breve è la storia d’amore tra Enzo e Mary, sottoproletari dell’angiporto genovese che s’incontrano e uniscono le rispettive difficoltà di vivere in una storia intensissima, lontana da ogni cliché romantico. Protagonisti loro – superstiti di un mondo del Centro Storico che sta scomparendo – e la città stessa. Le loro testimonianze – alcune riprese come confessioni esplicite, altre casuali, altre ancora recitate – si mescolano a immagini straordinarie di Genova durante il Novecento, tratte da film documentari e filmini amatoriali, testimoniando l’evoluzione spaziale e sociale di questa città incredibile. Ovviamente questo ha aumentato il mio delirio emozionale e sdraiato sul divano, era tutto un continuo rimbalzare gridandomi – da solo – “La mia facoltà di Architettura!”, “Santa Maria di Castello!”, “Sestri Ponente!” e così via. Inoltre in testa, a metà e in coda al film, tre parti liriche, con nuovi vecchi abitanti precari che vivono nelle grotte sotto il monumento di Quarto dei Mille (se non ho capito male). Il film – breve il giusto – lascia la voglia di saperne ancora: i due protagonisti, vessati da una vita veramente difficile, hanno finalmente trovato requie in una casetta sui monti sopra Genova, da cui si vede, lontano, il teatro delle loro esistenze tribolate. La storia non è immediata: Mary racconta Enzo ed Enzo rievoca solo a tratti, con un italiano incerto e coinvolgente, il suo passato carcerario (27 anni al gabbio, in tre periodi diversi) e le sue gesta criminali. La figura di Mary è più sfumata, fino al finale: un piano sequenza senza interruzioni in cui ancora una volta è Mary a svelare la sua identità di persona trans, la sua fuga da una famiglia borghese ostile, la solidarietà trovata nei carruggi. E poi l’incontro in carcere: Enzo rinchiuso per avere sparato a due poliziotti, lei eroinomane. Un amore fulminante, immediato e senza mediazioni: non si lasceranno più, si difenderanno dal mondo, continueranno a comunicare – dopo averlo fatto a gesti, nel silenzio delle celle separate da due spioncini – con audiocassette, lettere, disegni e brevissimi incontri in licenza. Una storia struggente e magnifica, messa in scena con rigore antico, senza MAI dire il nome De André, grazie a dio (e Fabrizio sarebbe stato contento!), senza inseguire pruriti morbosi del pubblico snobbetto che gode di film così, ma guai a metter piede nel Centro Storico (lo scrivo maiuscolo perché ce ne sono tanti, ma grande e ricco così, solo uno, quello di Genova). Bravi Pietro Marcello e Sara Fgaier (montatrice e tantissimo altro). Come tutti i film editi da Feltrinelli, il dvd si accompagna a un buon libro, curato da Daniela Basso ricco di testimonianze e di documenti accessori. Dario Zonta, uno dei produttori, racconta l’iter che ha portato a vincere diversi premi in tanti festival: un testo esemplare della fatica e della forza richiesta per fare qualcosa in questo paese, che si conclude con un paragrafetto che scolpirei nel marmo: in Italia basta realizzare un’opera – magari coi piedi – per attribuirsi subito una patente da artista: sono tutti pittori, scrittori, autori etc. E anche chi produce un film, magari un corto sgarrupato, diventa subito produttore. Ecco, lui e gli altri che hanno aiutato questo film a venire alla luce, sono i veri produttori che ci mancano. Bravi, veramente. (Dvd; 9/11/12)

991 – 3 giorni per la verità di Sean Penn, USA 1995
Sono a Genova, dai miei, e la città è ferma, immobile, bellissima. A sera, papà tira fuori un vecchio ritaglio di giornale dove un critico definisce il secondo film di Sean Penn “da non perdere” e siccome lui si fida del Sole24Ore e non del Cacace lo vediamo. E non vale niente. Cioè, poco: ho perso due ore della mia vita davanti a una pellicola con una fotografia smorta, attori mal diretti, musica di Jack Nitzsche purtroppo senz’anima (e pure una canzone di Springsteen anonima, francamente) e trama esagerata, poco credibile anche quando qualcosa di emozionale potrebbe emergere. Perché la storia è questa: lui, Freddy, è Jack Nicholson (bisognerebbe dirgli: se il film non è Batman, non devi comunque fare il Joker, eh) e non ha mai superato il trauma della morte della figlioletta di sette anni, investita da un guidatore ubriaco, John, che sta uscendo dal carcere, roso dal rimorso e con la faccia incolore di tale David Morse (massì, se lo vedete capite chi è: caratterista di tanti film con registro interpretativo limitato a tre smorfie: assente, basito, addoloratissimissimo). La madre della vittima, Anjelica Huston, se n’è fatta una ragione e vive tranquilla ma Freddy non ci sta, è ossessionato dal desiderio di vendetta e si brucia tra alcol, sigarette e spogliarelliste e quando John esce dal carcere dopo 5 anni va ad ammazzarlo. Ma non ha messo il proiettile in canna (!) e allora si trova un accordo: tra tre giorni ti faccio secco. Cosa che John quasi vorrebbe, essendo uno zombi che non riesce ad amare la bella Jojo (interpretata da Robin Wright). Dopo un’ora e trenta di scassamento di palle dovuti ad andirivieni narrativi neghittosi e compiaciuti dialoghi sentenziosi, Freddy fugge ai poliziotti che l’han fermato ubriaco (e vai di elicotteri… per un ubriaco, boh) e riesce a raggiungere John che lo aspetta in plastica posa con fucile con cannocchiale. I due si confrontano ed è quasi una gara a chi si fa ammazzare dall’altro per mettere fine al tormento, dello spettatore, però. Dopo un pochissimo credibile inseguimento asmatico (e ci credo: fumano tutti come turchi, con Penn – tabagista convinto – dietro la cinepresa) conclusione sulla lapide della piccina, con Freddy che la vede per la prima volta e nota che si tratti di una pietra color rosa. Poi i due si danno la manina e fine, the end. Bestemmie a non finire, ma solo mentali per riguardo dei vecchi genitori che subiscono la pellicola ammettendo che il Sole24Ore è nemico della classe lavoratrice e degli spettatori. Altre cose notate in questa schifezzina con pretese: Nicholson ha le lunghie laccate, giuro. Robbie Robertson (particina) dovrebbe solo suonare la chitarra. E poi (e parliamo di un direttore della fotografia altrimenti validissimo, Vilmos Szigmond), rallenti agghiaccianti, zoom da interdizione e luci al neon che facevano schifo durante gli Ottanta, figuriamoci se utilizzate a metà Novanta e viste oggi. Inoltre traduzione in italiano tremenda, ma la colpa è mia che preferisco vedere i film in originale e soffro di gran spaesamento quando sento i migliori doppiatori del mondo non andare a tempo col labiale dei doppiati e condire tutto con inflessioni dialettali. Concludendo questa tirata sicuramente scomposta: film dall’idea buona ma dalla drammaturgia bislacca e dalla messa in scena sovraccarica. Per cui: Penn, sei tanto bravo quando reciti però i film falli fare ad altri, eh. (La promessa, da Dürrenmatt, non mi era dispiaciuto ma chissà cosa mi passava per la testa. O forse Sean aveva imparato, nel frattempo. Boh, non importa). (Diretta su Sky Cinema Cult; 16/11/12)

994 – Diaz – Don’t Clean Up This Blood di Daniele Vicari, Italia 2012
Torno a casa distrutto da una giornata di lavoro spossante e – dopo cena – quando le pupattole accettano di andare a dormire, dopo denti, bidet, scelta dei vestiti, letture varie, implorazioni di ancora un minutino etc. etc. decidiamo di vederci un film. Ne scegliamo uno che ci tenga sulla corda, perché incombe il sonno, e non sbagliamo. Mi fa male ripercorrere la o le storie del G8, perché non c’ero, avrei voluto esserci, ma ho anche ringraziato il caso che mi ha impedito di partecipare. Diaz non ti molla un attimo: è un film importante e necessario (e lo so che sono termini abusatissimi e pericolosi, ma ho deciso che valesse la pena usarli), forse non esaltante in termini drammaturgici, però ben teso, diretto, senza sbrodolate, con pochissime sbavature (qualche dialogo didascalico). È un film che rinuncia al grido di dolore esagitato e militante (ed è un bene inestimabile) così come alla precisione assoluta di nomi, ore, luoghi, evitando un documentarismo che avrebbe reso sterile e non emotiva la narrazione. Certo: violento, sì, ma se avete visto i documentari con le immagini vere, vi assicuro che questa – al confronto – è una passeggiata di salute. Il racconto è corale, scomposto in termini temporali in modo intelligente, mettendo in scena le diverse anime dei manifestanti del G8 e senza dimenticare anche lo sconcerto di alcuni (pochi pochi) rappresentanti delle forze dell’ordine di fronte al cinismo, al sadismo e alla vendetta esercitata così brutalmente. E le scelte non sono per essenza democristiana quanto per trovare un equilibrio narrativo e per raccontare lo spaesamento di tutti. Cast a regime, ricco e ben diretto. Sulla pagina di Wikipedia leggo attonito i commenti di tanta stampa e, sarà perché io sono il Cacace, mi sembrano tutti sfocati, con addirittura un critico del Giornale (…) che lamenta la mancanza di scene con violenze dei dimostranti. E certo, perché così la lezione cilena alle zecche comuniste era più comprensibile, no? Io veramente non so perché devo pagare con le mie tasse lo stipendio a certa gente. (Dvd; 27/11/12)

995 – Millennium – Uomini che odiano le donne di David Fincher, USA 2011
Torno a Genova per il battesimo del terzo nipotino. E la sera, dopo parca cena, film su Sky, come vuole papà, che sceglie questo thriller tratto dal celeberrimo libro che ho letto 3 anni fa con mucho gusto. Millennium parte con Immigrant Song dei Led Zeppelin in versione industrial su titoli di testa stilosissimi e assolutamente inutili, messi giusto per fare sciato, come diciamo qui da noi. Però nella testa di regista e produttori il ragionamento è: se faccio sentire il pezzo vichingo dei Led Zepp ho già fatto capire di cosa parliamo, di gente che vive in quelle zone là, di là dall’oceano, in Scandinavia, Ikea, Volvo, tetrapak, robe così. E anche per quel che riguarda personaggi e contesto, non si perde un secondo, tanto il librone l’han letto tutti e magari qualcuno s’è già visto le riduzioni svedesi. Per cui si parte come se sapessimo ogni cosa (e mi evito anch’io qualunque riassunto): chi è Mikael Blomqvist e di cosa si occupi al giornale Millennium. E Lisbeth Salander, idem. Scene brevi, veloci, secche: un sunto concentrato, un bigino, un dado Liebig della vicenda, con una narrazione spezzettata e velocizzata che mi ha presto rotto le palle. Siccome si crede che l’abilità del montaggio sia fare tutto in fretta e furia, a stacchi frenetici, senza piacere del racconto, hanno pure pensato di dare l’Oscar al film. E vabbeh, cara Academy: ma allora la prossima volta premiamo un trailer, dài! E poi, la cosa più incredibile. Seguitemi! Siamo in Svezia, con personaggi svedesi che parlano – si suppone – svedese. E invece Blomqvist prende appunti… in inglese. E i suoi Post It sulla lavagna sono… in inglese. E Lisbeth Salander, tatua “I am a rapist pig”, sul suo tutore violentatore svedese, che così non potrà più avere vittime anglofone, ma svedesi forse. E poi: libri svedesi stampati in inglese, polizia svedese che redige rapporti in inglese, giornali svedesi con titoli e articoli in inglese… Ma non è straordinario, tutto ciò? Neanche durante l’autarchia fascista! Si vede che Fincher deve aver pensato: in che lingua cantavano gli ABBA? Inglese! Per cui la vera scoperta di questo film, il suo valore occulto e il messaggio rivelatore che ci passa questo regista che se la tira da novello Hitchcock è: VOI NON LO SAPETE MA GLI SVEDESI PENSANO, PARLANO E SCRIVONO IN INGLESE. Aaaah, ecco. Stupido io! Vabbeh: David Fincher è considerato un maestro della cinematografia attuale ma ogni volta che vedo un suo film mi pare che manchi sempre quello che per me conta veramente: le emozioni, il senso di ciò che si dice, la moralità dello sguardo. E sì che nel primo libro della trilogia di Millennium ci sono il nazismo civile, il fanatismo religioso, la grande imprenditoria maledetta e tarata, la giustizia sociale assolutamente ingiusta, il diritto all’informazione contro i poteri forti, i rapporti tra uomini e donne e l’insopportabile prevaricazione maschile. Bene: qui è tutto buttato in un calderone in nome della funzionalità del thrilling. Ed è per questo che Fincher, nel grande schema delle cose della MIA vita, non conta né mai conterà un cazzo. Perderò qualche grande film? Di sicuro, perché questo sa anche (non qui) mettere in scena da Dio, chi dice di no. Ma chi se ne frega: ho tante colpe, una più una meno finirò lo stesso all’inferno. Come voi, del resto. (Diretta su Sky Cinema 1 HD; 1/12/12)

997 – Funeral Party di Frank Oz, Gran Bretagna 2007
Zia Luisa è un po’ che me lo dice: guardalo! E io, da bravo nipotino, obbedisco. Funeral Party è una commedia nera, abbastanza teatrale, che bordeggia il grottesco e la farsa facendoti sghignazzare assai. Come da titolo siamo a una veglia funebre e l’occasione impone misura, discrezione, rispetto, in un ambito british già di per sé molto controllato. E ovviamente accade la catastrofe. Le scene divertenti lo sono molto, ma molto proprio, facendo ricorso a comicità bassa, grassa e scatologica. A volte le gag sono un po’ fuori dal tempo (si scopre che il defunto era gay e si accompagnava a un nano) e soprattutto è quasi sgraziato nella sua banalità il motivo perturbatore principale: una boccetta di Valium che contiene invece delle pasticche di droga allucinogena. Chiaramente fanno ricorso al medicinale diversi partecipanti alla cerimonia e da lì il delirio: la realtà trasfigura e diventa tutto verde, come accadeva a Duccio in Boris (forse era una citazione, chissà). Con attori bravissimi, il film è gradevole, lungo il giusto e non posso certo criticarlo se poi rido come un posseduto perché un personaggio mette le mani nelle feci di un paralitico. (Dvd; 10/12/12)

1001 – Breaking BadThe Complete First Season di Vince Gilligan, USA 2008
Alla fine abbiamo ceduto: tutti ci dicono che si tratta di una serie eccezionale e son costretto a smentire. Non è eccezionale, è MONUMENTALE. Il livello di scrittura è francamente pazzesco rispetto ad altri prodotti seriali televisivi e dal punto di vista della messa in scena non vedo niente di meno rispetto a una produzione per il grande schermo. Ma quello che poi ti stupisce di più, ti affascina, ti cattura e ti convince, è trattare – e con naturalezza – assieme argomenti come l’etica, il decorso di un tumore, la produzione e il consumo delle droghe, i rapporti familiari, l’handicap, le aspirazioni frustrate, il sistema sanitario americano… La serialità consente affreschi molto ampi ma qui si rimane ammirati dalla capacità di condensazione di così tanti temi, come il team di scrittura riesca a svilupparli con credibilità, come sappia trattare l’ambiguità umana con questa misura eccezionale. Giusto per capirci: Walter White è un insegnante di liceo che avrebbe potuto diventare milionario con le sue competenze da chimico. Ha una moglie incinta e un figlio handicappato. Una casa (con piscina) ancora da pagare e i conti al limite. E un tumore ai polmoni. L’aspettativa di vita è bassa e allora Walt decide di sfruttare il suo talento per produrre metamfetamina e mettere da parte qualche soldo da lasciare alla famiglia. Metamfetamina purissima, di qualità eccelsa. Ma ovviamente a ogni scelta, a ogni azione, chimicamente segue una reazione, le cui conseguenze però, a differenza che in un processo di laboratorio, non sono mai prevedibili. Da timido studioso si può diventare spietati e avidi, pur di difendere la tribù o gli affari che permettono di tirare avanti. E così proviamo di nuovo l’angoscia persistente dell’ultima serie di The Shield, quella maledetta spada di Damocle sopra la testa, il continuo sentimento di non farcela, che da un momento all’altro sarai fottuto, e ogni tentativo per uscire dai tuoi casini implicherà ripercussioni che peggioreranno le condizioni di partenza, già disperate. Ogni episodio ha un arco drammatico spettacolare, sono belli i dialoghi perché son scelte bene le parole, è curiosa la localizzazione, in uno stato – il New Mexico – che è frontiera, deserto, prossimità al mondo latino, nuove possibilità e vicolo cieco. Ed è notevolissimo il discorso sulle droghe, senza infingimenti o balle: con un realismo disturbante ci viene raccontato tutto su produzione, consumo, cultura, società (permeata dal vizio a tutti i livelli), repressione (la lotta patetica della DEA) e giustizia, con i pesci piccoli vittime e quelli grossi che continuano, perché la droga è un affare anche per chi la combatte e senza non ci sarebbe un nemico per cui chiedere armi e denaro. Bravissimi e credibili, sempre, gli attori (su tutti il protagonista Bryan Cranston), belle le musiche, perfetto il montaggio e le continue sorprese registiche. E poi c’è il cattivo Tuco (rimando a chi ha memorie leonine), beh: uno splendore unico, specie quando sniffa i cristalli. Serie di livello superiore. (Dvd; dicembre 2012)

1002 – Michel Petrucciani – Body and Soul di Michael Radford, Francia 2010
Come fai a raccontare veramente la vita di uno come Michel Petrucciani? Questo bel documentario è una visione succinta e sicuramente parziale della sua vicenda umana e artistica ma se una storia come la sua potrebbe essere raccontata per ore, il regista (quello de Il postino, ma non solo) decide di concentrarsi sul versante emozionale: c’è la musica ma soprattutto c’è la vita e il documentario (abbastanza basic nella rievocazione biografica ma ricchissimo di contributi e testimonianze) è un inno al potere dell’arte che riesce a lenire le ferite di un’esistenza difficile. La storia di questo pianista – un piccolo grande uomo dalle ossa fragili e dalle mani abilissime – ha dell’incredibile: affetto da osteogenesi imperfetta e nanismo, aveva una fame incontenibile di tutto: amore, droghe, musica. Petrucciani voleva vivere la vita fino in fondo, reale o di fantasia che fosse: era un incontenibile contapalle (in una delle testimonianze si specifica: “Bisognava dividere per dieci quello che diceva”), respingeva ogni pietismo, si sentiva e voleva vivere come tutti gli altri. Del resto: “Abbiamo tutti dei problemi, chi non ne ha?”. Sorridente, ironico, cialtrone, esagerato, presuntuoso, bugiardo, egoista e traditore: la sua storia è un continuo accompagnarsi e lasciarsi, segnata dal rapporto col padre (l’assenza dopo il primo successo, come la debordante presenza prima, quando lo ha tirato su con spietatezza e gelosia) e dal desiderio di lasciare qualcosa di sé, come i figli voluti ostinatamente. Radford non esita a raccontarci (o meglio, a farci intravedere) attraverso le sue cinque compagne e i tantissimi amici, il lato oscuro del piccolo pianista: alcune meschinità, l’arroganza e l’incapacità di impegnarsi seriamente. Ma il genio andava di pari passo a questa ansia di vivere tutto fino in fondo, di non lasciare nulla per strada. Poca analisi musicale (tecnica non ortodossa, grande velocità e capacità melodica, criticato spesso proprio per la sua accessibilità o il suo virtuosismo da critici coglioni e totalitari) e un consueto errore di pigrizia registica: nessuna didascalia per dirci chi parla. Però bel film, e che musica, mamma mia. (Dvd; 1/1/13)

(Continua – 85)

Altre Divine Divane Visioni su Twitter e Facebook

Oppure binge reading qui, su Carmilla.

]]>
Wagner, la rivoluzione e l’irresistibile sound delle chitarre elettriche https://www.carmillaonline.com/2021/08/09/rocknroll-gods-wagner-e-lirresistibile-sound-delle-chitarre-elettriche/ Mon, 09 Aug 2021 20:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67339 di Sandro Moiso

When I hear music I fear no danger. I am invulnerable, I see no foe. I’m related to the earliest time, and to the latest. (Henry David Thoreau, cit. in Hear Me Talkin’ to Ya – Nat Hentoff)

E’ il dio Pan che si manifesta nella Rivoluzione. Il dio Pan è la Rivoluzione (da un banchetto socialista del 1848)

Per troppo tempo non si è compreso come i movimenti antagonisti giovanili degli anni Sessanta e Settanta siano forse scaturiti più dalla scintilla scatenata dalle chitarre elettriche che non dal [...]]]> di Sandro Moiso

When I hear music I fear no danger.
I am invulnerable, I see no foe.
I’m related to the earliest time, and to the latest.

(Henry David Thoreau, cit. in Hear Me Talkin’ to Ya – Nat Hentoff)

E’ il dio Pan che si manifesta nella Rivoluzione.
Il dio Pan è la Rivoluzione

(da un banchetto socialista del 1848)

Per troppo tempo non si è compreso come i movimenti antagonisti giovanili degli anni Sessanta e Settanta siano forse scaturiti più dalla scintilla scatenata dalle chitarre elettriche che non dal libretto rosso di Mao o dai sacri testi di Marx, Engels e Lenin. Anche se quest’ultimo, predicendo che il comunismo sarebbe derivato dall’applicazione dell’uso della corrente elettrica al socialismo, un po’ ci aveva azzeccato.

Ad anticipare l’importanza del sound (che non è soltanto dato dagli strumenti suonati seguendo uno spartito oppure dal suono “naturale” degli stessi o, ancora, dalla voce che canta intonata seguendo una melodia definita) come mezzo o media per far breccia nella corazza, anche inconsapevole, dell’Io, fu, nel XIX secolo, soltanto Richard Wagner (1813-1883), sia attraverso la costruzione delle sue opere musicali che in un suo scritto della metà dell’Ottocento, L’opera d’arte dell’avvenire. Il musicista tedesco è stato infatti il primo a cogliere l’importanza comunicativa del respiro, del sospiro e del fiato, della furia e del brusio delle voci e dell’uso e del ronzio di suoni e strumenti non convenzionali (ad esempio gli incudini destinati a sostituire i timpani in alcune parti orchestrali dell’Anello dei Nibelunghi) oppure difficilmente ammessi dai canoni estetici e musicali che avevano governato la musica e il dramma lirico fino ad allora1, in un contesto musicale considerato “colto”.

Nella concezione wagneriana il sound costituiva un’integrazione della parola cantata, superandola nell’intento di “significare” e coinvolgere gli spettatori/ascoltatori:

Come quando Sigfrido ascolta Brünnhilde o come quando Kundy parla «roca» e «a tratti, come nel tentativo di ritrovare la parola»2, il discorso si riduce alle modalità fisiologiche della voce: rumori appena udibili, svincolati dalla bocca che li emette e dalla volontà di colei che li pronuncia, aumentano fino a «risuonare possenti» o assoluti e viaggiare poi per lo spazio e il tempo sotto forma di sound che «riecheggia lontano».
E’, questo, un effetto acustico che né il Medioevo dei protagonisti dell’opera né il XIX secolo di Wagner avrebbe potuto realizzare, ma che le nostre orecchie conoscono a memoria: notte dopo notte gli impianti di amplificazione della musica rock (amplificatori e delay, equalizzatori e mixer) producono questi suoni stereofonici, tracce di voce e rimbombi. In altre parole, quelle di Jimi Hendrix: la Elsa di Wagner è la prima abitante di Electric Ladyland e ciò che lei descrive con incredibile precisione tramite i termini «risuonare», «aumentare» e «rimbombare» ha poco a che fare con le preghiere e il credo cristiano, ma anticipa semplicemente la teoria del feedback positivo e degli oscillatori.
Non potendo, con i requisiti tecnici dell’epoca, realizzare questo feedback sonoro, Wagner lo compose3.

L’effetto suscitato dal sound wagneriano è quello del superamento della parola (che ricordiamolo sempre era, nei libretti d’opera, “parola scritta” così come “scritta” era anche sempre la partitura), ma anche della norma stabilita dal canto gregoriano che aveva disciplinato l’espressione musicale vocale per i secoli passati. E’ un ritorno alla Natura e ai suoi suoni che i nastri magnetici nel XX secolo permetteranno di inserire direttamente insieme agli strumenti e alle voci nella musica registrata ed incisa. Valga per tutti l’esempio di un brano dei Pink Floyd, Grantchester Meadows, compreso nel doppio album Ummagumma.

Sempre secondo Kittler: «poiché in Wagner testo e partitura si motivano sempre a vicenda, l’oscillare del libretto tra rumore naturale e strumento dell’orchestra, tra random noise (rumore casuale) e segnale di caccia» gli permette di dare vita ad effetti proibiti «fin tanto che la musica è stata dominata dalle partiture e le partiture dalla scrittura. Ma il nuovo medium di Wagner, il sound, fa saltare in aria seicento anni di dominio della lettera, ovvero di letteratura»4. E di dominio del cristianesimo in ambito artistico e morale, andrebbe aggiunto, poiché

ciò che è qui in gioco è la libertà della musica: per la prima volta nella storia della composizione occidentale, il Ring congeda il dio cristiano la cui celebrazione, a partire dal canto gregoriano, ha limitato tutti gli eventi sonori. Il poeta Wagner cessa di […] compiere solenni pellegrinaggi a Roma per invocare invece nuovamente gli antichi dei e dee, mentre il musicista compone il Padre Reno come inizio pre-razionale in cui armonia dei sovratoni e brusio, arte e natura sono indissolubilmente legati5.

Se salta però il dominio della lettera/partitura e della concezione cristiana dell’armonia del mondo diventa evidente che a saltare ben presto sarà, più in generale, l’ordine del mondo, non soltanto artistico e religioso. E non è certo un caso che due delle opere teoriche più importanti di Richard Wagner, Arte e rivoluzione e L’opera d’arte dell’avvenire, siano state scritte nel 1849, quando l’eco della primavera dei popoli che tra il 1848 e il 1849 aveva scosso l’ultima Europa aristocratica e imperiale non si era ancora spento dopo l’apparizione sulla scena del teatro del mondo di un nuovo, titanico protagonista: il proletariato, di fabbrica e non.

Portatore, oltre tutto, di un nuovo immaginario legato alla fabbrica, alle sue lotte, al suo “rumore” che soltanto poco più di sessant’anni dopo il futurista italiano Luigi Russolo avrebbe contribuito a far penetrare nell’estetica musicale e artistica moderna. “Rumore innaturale” (macchine, tram, caos metropolitano e della guerra) che avrebbe affiancato nel nuovo paesaggio urbano e artistico il “rumore naturale” inseguito da Wagner. Rumore di una tragedia annunciata (guerre, inquinamento, sfruttamento delle macchine e del capitale sull’uomo, la specie e la natura) che l’arte degli inizi del XX secolo non avrebbe più potuto ignorare, costretta com’era a copiarne ormai anche gli aspetti più devastanti.

Con buona pace dei “delicati”, su cui avrebbe poi ironizzato Louis Ferdinand Céline, il nuovo paesaggio dello scempio entrava a far parte del mondo letterario, figurativo e sonoro. Paesaggio cui l’avvento dell’elettricità avrebbe dato un contributo devastante e determinante dal punto di vista del suono (registrato o prodotto che fosse). Ecco dove, forse, l’utopia leniniana del socialismo più l’elettricità si sarebbe maggiormente avvicinata all’avverarsi, escludendone la sempre indeterminata e confusa nozione di “comunismo”.

I Greci avevano un dio che abitava nel regno dell’acustica. Quando i pastori sognavano e si rompeva la calma del meriggio, Pan rimbombava improvvisamente nelle orecchie di tutti. [Ora] si dice che il grande Pan sia defunto, ma gli dei delle orecchie non possono morire: ritornano sotto la maschera dei moderni impianti di amplificazione. Ricompaiono in forma di canzone rock6.

Lacan ha affermato che: «Le orecchie sono, nel campo dell’inconscio, il solo orifizio che non possa chiudersi»7, da qui deriverebbe il fatto che gli argini stabiliti dall’ordine, qualunque esso sia, si rompono prima di tutto nella testa ad opera di un suono, di una parola, di un rumore o di un urlo. Come afferma ancora Kittler: «Nessuna parola, nessun muro e nessun argine tra dentro e fuori possono resistere al sound, perché questo costituisce ciò che in musica non si può mettere per iscritto»8.

Il sound è la manifestazione immediata di ciò che si può ottenere dalla tecnologia che la musica ha a disposizione per esprimersi, a seconda delle epoche.

The Dark Side of the Moon, ha venduto otto milioni di dischi dal 1973, anno di uscita, al 1979 e, secondo le ultime stime (2011), ha ormai sfiorato le 45 milioni di copie […] E pensare che tutto era iniziato in modo così semplice. Roger Waters, Nick Mason e Richard Wright, tre studenti di architettura nell’Inghilterra degli anni Sessanta, si esibivano con le loro chitarre nei teatri di periferia suonando vecchi classici di Chuck Berry. Si chiamavano The Architectural Abdabs, un gruppo che oggi nessuno ricorda più. Un bel giorno di primavera del 1965, si unì a loro un chitarrista e cantante che inventò il marchio Pink Floyd, cioè il nome della band e il sound che la caratterizza: amplificatori sovramodulati, mixer come quinto strumento, suoni vorticanti nello spazio e tecnologia delle basse frequenze combinata con l’optoelettronica fino ai limiti del possibile. Con buchi neri al posto degli occhi, Syd Barrett apre al rock’n’roll il dominio dell’astronomia, Astronomy Domine […] Poi, l’uomo che ha inventato i Pink Floyd sparisce da tutti i palchi e sprofonda in una terra di nessuno medica tra psicosi da LSD e schizofrenia, mentre il suo gruppo trova un altro chitarrista e insieme a lui la formula del successo9.

Anche se è vero che i dati di vendita e i flussi di denaro della macchina discografica capitalistica vengono nutriti dal flusso decodificato dell’alienazione sociale, è pur sempre vero che essa si affida ad una legge non scritta che territorializza la normalità e prescrive ai folli di rimanere su terreni ben definiti e soprattutto extra moenia: è la legge dei grandi architetti della giurisdizione sociale, della salute mentale, delle istituzioni politiche e delle regole del lavoro salariato.
Tutto dovrebbe fondersi in una sorta di circolo virtuoso in cui l’ascolto musicale costituisce soltanto un aspetto importante di un ben congegnato panem et circenses, attraverso cui controllare i flussi dell’immaginario di massa.
Ma, come afferma ancora Kittler (1943-2011) nel suo testo:

I cosiddetti Sessantottini che oggi svolazzano per i media soltanto perché hanno influenzato la mia generazione sono infatti delle chimere ipocrite: non era necessario intonare ruggiti da Vietcong o ricorrere alle armi per battere il ritmo del nostro tempo: c’era […] la musica pop. Ma quest’ultima, una volta tanto, non giunse dai maledetti Usa. Non sarebbe stato possibile altrimenti, nel 1964, quella che gli americani ammirarono e allo stesso tempo temettero: la British Invasion. Di fronte ai Beatles Elvis Presley abdicò alla sua corona. Potenti come lo era stato un tempo il dio Dioniso, giovani voci e chitarre sfondarono il muro del rigido sistema di regole della Federal Communication Commission. A differenza del piccolo sassone Wagner, queste star potevano ergersi in tuttala loro bellezza su un palco illuminato da lampi. Cantavano di amore e di guerra, dai prati intorno a Cambridge, ma soprattutto di musica, perché sapevano bene quel che facevano: per un breve ma storico momento i musicisti pop inglesi spazzarono via tutte le barriere e tutti i muri che l’industria musicale capitalistica (per non dire statunitense) aveva eretto anche solo per vietare l’amore. Non esistevano più l’autore dei testi e il compositore, l’arrangiatore e l’orchestra, la partitura e l’evento sul palcoscenico come sfere separate l’una dall’altra: c’erano solo quattro musicisti che suonavano, cantavano e regolavano da soli i propri microfoni, gli echi e le tracce sul nastro, fino a ripetere l’opera d’arte totale. Così divennero eroi […] persino dei. Il prezzo da pagare per la nuova Grecia l’ha chiamato inequivocabilmente per nome Jim Morrison, la più selvaggia e geniale di quelle stelle:
«Cancel my subscription to the resurrection! / Send my credentials to the house of detention, / I’ve got some friends inside.10»11.

«Speech has become, as it were, immortal.» Queste furono le parole di Edison quando presentò alla stampa, nel 1877, una sua nuova invenzione: il fonografo. Ma da allora non solo le parole, ma tutti i tipi di musica, sound e rumore, sono divenuti immortali. L’inventore rese riproducibile tutto ciò che si può incidere: sulle rive dello Swanee River, tanto per fare un esempio, il fonografo di Edison immortalò non solo l’omonimo blues e i neri che lo cantavano; anche i rumori delle macchine della nave a vapore e il fiume stesso erano udibili.
[…] Cos’, il disco ha prodotto il jazz. Non poter scrivere o leggere le note non era più una ragione di morte per la musica, anche se per il miracolo di nome Swinging London ci voleva qualcosa di più. Prima il Rhythm & Blues nero doveva attraversare l’Atlantico insieme a centinaia di migliaia di soldati yankee e preparare nell’Inghilterra meridionale lo sbarco in Normandia; e dozzine di registratori a nastro della Wermacht dovevano finire, come bottino di guerra, negli studios di Abbey Road a Londra prima che la Seconda guerra mondiale potesse ritornare sotto forma di musica pop.
Invenzione e innovazione avvengono sempre nei punti nevralgici di connessione, sia tecnica che culturale: né il jazz né il rock’n’roll avrebbero mai potuto da soli dare il la alla Swinging London e alla British Invasion degli Stati Uniti. A esplodere tra amplificatori Marshall, chitarre soliste e mormorii di microfoni fu il feedback continuo tra tecnologia europea, armonia musicale romantica e analfabetismo musicale americano. Per scrivere canzoni pop non è necessario imparare da giovani il pentagramma, anche se male non fa; è però fondamentale che l’ingegnere del suono e i registratori siano all’altezza del compito12.

La rivoluzione tecnologica delle pedaliere, dei distorsori, dei wah wah, delle Fender Telecaster e Stratocaster stava avvenendo però, all’insaputa di tutti, nei laboratori in cui tecnici del suono come Dick Dale e altri cercavano nuovi strumenti per ridurre il numero di membri di ogni singolo gruppo (il distorsore e il fuzz uccisero la presenza dei saxofonisti nei gruppi strumentali e surf dei primi anni Sessanta), aumentare il fascino del sound ispirato agli echi e ai flussi delle onde dell’Oceano ed evitare l’uso costoso di studi di registrazione in cui aggiungere artificialmente suoni che non era prima possibile realizzare con gli strumenti normali anche se elettrificati.

Furono i ragazzi delle periferie americane ed europee, a scoprire in quelle nuove apparecchiature gli strumenti di un suono che avrebbe danneggiato cervelli e norme sociali ben più al di là delle parole, delle strofe o degli slogan, pubblicitari e politici. Mentre Barrett inventava il suono cosmico a Londra, dall’altra parte dell’Atlantico e ancora sulla costa del Pacifico un giovane afro-americano di Seattle, Jimi Hendrix, assolutamente privo di educazione musicale, si preparava ed iniziava a stravolgere il suono delle chitarre e il sound del secolo (e di quelli a venire). E così pure iniziavano a fare chitarristi come Pete Townshend, Jeff Beck, Jimmy Page, Jerry Garcia, John Cipollina, Jorma Kaukonen ed infiniti altri, poi ripresi da centinaia di migliaia di ragazzi che suonavano, improvvisavano, distorcevano e storpiavano suoni e parole di canzoni che avrebbero dovuto rimanere innocui inni all’amore, alla gioventù o, al massimo, ai suoi problemi di solitudine affettiva. Il Brain Damage collettivo era stato ormai fatto e il medium era diventato l’autentico messaggio. Come aveva già affermato il sociologo e filosofo canadese Marshall Mc Luhan.

Lo testimoniano cronache come quella dei primi anni Settanta che qui riportiamo, che dimostrano come nelle città industriali l’elettricità avesse portato un nuovo modo di intendere l’arte, la musica, la cultura e, soprattutto, il ruolo sociale dei giovani.

E’ sabato pomeriggio alla Difiore’s House of Music, situata nel West Side di Cleveland, Ohio. Quindici ragazzi delle scuole superiori stanno provando varie chitarre Les Paul, suonando, attraverso gli amplificatori Marshall, Peavey e Fender, ognuno fuori tempo rispetto agli altri, cercando di riprodurre al meglio i riff preferiti rubati a Jimi Hendrix, Jeff Beck e Leslie West. Nel rumore prodotto nulla sembra avere senso. Uno dei ragazzi, che indossa una giacca dell’esercito, sta cercando di suonare uno standard blues, un altro ha appena capito che, se riuscirà a far tirar fuori i soldi al padre per una Les Paul Deluxe, forse riuscirà a suonare correttamente tutti i break di Black Dog dei Led Zeppelin, mentre un altro ancora ha appena fatto conoscenza con un pedale WAH WAH e sta cercando furiosamente un accordo, con il piede destro che pesta sul pedale cercando di ottenere l’effetto più potente possibile come se si trattasse di un martello pneumatico munito di turbo compressore.

Nulla sembra avere più qualsiasi senso. Persone sensibili che hanno portato lì i loro figlioletti di sei anni dopo averli accompagnati alla lezione di tromba stanno artigliando le porte cercando di uscire fuori il più in fretta possibile per trovare sollievo da quel baccano infernale! I tecnici e i commessi stanno buttando giù aspirine come se fossero caramelle e guardano disperati gli orologi. Niente ha più senso. Il suono prodotto dalla brigata di Les Paul continua a crescere sempre più forte e i ragazzi sembrano scoprire ulteriori e ancor più potenti dispositivi da testare per il tramite di banchi di amplificatori dal costo complessivo molto superiore alle loro possibilità economiche, mentre i trasformatori modificano le fasi e i wah wah stanno urlando come bambini affamati e le distorsioni fanno rizzare i peli nell’atmosfera carica di elettricità. Qualcun altro ha scollegato una chitarra e l’ha lasciata sul pavimento a ronzare sulle corde a tutto volume mentre altri ragazzi accorrono sempre più numerosi e iniziano a suonare anche se i commessi cercano di strappare loro di mano le chitarre, urlando “Fuori i soldi prima!”, ma ormai ci sono troppi ragazzi, forse più di cinquanta, e adesso non solo hanno impugnato tutte le Gibson e le Fender disponibili ma anche le loro copie giapponesi di costo molto inferiore. Un tizio ha collegato in serie due amplificatori Peavey e le vetrine iniziano a tremare come per un terremoto, mentre nel locale di servizio assistenza due lavori di riparazione sono stati rovinati poiché le mani dei tecnici tremano troppo forte per poter fare delle saldature accurate e nel negozio vicino il barbiere ha rischiato di tagliare la gola di un cliente per lo stesso motivo e il volume continua a crescere sempre di più, sempre più forte e ancora di più e ancor più ragazzi arrivano fino al momento in cui ogni amplificatore ed ogni chitarra del negozio risulta in uso da parte di qualcuno e anche se LA POLIZIA E’ STATA CHIAMATA, MA NON PUO’ ARRESTARE TUTTO CIO’ CHE STA AVVENENDO, QUALUNQUE COSA SIA!13

Complici la guerra in Vietnam, le proteste studentesche e per i diritti degli afro-americani e di tutte le altre minoranze, la tecnologia del suono si vide stravolta nell’uso e nel senso del suo prodotto. Come le trombe suonate dai sacerdoti davanti alle mura di Gerico avrebbero contribuito a farle crollare, così il sound delle chitarre elettriche contribuì a far crollare ben altri muri, dentro e fuori la psiche dei ragazzi, ricreando quella specie di mente bicamerale, in cui era possibile percepire uditivamente e collettivamente oltre le parole la voce degli dei, di cui avrebbe parlato Julian Jaynes in un suo celebre studio del 197614.

Lo comprese Bob Dylan, in anticipo su tutti, quando abbandonò già a metà degli anni Sessanta il suono acustico per abbracciare, con grande scandalo e disagio dei custodi della tradizione folk di sinistra, quello elettrico, impugnando egli stesso sul palco, come avrebbe fatto per tutti gli anni a venire, una grintosa chitarra elettrica.

Tutto ciò però, sul medio periodo, creò anche alcuni imprevisti e paradossi. Ad esempio, qui nell’italietta di San Remo, un’intera generazione di giovani potenziali rivoluzionari (scazzati da famiglia, lavoro, scuola e festival televisivi) iniziò a scambiare ogni rocker elettrico straniero per un ”compagno”.
Ricordo ancora perfettamente come ad un concerto dei Family, a Milano, il pubblico esplodesse in una salva di slogan e pugni chiusi sollevati quando il cantante, Roger Chapman, si asciugò il viso dal sudore con un asciugamano rosso. Lui stava facendo solo quello, ma il pubblico lo scambiò per ben altro segnale.

E così pure gli scontri del Vigorelli per i Led Zeppelin o a Torino per i Santana o, ancora, quelli per contrastare i concerto organizzati dal “sionista” David Zard, impresario musicale che voleva impossessarsi della “nostra” musica “commercializzandola”. Bufale ideologiche megagalattiche che tendevano a nascondere che quella musica che ci parlava così tanto profondamente era nata dal e per il mercato discografico, anche se gli scontri nascevano spontaneamente dalla furia di migliaia di giovani che non avevano affatto bisogno della provocazione ”fascista” per scatenare la loro rabbia, così come i perbenisti e gli sbirri dell’Unità o del Manifesto invece amavano e amano ancora raccontare (come nel caso dei fatti del G8 di Genova del 2001), per cercare di unire fattivamente sound e vita quotidiana.

Eravamo giovani, potenziali delinquenti e le schitarrate e le distorsioni davano voce a qualcosa che non sapevamo ancora esprimere a parole e che, forse, soltanto i situazionisti avevano saputo già esprimere politicamente, anche se in forme meno spontanee e già pronte per essere ricodificate dalla pubblicità futura. Poiché, alla faccia anche di Guy Debord, solo la vera rivoluzione e la sua forma più spontanea ed immediata, l’insurrezione e l’insorgenza di massa anche priva di parole, will not be televised (come aveva già affermato il grande poeta e musicista afroamericano Gil Scott-Heron nel 1971). Esprimevamo negli atti una sorta di general intellect spontaneo di cui una miriade di maestri, filosofi e professori universitari tentò di impadronirsi, soffocandolo e rinchiudendolo sotto l’ala di improbabili cappelli ideologici.

Per quella generazione, per la mia generazione si può parlare, a proposito di quegli anni, più che di coscienza di classe di una pre-coscienza che superava il limite formale della coscienza di classe per ricollegarci, inconsapevolmente, a richiami più antichi e liberatori provenienti dall’intera storia della specie e dalle sue esigenze primarie più profonde e rimosse dall’ordine giudaico-cristiano e borghese in cui eravamo cresciuti e di cui costituivamo il prodotto “degenerato”. In questo forse si andava delineando un comunismo più concreto e più riconducibile alle esigenze dell’intera specie umana e alle sue esperienze. Come affermò Amadeo Bordiga in quegli stessi anni, ben lontano dall’accettare i capelloni e gli urlatori (come li avrebbe definiti ancora in un pessimo articolo del 1968):

Le violente scintille che scoccarono tra i reofori della nostra dialettica ci hanno appreso che è compagno militante comunista e rivoluzionario chi ha saputo dimenticare, rinnegare, strapparsi dalla mente e dal cuore la classificazione in cui lo iscrisse l’anagrafe di questa società in putrefazione, e vede e confonde se stesso in tutto l’arco millenario che lega l’ancestrale uomo tribale lottatore con le belve al membro della comunità futura, fraterna nella armonia gioiosa dell’uomo sociale15.

Le spoglie mortali di Jim Morrison giacciono oggi sepolte a Parigi, nel cimitero di Père Lachaise. L’ultimo autentico sacerdote del dio Pan, che nel 1969, durante il cosiddetto Miami Incident, invitò gli ascoltatori, mischiandosi poi tra di loro, a spogliarsi e ad amarsi per liberarsi da ogni giogo mentale, sociale, politico e culturale16, ha chiuso idealmente il cerchio ricongiungendosi al ricordo degli ultimi caduti della Comune presso il cosiddetto “muro dei federati” e ai più coraggiosi e visionari insorti dell’Ottocento che avevano brindato allo stesso dio durante i loro banchetti rivoluzionari.


  1. Si legga in proposito: Friedrich Kittler, Preparare la venuta degli dei. Wagner e i media senza dimenticare i Pink Floyd, L’orma editore, Roma 2013  

  2. Richard Wagner, Tutti i libretti, UTET, Torino 1996, p. 732  

  3. Friedrich Kittler, Respiro del mondo. Tecnologia dei media in Wagner, ora in F. Kittler, op. cit., pp. 27-28  

  4. F. Kittler, op. cit., pp. 30-31  

  5. F. Kittler, Preparare la venuta degli dei, in op. cit., p. 88  

  6. Friedrich Kittler, Il dio delle orecchie in F. Kittler, op.cit., pp. 47-48  

  7. Jacques Lacan, Il seminario. Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), Einaudi, Torino 2003 (prima edizione 1973), p. 190  

  8. Ivi, p. 51  

  9. Ibid., pp. 49-50  

  10. The Doors, When the Music’s Over, 1967  

  11. Friedrich Kittler, Preparare la venuta degli dei, in op. cit., pp. 97-98  

  12. Ivi, pp. 94-95  

  13. Peter Laughner (poi chitarrista dei seminali Pere Ubu di Akron, Ohio), recensione del long playing, di Lou Reed, Rock’n’Roll Animal in “Zeppelin Magazine”, 7 febbraio 1974.  

  14. Julian Jaynes, Il crollo della mente bicamerale e la nascita della coscienza, Adelphi, Milano 1984  

  15. Amadeo Bordiga, Considerazioni sull’organica attività del partito quando la situazione generale è storicamente sfavorevole, 1965  

  16. «Siete solo una massa di fottuti idioti! Vi fate dire quello che dovete fare. Per quanto tempo volete andare avanti così? Per quanto ancora vi farete calpestare? Forse vi piace, forse vi fate calpestare volentieri. Vi piace, forse, che qualcuno vi ficchi la testa nella merda. Siete tutti una massa dis chiavi che si fa calpestare […] Cosa volete fare per opporvi a questo? Che cosa intendete fare? […] Ah, vorrei vedere un po’ più di nudità qui! Spogliatevi e amatevi!» cit. in R. Kittler, op. cit. p. 110, che continua poi ancora ricordando che il batterista dei Doors, John Densmore, vide subito dopo il cantante balzare giù dal palco tra il pubblico della sala da ballo. «Le danze si fecero sempre più frenetiche, l’abbigliamento sempre meno appropriato. Il giorno dopo quando l’esercito dell’impresa di pulizie entrò nel Dinner Key Auditorium trovò abiti da teenager sparsi dappertutto per la sala concerti e li ammucchiò in un angolo fino a che la pila non raggiunse il metro e mezzo di altezza e i tre metri di diametro, come se l’usanza, per nulla greca, di celebrare vestiti gli dei avesse finalmente trovato la sua giusta fine […] Jim Morrison, il colpevole, dovette comparire di fronte a una giuria di Miami (per l’accusa di atti osceni) che lo condannò a sei mesi di reclusione; il giudice fu più benevolo e commutò la sentenza in un’ammenda di 500 dollari». (Kittler, op. cit., pp. 110-111)  

]]>
Milano, Vigorelli 1971: “Abbattete lo Zeppelin !” https://www.carmillaonline.com/2021/07/15/milano-vigorelli-1971-abbattete-lo-zeppelin/ Wed, 14 Jul 2021 22:01:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67111 di Walter Catalano

Giovanni Rossi, Led Zeppelin ’71, La notte del Vigorelli, Tsunami Edizioni, pp. 272, 20.00€.

Giunta ormai alla seconda edizione, dopo quella del 2014, l’inchiesta/ricostruzione dell’unico concerto (abortito) dei Led Zeppelin in Italia, non si limita ad essere soltanto un bel libro di giornalismo musicale. Prendendo spunto dai fatti di cronaca l’autore, Giovanni Rossi, compie una panoramica a 360 gradi sull’Italia di quegli anni – con il ’68 già lontano alle spalle e il ’77 ancora remoto a venire – tracciando un rapporto storico, sociologico e politico puntuale di [...]]]> di Walter Catalano

Giovanni Rossi, Led Zeppelin ’71, La notte del Vigorelli, Tsunami Edizioni, pp. 272, 20.00€.

Giunta ormai alla seconda edizione, dopo quella del 2014, l’inchiesta/ricostruzione dell’unico concerto (abortito) dei Led Zeppelin in Italia, non si limita ad essere soltanto un bel libro di giornalismo musicale. Prendendo spunto dai fatti di cronaca l’autore, Giovanni Rossi, compie una panoramica a 360 gradi sull’Italia di quegli anni – con il ’68 già lontano alle spalle e il ’77 ancora remoto a venire – tracciando un rapporto storico, sociologico e politico puntuale di uno dei momenti più difficili ma anche esaltanti attraversati dalle giovani generazioni dell’epoca: il 1971, un anno cruciale in cui necessità popolare di cambiamento e volontà istituzionale di conservazione si scontrano già con violenza ma in modo ancora immaturo e confuso. Conflitti che non deflagrano più solo nelle fabbriche e nelle università, ma anche nei luoghi deputati alla cultura e al tempo libero.

Chi ha vissuto quel periodo lo ricorda con un brivido ambivalente di rimpianto e di sollievo. Sollievo per il tramonto successivo, faticoso ma inderogabile, dei cascami di un ancien régime opprimente e fortunatamente sepolto, rimpianto per le possibilità che allora si squadernavano illusoriamente infinite e, nel tempo, si sono ridotte, sfilacciate, erose, fino a rivelarsi fallaci e disattese.

Nel corso del ’71 i Tupamaros rapiscono l’ambasciatore inglese in Uruguay; in Egitto apre la diga di Assuan; Amin Dada prende il potere in Uganda; le missioni Apollo 14 e 15 preludono sommessamente al crepuscolo dell’era spaziale; le truppe sudvietnamite invadono il Laos; a Città del Messico si consuma la strage del Corpus Domini; Nixon cancella gli accordi di  Bretton Woods ponendo fine alla convertibilità del dollaro in oro; Jim Morrison viene ritrovato morto nella vasca da bagno della sua stanza in un albergo di Parigi, mentre George Harrison vara il Concert for Bangla Desh e John Lennon pubblica Imagine. Intanto in Italia la commissione d’inchiesta su SIFAR e Piano Solo smentisce l’ipotesi di qualsiasi possibile golpe proprio mentre Paese Sera rende noto il tentativo di un altro golpe, quello di Junio Valerio Borghese del 7 dicembre 1970, e il Principe Nero, colpito da mandato di cattura, rifugia in Spagna; il giudice di Treviso emette mandato di cattura verso i neofasciti padovani Freda e Ventura in relazione agli attentati del 1969; Franco Basaglia diventa direttore del manicomio di Trieste e la Corte Costituzionale abroga l’articolo 553 del codice penale che vieta la produzione, il commercio e la pubblicità degli anticoncezionali. Il ventunesimo Festival di Sanremo viene vinto da Nada e Nicola di Bari con Il cuore è uno zingaro, secondi i Ricchi e Poveri e Josè Feliciano con Che sarà, ma saranno significativamente i terzi classificati, Lucio Dalla e l’Equipe 84 con 4 Marzo 1943, a primeggiare nelle vendite: anche il pubblico popolare chiede tematiche e melodie almeno un po’ diverse.

Così Ezio Radaelli, impresario e barone dell’industria dell’intrattenimento, fino dal 1962 ideatore e patron del Cantagiro – formula presa a modello dal Giro d’Italia di ciclismo, che consisteva in una carovana canora in giro per l’Italia con i cantanti in competizione, giudicati da giurie popolari scelte tra il pubblico delle varie città – fiuta l’aria di rinnovamento: nel ’71 il Cantagiro diventerà Cantamondo, non avrà classifica e affiancherà ad ogni tappa alle star nostrane anche big della musica internazionale come Aretha Franklin, Miriam Makeba, Nina Simone, King Curtis, Charles Aznavour, Sam & Dave, Donovan e, dulcis in fundo, i Led Zeppelin, per la prima volta in tour in Italia, che chiuderanno la manifestazione canora. Quello che non risulta perfettamente chiaro all’impresario è che alcuni mondi musicali sono ormai sempre più fieramente  incompatibili, che il pubblico di gruppi rock come i Led Zeppelin (lasciamo per ora da parte gli alfieri del Rhythm&Blues o il menestrello folk-psichedelico Donovan) non ne vuole minimamente sapere di una musica leggera e leggerissima, vista, non a torto, come di regime perchè ammannita giornalmente dalla Rai in Tv e in radio: Gianni Morandi e sodali (Lucio Dalla compreso) non hanno la minima speranza di condividere indenni lo stesso palco con la band di Whole Lotta Love. Un’inconciliabilità che porterà alla catastrofe.

Giovanni Rossi, come in un giallo ben costruito, predispone, capitolo per capitolo, scenari e dramatis personae. Una Milano in cui da pochi giorni la signora Licia Pinelli, vedova di Pino, ha denunciato (il 24 giugno 1971, il concerto è fissato per il 5 luglio) il Commissario Calabresi e i suoi accoliti questurini per omicidio volontario, sequestro di persona, violenza privata e abuso di autorità, mettendo in fibrillazione tutta l’estrema sinistra cittadina. San Siro, luogo più indicato per l’evento, è inagibile per lavori di ristrutturazione e si ripiega sul velodromo Vigorelli. Nel frattempo una fiumana di giovani sciama da tutta Italia – chi in auto, chi in treno, chi in autostop – verso il concerto dell’anno. Poche sono state fino ad allora le occasioni di vedere i grandi del rock nel nostro paese: a Roma, i Beatles al Teatro Adriano nel 1965, Jimi Hendrix al Brancaccio nel 1968, i Rolling Stones nel 1967 e nel 1970, in varie città tra cui Roma e Milano. Ma non erano ancora eventi di massa come questo.

I Led Zeppelin sono al culmine della loro fama. Hanno pubblicato tre LP (il gruppo rifiuta di fare 45 giri) che li hanno portati ai vertici delle classifiche: giusto il terzo, meno rock blues e più folk, non ha raccolto consensi unanimi, ma la perfetta sintesi fra la musa elettrica e quella acustica sta per arrivare, a novembre, con il IV (quello di Starway to Heaven per intenderci) di cui il quartetto ha già in serbo ricche anticipazioni live. La stampa italiana, evidenziando la sua incompetenza musicale e la totale estraneità rispetto alla cultura del rock, li etichetta concordemente nei titoli di cronaca come “i successori dei Beatles”.

 Il pubblico che si prepara ad assediare il Vigorelli è fin troppo variegato. Prima i regolarmente paganti: innocue famiglie borghesi spesso in compagnia di bambini e adolescenti, interessate al Cantagiro e del tutto ignare dei Led Zeppelin; pubblico giovanile tranquillo o quasi, ansioso di ascoltare i Led Zeppelin ma insofferente al Cantagiro. Poi i non paganti che tenteranno di forzare gli ingressi: autoriduttori, divisi in quelli politicizzati che rivendicano musica gratis per tutti e semplici portoghesi che vogliono imbucarsi al concerto; militanti di estrema sinistra, non necessariamente autoriduttori ma intenzionati a fare casino sfruttando l’importanza dell’evento per avere una risonanza mediatica sulle loro rivendicazioni politiche; fasci infiltrati, anche loro lì per fare casino e sabotare i “capelloni”.  A chiudere in bellezza oltre 2500 sbirri in tenuta antisommossa. Una polveriera in attesa di scoppiare.

Rossi ben descrive l’escalation degli eventi. Apre Gianni Morandi accolto da gran parte del pubblico con fischi e lanci di ortaggi: tenta con ammirevole coraggio una svolta, a modo suo, verso l’engagement, cantando la versione italiana di Here’s To You di Joan Baez, ma una lattina lo coglie dritto in faccia ed è costretto a ritirarsi praticamente in lacrime (il contraccolpo sarà duro: abbandonerà le scene per più di cinque anni, andando a studiare contrabbasso al conservatorio…). Stessa sorte per i Vianella (Wilma Goich ed Edoardo Vianello: non sono più i tempi dei Watussi…). Lucio Dalla e Milva, meno impavidi, si rifiutano di uscire e, alla romana, “se danno”. Lo stesso Radaelli interviene e saggiamente manda fuori i New Trolls. Il gruppo progressive genovese, per quanto molto lontano dai Led Zeppelin, viene accolto con rispetto: è pur sempre una band rock, non canta canzonette, possiede solide capacità strumentali ed ha appena varato un best seller come Concerto Grosso per i New Trolls, innesto rock-barocco, un po’ pretenzioso ma bello, su musiche di Luis Enriquez Bacalov, che viene eseguito quasi per intero nell’attenzione generale del pubblico e degli stessi componenti dei Led Zeppelin che hanno ormai raggiunto il retropalco perché chiamati a cominciare il loro numero un’ora prima del previsto. La buona accoglienza riservata ai New Trolls dimostra come l’avversione degli spettatori sia indirizzata unicamente verso i cantanti “leggeri”, melodici e antiquati che usurpano le scene italiane da troppo tempo.

Nel frattempo gli autoriduttori stanno premendo sugli ingressi e le camionette della polizia che presidiano tutta la zona cominciano a concentrarsi nei punti di accesso. I primi candelotti già piovono nelle strade circostanti, dove si stanno raccogliendo gruppi di manifestanti intenzionati a farsi sentire ma non a forzare le porte del Vigorelli: per il momento i fumi che invadono il velodromo sono solo quelli, ancora contenuti, provenienti dall’esterno.

Arriva finalmente l’ora dei Led Zeppelin che – mentre la situazione rapidamente degenera e scariche sempre più nutrite di candelotti lacrimogeni vengono sparati dalle “forze dell’ordine” a parabola anche oltre le aperture dei tetti, direttamente dentro il velodromo e addirittura sul palco – avranno la professionalità di reggere per ben 50 minuti: la scaletta comprende Immigrant Song in medley con Mr. You’re a Better Man Than I degli Yardbirds, il gruppo precedente di Jimmy Page, Heartbraker, Since I’ve Been Lovin’ You, l’allora ancora inedita Black Dog, Dazed and Confused, Whole Lotta Love. Robert Plant invita più volte alla calma, e scherza col pubblico invitandolo a soffiare tutti insieme per allontanare il gas che sta progressivamente invadendo la scena: presto però i colpi di tosse gli impediranno di cantare mentre con gli occhi accecati e lacrimanti i ragazzi del dirigibile vedranno il pubblico, passato dall’entusiasmo al terrore, invadere di corsa il palcoscenico e venir loro addosso. Hanno chiuso tutte le uscite e l’unica via di fuga passa per il palco e per i camerini. Soccorsa dal promoter e dai roadies la band si rifugia in uno sgabuzzino mentre la marea umana infuria calpestando e distruggendo strumenti e impianto sonoro. Non stupisce che l’esperienza, a posteriori, li abbia determinati ad un’unica, drastica conclusione: “Mai più in Italia”.

Per pura fortuna comunque non ci scappa il morto. Un carabiniere perde un occhio per una sassata, decine di feriti e contusi su entrambi i fronti, quasi un centinaio di fermi e di arresti. Decine di milioni di danni agli edifici del Vigorelli. Anche Radaelli dovrà rimborsare i Led Zeppelin – il cui ingaggio già gli è costato un occhio della testa – svuotando paurosamente il suo nutrito portafoglio e il Cantagiro stesso subisce un colpo mortale: sopravviverà ancora in sordina fino al 1974 per scomparire del tutto, almeno nella forma classica. Si è davvero consumata un’epoca.

Ovviamente la stampa si dividerà nei giorni successivi in due netti fronti avversi. I “moderati”, Corriere della sera, Il Giorno, La Notte, L’Avvenire, La Stampa, Domenica del Corriere, sosterranno la linea della provocazione deliberata ad opera di gruppuscoli eversivi intenzionati, con il pretesto dell’evento musicale, a scatenare la guerriglia urbana attaccando le forze di polizia che non hanno potuto evitare di reagire. I giornali di sinistra, Lotta Continua, Il Manifesto, L’Unità, accuseranno invece la polizia di aver volutamente scatenato un attacco rivolto contro pacifici manifestanti fuori dal Vigorelli e contro il pubblico inerme all’interno. Come sempre la verità sta probabilmente nel mezzo: la manifestazione non fu davvero così pacifica perché qualche razzo antigrandine e qualche molotov venne lanciata contro i celerini anche dalle barricate dei difensori. Più attendibile forse la stampa musicale estera o quella italiana non schierata apertamente su una precisa linea politica, come Ciao 2001, che raccogliendo anche la testimonianza diretta degli stessi Led Zeppelin, imputava la colpa del tralignare nel caos di una situazione all’inizio ancora gestibile, alla polizia che per contenere poche decine di autoriduttori si era lanciata in una serie esagerata di brutali cariche e in un lancio inutile e spropositato di candelotti lacrimogeni: “Erano quei tipi in uniforme che non avevano capito un cazzo di quel che stava accadendo ! Quindicimila persone che cercano disperate una via d’uscita per via dei gas lacrimogeni e quegli sbirri non lo capiscono!” dirà Robert Plant.

L’incombere degli anni di piombo a venire già si profila in queste asimmetrie fra azione e reazione, un copione già scritto che, ben più amaramente, un’intera generazione avrebbe presto  interpretato in un ruolo o nell’altro: i fatti del Vigorelli, come ben evidenzia il libro, ne sono infausta metafora e prefigurazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

]]>
Living Colour: Shade https://www.carmillaonline.com/2017/10/26/living-colour-shade/ Thu, 26 Oct 2017 21:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41278 di Dziga Cacace

La commessa non ha voglia di star lì, è chiaro. Io ho scartabellato nel settore “hard and heavy” e niente. Poi nel settore “Black music”, zero. Allora ho provato a dirle il nome del gruppo: Living Colour. Lei ha un lampo: “Ah, quei negri!”. E mi tira fuori Vivid dal cassone del pop. Vai a capire i meccanismi per cui un disco come questo sia finito in mezzo al pop. Forse in ragione del video di Glamour Boys, chissà. È il 1989 e vi dipingo il quadro: [...]]]> di Dziga Cacace

La commessa non ha voglia di star lì, è chiaro.
Io ho scartabellato nel settore “hard and heavy” e niente.
Poi nel settore “Black music”, zero.
Allora ho provato a dirle il nome del gruppo: Living Colour.
Lei ha un lampo: “Ah, quei negri!”. E mi tira fuori Vivid dal cassone del pop.
Vai a capire i meccanismi per cui un disco come questo sia finito in mezzo al pop. Forse in ragione del video di Glamour Boys, chissà.
È il 1989 e vi dipingo il quadro: non ho neanche vent’anni, ascolto un sacco di musica, tengo a distanza il metal ma ho una passionaccia per l’hard rock. Una trasgressione controllata, diciamo, borghese: partendo dai suoni nobili dei Cream e di Hendrix sono arrivato ai Thin Lizzy e agli UFO passando per Deep Purple e Led Zeppelin e altre band ancora.
E poi mi piace anche la musica nera, chiaramente. Molto.
Riguardo la politica ho lo stesso caos mentale in testa: grandi rivendicazioni in una confusione dove si mescolano echi passati e istanze attuali.
È in questo nebbione che un bel giorno, scanalando, su VideoMusic – la mai troppo rimpianta VideoMusic, casereccia ed originale molto più della futura MTV – mi capita tra capo e collo un video coloratissimo dove quattro neri pestano come maniscalchi, tra immagini di Martin Luther King, Kennedy e Mussolini.
Aspetta aspetta: mmh, curiosi.
Non c’era la Rete per andare a farsi un’idea o YouTube per rivedersi il video.
No, bisognava aspettare e incrociare le dita che ripassasse il video o magari beccare l’articolo giusto sul giornale – sicuramente all’epoca – giusto: il Mucchio Selvaggio. E allora scopro che esiste un quartetto di neri che picchia duro, che mette in musica rivendicazioni artistiche (e in fondo perché i neri non dovrebbero suonare hard rock?) e politiche, e che è prodotto e distribuito da una major.
E vai di acquisto di Vivid, acquisto che, allora, era un atto di fede: compravi un disco e ti doveva bastare per un po’: erano 15mila lire, 15 sacchi sudati facendo il baby sitter o il cameriere. Trovai solo una musicassetta, mezzo alquanto infelice per certi versi e felicissimo per altri: l’ascolto in una sequenza definita ti costringeva ancor più del vinile (dove le divisioni tra pezzi erano leggibili) a seguire il discorso dell’artista. Era un percorso obbligato e l’album andava assunto nella sua interezza, non per brani.
E questo era un album di debutto eccezionale, sponsorizzato da Mick Jagger e subito amato da critica e pubblico.
Come definirlo? Hard rock con venature funky e noise, echi di Hendrix e James Brown, accenni di hip hop e una produzione scintillante e levigata che esaltava i ritornelli pop. Mettiamoci una voce calda e suadente ma capace di urlare e una chitarra istrionica che poteva accarezzarti con arpeggi alla Curtis Mayfield e sfregiarti con contorsioni metalliche. E poi i testi: i Living Colour accedono ai piani alti della classifica di Billboard (il disco sarà due volte platino, raggiungendo il sesto posto) cantando di diritti negati, razzismo, homeless, fiducia cieca nei leader, consapevolezza nera e privilegio bianco, disoccupazione e yuppies plastificati.
Vernon Reid, chitarrista e leader della band, è cresciuto tra musica pop, Stax, il funk rock di Sly Stone, ovviamente Hendrix ma anche tanto jazz, da quello classico fino a Eric Dolphy e il Coltrane più cosmico, arrivando ai Defunkt.
Le sue linee chitarristiche sono un flusso di coscienza, come il dripping di un Jackson Pollock sulla tela imbastita dalla batteria potentissima di Will Calhoun e dal basso di Muzz Skillings, e in questo turbinio senti il groove micidiale dei Parliament, ma anche il punk dei Gang of Four e dei Clash, l’eredità del CBGB e il sound metropolitano dei Talking Heads.
Vengo conquistato in pieno e da lì rimango innamorato perso di quel sound e di quel discorso. Son venuti altri album, sempre riusciti e premiati dalla critica ma meno facili per il grande pubblico. Dopo l’acclamato Time’s Up (1991) e il durissimo e inesorabile Stain (1993, col nuovo bassista virtuoso, Doug Wimbish) la band scompare dalla luce dei riflettori: la democrazia interna ha portato all’implosione.
Seguono anni di silenzio fino a un insperato ritorno nel 2003, con Collideoscope, album che riprende un discorso effettivamente lasciato a metà.
All’epoca scrivevo per Rolling Stone e mi arriva la proposta di intervistare Reid. Un po’ per il mio inglese, un po’ per la mancanza di tempo, un po’ perché il compito mi sembra richieda una maggiore preparazione, lascio stare, ma vedo finalmente i Living Colour dal vivo, a Trezzo. Sono sotto il palco e quando i musicisti accedono direttamente dal camerino penso a un effetto speciale, vedendo la nube che li precede. Errore: ganja pura che ci stordisce e inebria durante un concerto fenomenale, cominciato con Back in Black degli AC/DC e punteggiato da tutti i pezzi fondamentali della band, oltre a una durissima Seven Nation Army dei White Stripes, qui da noi non ancora coro da stadio.
Dopo un album interlocutorio del 2009 (The Chair in the Doorway), il silenzio, interrotto l’anno passato da un singolo, una cover di Notorious BIG, Who Shot Ya, tristemente emblematica.
E finalmente, dopo tanta attesa, a settembre 2017 arriva il nuovo album, Shade.
Che è una badilata nei denti, con la chitarra spigolosa di Reid che detta ancora legge, e basso e batteria che hanno un piglio che non trovereste in tante band di biancuzzi arrabbiati. All’attacco crunchy dei Metallica si sovrappone la sinuosità di un Prince (e tantissimo altro ancora, ovviamente), cadenzando il clangore della rabbia di una battaglia per la dignità e il rispetto che sembrava fuori tempo trent’anni fa e che oggi è più rilevante ancora, mannaggia.
L’album – va detto – non è facile, né radiofonico. Qui non c’è nulla di danzereccio, al limite il groove leggero della cover di Inner City Blues, ennesimo omaggio (a Marvin Gaye) che dà le coordinate del lavoro, così come la giustamente trasfigurata Preachin’ Blues di Robert Johnson. Del resto Corey Glover da anni andava annunciando un disco blues. Solo che qui il blues è riletto secondo la lingua arroventata di questi cinquantenni incazzati: non aspettatevi le classiche dodici battute o shuffle allegrotti. Del blues c’è lo spirito, i testi amari aggiornati alla situazione del terzo millennio, c’è l’ossessività ritmica e l’incessante lavoro delle chitarre che non si vergognano di prendersi lo spazio per dei (misurati) assoli, eloquenti nell’esprimere rabbia e dolore.
È stata un’attesa ben ripagata, insomma. E quanto è commovente, dopo anni di lavorazione, trovare un disco eccezionale quando non esistono più i negozi dove venderlo?

]]>
HARD ROCK CAFONE #5 https://www.carmillaonline.com/2016/04/14/hardrockcafone5/ Thu, 14 Apr 2016 20:00:35 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29537 di Dziga Cacace

hrc501Gimme Five! (Storie di chitarristi senza dita) Chitarristi ce ne sono milioni. Ma originali, inventivi e unici, pochini. Del resto, esaurite tutte le scale possibili o l’onanismo più debilitante sul manico, cosa serve per emergere dalla folla e risultare felicemente diverso? Maltrattare lo strumento? Ma va’, son già trent’anni che qualcuno, la chitarra, l’ha sfasciata (Townshend), le ha dato fuoco (Hendrix), l’ha suonata coi piedi (Blackmore) o con un violino (Nigel Tufnel degli Spinal Tap, il record). Per cui, banalmente, certe volte l’impresa si compie suonandola [...]]]> di Dziga Cacace

hrc501Gimme Five! (Storie di chitarristi senza dita)
Chitarristi ce ne sono milioni. Ma originali, inventivi e unici, pochini. Del resto, esaurite tutte le scale possibili o l’onanismo più debilitante sul manico, cosa serve per emergere dalla folla e risultare felicemente diverso? Maltrattare lo strumento? Ma va’, son già trent’anni che qualcuno, la chitarra, l’ha sfasciata (Townshend), le ha dato fuoco (Hendrix), l’ha suonata coi piedi (Blackmore) o con un violino (Nigel Tufnel degli Spinal Tap, il record). Per cui, banalmente, certe volte l’impresa si compie suonandola con le dita, specie se ve ne manca qualcuna: il sacrificio estremo al dio della sei corde.
Ha cominciato il primo chitarrista jazz di fama mondiale, quel Django Reinhardt dalle mani veloci come saette. L’avrete sentito senza saperlo nei film di Woody Allen e in diverse pubblicità, ma la sua faccia tzigana da Nino Frassica non è popolare come meriterebbe. Eppure la chitarra swing gli deve tutto da quando incendiava i club di Pigalle negli anni Trenta. E con l’handicap. Già indiavolato entertainer a diciotto anni, lo zingaro fa vita grama e vive nel suo carrozzone, in un campo di nomadi a Parigi. Una notte casca una candela ed è il disastro: divampa un incendio e Django riesce a fuggire, ma la gamba destra è paralizzata (rifiuterà l’amputazione e userà il bastone tutta la vita) e anulare e mignolo della mano sinistra – quella con cui fare gli accordi – sono gravemente ustionati, rimanendo deformati e inutilizzabili. La testa però è dura e allora Django ripensa la sua tecnica solo in funzione di indice e medio.
hrc502Sorretto dal quintetto Hot Club de France, va veloce come Yngwie Malmsteen plettrando accordi impossibili per i quali ai comuni mortali, di dita, ne servirebbero otto. E non farebbe male anche un’estensione della mano degna di Mr.Richards dei Fantastici Quattro. Django muore presto (a 43 anni), per una congestione. Tipico di chi è quasi bruciato vivo e, da zingaro che suonava la musica dei neri, è sopravvissuto al nazismo.
Grazie a Django non abbiamo solo pletore di jazzisti manouche, ma insospettabilmente anche un rocker che ha fatto la storia dell’hard. Tony Iommi ha inventato i riff massicci dei Black Sabbath e nessun chitarrista metal può prescindere da quel suono cupo e distorto. Per un pelo, però: il giovane Iommi è al suo ultimo giorno di lavoro prima di diventare musicista professionista. Lavora in fabbrica e si occupa del taglio di fogli di alluminio. Esattamente come succede a tappezzieri, falegnami e addetti ai telai meccanici, piagati dalla malattia professionale del dito mozzato, anche a lui basta un attimo di disattenzione e, voilà, sotto la pressa, rimangono le due ultime falangi di indice e medio della mano destra. Lui è mancino e con quelle dita lì, tiene le corde. Dramma. Depressione. Finché in ospedale, un amico lungimirante gli porta a sentire un disco di Reinhardt. Se ce l’ha fatta lui, ce la faccio anch’io, si dice Iommi. Ma come, con due dita mozzate? Tony non è inventivo solo sullo spartito e si costruisce delle protesi di plastica e gomma che attacca ai suoi moncherini. Alle estremità aggiunge delle pezzuole di cuoio, per ottenere il classico tocco della pelle. Certo, la sensibilità è nulla, ma a quella supplisce l’orecchio. E se le corde sono troppo dure, facile rimediare: la chitarra viene scordata, allentandole. E nasce così quel suono profondo e oscuro su cui l’imberbe Ozzy urlacchierà tutta la sua angoscia. Insomma, se non era per il destino infausto, niente doom e rock sepolcrale.
HRC503È andata meglio a Jerry Garcia, l’orso buono hippie, l’interprete carismatico delle epiche (e talvolta un po’ scoglionanti) cavalcate lisergiche dei Grateful Dead, jam siderali dove le dita si arrampicavano sulle corde per delle buone mezz’ore. E di dita gliene mancava pure una. Jerry era un pacioccone profeta antiautoritario e pacifista e nessuno ha mai potuto vederlo mostrare il dito medio perché il suddetto volò via all’età di quattro anni. Colpo d’accetta ad opera del fratello, mentre si tagliava allegramente la legna in famiglia. E vabbeh, s’è detto Jerry, si può arpeggiare anche con quattro dita e l’impronta della sua grassoccia mano destra, senza le due falangi del medio, è diventata il suo emblema anche sulla copertina di un album.
Per tre illustri mutilati, abbiamo rischiato grosso anche con quello che è probabilmente il miglior chitarrista rock dalla morte di Hendrix: Jeff Beck le dita le ha ancora tutte ma per qualche ora ha avuto il pollice destro ridotto come una piadina. Innovatore a qualunque costo, mai adagiato su formule remunerative (pur avendole lanciate lui stesso), ha praticamente inventato l’hard rock con l’album Truth – del quale i Led Zeppelin han preso nota, forse più di una – e poi ha reso il jazz rock palatabile con Blow by Blow, l’unico album del genere che – per arrivare a fine ascolto – non richiede una laurea in astrofisica e due Aulin. Ultimamente sintetizza tutto lo scibile chitarristico su basi ritmiche alla Prodigy o ariose atmosfere sinfoniche, con avare uscite discografiche perché preferisce dedicarsi al suo hobby: Jeff Beck è (stato) un ricco misantropo che vive in campagna, godendo solo delle macchine custodite nel suo garage e passando il tempo a costruirle, ripararle, oliarle e lucidarle.
hrc50trisEd è proprio questa passione che gli ha fatto passare un pessimo quarto d’ora, quando una tavola di quercia, che Jeff usa per coprire la buca nella quale si sdraia per riparare le sue adorate macchinine, gli scivola sul pollice destro con vettura al seguito. Il sandwich tra quercia e chassis della macchina in riparazione gli appiattisce il pollicione come nei cartoni animati. Risultato: falangi spezzate e unghia sfasciata. Che la cosa sia dolorosa lo dimostra il fatto che è una tecnica di tortura consolidata (anche se non per lo stato italiano: vedremo quando ci penserà qualcuno, mah). Ma Jeff non ha nulla da confessare e siccome è un uomo all’antica si beve subito una litrata di whisky per tollerare il dolore. Invece si addormenta e solo alcune ore dopo riesce a raggiungere un pronto soccorso dove lo ingessano, ovviamente in maniera da non compromettere la sua capacità di suonare. Del resto c’è l’illustre precedente di Les Paul (che non è solo una chitarra, ma anche il genio che l’ha inventata): col braccio destro rotto, se lo fece ingessare con l’angolazione giusta per imbracciare lo strumento. Lieta fine: Jeff dopo qualche mese di comprensibile convalescenza torna a suonare meglio di prima.
hrc50bisMa parlando di dita sfasciate, la migliore riguarda un cantante, Ronnie James Dio, peraltro personaggio di tutto rispetto: di età indefinibile (sembra che sia del 1942), era già rugoso a metà anni Settanta e oggi è incomprensibile se sia già iniziato il processo di rattrapimento tipico degli anziani perché è alto quasi un metro e cinquanta (nelle foto coi Black Sabbath post Ozzy, usufruiva di uno spessore a terra per arrivare almeno alle spalle degli altri). Attivo fin dalla fine degli anni Cinquanta è diventato un vero Dio come voce epica dei Rainbow e, dopo la parentesi Black Sabbath, con il suo omonimo gruppo. Il vero cognome è Padovana e il nome d’arte viene da quello di un boss mafioso di Brooklyn che gli piaceva un mucchio, tal Johnny Dio responsabile di chissà quante teste rotte e gente cementata. Ad ogni modo, causa pratiche di giardinaggio estremo, Ronnie James ha rischiato di non poter più fare il gesto che l’ha reso popolare sui palchi di tutta la terra, le corna. Imparato dall’italica nonnina e popolarizzato tra gli yankee come “maloik”, è il suo autentico marchio di fabbrica. Sennonché zappettando in giardino nella sua magione, Ronnie James ha provato a spostare un pesantissimo e infido gnomo in marmo. Che s’è ribellato, è scivolato trascinandosi dietro lo gnomo in carne e ossa e s’è abbattuto sulla sua mano destra, staccandogli l’estremità del pollice. Dio confessa di aver subito pensato: e ora, come farò le corna? Uomo pratico, s’è presentato in ospedale con la mano sfasciata e il pollice mozzato nell’altra. Gliel’hanno subito riattaccato e tutto è bene quel che finisce bene: vedremo ancora Ronnie James fare il maloik. Tiè. (2009)

HRC504Hey Dude: hai presente i Beatallica?
A me le cover band che imitano anche l’abbigliamento, la gestualità e i vezzi di chi omaggiano mettono infinita tristezza. Quando ho visto (a tradimento) gli Stupido Hotel col cantante che introduceva i pezzi con le stesse identiche parole usate da Vasco sui vecchi dischi live, accento modenese compreso, ho avuto il magone per una settimana. Mi danno invece allegria estrema le cover band estrose, che affrontano i classici altrui con uno scatto creativo. Facendo un paragone pittorico: di contadini dipinti da Teomondo Scrofalo son piene le bancarelle, la Gioconda coi baffi di Duchamp è un pezzo unico. Mi divertono i Kiss nani (il nome dice tutto), i Nudist Priest (che suonano cover dei Judas Priest esibendosi nudi), i Gabba (che rifanno gli Abba alla Ramones) e i miei vent’anni sono stati allietati dai Dread Zeppelin, che suonavano cover reggae dei Led Zeppelin con un Elvis impersonator come cantante. Ma il top, oggi, è il riuscitissimo e per niente blasfemo incrocio tra Beatles e Metallica. Prendete le immortali melodie dei primi, come direbbe Mollica, e rivisitatele con le sonorità e il gergo dei secondi: risultato, i Beatallica. Ovviamente un quartetto, coi nomi dei componenti che mixano quelli dei baronetti con quelli dei quattro ex metal kid: Grg Hammetson alla solista, Jaymz Lennfield alla voce e alla ritmica, Ringo Larz alla batteria e Kliff McBurtney al basso. E pensare che tutto è nato per scherzo: per una festa di pesce d’aprile del 2001 viene prodotto un CD con delle cover dei Fab Four come se le avessero suonate i Four Horsemen (che già avevano realmente licenziato due edizioni di Garage Inc., raccolte di omaggi e rivisitazioni di brani altrui). Qualcuno abbocca allo scherzone ma soprattutto qualcuno mette i pezzi in Rete e cominciano downloading e popolarità. A quel punto si pensa a una band vera e dal 2004 si va on the road, con ottimi riscontri in America e Giappone. Ma per arrivare al successo (e al divertente Sgt. Hetfield’s Motorbreath Pub Band, oggi in vendita legalmente) si son dovuti affrontare anche alcuni discreti casini. Quando la Sony ha provato a fermare i Beatallica c’è stata una mezza sollevazione: qui da noi si sono sbattuti i Wu Ming, la nostra migliore band letteraria, mentre oltreoceano Mike Portnoy dei Dream Theater ha messo su il sito savebeatallica.com per dare assistenza legale ed economica alla band, tanto che pure Lars Ulrich ha dato il benestare all’operazione, facendosi perdonare la vicenda (tecnicamente: l’umiliante figura di merda) della causa con Napster. Lo avranno sicuramente convinto l’ascolto di Hey Dude e di I Want to Choke Your Band! (Febbraio 2009)

HRC505In preda al Delirium: Jesaheeeeeeeeel
È il 24 febbraio1972 e 25 milioni di italiani sono davanti allo schermo, rapiti dal Festival di Sanremo. I bambini hanno avuto il permesso: stasera “dopo Carosello” si fa un’eccezione. Mike Bongiorno, con paurosi basettoni, introduce i Delirium sul palco dell’Ariston e una compagnia di venti hippie con caffettani, collane, gilet e flauto magico strega il pubblico col canto corale di Jesahel. Cominciano così i due anni di straordinario successo del gruppo genovese. C’era già stato Il canto di Osanna, ma i Delirium non compongono solo pezzi che avete sentito suonare alla noia dagli scout in gita; nei loro album c’è uno strano impasto di pop, rock, folk e jazz che poi i critici avrebbero chiamato prog. Quando a Ivano Fossati tocca la naja, il gruppo si reinventa con Martin Grice, da Birmingham. Due album e poi i Delirium appassiscono, finché arriva il nuovo millennio e tre superstiti di quella gloriosa formazione decidono di tornare. Il promotore è Peppino Di Santo, grande batterista che fu testimonial assieme a Carl Palmer (di Emerson Lake & Palmer) del primo gong per suonare rock della Paiste. Oggi la reliquia fa bella mostra (e ottimo suono) sul palco dei rinnovati Delirium. C’è sangue fresco ma alle tastiere impazza sempre Ettore Vigo: ha suonato coi Ricchi e poveri e coi fantastici Kim and the Cadillacs (un altro Sanremo, nel 1979, e finalmente un dubbio fugato: la benda da pirata del chitarrista era solo di scena!) e ancora oggi ricama fraseggi jazz o costruisce imponenti architetture sonore col suo organo. Mi racconta di come Bongiorno avesse rifiutato di citare, in quel Sanremo, il Mellotron che Ettore aveva avuto in prestito. L’avesse fatto, gli sarebbe stato regalato: altri tempi, altri sponsor, ma soprattutto un altro Bongiorno. Frontman della band è sempre Martin Grice. Oggi vive dietro Genova, a Sant’Olcese, paesino rinomato per dei salami da urlo. Questo zingaro del rock mi racconta in anglo-genovese del suo arrivo in Italia dopo aver suonato al Marquee coi grandi dell’epoca, da Hendrix ai Faces a Otis Redding. Preso al volo per la defezione di Fossati, prestò sax e flauto alla maturazione definitiva del sound del gruppo, un sound che ancora oggi fa faville. Hanno appena licenziato un ottimo live che ripercorre la storia della band, Vibrazioni notturne, ma in cantiere c’è pure un Delirium IV atteso da più di trent’anni. Vigo, Grice e Di Santo nella vita hanno anche fatto mestieri diversi, ma si capisce che sono musicisti veri quando gli si parla degli incontri che li hanno segnati. Come quello col maestro Severino Gazzelloni che concesse il suo flauto d’oro massiccio al coraggioso Fossati. Andò bene. E risentendoli oggi, è chiaro perché: sono maledettamente bravi. (Aprile 2007)

Private PressingForza Islanda!
C’era una volta, quando ancora batteva il Cuore di Michele Serra, una rubrica utilissima e formidabile: con un riassunto e la pagina citabile, ti permetteva di millantare letture mai avvenute. Oggi, secondo le statistiche, leggere libri è praticamente una malattia rarissima e allora – piuttosto – fa tendenza vantare ascolti musicali remoti. E più sono remoti, più farete bella figura. Grazie a una poderosa menata firmata da Wim Wenders a un certo punto andava la musica cubana. E siamo ancora nel potabile e nel probabile. Poi il grande Kusturica ci ha rimbambito di fanfare balcaniche rubacchiate dal repertorio popolare da quel geniaccio di Bregovic. E infine – e ignoro il motivo – sono arrivati gli islandesi, ‘sti stramaledetti islandesi. Mi hanno intossicato prima coi Sugarcubes; poi, in pieni anni Novanta è toccato a Bjork: sguardo allucinato e manine inquietanti, menava di brutto i giornalisti e girava film folli con Von Trier. Adesso, per darsi un tono, niente fa colpo come proclamare la propria scoperta dei Sigur Rós; “Che pace, che melodie… sembrano i Pink Floyd con una spolverata di Nick Drake!”. Appunto: ho gli originali e dormo benissimo senza ottundenti vari. Che poi a me l’Islanda è pure simpatica (anche i Sigur Rós, via): fino a due mesi prima del crollo dei mercati era un’isoletta tranquilla. Poi è venuto giù tutto quando in qualche posto sperduto nel cuore degli USA un poveretto non ha trovato i soldi per pagare il mutuo. Effetto domino e i numeri, bit immateriali, si sono trasformati magicamente in solenni inculate, fisicissime queste. Ma torno in Islanda, perché nell’isola che era felice senza petrolio, dove son tutte dottir e un golf di lana costa come un straccio di panno, han pure fatto della musica che a me piace: per esempio gli ottimi Svanfridur. Nel 1972 hanno pubblicato un unico rarissimo album, un mischione originale di hard e prog cantato in inglese, con azzeccate intuizione di basso e archi. Proprio niente male. Anni fa, quando Bregovic era il non plus ultra, gelavo la conversazione citando i Bjelo Dugme del 1975, col giovane Goran che svisava blues. Oggi, alla bestia leghista che si lamenta degli immigrati sudamericani cui piace troppo la cerveza, rispondo con i dignitosi equadoregni Mozzarella (giuro). Assaggiati, sono altamente digeribili e, se vi piace il rock FM, valgono la pena. Ma la vera soddisfazione arriva quando saltan fuori i Sigur Rós. Sono troppo avanti: ascolto anche gli Svanfridur, io. (Dicembre 2009)

HRC507Shel Shapiro è immortale, parola mia
Se dovessi elencare tutte le canzoni che hanno reso popolare Shel Shapiro, il pezzo sarebbe già bello e concluso. Ha alle spalle una carriera pazzesca, ricca di collaborazioni, scoperte, produzioni e riconoscimenti (e se dovessi fare tutti i nomi… vedi sopra), ma quando gli parli è sempre rivolto al futuro. La sua autobiografia è uscita l’estate scorsa e fa i conti con una vita, ma senza rimpianti o nostalgie, anzi, ed è tale la tensione verso i prossimi impegni che il titolo è programmaticamente Io sono immortale. Ci sono l’infanzia nella Londra del dopoguerra immersa nello smog, l’arrivo e la liberazione del corpo e della mente grazie al rock, la vitalità ingenua ma sinceramente energica dei Rokes, la tensione politica che è maturata nel tempo, le vicissitudini sentimentali e le gioie paterne, la frustrazione del successo di massa e il passaggio dietro le quinte per dedicarsi alla scrittura e alla produzione negli anni seguenti, rifiutando ad ogni costo la nostalgia televisiva (“piuttosto muoio di fame!”) alla corte di Baudo, Conti, D’Urso & company. La cosa gli avrebbe pur fatto fare qualche soldino ma lo avrebbe anche reso prigioniero di Bisogna saper perdere e delle domeniche pomeriggio via etere assieme ad altre cariatidi. Nel suo libro trovi la Roma dei Sessanta e la Milano dei Settanta solo come un inglese te le può raccontare e scopri anche liason inaspettate (l’amicizia con Mario Capanna) e altre più logiche ma mai sfruttate nel senso deteriore del termine (le sue interpreti Mina, Vanoni e Mia Martini, per dire), tutto permeato da uno humour che non sai se più british o yiddish. Shel è ribelle e capellone “oggi più di ieri e domani più di oggi”: non ha perso alcun entusiasmo e lo dimostra discorrendo davanti a una pasta col ragù e un bicchiere di rosso. Andiamo avanti per ore e confermo: è immortale e la sua saggezza non è data dall’età, ma dalla leggerezza e dall’ironia. Poi è tempo di farla finita, perché questo talentaccio è atteso da delle prove teatrali: già attore per Mario Monicelli in Brancaleone alle crociate, Shel adesso recita sul palco con Moni Ovadia. Dopo il successo di Sarà una bella società scritto col compianto Edmondo Berselli, è in tour fino a tutto marzo con Shylock: il mercante di Venezia in prova dove interpreta il personaggio eponimo. E non canterà Che colpa abbiamo noi, state sicuri. (Febbario 2011)

(Continua – 5)

Qui altre storie di Hard Rock Cafone

@DzigaCacace mette i dischi su Twitter

]]>
La grande truffa del rating (e del capitalismo finanziario) https://www.carmillaonline.com/2016/02/03/la-grande-truffa-del-rating-e-del-capitalismo-finanziario/ Wed, 03 Feb 2016 22:00:54 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28384 di Sandro Moiso

la grande scommessaLa verità è come la poesia. Piace quasi a nessuno” (udita in un bar di Washington D.C.)

Schiacciato, in Italia, tra due uscite cinematografiche di cui si è parlato forse anche troppo (“Quo vado?” – 1 gennaio – e “Revenant” – 16 gennaio) il film di Adam McKay “La grande scommessa” (7 gennaio) ha ricevuto meno attenzioni di quelle che sicuramente avrebbe meritato e merita. Certo, il film è candidato per interpretazione, regia, sceneggiatura e molto altro ancora a quasi tutti i premi cinematografici disponibili sul mercato americano, a partire proprio dagli Oscar, ma non [...]]]> di Sandro Moiso

la grande scommessaLa verità è come la poesia. Piace quasi a nessuno” (udita in un bar di Washington D.C.)

Schiacciato, in Italia, tra due uscite cinematografiche di cui si è parlato forse anche troppo (“Quo vado?” – 1 gennaio – e “Revenant” – 16 gennaio) il film di Adam McKay “La grande scommessa” (7 gennaio) ha ricevuto meno attenzioni di quelle che sicuramente avrebbe meritato e merita. Certo, il film è candidato per interpretazione, regia, sceneggiatura e molto altro ancora a quasi tutti i premi cinematografici disponibili sul mercato americano, a partire proprio dagli Oscar, ma non sono queste candidature e nemmeno la magistrale recitazione di alcuni interpreti (Steve Carell e Christian Bale su tutti) a far sì che questo film valga la pena di essere visto e recensito.

Già altri ne hanno segnalato la valenza puramente filmica e morale delle immagini, del ritmo narrativo serratissimo, degli sguardi e dei dialoghi. Ma non si tratta solo di questo. No, perché ci troviamo di fronte ad uno dei più determinati, feroci e limpidi attacchi contro il capitalismo finanziario, la sua alterigia, la sua crudeltà, la sua spietatezza e, soprattutto, la totale incompetenza dei suoi manager e dirigenti che siano mai comparso sugli schermi. Non soltanto americani.

Non si fanno sconti nel film. I personaggi sono reali, così come i nomi delle banche e delle società finanziarie coinvolte nella catastrofe che ci perseguita a partire dal 2008. Merrill Lynch, Goldman Sachs, Moody’s, Morgan Stanley, Deutsche Bank, Chase Manhattan Bank, JPMorgan, Lehman Brothers sono soltanto alcune (anche se tra le più pericolose) delle associazioni a delinquere in guanti bianchi che compaiono nel corso delle vicende narrate.

case in bilico 2Adam McKay, noto principalmente come regista del Saturday Night Live (dal 1995 al 2001) e di varie commedie oltre che come produttore cinematografico,1 basandosi sul best seller di Michael Lewis,2 pubblicato negli USA nel 2010, ricostruisce le vicende che, tra il 2006 e la fine del 2007, portarono all’esplosione della gigantesca bolla speculativa ed immobiliare venutasi a creare negli Stati Uniti a causa della diffusa abitudine di concedere mutui per l’acquisto di una casa senza badare alla solvibilità dei contraenti.

Le conseguenze di tutto ciò si misurarono in sei milioni di americani che persero la casa e in otto milioni di disoccupati in più soltanto sul territorio statunitense, mentre l’onda lunga dello tsunami finanziario si sarebbe propagata sull’intera economia mondiale con le conseguenze sociali, economiche, politiche ed occupazionali che ancora tutti ben conosciamo.

Raccontare qui le vicende di come alcuni broker si fossero resi conto della catastrofe imminente e della autentica truffa contenuta negli swap (strumenti derivati della finanza utili a facilitare lo scambio di crediti o la loro assicurazione contro eventuali rischi di default) e nei pacchetti obbligazionari venduti da banche e società di brokeraggio come sicuri, ma in realtà strapieni di titoli spazzatura, non avrebbe senso. Così come non lo avrebbe sottolineare la presunta moralità o meno dei principali protagonisti della vicenda: Michael Burry (Christian Bale), Mark Baum, basato su Steve Eisman un manager di fondi speculativi, (Steve Carell) e Jared Vennet, personaggio basato sul trader della Deutsche Bank Greg Lippmann (Ryan Gosling). Perché, al di là delle necessità di narrazione filmica, il loro intento non è morale ed ognuno di loro acquisirà, all’esplodere della crisi, un guadagno colossale. Sulla pelle di milioni di cittadini, lavoratori e piccoli proprietari di immobili e pacchetti finanziari.

A differenza, però, di un altro bel film su quella/questa crisi (Margin Call di J.P. Chandor – 2011) il lungometraggio di McKay, che ne è anche lo sceneggiatore, non si limita a suggerire un giudizio, ma espone esplicitamente la sua tesi: non ci troviamo di fronte all’avidità di alcuni oppure alla mancanza di scrupoli morali ed etici di alcune banche o società. E non ci troviamo neppure davanti ad un piano ben congegnato di cui soltanto alcuni sono al corrente mentre la stragrande maggioranza dei comuni mortali è distratta da altro o ad altri interessi affaccendata.

No, niente Trilateral, niente Club Bilderberg: siamo davanti al capitalismo nella sua età finale, puramente speculativa, avida, imbecille. In cui le società di rating non fanno altro che attribuire triple A o doppie B, o qualsiasi altro tipo di giudizio, non sulla base di ragionate ed approfondite analisi delle situazioni finanziarie oggettive, delle esposizioni e degli asset di color che lo richiedono, ma sulla base degli interessi del momento, di certezze e assunti mai testati e comprovati o, ancor peggio, soltanto per interessi di bottega o per la necessità di strappare clienti agli altri concorrenti. Mentre anche coloro che dirigono le banche centrali, si tratti dl Alan Greenspan (esplicitamente e ripetutamente citato) o dei funzionari di Bruxelles, sembrano brillare per incompetenza e superficialità al di sopra di tutti gli altri, già scadenti, comprimari.
Un’idra tentacolare ma priva di testa, la cui unica funzione cerebrale sembra essere quella ereditata dai rettili, dedita principalmente a soddisfare gli istinti primari e in cui l’aggressività svolge un ruolo fondamentale.

Un mostro acefalo e caotico che sembra trovarsi più a suo agio ad un tavolo di roulette che non a quello di una seria riflessione ed analisi della situazione economica e sociale. Non a caso il climax del film è ambientato proprio a Las Vegas, nel casinò di quel Caesar’s Palace che sembra riassumere in sé tutte le illusorie promesse e tutte le follie del capitalismo dell’azzardo finanziario. In cui i gettoni persi oppure vinti e accumulati non sono costituiti da altro che dalle vite di milioni di cittadini comuni e dai loro risparmi ed averi.

Un film che, anche se dovesse essere premiato agli Oscar, non potrebbe nemmeno suscitare le simpatie dei vari populismi grillini e leghisti. E’ un film schierato, antagonista. E la società dello spettacolo, non potendolo ignorare, farà di tutto per digerirlo e renderlo innocuo. Probabilmente senza riuscirci, poiché il messaggio di cui è portatore è troppo chiaro (sintetizzando: il capitalismo è un misto di avidità, di truffe e di merda), così come sembra essere confermato dalle più recenti statistiche sulla concentrazione della ricchezza mondiale in pochissime mani (meno dell’1% della popolazione).3

La straordinaria forza comunicativa del film, però, non è solo nella ricostruzione minuziosa e a tratti rocambolesca degli eventi. E’ l’autentico detournement di stampo situazionista che viene operato attraverso le immagini a determinarne, in alcuni momenti, la novità e l’efficacia. Se è da antologia la scena in cui una lap dancer, volteggiando sul palo, spiega a Mark Baum come si trovi ad essere intestataria di mutui per cinque ville, altrettanto valide sono quelle in cui Margot Robbie (in una vasca da bagna piena di schiuma e drink in mano) e Selena Gomez (ad un tavolo da gioco di Las Vegas) ci mettono la faccia, oltre che il nome, e spiegano agli spettatori i meccanismi finanziari messi in atto da Wall Street per accumulare profitti colossali sulle spalle degli ignari risparmiatori. Senza dimenticare il cuoco-scrittore Anthony Bourdain che affettando un pesce, ormai non più fresco, spiega come trasformarlo in una magnifica e costosa zuppa di pesce ovvero come titoli spazzatura e crediti inesigibili possano essere trasformati in “solidi” pacchetti obbligazionari. Se per caso ancora non vi fosse chiaro il linguaggio, qui espressamente semplificato, pensate pure a Banca Etruria e alle altre tre banche coinvolte nell’ultimo scandalo bancario italiano e ai risparmiatori rovinati. Ecco, ci siete arrivati? Proprio così.

working class 1Sì, perché il film ci lascia con un’unica certezza: da allora nulla è cambiato e nessuno ha pagato, se non i lavoratori e i risparmiatori che continuano a camminare sul filo del vuoto, senza alcuna speranza legale di veder risarciti i propri diritti o i propri risparmi. Ma anche su questo punto il film non scade mai nel populismo: il meccanismo funziona perché la gente ci vuole credere. Tutti vogliono la casa di proprietà e tutti sperano di arricchirsi facilmente con i pochi risparmi a disposizione. Punto. Ora tutti a casa.

Ma non prima di essere rimasti seduti fino al termine dei titoli di coda per ascoltare i Led Zeppelin interpretare il brano più adatto a concludere il film: When The Levee Breaks, un blues scritto ed interpretato per la prima volta nel 1929 da Kansas Joe McCoy e da sua moglie Memphis Minnie.
Quando il pranzo di gala finisce, appunto. Come in quell’altra “grande crisi” degli anni trenta di cui, inevitabilmente, si parla molto nel film, soprattutto attraverso i dialoghi di Mike Burry/Christian Bale.


  1. Uno degli ultimi film prodotti è stato Duri si diventa di Etan Cohen, 2015  

  2. The Big Short – Il grande scoperto, Rizzoli 2011  

  3. http://vocidallestero.it/2015/10/18/theguardian-la-meta-della-ricchezza-mondiale-nelle-mani-dell1-della-popolazione/  

]]>
Hard Rock Cafone #4 https://www.carmillaonline.com/2016/01/14/hard-rock-cafone-4/ Thu, 14 Jan 2016 20:00:38 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27782 di Dziga Cacace

hrc401The Doors, senza capo né coda Sarà stato per colpa dell’adesivo col logo classico del gruppo, appiccicato dietro ogni Golf che sgasava ribelle ai semafori, ma io ho sempre avuto un rapporto di amore e odio nei confronti dei Doors, la cui mitizzazione, da oltre quarant’anni, va al di là del reale valore musicale (intendiamoci, notevolissimo). Mentre io preferivo orrendi beautiful losers come Janis Joplin o Johnny Winter, tutti e soprattutto tutte perdevano le bave per Jim Morrison e i suoi poster, dove campeggiava seminudo come un Cristo [...]]]> di Dziga Cacace

hrc401The Doors, senza capo né coda
Sarà stato per colpa dell’adesivo col logo classico del gruppo, appiccicato dietro ogni Golf che sgasava ribelle ai semafori, ma io ho sempre avuto un rapporto di amore e odio nei confronti dei Doors, la cui mitizzazione, da oltre quarant’anni, va al di là del reale valore musicale (intendiamoci, notevolissimo). Mentre io preferivo orrendi beautiful losers come Janis Joplin o Johnny Winter, tutti e soprattutto tutte perdevano le bave per Jim Morrison e i suoi poster, dove campeggiava seminudo come un Cristo in croce. Avevo anche difficoltà a considerarlo un grande poeta, James Douglas, specie se mi capitava di leggere versi come “Non si può camminare attraverso specchi o nuotare attraverso finestre” o di incappare in rifritture liriche da liceale in fregola con la tragedia greca. Ma vabbeh, problemi miei. Salvo che i Doors continuavano e continuano – in un eterno presente – a riproporsi come una volgare peperonata all’aglio per perseguitarmi senza tregua. Del resto abbiamo i Queen senza Freddie Mercury, i Lynyrd Skynyrd senza Ronnie Van Zant e, l’anno scorso, i Faces senza Rod Stewart (che è un po’ come se fosse morto). L’utilizzo redditizio del brand e la fame di nostalgia non hanno stoppato i componenti della band rimasti, gli eredi e i discografici, nonostante l’identificazione univoca del gruppo con il suo estinto membro (non uso il termine “membro” a caso). I Doors morrisonless decisero di continuare fin da subito, sfornando due dischi sicuramente sinceri ma francamente imbarazzanti. Non indecentissimi, sia chiaro, pure con qualche ideuzza, però schiacciati dal confronto monumentale coi precedenti in quartetto, peraltro non tutti eccelsi (penso a The Soft Parade, per dire), ma al Mito non si comanda. Passo indietro: il panzuto e barbuto Jim era a Parigi in fase bohème, stanco di rock e incapricciato come un quindicenne di scapigliatura a base di droga. Forse fatale, chissà. Frequentava Agnes Varda e da lontano Bernardo Bertolucci che stava colà concependo un ultimo tango. L’ultimo per Morrison fu il 3 luglio 1971: da 40 anni circolano diverse ipotesi, tra cui quella più probabile della “fine dell’aragosta”, per la quale il collasso decisivo in vasca fu dovuto a temperatura eccessiva dell’acqua. In USA si stava già lavoricchiando a un nuovo disco ma il poetastro, comprensibilmente, a quel punto non si fa più vivo e i superstiti attoniti reagiscono registrando furiosamente, tanto che a neanche tre mesi dalla morte dell’enfio bardo, nell’ottobre 1971, pubblicano Other Voices. Voci che però non beneficiano del classico “effetto salma fresca” che renderà felici gli eredi di Hendrix, Marley e Mercury: l’album si vende poco ma gli orfani dello sciamano hanno le idee chiare come Bersani quando parla a più di cinque persone e danno sfogo a ulteriori voglie canterine con Full Circle. L’ulteriore prova discografica bordeggia prog e jazz rock ed esce nell’estate ’72: è una fetecchia ma se ne accorgono di nuovo in pochi. Sinché nel 1978, pensa che ti ripensa, i tre non azzeccano la giusta trovata, “47 morto che parla”: si suona infatti musica soffusa intorno alla voce registrata di Jim che recita tronfie poesiuole. Ne viene fuori An American Prayer, questo sì vendutissimo e ispiratore di altre operazioni extracorporee, tipo il duetto di Natalie Cole col papà secco o i Beatles che accompagnano la voce effettata del trapassato Lennon in Free As A Bird. Bene, gli avanzi dei Doors si mettono finalmente il cuore e il portafogli in pace? Macché: nel 2002 Ray Manzarek, all’organetto Bontempi, e Robbie Krieger, alla chitarra, tornano in concerto coll’ex cantante dei tamarrissimi Cult, Ian Astbury. Il batterista John Densmore, offeso, li diffida e la faccenda finisce in tribunale. Ma anche se non possono usare più il nome Doors, Manzarek, Krieger e Astbury sono ancora in tour per la gioia dei necrofili. Tiè. (Dicembre 2011)

hrc402Crimini galattici: i Rockets
Erano anni strani, quelli sul finire dei Settanta: ricordo un sedicente Actarus cantare Ufo Robot (quella dove Goldrake si ciba di insalata di matematica, per intenderci) a Superclassifica Show, tra il Telegattone e Maurizio Seymandi. Quest’Actarus era vestito proprio come il cartone animato, con la faccia celata dall’elmetto, modo geniale per fare il playback senza neanche la fatica del lip synch. E la canzone era suonata da Ares Tavolazzi (ex Area, poi con Guccini e tanti altri) e il grande Vince Tempera, mica cazzetti… Anni strani che premiavano in classifica cose così. O come i Rockets, un gruppo di zarri francesi che, visto il successo planetario dei Kiss, si dovevano essere detti: e noi chi siamo, i figli della serva? Per il look si affidarono a costumi spaziali, make up argenteo, inquietanti pelate mussoliniane e chitarre dal design futuristico. La musica invece abbondava di voci filtrate su ritmiche sintetiche; ma c’era pure qualche retaggio space rock e pinkfloydiano. Risultato? Personalmente abominevole, ma di grande successo: pezzi ipnotici lunghissimi, nonché ottimi tappeti da remixare in discoteca. E del resto i Kiss stavano giungendo alle stesse conclusioni con I Was Made For Lovin’ You. Il tutto era venduto in album con immagini e lettering degne di un Urania d’accatto. Il gruppo fece il botto e sfido a trovare qualcuno della mia generazione che non abbia ballato Galactica mimando le movenze di un robot. Il fenomeno poi sfumò malinconicamente e cominciò a circolare l’inverificabile ma suggestiva notizia che i Rockets fossero scomparsi dalle scene vittime del make up tossico, storia che faceva il paio con quella di Daniela Goggi ferita dall’esplosione in faccia dall’enorme bolla rosa di un Big Bubble (che – sempre per rimanere in ambito di leggende – si diceva fossero prodotti con grasso di coda di topo). Comunque la memoria è una brutta bestia e i Rockets hanno continuato ad avere accesissimi fan anche qui da noi e basta vedere in Rete i siti meticolosi che gli sono dedicati. E per omaggiare questi strampalati eroi, Elio e le Storie Tese nel 1996 hanno pure vinto il Festival di Sanremo (vinto eccome, c’è una sentenza) presentandosi sul palco conciati come loro. Beh, se avete nostalgia anche voi, gratificatevi con l’oggetto volante non identificato arrivato nei negozi di dischi questo inverno: un lussuoso cofanettone con l’opera omnia di ‘sti pazzi, assolutamente galattico. (Ottobre 2008)

hrc403Lucio Battisti: Amore e non amore
Comodo parlare di Battisti solo nelle feste comandate, attingendo alle stesse bio e dicendo sempre le stesse cose. Voglio vedere chi ricorderà questo mese i quarant’anni di Amore e non amore, un album oscurato da ciò che Lucio avrebbe prodotto dopo, col genio cantautorale pop dei Settanta e l’ermetismo gelido e avantissimo degli Ottanta. Ma senza quel Battisti lì, no Vasco, no Liga, no Zucchero e potrei andare avanti, includendo tantissimi altri, dai vari finto-indie fino a Marco Mengoni. Perché lui, Lucio, in fondo all’animo, era uno hippie di Poggio Bustone che in tivù cantava a squarciagola Let the Sunshine In da Hair (e di cui qualcosa avrebbe ripreso in Due mondi, su Anima latina) o Proud Mary dei Creedence Clearwater Revival, e che nel piano quinquennale 69/74, assieme a Mogol, ha fatto tanto rock, anche hard, pure cafone, sempre bellissimo. Psichedelico con tocchi di Doors e Led Zeppelin (il triangolo alla Rashomon de Le tre verità), hendrixiano (Insieme a te sto bene), jammato con la futura PFM (Dio mio no, Supermarket), bluesato (Il tempo di morire) o metropolitano (la misconosciuta e bellissima Elena no). E al fido Alberto Radius ha prodotto pure un disco di session unico in questo paese poco ritmico e molto melodico. In Amore e non amore ci sono quattro brani più o meno canonici (oltre alle storte Dio mio no e Supermarket, il rock alla Little Richard di Se la mia pelle vuoi e il r&b di Una) e poi quattro composizioni di musica pura, orchestrale ed intrigante, cui Mogol ha messo il marchio con titoli narrativi, tipo Una poltrona, un bicchiere di cognac, un televisore. 35 morti ai confini di Israele e Giordania. Sulla copertina agreste (cavallo e donna gnuda sullo sfondo) Lucio sfodera una tuba, dieci anni prima di Rino Gaetano e trenta prima di Capossela, ma è nella musica che trovate la modernità di questo capolavoro dimenticato. Comunque: gli hanno scassato la minchia perché era tirchio, per una foto negata o un autografo non firmato. E perché era sempre primo in classifica e perché lo volevano fascista, per quanto amico di Demetrio Stratos e di tutta l’Area musicale milanese sinistrorsa. Invece era un genio, magari burino e scontroso, ma un genio. Ho troppo poco spazio per dimostrarvelo, ma i dischi son lì, basta ascoltarli. Qualche critico, anni fa, non l’ha fatto e oggi lo dà per assodato, senza però sbattersi a capire perché o per ricordarvelo. Sciocco. (Luglio 2011)

hrc05Zio Ted
Ted Nugent, quale fantastico cialtrone! Chi vent’anni fa aveva vent’anni, se lo filò poco: in anni di cantautori impegnati e punk rockers nichilisti come dar retta all’istrionico chitarrista che si presentava a torso nudo sul palco, indossando pantacollant di lurex e coda di procione tra le chiappe? La sua chitarra macinava riff granitici urlacchiando dal Marshall a palla e l’ironia del Motor City Madman non era neanche vagamente considerata: per i giovani impegnati italiani quello era un’autentica bestemmia, un dannato yankee che professava il ritorno allo stato di natura, arrivava sul palco pendendo da una liana e predicando l’arte venatoria. Inoltre il nostro esibiva una capigliatura leonina, rifiutava droghe e alcol, si esibiva in pose machistiche trattando le donne (nelle canzoni e sulle copertine degli album) come minus habens in estatica adorazione e sfidava altri chitarristi in duelli che si concludevano immancabilmente con la sua vittoria. Il circo, né più né meno, e Nugent era il nuovo Buffalo Bill. Beh: passano gli anni, cadono gli steccati tra generi musicali, il metal si coniuga con il rap, si rimescola tutto, istanze poetiche e anche politiche: vuoi vedere che anche Nugent, con la maturità, è diventato potabile? Il recentissimo (e tutto sommato godibile) DVD Full Bluntal Nugity Live fuga ogni dubbio e speranza: il vecchio zio Ted non è cambiato per niente, anzi. Lo show parte con il nostro eroe a cavalcioni di un pacifico bisonte. Dopo aver liberato la scena dal ruminante bestione, Ted aizza la folla coi suoi proclami sulla natura virile del vero uomo nordamericano e si scatena massacrando il suo repertorio storico. Ma non è tutto: la mazzata finale arriva dal satellite. Su VH1 è in onda il reality show Surviving Nugent: sette partecipanti (apostrofati affettuosamente “monkey”) devono sopravvivere nel micidiale ranch Nugent vicino Detroit. Partecipano anche un vegetariano, un gay e una animalista, vittime predestinate dell’incorreggibile guitar man. Se però poi uno pensa ad Adriano Pappalardo sull’Isola dei famosi, conclude che, sì: in fondo il momento della rivalutazione di Ted Nugent è effettivamente arrivato, alla faccia del Guccini dei nostri vent’anni. Amen. (Gennaio 2004)

hrc04Lunga vita ai New Trolls
Non date retta a chi vi spaccia per dischi della vita quelli con protagonisti che hanno il solo merito di essersi accoppiati con una top model ed essere finiti in overdose, senza neanche il buon gusto di levarsi definitivamente di torno (siete voi che avete pensato a Pete Doherty, io non ho detto nulla). Il rock, quello buono, non ha età e capita che uno dei migliori dischi dell’anno venga da un gruppo con 40 anni di storia alle spalle, i New Trolls. L’impresa sembrava impossibile, ma i due leader storici Nico Di Palo e Vittorio De Scalzi hanno messo da parte vecchie ruggini e battaglie giudiziarie risibili per l’utilizzo del nome del gruppo e si sono impegnati a scrivere il definitivo Concerto grosso, erede dei primi due usciti negli anni Settanta. The Seven Season è il perfetto connubio di sapori antichi e sonorità moderne, con l’orchestra barocca diretta dal violoncellista hard Stefano Cabrera che accompagna, contrasta o risponde a un esuberante sestetto rock. Il risultato finale è una goduria e si sente che hanno lavorato “con lentezza” e grazie all’amore certosino dei produttori Iaia De Capitani e Franz Di Cioccio (instancabile, appena festeggiati i 35 anni della PFM ha anche licenziato un album degli Slow Feet, proprio con De Scalzi). Certo, io sarò parziale, ma non posso farci niente: se cresci ascoltando sul paterno vinile originale Nella sala vuota, improvvisazioni dei New Trolls registrate in diretta rimani indelebilmente segnato (era l’intero secondo lato del primo storico Concerto Grosso, scritto e diretto da Luis Enriquéz Bacalov). E poteva anche andarmi peggio perché mio padre aveva pure un Lp di Stephen Schlacks (a sua discolpa, era un regalo). Comunque oggi Vittorio e Nico sono in gran forma: li incontro e mi ricordano quando al Vigorelli nel 1971, prima che coi Led Zeppelin andasse tutto in vacca, presero i complimenti di Jimmy Page. E non solo: hanno suonato coi Rolling Stones, Nina Simone, Stevie Wonder e Fabrizio De André, hanno scritto pezzi commoventi come Una miniera, hanno sperimentato tempi dispari e voci alla Bee Gees, partecipando pure al film Terzo canale, un misconosciuto gioiello cinematografico flower-pop italiano: sono la nostra storia, insomma, e se quest’estate ve li siete persi dal vivo, è in uscita un Dvd registrato con orchestra a Trieste che documenta il tour che li ha portati in Messico, Giappone e Corea, con scene di tripudio imbarazzanti. Che dire d’altro? Questi ragazzacci che non vogliono smettere hanno un solo difetto: sono genovesi e tifano per una squadra di Sampierdarena. Ma tutto tutto non si può pretendere, no? (Dicembre 2007)

hrc06Il blues cacirro di Eric Sardinas
Pistoia Blues 2004. Metà pomeriggio della seconda giornata; sale sul palco tale Eric Sardinas e sembra un incrocio tra uno zombie, un cowboy e Slash. Primi mugugni nel selezionato pubblico di puristi cagacazzo che ricordano ancora la prima volta che hanno visto Mayall e sembrano non essersi ripresi, tanto da non tollerare alcuna innovazione. Dopo qualche minuto – in cui il suddetto Eric maltratta un dobro ricavandone note lancinanti e urla ferine, autentiche coltellate nella carne viva del blues – i cagacazzo cominciano ad interessarsi sinché si arriva in un amen alla chitarra flambée, trovata scenica sempre apprezzata, specie se la chitarra viene spenta e suonata ancora (è in metallo, non brucia. Scotta però) in un finale in tutti sensi incandescente. Pubblico conquistato. Bene, questo bel figuro lo incontro in una seratina gelida di marzo a Trezzo sull’Adda, nel nuovo locale Live che se ancora non l’avete visitato, merita: è una splendida roadhouse pensata per la musica da gente che la musica la ama e lotta in questo paese di caproni dove se dici “melodia” la gente pensa alla suoneria del telefonino. Con Eric chiacchiero amabilmente di blues, genere dato sempre per morto, relegato a bettole fumose eppure sempre pronto a rinascere. Negli ultimi anni lo han rivitalizzato il debordante Popa Chubby, i crudissimi Black Keys e anche i nostrani adorabili Bud Spencer Blues Explosion si son dati da fare. Sardinas, con stivale a punta, cappellaccio, boccoli neri e pizzetto luciferino, rinverdisce il mito dell’indimenticato John Campbell ed è l’ultimo erede della nobile arte dello scorticamento chitarristico tramite slide. Nei camerini il giovane è tranquillo, pacioso, sorridente, ma sul palco si trasforma in una belva e soggioga il pubblico dopo poche note, con un boogie blues urlato, demoniaco nell’inneggiare ad alcol e donne: un invito al deboscio generalizzato, col ghigno perverso e l’esagerazione istrionica di uno Screamin’ Jay Hawkins. Sponsorizzato da Steve Vai, Sardinas ricorda proprio il guitar hero come appariva nella fetenzia di film che era Crossroads, con l’incedere da sbulaccone e la chitarra puntata come un mitra. Torna da ‘ste parti a fine giugno al Torrita Blues festival e a Treviso e non me lo lascerei scappare: quando il blues torna alla sua verità nuda e cruda e viene giù come la grandine, ci fa dimenticare bluff come John Mayer – per dirne uno, presto scomparso – annebbiato da troppi soldi e showbiz. (Maggio 2010)

UNSPECIFIED - MARCH 01: Photo of DEEP PURPLE and Ritchie BLACKMORE; Guitarist with Deep Purple, smashing guitar against speakers on US tour, (Photo by Fin Costello/Redferns)Fumo sull’acqua e altre storie
Montreux è una ridente località elvetica, sul lago di Ginevra. Ha 22mila abitanti, è chiaramente ordinata e pulita e sulla passeggiata del lungolago è esposta una mostruosa statua di Freddie Mercury nano con a contorno una cafonissima scritta in metallo sbalzato lunga dieci metri: “Smoke on the Water”. Infatti nel dicembre 1971 i Deep Purple erano lì per registrare l’album capolavoro Machine Head, ma un petardo lanciato durante un concerto al casinò delle Mothers di Frank Zappa ridusse il locale in cenere. Smoke on the Water racconta con asciutto lirismo i fatti pari pari e venne inserita nell’album senza convinzione. Nessuno prevedeva il futuro da riff universale per qualunque aspirante chitarrista. Né, tantomeno, che sarebbe diventata la sigla di Lucignolo, il buco del culo di Italia1. Montreux, comunque, ospita da quarant’anni un jazz festival molto rock & roll e recentemente il patron Claude Nobs (il “funky Claude” citato nella suddetta Smoke) ha cominciato a licenziare in Dvd i concerti che hanno fatto la storia di questa manifestazione. Come quello appena uscito in cui i Deep Purple festeggiano i 25 anni del loro inno. Un Dvd splendido che fa finalmente giustizia, giacché i nostri hanno sempre avuto un rapporto bestiale con le immagini: hanno cominciato nel 1968, in tour in USA, finendo a esibirsi al Gioco delle coppie, giuro. In Rete una volta ho trovato poi un’altra apparizione televisiva incredibile, con Blackmore che, in playback, fingeva ostentatamente di suonare la chitarra sul legno, tenendola al contrario, con le corde sulla pancia. Ma la migliore Ritchie se l’era tenuta per la California Jam del 1974, concerto con mezzo milione di presenti e un cameraman un po’ invasivo. L’uomo in nero decise di saggiare la resistenza della telecamera e voi – in immagini ormai storiche – potete vedere in soggettiva l’effetto che fa il manico di una Strato dentro un obbiettivo. Poi anni di videoclip che facevano letteralmente cagare hanno portato i Deep Purple alla drastica decisione di affidarsi solo a riprese live e non sapere se l’imprevedibile Blackmore avrebbe tirato un gavettone o fatto un assolo rendeva ogni ripresa più saporita. L’ultimo scazzo con un cameraman è del 1993, quando il chitarrista lanciò bicchierate di birra e abbandonò il palco imbufalito. Da allora la frattura col gruppo è diventata insanabile: Blackmore si è felicemente smarrito in una fiaba dei fratelli Grimm e ha preteso che i superstiti non usassero la sua immagine nel merchandising. Fino alla prossima reunion, si spera. (Agosto 2007)

(Continua – 4)

@DzigaCacace usa Twitter come un tumblr

]]>
Divine Divane Visioni (Cinema porno 08/11) – 73 https://www.carmillaonline.com/2015/10/01/divine-divane-visioni-cinema-porno-0811-73/ Thu, 01 Oct 2015 20:02:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25013 di Dziga Cacace 

ddv7301E pensare che io, fosse per me, chissà cosa farei

812 – Incazzarsi dibbestia per Noi credevamo di Mario Martone, Italia/Francia 2010 Noi credevamo che fosse un bel film. Perché quando è uscito in poche copie c’è stato il piagnisteo generale sulle pagine ufficiali della cultura di tutti i rispettabili quotidiani borghesi di questo paese: «Ma come! Questo film va visto! Anzi: va fatto vedere!», e del resto il reato di tortura non è ancora contemplato dal nostro ordinamento giuridico. Qualche critico altolocato e diversi colleghi hanno parlato di capolavoro penalizzato dalla [...]]]> di Dziga Cacace 

ddv7301E pensare che io, fosse per me, chissà cosa farei

812 – Incazzarsi dibbestia per Noi credevamo di Mario Martone, Italia/Francia 2010
Noi credevamo che fosse un bel film. Perché quando è uscito in poche copie c’è stato il piagnisteo generale sulle pagine ufficiali della cultura di tutti i rispettabili quotidiani borghesi di questo paese: «Ma come! Questo film va visto! Anzi: va fatto vedere!», e del resto il reato di tortura non è ancora contemplato dal nostro ordinamento giuridico. Qualche critico altolocato e diversi colleghi hanno parlato di capolavoro penalizzato dalla miopia nazionale e vai con la solita lagna – dove andremo a finire, signora mia! – che non sappiamo valorizzare le nostre opere e qui e là. La verità, la mia verità, però, è che Noi credevamo è un film inerte, intorcinato, plumbeo, girato in spazi angusti (perché pensato angustamente), senza rispetto per lo spettatore, pensando a sé come autore che fa un po’ il cazzo che gli pare coi soldi dello Stato e poi so’ cazzi tua capire cosa voglio dire. Che non è difficile intuire subito: il Risorgimento nasce in un clima torbido, tra attese e tradimenti, e questo continuo gioco sotterraneo e insincero è la base dell’Italia, un albero dalle radici marce. Solo che a raccontarlo così ti marciscono anche i coglioni e fin dai primi minuti. Allora: un film è un racconto, ma se fai di tutto perché non ti ascolti nessuno, amico mio, allora diventa un soliloquio e il problema è tuo, eh. E mica voglio limitare la voglia di sperimentare con la narrazione o di essere ostico, ci mancherebbe. Però se mi porti nel tuo carruggio e mi fai fare questo giro tortuoso, poi voglio arrivare davanti a un panorama magnifico. E invece qui è come se camminassimo per tre ore sotto il sole a picco, tra sterpi, merde di capra e vipere per arrivare a vedere Punta Perotti. Le vicende narrate precise ve le cercate in Rete – in due parole: tre giovani fanno il Risorgimento, con esiti diversi e comunque comune delusione – vi dico solo che il commissario Montalbano in una precedente incarnazione è stato Francesco Crispi, mafiosetto e coinvolto nell’attentato a Napoleone III che costò la vita a Orsini. Forse (io ci ho sempre creduto, m’è bastata la parola di quell’ira di Dio di Carlo Di Rudio, ecco). Comunque: a me è mancato clamorosamente una narrazione coerente e un’idea di cinema. Ho visto del teatro filmato e neanche bene, senza equilibrio nel racconto. Attori bravi, direi. Ma manca troppo altro: due ore e quaranta di un’opera che si voleva anche didattica, che sapesse celebrare criticamente l’unità d’Italia; e invece abbiamo una pallata, involuta, ostica, respingente. Non ho trovato neanche – perché poi son capace di accontentarmi di un po’ di plasticità, io, che diamine – alcuna invenzione visiva, nessuna immagine che mi abbia fatto sgranare gli occhi: tutto piattissimo, senza vita, inanimato. Che poi, no, qualche bella inquadratura c’è, ma proprio le conti sulle dita e su questa durata è pochissimo: io voglio notare quando l’inquadratura è sciatta, non il contrario. È come se andassi al ristorante e lo chef non si preoccupasse della freschezza delle materie prime, dell’uso dei condimenti e della cottura… a fine cena cosa dico? Però i grissini, buoni? Eddai, Marto’, eh. Giancarlo De Cataldo, cospiratore col regista, nel suo romanzo I traditori – che con Noi credevamo ha molto in comune – usa delle furbizie (sesso e carnazza, duelli etc.), degli accorgimenti, ma anche un controllo astuto della materia narrativa: le storie si aprono e si chiudono. Certo che col romanzo è più semplice, ma nessuno ha ordinato di farne un film: qui è tutto triste ed esangue, ripetuto mille volte, con alcune parti girate praticamente come 24, in tempo reale… C’è un episodio ambientato in un carcere che – giuro – potrebbe essere l’espediente per estorcere confessioni (l’episodio, non il carcere). Vabbeh: gli è venuto male? Forse. E non sarà un problema (anche se sulla faccenda dei soldi pubblici ci sarebbe da discutere, ma lo facciamo un’altra volta). O magari il problema è nostro, penso durante la visione, di fianco a Barbara che sbuffa anch’essa. E poi, all’improvviso, cosa ti vedo sul grande schermo? Una bella struttura scheletrica in cemento armato, a metà Ottocento. Non scherzo. Mi dico: no, un errore non può essere, sarebbe veramente al di là del bene e del male. E allora capisco: la METAFORA (bestemmione da scomunica censurato). L’Italia è il paese la cui edificazione è rimasta a metà, capisci?, coi tondini arrugginiti che escono ancora dai pilastri, aspettando di tirar su le pareti e di completare la costruzione. E allora quando ghigliottinano Orsini e percorrono una scalinata in griglia metallica con cent’anni di anticipo sulla sua concezione, lì, la metafora qual è? Che i francesi avevano direttori di cantiere avantissimo? O sono sciatterie che da Autori ci possiamo permettere, tanto chi se ne frega? Ecco, lì ho perso la testa, lo confesso. M’è venuto lo s’ciupun e ogni cosa, a quel punto è diventata fonte di irritazione, come la prima dell’Hernani o i garibaldini che nella vita combattono e recitano e lo fanno notare più volte… Martone, mabbasta! La mistica del teatro e il pubblico con la sciarpetta che partecipa al rito borghese e poi si va a scofanare un piatto de cozze, a te t’ha rovinato, credimi. Una consolazione, almeno, l’avrò trovata? Massì, la nasuta Francesca Inaudi, qui contessa di Belgiojoso, con quel collo da cigno, il petto affannato e l’aria smarrita come in una tela di Boldini… A tanto mi riduco. (Cinema Ariosto, Milano; 7/1/11)

ddv7302814 – Non è ancora domani (La pivellina) di Tizza Crovi e Rainer Frimmel, Austria/Italia 2009 e la mia intervista al Maestro Bernardo Bertolucci, o quasi
Film tenerissimo, quasi documentaristico: una messa in scena zavattiniana e minimale sovrastata da una ricchezza di sentimenti straripante. Nel quartiere di San Basilio a Roma la signora Patty trova una bimba abbandonata in un parco. Due anni di dolcezza innocente di cui si innamorano tutti, nel campo di roulotte dove Patty vive. E la pivellina cresce tra artisti di strada, improvvisati fratelli maggiori e Patty che vuole sapere di più. Grande intensità e nessun appeal commerciale, ma questo film sa aprirti il cuore, segnatevelo. Ah: in questi giorni s’è consumata una tragedia! Ricordo a quelli di Rolling Stone che il Maestro Bertolucci compie settant’anni a breve, il 16 marzo: urge articolo barra intervista barra celebrazione. Il direttore mi dice: bravo! Va e uccidi! Allora chiamo Bernardo a casa ed è gentilissimo, parla e ascolta il suo fan un po’ scemotto. Ci mettiamo d’accordo per un ulteriore appuntamento telefonico per definire giorno e ora, a Roma, per un’intervista vis-à-vis. Quando lo richiamo alla vigilia dell’incontro lo sento in grande difficoltà finché non mi chiede un po’ scocciato come funzionino le cose a Rolling Stone. Me lo chiedo anch’io, perché sarà Enrico Ghezzi a intervistarlo, nonostante io avessi già ottenuto consenso e stabilito tutto con la redazione. Grande imbarazzo – e di fronte a Ghezzi non mi metto certo a fare casino, anche se la sua intervista in ostrogoto sarà comprensibile a sole tre persone, BB, lui e io – ma il Maestro intuisce il mio disagio e anzi mi consola e mi racconta ancora, soddisfacendo ogni mia curiosità. Parlottiamo un po’ di tutto (anche di Jim Morrison e Agnès Varda o di Pink Floyd e David Gilmour a Sabaudia, suo ospite) però poi, a malincuore, tocca attaccare. Per cui, alla fine, è come se l’avessi intervistato, ma solo per me. Tiè, Ghezzi. (Dvd; 13/1/11)

ddv7303815 – Brutto forte, Jumanji di Joe Johnston, USA 1995
Film per bambini nonostante bordeggi l’horror (sempre per bambini). È ripetitivo, non simpatico, non coinvolgente, con effetti, trucchi e trucco – oltretutto – di scarso valore. La fotografia autunnale è bruttina e il cast presenta assortite facce da scemi su cui spicca Kirsten Dunst con la sua consueta espressione da procione, con gli occhi incavati. Robin Williams è un po’ Re pescatore, un po’ prof da Attimo fuggente, un po’ – insomma – lo stesso personaggio che interpreta sempre. A Sofia il film piace, a me per niente: spero di non doverlo vedere più di dieci volte. (Dvd; 15/1/11)

ddv7304816 – Per la serie “Cartoni che mi vorrei scopare”, Biancaneve e i sette nani di David Hand, USA 1937
La più bella del reame? Ma dove? Ma mille volte la Regina, mi piglio, io! Ma hai visto che occhietti sordidi, quella bella signora un po’ goth girl? E pure esperta in arti magiche… ma t’immagini i giochini che ti fa ‘sta qui se si beve il filtro? E la mela sai dove te la mette? E invece no, l’eroina è la benedetta Biancaneve che, a dispetto di un nome da cocainomane persa, è invece una verginella che rassetta casa, sempre con lo straccio in mano per togliere qualsivoglia filo di polvere, con gli occhioni sgranati e la boccuccia a cuoricino… giusto un principe necrofilo se la può baciare una così, una già morta dentro prima che addenti la renetta avvelenata. Naaa, no way, il Cacace non ci sta! Detto questo, il film è tecnicamente clamoroso, animato benissimo, con sfondi acquerellati da urlo e pieno d’invenzioni visive che danno ritmo a una vicenda esilissima e straconosciuta e comunque variata perché Disney vedeva lontano e conosceva bene la parola “adattamento”. L’avevamo negato a Sofia temendo reazioni scomposte (la cugina Anna non ha mangiato mele per un anno e diceva che mia nonna era la strega cattiva), invece è andata bene anche con la piccola Elena. Bisogna fortificarle fin da piccole, queste: non sanno cosa le aspetta là fuori. Il dvd è ricco di bonus e tra le diverse scene tagliate presenta anche quella clamorosa della gang bang dei sette nani con Biancaneve finalmente scatenata. No, scherzo, purtroppo. Comunque extra interessanti, se siete un po’ depressi e volete vedere come si realizza un cartone. (Dvd; 17/1/11)

ddv7305817 – Preferirei di no, ma Baciami ancora, di Gabriele Muccino, Italia 2010
Menami ancora, dovrebbe chiamarsi ‘sta roba, con riferimento particolare al regista. Non so neanche da dove cominciare… è il sequel de L’ultimo bacio e i difetti del predecessore sono esasperati fino al ridicolo. È tutto gonfiato all’inverosimile e risulta completamente fasullo, come il plot raccontato con nessuna attenzione alla crescita, allo sviluppo, alla definizione psicologica dei protagonisti in una successione di scene madri fuori controllo, montate velocissime, commentate da musiche mixate male, con un sacco di cantato che si sovrappone ai dialoghi. Abbiamo le corse forsennate sotto la pioggia, le urla disperate, i pianti a dirotto, i pentimenti accorati, Stefano Accorsi che canta la Vanoni o che in voce off enuncia perle come “è per la mancanza di cura nelle cose più semplici che facciamo gli errori più grandi” oppure “gli errori si pagano tutti”… Ma l’avete scritto scopiazzando dei Baci Perugina? Nei credits scopro che i cosceneggiatori del regista sono gli ineffabili Rulli e Petraglia, capaci di concepire una scena in cui una madre legge a un bimbo di dieci anni… Moby Dick. Giuro. Mica una versione semplificata, no, proprio Melville. Muccino e i due impuniti hanno presente Moby Dick? Letto a un bambino di dieci anni? E perché non l’Ulisse di Joyce, già che ci siamo? I fratelli Karamazov, no? Mah. (Gli farei l’assolo di Moby Dick, ma dei Led Zeppelin, in testa). Finisce in ulteriore vacca con parti concitate, promesse solenni e già la certezza che si faranno tutti nuove corna con annessi scazzi violenti, bimbi traumatizzati etc. etc. In questa corsa al ridicolo la regia infila due riferimenti kitschissimi a Il cacciatore (quando la compagnia di amici idioti canta in macchina e nelle scene della roulette russa), uno a C’eravamo tanto amati e un omaggio all’amico americano Will Smith, come a rimpiangere qualcuno che, almeno, sa recitare. Perché il vero crollo di un film ambientato in questa città magica, Roma, dove c’è sempre il parcheggio libero sotto casa, sono gli attori. Salvo per amore incondizionato Vittoria Puccini e per simpatia Pierfrancesco Favino, ma il resto del cast sembra una combriccola di amatori in gara per la peggiore interpretazione possibile. Ma non c’è gara, vince con distacco abissale Accorsi: “Quando un attore è stonato e senza talento viene definito cane… ecco il termine è perfetto nel caso specifico”. Infatti, meglio di così era impossibile sintetizzare ciò che si pensa dell’attore che questa frase la pronuncia, un Accorsi, appunto, con la faccia sempre perplessa, come se si chiedesse – giustamente – come sia finito lì. Quanto è carogna Muccino, a fargli enunciare questo epitaffio? Gli altri: il giovane Giannini, Adriano, recita sempre ingobbito, sembrando un incrocio tra sua padre Giancarlo e Silvio Orlando; Giorgio Pasotti è truccato come Giovanni di Aldo, Giovanni e Giacomo quando interpretava Johnny Glamour, ed è francamente inguardabile. Del resto Accorsi è pettinato come Donald Sutherland nel Casanova, per cui tutto torna. Ah: e poi c’è Valeria Bruni Tedeschi, il mistero gaudioso del cinema francese e italiano, l’imbarazzo puro, una che eviteresti di riprendere anche nel filmino delle vacanze. Un solo pregio consolatorio per il pubblico che ha speso i soldi del biglietto di questa troiata: lo vedi e ti senti tutto il tempo Einstein. (Dvd; 22/1/11)

ddv7306818 – Io non ho capito granché Basilicata coast to coast di Rocco Papaleo, Italia 2010
Film che ha ricevuto tanta simpatia critica e anche un discreto riscontro di pubblico. Lo proviamo in una sera in cui Barbara rifiuta i miei documentari bellissimi perché vuole ridere. Figurati! Un gruppo di amici suonatori decide di attraversare a piedi la Basilicata dal Tirreno allo Ionico (o il contrario, ho già rimosso) per arrivare a suonare in una festa di piazza. Contrattempi, amori, canzoni indolenti, incontri, destini che si incrociano e scoperte. Basilicata coast to coast è inerte e inoffensivo, ha lo scatto del ronzino che porta gli strumenti dei nostri eroi, ma come se gli avessero segato i garretti. È un film civile e come fai a parlarne male? Un inno alla Basilicata, alla sua gente discreta, alla sua cucina stratosferica, ai paesaggi clamorosi. Però, ragazzi, manca la storia, c’è solo l’idea. Non una battuta memorabile, canzoni gradevoli che ti passano senza lasciarti nulla, attori con belle facce, costretti da un copione senza nerbo a farci intuire tutto: è un attimo che ti cresca il terzo coglione, eh, e bello gonfio. (Vi do un consiglio: se volete una grande storia d’ambientazione lucana, e ridere e pensare, allora regalatevi un libro di Gaetano Cappelli, datemi retta). (Dvd; 24/1/11)

ddv7307819 – Basito di fronte a Il volatore di aquiloni di Renato Pozzetto, Italia 1987
Surreale è dir poco. Pozzetto (Urca; sì, si chiama così) vola in deltaplano dal suo Lago Maggiore verso il mare, ma rimane incantato da Milano (e avvelenato dallo smog) e atterra a San Siro dove para diversi rigori a Rummenigge. Da qui si dipana un viaggio/omaggio attraverso la città dove la concatenazione degli eventi ricorda più Entr’acte che altri film interpretati dal comico di Laveno. Qui Renato scrive e dirige e si sente: l’omaggio a Milano è personale, nel senso che per quanto si citino e si visitino le opere dei finanziatori (Rinascente, Cariplo – con la presentazione dello straordinario Bancomat! -, Montedison, Metro Milanese, Comune e Max Meyer) il racconto prende deviazioni fantastiche in cui non mancano atti d’accusa allo smog meneghino o alla mancanza di spazi per i bimbi, sempre espressi nel tono sognante e poetico del regista. Detto questo, poi, la pellicola (poco più di un’ora di durata) è pressoché indigeribile nella sua follia. Ci sono momenti più riusciti (la parte con Boldi, con una gara a chi raggiunge le più alte vette del nonsense) e altri sinceramente noiosi, con gag gelide e il ritmo questo sconosciuto. Però Il volatore di aquiloni (da una canzone di Jannacci) è una cosa talmente stramba che alla fin fine gli vuoi bene, come a un figlio scemo, e pure bruttarello. Uscì direttamente in vhs e credo che non l’abbia visto nessuno. (Dvd; 26/1/11)

ddv7308820 – Ancora agghiacciante: Children of the Stones di Jeremy Burnham, Trevor Ray, Peter Graham Scott, Gran Bretagna 1976
Questo Prigionieri delle pietre lo dava al pomeriggio RaiDue, credo nel 1979. Sul mitico televisore Voxson in bianco e nero avevo visto tutti gli episodi fuorché l’ultimo e la cosa mi bruciava da più di trent’anni, anche perché nessun mio coetaneo ne aveva un ricordo utile. Poi, con la magia della Rete ho ritrovato i sette episodi in una versione scintillante, con sottotitoli in italiano (e Dio ringrazi i volenterosi anonimi). Ricordavo poco dell’impianto narrativo generale, ma una marea di particolari che, puntualmente ho ritrovato: le musiche angoscianti (tutte sospiri asmatici e urla), il senso di mistero, le luci allucinate, il costante senso di smarrimento e pericolo. Trama: l’astrofisico Adam Brake e il figlio Matthew raggiungono il paesino di Milbury, un borgo da 50 anime sorto su un antichissimo cerchio megalitico. La popolazione è decisamente ebete e il circo è condotto dal sinistro astronomo Hendrick. Gli estranei si insospettiscono e tentano la fuga e… E mo’ vi cercate voi l’ultima puntata. Che questa roba che mescola paganesimo, buchi neri, altre dimensioni e bolle temporali fosse pensata per un pubblico infantile ha dello straordinario: da molti quarantenni inglesi (fonte Wiki https://en.wikipedia.org/wiki/Children_of_the_Stones) lo sceneggiato viene tuttora ricordato come un’esperienza terrificante. Discreta fattura (anche se le luci negli interni sono sempre smarmellate… “Everything open!” avrà detto il direttore della fotografia, alla Boris), attori bravi, inglese limpido, abbigliamento seventies semplicemente vomitorio, oltretutto cromaticamente rallegrato dal consueto buongusto albionico. Ambientato nel paesino di Avebury (che adesso non visiterei manco se pagato) gli episodi sono sette e durano 25 minuti, con pausa intermedia (!): generalmente Barbara cominciava a rantolare verso i 15 minuti per crollare presto prigioniera di un sonno di pietra. Ad ogni modo: mini-serie che è una figatina, anche dopo tutti questi anni e seppur indirizzato a un pubblico di ragazzini, come me, del resto. (Gennaio 2011)

ddv7309821 – Piccolo e bello: L’uomo fiammifero di Marco Chiarini, Italia 2009
Sincero, toccante, realizzato con poco – materialmente – ma mettendoci tantissimo cervello, idee, invenzioni. Fin troppe. L’universo fantastico di un bimbo che vive con un padre tanto distante quanto bestialmente affettuoso. Pannofino (il papà, già inarrivabile René Ferretti in Boris) è bravo anche in un ruolo drammatico, così come i piccoli attori (anche se ridoppiati). Dell’infanzia, questo film ci restituisce lo stupore per il meraviglioso, con effetti magici nella loro semplicità, come faceva certo cinema d’inizio secolo, ma quell’altro. È un film per bambini per adulti (è piaciuto più a me che a Sofia, per capirci) e non saprei come definirlo altrimenti, se non come intelligente e meritevole. Forse non riuscito fino in fondo ma molto più che dignitoso. Non è vero che il cinema italiano sia in crisi, sono in crisi gli italiani, spettatori e non al cinema. (Dvd; 28/1/11)

ddv7310822 – Truffa truffa ambiguità: Valzer con Bashir di Ari Folman, Israele/Germania/Francia 2008
La strage di Sabra e Chatila, come incubo rimosso. Non solo dal protagonista del film, anche dal regista, direi, che alla fine assolve se stesso e in qualche modo quella generazione di israeliani che combatté l’ennesima sporca guerra. Del conflitto sembrano non capirci niente lui e i suoi commilitoni, che assistono sgomenti al prevalere della follia, della paura e del cinismo dei generali. Il film è amaro, plasticamente splendido, inventivo, spiazzante e crudele e riesce a farti provare pietà e costernazione con dei disegni animati, forse l’unico modo impensabile per mettere in scena un orrore che ci si è rifiutato di vedere per troppi anni. Però la sensazione di un discorso autoassolutorio mi mette in difficoltà e nel cervelletto, incastonata come una pietruzza dell’Intifada, rimane parecchia insoddisfazione. In termini puramente estetici, il film è comunque notevolissimo. Saran contenti i palestinesi. (Dvd; 29/1/11)

ddv7311824 – Il disincanto sia con te: Guerre stellari di George Lucas, USA 1977
Questo l’ho visto la prima volta nell’estate del 1978 in un cinema di Rapallo, con mia madre. Dovevo, se no ero fuori dal dibattito. Non ero rimasto folgorato come invece era avvenuto a molti miei coetanei (però mia madre mi offrì cinquemila lire dell’epoca pur di uscire tra primo e secondo tempo e io rifiutai testardamente, rinunciando a una fortuna) e oggi son curioso di capire che reazione possa avere Sofia che però di anni ne ha due meno di me – all’epoca – ed è decisamente più sveglia – di me, oggi. E apprezza. E io? Mah! Film lineare, sempliciotto, con effetti speciali allora innovativi e oggi ingenui, continua a sembrarmi narrativamente troppo easy, ma anche popolare nel senso migliore: epico, archetipico, con diversi richiami alla cultura pop USA (Il mago di Oz, il cinema western – vedi Han Solo). Elegantissime le guardie imperiali, evidenti i rimandi iconografici al nazismo per le divise dei comandanti dell’Impero Galattico, molto anni Settanta le capigliature, squallido – quasi casual – l’abbigliamento dei ribelli, con una predominanza arancione da operaio dell’autostrada e caschi che sembrano dei wok rovesciati. Alec Guinness è il miglior Padre Pio della galassia, Luke esibisce un kimono felpato (ma a un certo punto tira fuori un poncho alla Eastwood) e la principessa Leila ha due grossi bagel di trecce sopra le orecchie. Non c’è mai sangue, mai mai mai, e aleggia una sottile tensione amorosa tra Luke e Leila che subito Sofia individua – ah, l’intuito femminile – e mi sa che qui ci scappano anche i due seguiti, maledizione. (Dvd; 9/2/11)

(Continua – 73)

@DzigaCacace usa Twitter male

Qui altre Divine Divane Visioni, pensate

]]>
Hard Rock Cafone #2 https://www.carmillaonline.com/2015/09/10/hard-rock-cafone-2/ Thu, 10 Sep 2015 20:36:14 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24770 di Dziga Cacace

Prima e dopo la scatola non c’è niente 

hrc201Le Runaways  California, metà anni Settanta: sole, frisbee, i primi skateboard, il paese impazzito per Happy Days e un democratico dentone che vende noccioline alla Casa Bianca. È il 1976 quando un produttore scafato (e criminale) come Kim Fowley capisce che il suo sogno, una band formata da sole ragazze giovanissime, possibilmente svestite, è a portata di mano (quella libera). Ha infatti trovato cinque teenagers che sanno suonare e sono pure delle sventole: le Runaways, il sogno proibito di ogni adolescente in [...]]]> di Dziga Cacace

Prima e dopo la scatola non c’è niente 

hrc201Le Runaways 
California, metà anni Settanta: sole, frisbee, i primi skateboard, il paese impazzito per Happy Days e un democratico dentone che vende noccioline alla Casa Bianca. È il 1976 quando un produttore scafato (e criminale) come Kim Fowley capisce che il suo sogno, una band formata da sole ragazze giovanissime, possibilmente svestite, è a portata di mano (quella libera). Ha infatti trovato cinque teenagers che sanno suonare e sono pure delle sventole: le Runaways, il sogno proibito di ogni adolescente in tempesta ormonale. E non solo: etero e omo, rimangono tutti soggiogati dallo sguardo strafottente e dai corpi in fiore della band, in un’epoca in cui la maggiore età non era considerata un vincolo sessuale. Dopo gli assestamenti iniziali le Runaways presentano in formazione la superdotata (anche tecnicamente) Lita Ford, che secondo il dittatoriale producer è “Ritchie Blackmore e Sophia Loren fuse in un’unica persona”. Alla voce c’è Cherie Currie, una minorenne che sale sul palco vestita soltanto di sottoveste e calze con giarrettiera. All’altra chitarra Joan Jett che tutti conosciamo per l’inno universale che ha regalato qualche anno dopo: la cover di I Love Rock’n’Roll. Completano basso e batteria di Jackie Fox e Sandy West. L’impatto visivo e musicale è clamoroso e anche le polemiche e le virgulte rispondono alle accuse di bieco marketing sessista con un rock semplice e trascinante: vagamente punk e con la schitarrata hard quando serve. Vanno in tour coi grandi dell’epoca, fanno le cattive ragazze e finiscono in carcere in Gran Bretagna e diventano big in Japan dove registrano anche il loro album migliore, un live. Poi la rottura col maligno produttore guru, che sarà anche accusato a più riprese di abusi sessuali (con le ex Runaways reticenti o mute, anche se la violenza carnale sulla Fox, drogata, sembrerebbe inequivocabile) e il via alle defezioni, a partire dalla Currie. Che oggi fa la scultrice con la motosega (potete verificare su chainsawchick.com) ma è stata anche attrice e ha scritto un’autobiografia che non le ha però evitato di essere mandata a cagare dalle altre ex compagne. La band va in malora nel 1978 e Joan Jett prova la carta solista. Deve insistere un po’ ma poi ottiene successo con i suoi Blackhearts e ancor oggi – da autentica icona – è spesso in tour. Intanto la chitarrista Lita Ford, da ragazzina che era, diventa una bella donna con abnorme testata di capelli vaporosi e orecchini simili a lampadari, e si dedica al metal per scalare le classifiche col disco di platino Lita dove duetta con Ozzy Osbourne. Oggi omaggiate da biopic vezzose e assurte a status di superstar post-mortem, durarono poco, le Runaways, ma ruppero apparentemente il tabù machista del rock, anche se esattamente plagiate da quell’atteggiamento. La recente morte della batterista Sandy West sembra aver riavvicinato quelle che fecero da battistrada a tutto il rock femminile di là da venire, buono o cattivo, Bangles, Hole, L7 e Bikini Kill comprese, ma ci sono ancora troppi scheletri nell’armadio e non c’è da temere alcuna reunion nostalgica.
(Marzo 2007)

hrc202Milano imbevibile 
Milano la cosmopolita, Milano al centro dell’Europa, Milano ombelico del Mondo. Ha il traffico di Calcutta, l’inquinamento di Shangai, l’allegria di Bucarest e i servizi di Kinshasa. Senza offesa (per gli abitanti di Kinshasa, ovvio). È amministrata da decenni da gente che non ha mai preso un tram in vita sua e che pensa solo a riempire i vuoti urbanistici e gli ultimi residui di verde (avete capito di cosa canta Elio in Parco Sempione?) per fare felici palazzinari, archistar cialtroni e complici e pure i poveri muratori che, se non muoiono prima in cantiere, almeno hanno un po’ di lavoro. Avrà le sue ragioni Manuel Agnelli degli Afterhours a dirci che Milano è una città vitale, ma, sarà che non porto pantaloni attillati di pelle e non uso creme di bellezza, io l’unica vitalità che vedo è quella del sacco edilizio continuo di questa metropoli. A scapito di spazi, anche musicali. Nel mio isolato hanno appena riempito un vuoto tra due case e abbattuto una costruzione aerea ed elegantissima di fine anni Sessanta. Adesso ci sono un 5 piani terrazzato come se fossimo a Miami e un 6 piani monolitico che starebbe bene a Berlino. Gli stessi che grufolano contro le moschee, autorizzano poi questi scempi. L’ultimo assessore all’urbanistica, tal Milko Pennisi assurto a gloria nazionale, ha patteggiato due anni e dieci mesi per tangenti: ma chi patteggia i reati contro la logica e l’estetica? Ma il vero problema è che a un isolato dal mio hanno chiuso il vecchio Transilvania che, dopo un’agonia di neanche tre anni come MusicDrome, tornerà ad essere un’autorimessa. Nessuno mi ridarà la comodità di intervistare un artista e invitarlo a casa a prendersi un caffè, magari avendo nascosto prima i bootleg e i cd masterizzati. Non vedrò più aggirarsi nel mio quartiere gli ultimi dark con gli occhi cerchiati come opossum o i metallari tutti borchie e catene (ed educatissimi). Mi mancherà anche l’invasione degli springsteeniani di tutta Italia come la sera in cui suonò Southside Johnny con gli Asbury Jukes. E per la strada, davanti al cancello del locale, non incontrerò più J. Mascis o Ed Wynne, impegnati a bersi una birra e a parlare coi fan venuti a sentire il soundcheck. Oggi su quel cancello c’è solo un malinconico cartello: ultimi box in vendita. Riposa in pace, Transilvania, garage eri e garage tornerai a essere. Intanto è evaporato anche lo storico Rolling Stone, perché lì conviene tirarci su sei piani, altro che concerti. E prima o poi toccherà al Palasharp, perché anche là c’è la sua convenienza (e pure dell’amianto da smaltire). E in compenso allo stadio di San Siro non si può far casino se non per le partite di calcio, una ogni quattro giorni. Ma il rock no, perché fa rumore. Sporca. Non so cos’abbia in testa il sindaco Moratti – a parte la cofana catarifrangente simil-Mirigliani – ma nella metropoli dell’Expò gli spazi da concerto ormai si contano sulle dita di una mano e il Comune, figurarsi, non ne ha uno suo. Tutto questo mentre il promoter Claudio Trotta rischia una sanzione pesantissima, grazie a fantomatici comitati di quartieri guidati da invasati che lamentano insonnie e crisi di panico per i 22 minuti di rock extra, regalatici dal Boss una sera del 2008, alle 23 e 30, mica alle 4 del mattino. La Milano da bere, decennio dopo decennio, è solo un bel bicchiere di merda.
(Giugno 2010)

hrc203Frate Metallo: pace e bene 
Un anno fa, Frate Metallo non se l’è fatto mancare nessuno, la stampa italiana, quella straniera e perfino il perfido Lucignolo televisivo. Ma messi da parte sensazionalismo e bigottismo musicale, che fine ha fatto il fratacchione? Lo chiamo e scatta la segreteria telefonica, la meno ansiosa che abbia mai sentito: “Sono Frate Cesare, pace e bene!”. Qualche giorno dopo sono nel convento dei frati minori a Musocco, Milano. Gli occhi chiari, sinceri, le mani robuste, una certa somiglianza col Santa Claus della Coca Cola, Fra Cesare ha l’entusiasmo di un ragazzino e la saggezza di un uomo che è stato operaio, bersagliere, vagabondo scalzo e infine missionario e cappuccino francescano. Riavvolgiamo il nastro: come giovane assistente spirituale dei tranvieri milanesi capisce che dove non arriva una predica può arrivare la musica. Lui ha una bella voce e un certo orecchio e comincia a scrivere canzoni, alcune religiose, ma perlopiù laiche (nel senso che può intendere un religioso, eh?). Quando canta raccoglie un sacco di offerte ma in cambio dei soldi preferisce dare delle cassette prima e dei Cd poi. 10 anni fa Costanzo lo chiama al suo show e l’esperienza è salutare: da allora rifiuta qualunque apparizione televisiva, rifiutando il ruolo della scimmietta. Ha le idee chiare su tutto: sulla beneficenza (“Vado al concerto se mi piace, non per aiutare qualcuno”), sugli autori musicali cattolici (“Che cosa significa, scusa?”) e sul successo (“Non me ne frega niente: sai quante volte mi hanno offerto Sanremo?”). È sanguigno e pacifico e il rock lo fa scattare in piedi, roteando il cingolo che gli stringe il saio, in estasi metallica. Ma ha cantato anche altri generi, ammettendo il fallimento solo quando ha sperimentato anche il liscio (!). Il suo disco metal è un’opera curiosa dove non senti il Padre nostro o l’Ave Maria al contrario, bensì Cesare che incattivisce la voce su ritmiche hard. Quando ringhia il growl sembra una parodia fatta da Elio, però lode al tentativo, senza pretese e senza presunzione, per divertirsi. Mangiamo assieme (e in modo parco) al refettorio del convento. I confratelli di Cesare sono tutti sorprendentemente simpatici, più o meno coinvolti dalla sua attività canora e c’è chi lo sfotte amabilmente in nome di altri credo musicali. Da questo incontro esco con la convinzione che Frate Metallo non è un furbetto, tutt’altro. Quelli sono gli artisti indie nerovestiti, che poi a Sanremo ci vanno eccome facendo la faccia contrita, o i giornalisti che non potevano credere di avere per le mani un francescano metallaro, due freak in uno. Il top sarebbe stata anche una disgrazia fisica, ma per fortuna Cesare è perfettamente integro. In tutti i sensi. Pace e bene.
(Giugno 2009)

HRC204Aphrodite’s Child: tzatziki rock!
Caldo. Spiagge. Massì, vi racconto due o tre cose della Grecia diverse da quelle che rimbalzano dai giornali, ma prima faccio un brevissimo ma palloso preambolo: il rock progressivo è un’astrazione terminologica. Per alcuni – detrattori ma anche ammiratori – significa solo supergruppi con assoli lunghissimi e clamorose capacità strumentali; per altri critici più elastici è quella musica che progrediva, nel senso che bruciava tappe e superava i confini temporali dei 3 minuti e quelli stilistici del beat. All’origine di tutto ciò ci sono pionieri come Moody Blues, Colosseum o Procol Harum e quando la sbobba non s’è allungata o è diventata autocelebrativa, si sono avuti autentici colpi di genio dove il rock incontrava tempi dispari, nuovi strumenti e contaminazioni coraggiose. Tra i pionieri di questa musica, nel bene e nel male, prima con singoli smielati poi con un’opera epocale, ci sono gli Aphrodite’s Child, trio di figli d’Afrodite che nasce nella Grecia dei Colonnelli e subito si trasferisce a Londra. Vi consiglio di cercarne delle foto, perché per sottolinearne la provenienza ellenica un P.R. in acido fece conciare i tre corpulenti e irsutissimi musicisti come delle comparse di Troy, con tuniche, foglie d’acanto in testa e cetre in braccio. Il gruppo conquista la Francia in rivolta del Sessantotto con Rain and Tears, singolo con più di un’assonanza con A Whiter Shade of Pale. Anche questa è una rilettura di un’aria barocca (là Bach, qui Pachelbel; e – scoop! –gli stessi accordi di Albachiara!) e l’effetto in classifica è immediato. Dopo altri singoli pop di successo, si decide per l’opera definitiva, turgidamente rock: l’album 666, prima bloccato dalla casa discografica, infine uscito a gruppo sciolto nel 1972. Affascinante, eterogeneo e inventivo, spazia dai Beatles a momenti pesanti come un capitello dorico sulle palle: è un sinistro concept sull’Apocalisse che nel tempo otterrà un successo clamoroso, diventando uno dei capisaldi del prog, altro che il sirtaki. E ora la carrambata per i meno avveduti: degli Aphrodite’s Child erano leader il romantico Demis Roussos che ha poi venduto 50 milioni di dischi in Francia, e soprattutto Evangelios Papathanassiou, cioè Vangelis, l’uomo che ha scritto score immortali per Momenti di gloria e Blade Runner o jingle ipnotici per la Barilla. E forse era meglio l’Apocalisse. Ah: se volete altri greci rock settantini, consiglio i santaniani (!) Peloma Bokiou. Buone vacanze.
(Agosto 2010)

hrc205aL’hard de noantri
Nell’Italietta delle bombe fasciste c’è – tra le tante – anche un’esplosione gioiosa, il corrispondente musicale della meglio gioventù, il cosiddetto “pop” o “progressive” italico, quando, a fianco di formazioni come PFM, Banco e Orme, cresce una generazione di rocker, l’hard de noantri: uno spaghetti-rock casereccio ma energico e senza mandolino, se non pesantemente elettrificato. Qui non si rischia l’orchite ascoltando pensosi concept che parlano di un pinguino (esiste, eccome, e non è neanche male); qui si picchia duro: tra riffoni, schitarrate, power chords e cavalcate solistiche, in 35 minuti di LP trovate idee che oggi coprirebbero cinque anni di carriera. Del resto l’imperativo musicale e ideologico era l’originalità e niente era peggio dell’accusa di “venduto”. E mancando il “venduto”, qualche gruppo durava lo spazio di un album… Il primo vagito è del Balletto di bronzo che con Sirio 2222), disco ricco di chitarre e assoli mordaci, cerca un’ingenua ma personale via italiana all’ombra del dirigibile di piombo. Più o meno contemporaneamente, il virtuoso tastierista Joe Vescovi espande volume e improvvisazioni con i suoi Trip, influenzato dai Vanilla Fudge, gruppo seminale che introdusse il concetto della cover stravolta e dell’utilizzo di pieni e vuoti strumentali. Joe compone album bellissimi (partite da Caronte), tant’è che anni avanti verrà convocato a Los Angeles da sua maestà Blackmore per suonare nei Rainbow. “Ma ero troppo morbido!”, mi confessa telefonicamente.
hrc205bUn altro che il rock duro l’ha sempre costeggiato è Alberto Radius, sia con la Formula 3, sia a fianco di Battisti. Radius (1972), prodotto dal Lucio nazionale sotto lo pseudonimo Lo Abracek, è forse il più compiuto hard rock nostrano, registrato in tre giorni di furiose jam con i futuri Area, la sezione ritmica della PFM e altri amici assortiti: rock senza frontiere attraversato da lampi di psichedelia, jazz e boogie, con la chitarra che fa di tutto. Come avrebbe poi continuato a fare, contribuendo in maniera fondamentale al successo di Franco Battiato a inizio anni 80. A chi dubita dell’essenza rock di quei lavori, solo una dritta: la micidiale outro solistica di Strade dell’Est, ne L’era del cinghiale bianco. Oggi Radius è un giovane molto cool di 62 anni con più capelli di Tina Turner. Lo incontro nel suo studio e mi presenta Please My Guitar, il suo ultimo disco. Lo definisce “Un album stradale!”. Mi fa sentire alcune tracce: canzoni solide, senza troppi assoli; per l’improvvisazione c’è tempo dal vivo e del resto Alberto si fa oltre un centinaio di concerti ogni anno, con la Formula 3 o con la Notte delle Chitarre.
Ora dimenticate certe recenti oxate o alcuni coretti beegeeseggianti: i New Trolls sono stati il gruppo che, a tratti, ha saputo fare l’hard italiano più maturo. Hanno flirtato col sinfonico e col beat, ma a trent’anni di distanza la chitarra del “Piccolo Hendrix” Nico Di Palo e la furiosa carica del gruppo genovese bruciano ancora. L’apice improvvisativo è nel lato live del Concerto grosso (1971) quando i nostri eroi fan profumare di basilico il verbo dei Deep Purple. Diverse spinte (hard contro pop e, si dice, anche divergenze politiche) portarono il gruppo a una scissione durata due anni, nei quali Di Palo diede sfogo alla sua Les Paul nei massicci Ibis, prima della riconciliazione con Vittorio De Scalzi e nuove separazioni.
hrc205cAddirittura heavy erano i Rovescio della medaglia che ci han lasciato una Bibbia (1971) registrata in presa diretta e tostissima. Al virulento chitarrista Enzo Vita si attribuisce l’immortale affermazione: “Mo’ che è morto Hendrix, semo rimasti in tre: Page, Blackmore e io!”. Dimenticava per esempio i Campo di Marte (Lp antimilitarista e durello del 1973) o anche Mario Schilirò, uscito da una cantina romana con i ventenni Teoremi, quartetto di geometrica potenza. Il chitarrista – oggi anche produttore – ha poi suonato a lungo con Venditti e da anni presta servizio con Zucchero. L’album eponimo (1972) è una bella botta, per niente derivativo e con una chitarra potente. Un solo album (1973) anche per il Biglietto per l’inferno ed è probabilmente uno dei più bei dischi italiani di sempre, ripubblicato recentemente con Dvd, album inedito e testimonianza live. Il tastierista “Baffo” Banfi ricorda con ironia i suoi vent’anni, quando “In mancanza di una motocicletta, rimorchiavi solo se suonavi in una band”. La sua era formata da cinque amici, trascinati dall’eccezionale frontman Claudio Canali, oggi frate benedettino ma trent’anni fa, altro che Fra Cionfoli: una furia sul palco e in studio.
C’è poi chi al vinile non arrivò neppure, come gli zeppeliniani Crystals (album del 1974 stampato solo ora dalla Akarma) o i Moby Dick, anch’essi profondamente influenzati dal Martello degli dei. Incontro il loro batterista, Adriano Assanti a Chiasso (e dove, se no, per parlare di hard rock?) e davanti a una pizza Adriano ricorda: c’erano una volta quattro ragazzi di Napoli, del Vomero, stufi marci dei soliti tre accordi e abbastanza matti da lasciar perdere le remunerative serate nei night. Altro che Rose rosse con Ranieri, l’imperativo stilistico del gruppo era suonare così forte da incrinare la ceramica dei water (in lingua: spaccamm’ ‘o cess!). Mica facile però: nel 1968 non ci sono Internet né tutorial. Per imparare la “nuova” musica devi svegliarti alle tre di notte, captare Radio Luxembourg e il giorno dopo affidarti alla memoria. Ma suonare i Led Zep nell’Italia del 1970, è come provare a vendere oggi i libri della Fallaci in Iran. Allo storico festival di Caracalla, per dire, gli staccarono l’amplificazione al secondo pezzo. E un disco? I Moby Dick avevano idee molto chiare: o lo si registra a Londra, come si deve, oppure meglio lasciar stare. E accadde il miracolo: il quartetto volò in Inghilterra e in una settimana incise l’album della vita, potente, bellissimo. Solo che l’abitudine di arrangiarsi e farsi prestare gli strumenti, all’Olympic Studios non funzionava: il conto divenne salatissimo e il manager non riuscì a vendere subito i nastri. Passano giorni, mesi, anni e poi c’è la vita, che è dura, con i membri della band ormai sparsi per il mondo e con altri mestieri, pur senza mai abbassare le chitarre. Oggi l’album dei Moby Dick c’è (di nuovo Akarma) ed è un po’ l’epilogo classico di tutte queste vicende: da metà anni Settanta in poi il rock italiano entrò in crisi, tramortito dalle discoteche, falcidiato dal servizio militare o da micidiali furti di strumenti e amplificazioni (giuro). Ma fu solo una ritirata strategica, credetemi: i dischi son lì ad aspettarvi e i musicisti li trovate ogni sera sui palchi di tutt’Italia. A suonarvele.
(Dicembre 2004)

hrc206aIan Gillan, parla con me
Fuori dal camerino, l’avvertimento: “se vi offende la nudità, non entrate!”. Dentro c’è Ian, vestito attillato di nero, come un mimo, che sorseggia una minestra in bicchiere. 61 anni, la faccia stanca di chi sta facendo un tour di successo ma anche il piacere della rivincita.
Com’è che non ti vediamo mai, in tivù?
Sai, le nuove generazioni cresciute con la tivù, la conoscono bene, sanno usarla. E sono giovani e belli. L’idea di un sessantenne sudato che si agita ha senso in un club, non nel tuo soggiorno. Noi siamo un po’ come gli stand up comedian: se vai in tivù a dire una battuta, la bruci per sempre. In un club puoi dirla quante volte vuoi, c’è un’audience diversa ogni sera. Questo è il bello di un tour.
Starai in giro tanto?
Un anno e mezzo, senza mai tornare a casa. Con mia moglie organizziamo delle vacanze sparse qui e là per il mondo, durante le pause del tour. Mi raggiunge lei.
E ti piace visitare altri paesi?
Sí, è molto educativo! Sono cresciuto nei suburbi di Londra e ho amato l’Inghilterra del dopoguerra. Era un paese ospitale. Ora non sono più tanto sicuro di amarla. La successione dei governi ha portato a una separazione culturale, non c’è più un’unità. Come negli USA: entità diverse, gruppi etnici diversi, fratture sempre più profonde.
Parli mai di calcio con Steve Morse (il chitarrista americano dei Deep Purple)?
E come potrei? Non capisce niente! Del resto io non so nulla di football americano. Cos’è un down? Ma dai…
Tolto Pavarotti, conosci qualche altro rocker italiano?
C’è il tizio ubiquo… quello che ha fatto dei duetti…
Ramazzotti?
Ma no, quello che è sempre in giro con tutti e li invita negli album, dai…
Zucchero?
Zucchero! E beh, come fai a non conoscerlo?
Fai ancora una vita da rocker… che gente frequenti?
Io adoro la gente che incontri di notte. Quando ero giovane finivo di lavorare alle tre del mattino, con cinque show sulla schiena, stanco morto ma pieno di adrenalina. E frequentavo chi era ancora in piedi a quell’ora: camerieri, ballerine, strippers e prostitute… Son cresciuto con loro e sono le persone più eccezionali. Sincere, affidabili, meglio di quelle che incontri di giorno.
I Deep Purple non hanno fama di grande profondità, ma forse è perché nessuno s’è mai messo a leggere i loro testi. L’ultimo album (Rapture of the Deep, il più venduto dagli anni Ottanta) ha una qualità spirituale… sei religioso?
Io non sono religioso ma capisco chi lo è. Il senso di appartenenza, di congregazione. È una ricompensa per soddisfare certe curiosità spirituali. Non vorrei essere blasfemo, ma è come un orgasmo collettivo, la religione. Ricordo che da bambino tornavo a casa, dopo la comunione o la messa, e praticamente volavo sul terreno. Ma non era soddisfacente dal punto di visto intellettuale. All’epoca non me ne curavo perché non ci pensavo, ma ora sí. M’interessa molto la metafisica, adesso…
hrc206bMetafisica, una rockstar?
Sí, mi sono appassionato al lavoro dei poeti metafisici o a Tennyson… e trovo eccezionali anche gli scienziati di fine Ottocento, come Charles Darwin. Quello che ha scritto, ora lo leggiamo non solo come testo scientifico ma anche come commento sociale a una società razzista e classista. Darwin ha ritardato la pubblicazione de L’origine della specie per qualcosa come vent’anni, ma a un certo punto era abbastanza anziano da non aver paura delle reazioni della chiesa… E grazie a dio l’ha pubblicato! Sai, la mia vita è quasi finita (vedendolo così vispo, Gillan doppierà i cent’anni, probabilmente sul palco)… non sono religioso, no, ma esaltatissimo dal futuro!
Senti, ti posso chiedere cosa pensi della guerra in Iraq?
Credo che il nostro primo ministro (non si degna neanche di citarlo) dovrebbe essere processato. Ha preso per il culo il parlamento, i reali, l’opposizione e la gente comune, per trascinarci in una guerra di cui non ha minimamente valutato le conseguenze. Abbiamo imposto artificialmente dall’esterno il nostro credo politico, ideologico e religioso ad un paese… quanto è morta la democrazia, così?
Di solito rispondono “Però adesso abbiamo Saddam Hussein”…
E allora? Con le sanzioni, negli ultimi dieci anni Saddam non ha fatto niente! Lo stanno processando per cose più vecchie, come aver trucidato 170 persone in un villaggio… George W. Bush, quando era governatore del Texas, ha firmato senza neanche leggerle le condanne a morte per 273 persone. Okay, erano stati processati, ma in processi dove le prove erano rifiutate nel dibattimento e cose così…
Non hai grande fiducia nei leader occidentali…
I leader dell’ovest sono cresciuti giocando a Monopoli, quelli dell’est giocando a scacchi e sanno prevedere qualche mossa più in là. Questo oltre ad avere una consapevolezza della vita più profonda della nostra.
E tu l’hai capito il senso della vita?
(Gli si illuminano gli occhi) Certo, assolutamente! Devi avere presenti due cose per essere felice, una fisica e l’altra metafisica: il senso di appartenenza e uno scopo. Ricordarti da dove vieni e sapere dove stai andando. Senza, la vita non ha senso.
(2 marzo 2006)

(Continua – 2)

La prima puntata è qui.

@DzigaCacace mette i dischi su Twitter

]]>
Hard Rock Cafone #1 https://www.carmillaonline.com/2015/07/02/hard-rock-cafone-1/ Thu, 02 Jul 2015 20:22:12 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23484 hrc100di Dziga Cacace   

e noi dietro col fiato corto

Affanculo tutti: i SANTARITA SAKKASCIA  Scrivo da anni di hard rock cafone, avendo usurpato il nome per questa rubrica di Rolling Stone da un grandioso gruppo dei primi anni Novanta, quando l’underground vero esisteva ancora. Si chiamavano Santarita Sakkascia, romani e romanisti (Deppiù, come recita la loro cover “ramonata” di un canto tifoso di Lando Fiorini) e suonavano tutto. Dal punk al metal passando dal reggae e dalla psichedelia. Lo facevano bene e con un’intelligenza estrema nei testi, ma siccome erano anche [...]]]> hrc100di Dziga Cacace   

e noi dietro col fiato corto

Affanculo tutti: i SANTARITA SAKKASCIA 
Scrivo da anni di hard rock cafone, avendo usurpato il nome per questa rubrica di Rolling Stone da un grandioso gruppo dei primi anni Novanta, quando l’underground vero esisteva ancora. Si chiamavano Santarita Sakkascia, romani e romanisti (Deppiù, come recita la loro cover “ramonata” di un canto tifoso di Lando Fiorini) e suonavano tutto. Dal punk al metal passando dal reggae e dalla psichedelia. Lo facevano bene e con un’intelligenza estrema nei testi, ma siccome erano anche sarcastici alcuni criticonzi pigri li imbarcarono nel filone demenziale. Esistenziale piuttosto. E non scherzo. Concerti, centri sociali e il rito domenicale della sala prove sfociarono in cassette e CD autonomamente prodotti e distribuiti. Ne riparlo oggi con Emanuele Gabellini, allora bassista, oggi artista e “ambasciatore dell’ordine dei confusionari”. Nessun rimpianto, perché erano liberi sul serio, tanto da finire agli arresti per la liberatoria e blasfemissima Santi Numi (vedasi Youtube: si astengano i bigotti, godano gli altri). A fianco alla caciara dell’inno alle fetentissime scarpe Mecap o al vertice geniale del surreale incontro con John Zorn “alla fermata del 23”, c’era anche l’insofferenza genuina per i politicanti (Manco si skiatti), per la Videocracy 15 anni prima del documentario di Gandini (Sti cazzi e Nostalgia di Khomeini) e per la tentacolare società dei consumi (Senza titolo).
hrc101Colpivano anche l’inquietudine e il disagio urbano di Sono depresso e di Sto come ‘na pigna, che parlava di droga come Vasco non è mai stato capace. Il loro manifesto anarchico era però nella rabbia autentica di Affanculo tutti che ben rappresentava il disorientamento dell’Italia del 1994, post Tangentopoli e nella merda come prima, col virus berlusconiano inoculato in vena. E non scrivo inoculato a caso. Hard Rock Cafone, autoprodotto nello studio PanPot e distribuito da Helter Skelter, vendette diverse migliaia di copie, sicuramente molte più di quante oggi servano per entrare nei primi posti in classifica. Ma la storia dei Santarita Sakkascia finì poco dopo, nel 1996, proprio perché lo si faceva per piacere; a se stessi e non a una casa discografica e rientrando giusto delle spese. “Non ci potevamo vivere, ci potevamo morire!”, ricorda Emanuele. Che, a chi mantiene in Rete un culto sotterraneo, annuncia che prima o poi si rifaranno vivi anche se “non si sa in che forma”. Ne abbiamo bisogno. (Dicembre 2009)

hrc102Fortemente illogico: LEONARD NIMOY
Conosco poco la mitologia di Star Trek – che m’è sempre sembrato uno sconclusionato pigiama party ambientato nello spazio – ma lo Spock di Leonard Nimoy era indubbiamente il riflessivo e soprattutto atarassico membro dell’Enterprise, contrapposto all’emotivo ciccione interpretato da William Shatner. Però nella vita la passione c’era, eccome: per la musica. Tanto che quando arrivò la proposta indecente di fare un disco, il buon Leonard colse l’occasione al volo. Teletrasportato in studio, sfornò la bellezza di cinque Lp di successo variabile, prodotti in maniera saccarinosa e ineccepibile, trasformando la duttilità della voce di Nimoy – elastico come un dolmen – in una recitazione ieratica e giocando sul suo ruolo televisivo, tanto che il primo album venne chiamato Highly Illogical. Forse in riferimento all’operazione, che però – e dal popolo che ha inventato Disneyland non mi aspettavo altro – è diventato un piccolo capolavoro di cattivo gusto, capace di resistere negli anni come l’arredamento afro tipico dei Sessanta. Ho assaggiato col brivido che si prova quando, in trasferta estera, ti offrono il cervello di scimmia al cucchiaio o le locuste arrosto. Un dieci per cento di curiosità e un novanta di schifo. La pasta dolciastra si fa calare: una droga a cui rimani sotto, ipnotizzato dalla voce incapace di estendersi oltre la mezza ottava e fantasiosa come quella dell’annunciatore della stazione quando dice la fatidica frase “treno locale, ferma a tutte le stazioni”.
2m8BXUfrifeheoheVEXk1Zl6o1_500Le canzoni sono spesso apologhi morali degni dei Baci Perugina o bozzetti satirici surreali, con occhi alieni, sulla vita terrestre e sulla condizione umana, alla faccia di André Malraux. Pulsar, arpe, echi e suoni siderali condiscono il tutto, senza dimenticare le versioni asmatiche di classici come Sunny o Proud Mary. Ma in questo obbrobrio c’è una straordinaria coerenza che ha reso le canzoni dei classici, tanto che l’uscita del film Il signore degli anelli ha riportato la briosa (diciamo così) Ballad of Bilbo Baggins in classifica. Oggi Leonard Nimoy ha assunto la fisionomia di un Toni Negri incazzato, ha pubblicato due indecise autobiografie (intitolate una Io non sono Spock, l’altra Sono Spock) e sporadicamente fa qualche comparsata, come nell’ultimo Star Trek cinematografico. Ma musica, basta. Del resto ci vuole orecchio, non necessariamente a punta. (Marzo 2010)

hrc103Ho provato a far perdere la pazienza a IAN PAICE
I batteristi sono un po’ come i portieri nel calcio: se non son matti, non ci piacciono. Ian Paice è l’eccezione: se John Bonham dei Led Zepp era un amabile attaccabrighe che poteva scolare litri e litri di vodka, e se Keith Moon degli Who era capace di entrare da un gioielliere ebreo vestito da gerarca nazista, beh, Paice è sempre stato the “quiet one”, quello che, in mezzo agli altri Deep Purple, era il bonaccione. Come si è dimostrato in un pomeriggio in cui avrei fatto saltare i nervi a un eremita buddista. L’appuntamento è a Marano Vicentino, in un confortevole bed n’ breakfest. Quando arrivo, a pomeriggio inoltrato, Paice sta dormendo e manager e promoter – clamorosamente fiduciosi o più umanamente pelandroni – me lo affidano. Mi dicono: lo svegli, lo intervisti e ce lo porti al soundcheck. Prendo nota della strada e attendo. All’ora stabilita mando a chiamare il batterista che si presenta poco dopo in t-shirt nera, pantaloni bianchi e stridenti mocassini color crema. La faccia è quella di sempre, i capelli – mi dicono – originali ma il dubbio rimane (mica come la certezza per Blackmore, che ha il tuppo dagli anni Ottanta); è in forma, giusto un po’ di trippetta, ma niente a confronto della mia che ho vent’anni di meno: si direbbe che lui abbia firmato un patto col diavolo. Consente che videoregistri tutto e risponde quattro volte alla prima domanda perché, nell’ordine: il microfono è spento, cede una gamba del cavalletto, trilla un telefono. Ad ogni modo è in Italia perché gli piace il posto, si mangia e si beve da dio e, onestamente – riconosce –, suonare dal vivo è il modo migliore per tenersi in forma, nelle pause che gli concedono gli incessanti tour mondiali dei Deep Purple. Il nastro gira e lui risponde amabilmente, simpatico e disponibile. Diplomatico quando vado sulla politica (non mi pare un extraparlamentare di sinistra, comunque) o su Ritchie Blackmore che crede di vivere in una fiaba tolkeniana (“If he’s happy, why not?”). Nel tempo libero sta in famiglia (le combinazioni: è sposato con la gemella della moglie di Jon Lord, tastierista fondatore dei Deep Purple), ascolta jazz classico e guarda il calcio in tivù, da tifoso molto deluso del Nottingham Forest. Dillo a me, che sono genoano in serie C. Probabilmente consapevole che i Purple abbiano prodotto alcuni tra i peggiori videoclip della storia, disprezza la logica commerciale di MTV, ammira la tecnica dei giovani batteristi (“Something that I can’t even understand!”) ma invoca originalità e sudore. Del resto, chi ha visto Live8 s’è reso conto dell’abisso drammatico tra i gruppi storici e la masnada di giovinastri che guadagnano la ribalta mediatica grazie a modelle e cocaina. Il nuovo album della band è nato nel giro di un mese, senza tergiversazioni: duro, compatto e potente. Non vede l’ora di andare a suonarlo in giro: è la classica frase promozionale ma dopo mezz’ora con lui, il suo entusiasmo pare sincero. Finita l’intervista partiamo alla volta della Gabbia, disco-pub con – pensa – un palco a forma di gabbia che rimanda più a fantasie S&M che alla musica, ma tant’è. Siamo già in ritardo e mi perdo nella pianura veneta, confuso da rotonde poco palladiane, dalla segnaletica enigmistica e stordito dalla concimazione dei campi (Paice: “Holy Shit! Move quick, please!”).
hrc10bIl ritardo aumenta e la situazione diventa uncomfortable, ma Ian conserva bonomia e humour. Gli dico che penseranno che l’abbia rapito e lui ribatte: “Usually, the kidnapper knows where to go!”. Alla fine ce la facciamo, dopo mezz’ora di panico: un ciula con la maglietta di In Rock a fianco di Ian Paice, persi tra i campi di radicchio… Dopo il soundcheck si cena in una birreria. S’è aggregata un sacco di gente e mangiamo tutti assieme sotto lo sguardo severo di un bassorilievo di Mussolini. Ian degusta birra e stufato e firma dischi tra una portata e l’altra. Sopra la cassa un fez nero e un manganello con scritto “Me ne frego”! Io faccio più fatica a fregarmene e trinco Soave, perdente al confronto dei commensali autoctoni che, da buoni veneti, bevono come dei SUV. Poi si va al concerto, dove il batterista si accompagna a una band locale di vecchie glorie, l’Altro Mondo, per un set tutto a base di Deep Purple. Nel break Ian risponde alle domande del pubblico (la differenza tra Blackmore e Steve Morse? “Well, Steve’s on stage every night!”) e si produce in un mirabolante assolo grazie al quale rimango sordo per tre giorni. Poi, alle due di notte, trionfa il vero rock n’roll: Ian si apparta cinque minuti, si asciuga il sudore e la fatica, cambia maglietta, stappa una birra e poi si concede con pazienza da miniaturista medievale alla scrittura di un centinaio di autografi su piatti, foto, rullanti, dischi, cd, magliette, bacchette e dvd: non gli risparmiano nulla e lui firma. Come il patto col diavolo tanti anni fa. (Settembre 2005)

hrc104Io sono amico di FABIO FRIZZI
Dietro l’ombra lunga di Ennio Morricone si nasconde una ricchissima generazione di compositori che hanno fatto grande il cinema italiano degli anni Sessanta e Settanta. La riscoperta è partita dall’estero (le varie raccolte Easy Tempo, i recuperi di Tarantino) ma negli ultimi tempi s’è sviluppato anche da noi un gusto per quella musica libera e lo dimostra il felice esperimento dei Calibro 35 che, tra cover e composizioni originali, sono già al secondo album (bello, tra l’altro). Durante la mia gavetta tivù da schiavo tipo Boris, ho avuto la fortuna di conoscere uno dei Maestri del periodo suddetto, quando lui era un ragazzo capace di sfornare 4 o 5 colonne sonore all’anno. L’ho massacrato di domande e siamo diventati presto amici. Il suo nome vi sembrerà un lapsus di Luca Giurato, ma Fabio Frizzi (fratello di, esatto) ha firmato musiche che avete ascoltato e apprezzato tantissime volte: dall’immortale colonna sonora di Fantozzi a quella di Febbre da cavallo, quando il triumvirato con Tempera e Bixio era un marchio di garanzia. Da solo è presto il compositore di riferimento di Lucio Fulci, diventando famoso in Francia e USA. Quentin ha una passionaccia per lui: l’ha messo nella soundtrack di Kill Bill e solo per questioni di diritti non appare anche in Unglourious Basterds. Precocissimo, Fabio suonicchia in due musicarelli con Mal, ma esordisce realmente a 23 anni con Amore libero, pruriginoso (allora; oggi… pfui!) debutto di Laura Gemser. Da lì non si ferma più, tra poliziotteschi, horror, commedie sexy e qualche Monnezza. Ha scritto 80 film, 30 fiction, balletti, musical, composizioni per chitarra classica e anche la marcetta de I fatti vostri di RaiDue che, pensateci bene, ha una caratteristica virale degna del miglior Nino Rota. Basta? Macché: è direttore d’orchestra, docente e ha fatto cinque figli. In più è una bella persona, un artista e un artigiano, totalmente sereno anche se i maggiori riconoscimenti al suo lavoro gli arrivano dall’estero, dove non esiste certo intellettualismo da terrazza romana che dà patenti di artisticità solo agli amichetti del giro buono. Oggi che il cinema produce poco, Fabio compone per tante fiction e lo fa come un tempo: “tra Bach e Beatles, ma tirando sempre al classico!”. E lo dimostra quello che ritiene il suo esito forse migliore: la colonna sonora della fiction Il Capitano, con protagonista nel tema la voce della grande Edda Dall’Orso. Ecco, uno così non vi capiterà di trovarlo nel salotto della Dandini, ma in una colonna sonora di Hollywood sì. (Gennaio 2010)

hrc105A New Day Yesterday: JOE BONAMASSA
Dici blues e pensi solo al vecchio nero che, dopo una giornata a raccogliere cotone, canticchia sommesso il suo dolore sul portico di casa. Sbagli, perché il blues, in un secolo di vita, ha continuato ad evolversi. Come oggi dimostra Joe Bonamassa, un entusiasta ragazzone di neanche trent’anni ma con le capacità musicali di un veterano. Italiano di quinta generazione, torna – primo della famiglia – a casa. Lo intervisto nel front lounge del suo tour bus. Intorno ha iPod, un portatile sempre in Rete e un grasso sigaro cubano in bocca, l’unico vizio assieme a collezionare chitarre e bere Diet Coke a garganella. Il tour è andato bene ma ha mangiato da bestia ed è ingrassato. Con una chitarrina in mano a 4 anni e il benestare di BB King a dodici, ha già praticamente suonato con tutti ma crede (e ha ragione da vendere) che riproporre il blues come nel 1930, per la gioia dei puristi necrofili, sia la morte della musica del diavolo. Infatti lui imbastardisce il suo sound con diverse influenze e per rilassarsi ascolta la classica, per trovare idee i vecchi Genesis e per fare l’amore, niente: “Una cosa per volta, non voglio perdere la concentrazione”. Nei suoi dischi e dal vivo capita anche di ascoltare dei pezzi degli Yes, ma è quando parla di gente come Paul Kossoff, Rory Gallagher o Jimmy Page che gli brillano gli occhi. È un pacioccone con le idee estremamente chiare e sa che aver cantato di puttane e whisky a dieci anni non è stato esattamente realistico. Per sentire il blues bisogna un po’ vivere e siccome è in tour da vent’anni, adesso gli argomenti non mancano. E poi la storia si ripete: ha preso una vecchia canzone d’inizio secolo di Charlie Patton e l’ha trasformata in un canto di dolore per la New Orleans devastata dall’uragano Katrina. Allora si sospettava di dighe aperte per sgomberare i neri dai terreni da riedificare; lui qualche sospetto ce l’ha anche per il presente. Ma non c’è solo il blues, ci sono anche i piaceri della vita, come gli episodi dei Simpson o gli action movie di kung fu che guarda assieme a band e crew. Apprezza Zucchero (confessa che se l’è scaricato) e oggi vorrebbe fare una jam con Amy Winehouse. Insomma: vive nel presente. In serata il Transilvania di Milano è pieno da scoppiare. Giovani chitarromani, vecchi bluesman de noartri, il purista cagacazzo che si lamenta dell’uso degli effetti e pure il reduce di Woodstock che probabilmente non si fa una doccia da allora. Joe è uno showman smaliziato e appaga tutti: cita i maestri bianchi e neri e spazia dall’acustico all’hard. Ne nasce una sintesi dialetticamente marxista ed eccitante, moderna, viva: il blues ha un futuro. (Marzo 2007)

hrc106La voce nera di MARC STORACE
La “Notte della chitarre” svizzera non è un film dell’orrore, ma la celebrazione elvetica della sei corde, un concertone fantastico tenuto a Berna questa primavera, nonostante una nevicata di proporzioni siberiane. E senza alcun ritardo, figurati. In mezzo a tanti guitar heroes locali, c’era anche un vocalist d’eccezione: Marc Storace. Se vent’anni fa avevate vent’anni, ricorderete quando sul vagone dell’heavy metal mondiale saltarono su anche quei rockettari dei Krokus: nome sinistro, ma attitudine gioiosa, all’assalto del mondo dagli alpeggi di Heidi. Ma Marc – voce a metà strada tra Bon Scott e Robert Plant, ma più nera – in realtà viene da Malta ed è un perfetto mix anglo-siculo. Non ha più la capigliatura da Napo Orso Capo degli Ottanta, ma il sorriso levantino è sempre lo stesso. E anche la voce, dopo oltre tre decenni di carriera, conserva quell’amabile raucedine da bocconata di sabbia nella strozza. Nei Sessanta, il nostro cavaliere di Malta passa l’adolescenza sull’isola e viene folgorato come tutta la sua generazione da Elvis e Beatles. E vista la vicinanza geografica, ammette, anche da Celentano e Fausto Leali. E conosce presto l’amore (si sa: le ragazze maltesi amano far visitare La Valletta, ah ah). E allora Marc non ha più dubbi su cosa farà da grande: a vent’anni è a Londra e poi in Svizzera, nel cuore dell’Emmental. Che non produce solo caciottelle, ma anche la musica dei Tea, misconosciuta formazione con cui il brevilineo Marc gira l’Europa. Ancora esperienze, un’audizione coi Rainbow e poi l’occasione della vita: la chiamata dei Krokus. L’abbinamento è perfetto: i “big noses” Fernando Von Arb (chitarra) e Chris Von Rohr (basso) e la voce scartavetrata del tozzo e irruento Storace fanno dei Krokus una band hard coi fiocchi che conquista prima la Confederazione, poi il mercato anglossassone. Il rock’n’rolex funziona e i Krokus vendono dieci milioni di dischi mentre MTV passa a rotazione i loro videoclip che sfoggiano impunemente patatone, tutini attillati, teste laccate e gonfie e anche una discreta ironia. Seguono le consuete massacranti tournée in USA e Giappone, fino all’inevitabile sipario: finiscono gli Ottanta e la musica che gira intorno è ancora più dura e violenta. E i Krokus si mettono a riposo. Non Marc, che suona pop e soul assieme a Vic Vergeat e poi, quasi per caso, lancia il fortunato progetto degli Acoustical Mountain, scarno combo che rilegge il rock con due chitarre e la sua voce. Doveva essere la schitarrata da dopo-sci, complice il grappino, ma il gruppo diventa un must in tutte le località sciistiche svizzere. Nel 1994 c’è la prima reunion dei Krokus, anche se i tempi non sono ancora maturi. Il successo vero torna nel 2001, passati definitivamente grunge e condonati i crimini sartoriali a base di lurex. Storace è orgoglioso del suo passato, ma non è un nostalgico. Ammette i compromessi col business, riconosce il male (“the evil, my dear”) che si annida nel successo, dispensa buonumore e autoironia. Come sul palco, dove gioca coi cliché del rocker mai cresciuto, in tutti i sensi. Marc ha una voglia di musica e di vita straripante, è tuttora pieno di progetti (tra cui l’immancabile sogno cafonissimo di un’incisione con orchestra sinfonica) e il resto dell’anno lo vedrà impegnatissimo ancora coi Krokus. Ventisei anni dopo l’esordio, di originale nella band c’è solo lui, ma se i Queen si riuniscono senza voce, sarà mai un problema se i Krokus hanno solo quella? (Settembre 2006)

hrc107Il vangelo secondo MAURIZIO SOLIERI
Se uno fa due calcoli e sa di cristologia, Maurizio Solieri si accompagna a Vasco Rossi da 33 anni ed è la pietra angolare su cui il Blasco ha costruito la sua chiesa. In occasione dell’uscita di un vangelo (Questa sera rock’n’roll, scritto con Massimo Poggini) incontro il chitarrista davanti a un rosso di pregio, dopo una presentazione del libro di fronte a una platea un po’ desolante ma agguerrita. Lui è uno splendore: chioma fluente, giacca da motociclista, abbronzato e con la lingua tagliente, addolcita solo dall’accento sornione e dalla “R” arrotata. Il libro appena pubblicato è la sua storia, ma anche quella di chi ha fatto rock nei primi anni Ottanta, quando si potevano avere in scaletta Albachiara, Siamo solo noi e Colpa d’Alfredo e fare il pienone in Emilia e il deserto a Campi Bisenzio, il famoso “gran suzzèsso” davanti a dieci spettatori silenti. Maurizio – oltre a dividere il palco con Vasco – chiaramente, fa le sue cose (un album solista l’anno scorso, diverse date con la sua band) incurante di come sia cambiato la discografia, anche se “morta” sarebbe la parola giusta. “Di un disco di Solieri di 57 anni non gliene frega un cazzo a nessuno… mentre di un quattordicenne punk: figaaata!”, mi dice, ridendo. Non è una lamentela, è una constatazione, di fronte a un mercato dove il supposto indie che urlacchia su due accordi (è quello che pensate voi, sì, lui) ha più possibilità ormai di chi suona da anni. È anche atterrito dai reality show: “Va bene 15 minuti di notorietà, ma non di più, dài! Di quante cantanti che imitano la Pausini abbiamo bisogno?!”. Nel libro c’è l’entusiasmo e la disillusione, le classiche “maialità” in tour – come le chiama lui – come gli abusi (alcolici, nel suo caso), il ricordo affettuoso di Massimo Riva e il rapporto non sempre idilliaco col Vasco, raccontato con sincerità e senza leccare il culo. E a parlargli, Maurizio è franco e non accampa scuse, pigliandosi responsabilità e dandole, per una carriera felice, con soddisfazioni personali (la Steve Rogers Band) e anche qualche momento buio, con la fortuna ma anche la sfiga di essere la chitarra per antonomasia di Vasco, status che dà lustro ma non troppo lavoro usciti dall’orbita del rocker di Zocca. Tra un tour e l’altro Solieri viaggia molto, ascolta (dai Gov’t Mule ai fantastici Black Country Communion, passando per Jeff Beck e Derek Trucks), legge di musica –specialmente stampa estera perché le riviste italiane gli fan girare i coglioni – e soprattutto vede una paccata di film. Ha goduto con il documentario chitarristico It Might Get Loud e con l’ultimo Polanski, ma l’emozione cinefila più grande gli è arrivata l’estate scorsa, quando ha incontrato Bernardo Bertolucci: “Oh: sapeva TUTTO! Di me e Vasco, di Hendrix e di Jack White!”. Questo è essere giovani (BB, intendo). (Dicembre 2010)

(Continua – 1)

@DzigaCacace mette i dischi su Twitter

]]>