Lancet – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 25 Aug 2025 22:01:33 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La vita al tempo della peste https://www.carmillaonline.com/2021/01/27/la-vita-al-tempo-della-peste/ Wed, 27 Jan 2021 22:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64673 di Sandro Moiso

Maria Paola Zanoboni, La vita al tempo della peste. Misure restrittive, quarantena, crisi economica, Editoriale Jouvence, Milano 2020, pp. 218, 18,00 euro

«Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre a ogn’altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza». La prima testimonianza scritta dell’incontro tra le prime forme di società capitalistica ed epidemie gravi ha una data compresa tra il 1349, anno in cui Giovanni Boccaccio diede piglio alla penna per ambientare all’interno [...]]]> di Sandro Moiso

Maria Paola Zanoboni, La vita al tempo della peste. Misure restrittive, quarantena, crisi economica, Editoriale Jouvence, Milano 2020, pp. 218, 18,00 euro

«Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre a ogn’altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza». La prima testimonianza scritta dell’incontro tra le prime forme di società capitalistica ed epidemie gravi ha una data compresa tra il 1349, anno in cui Giovanni Boccaccio diede piglio alla penna per ambientare all’interno del panorama delineato dalla diffusione della peste della metà del XIV secolo il Decameron, e il 1351, anno in cui ne terminò la stesura.

E’ necessario cogliere questo collegamento tra albori del capitalismo bancario e mercantile ed epidemie poiché è proprio da quel momento che prende le mosse il testo di Maria Paola Zanoboni pubblicato da Jouvence. Infatti, anche se il capitalismo ha progressivamente spostato le sue radici e le sue origini, e la sua forza politica ed economica, sempre più a Nord e verso Occidente, in realtà le sue forme primitive si manifestarono proprio nei territori delle repubbliche marinare, per i commerci e la cantieristica navale, e di Firenze e di alcune altre città toscane in cui si svilupparono, invece, le prime attività legate al credito e alla manifattura tessile su una scala più ampia rispetto a quella dell’epoca precedente.

Sono infatti poche le pagine iniziali dedicate alle epidemie di peste nell’Antichità, tutte riferite alle testimonianze di Tucidide e Lucrezio, mentre il corpo principale della ricerca si occupa del periodo compreso tra il XIV e il XVII secolo, con una breve puntata nel XVIII per parlare dell’ultima epidemia di peste avutasi in Europa: quella del 1720 a Marsiglia, rapidamente debellata.
In questo periodo di tempo si situa quello che per molti studiosi è considerato come il vero inizio dell’Antropocene1 o, ancor meglio, Capitalocene ovvero quella trasformazione del rapporto uomo-ambiente basato su una progressiva devastazione degli equilibri ambientali e climatici causata dall’estrattivismo, dallo sfruttamento accelerato del suolo e delle risorse naturali oltre che dall’occupazione di una percentuale sempre maggiore di suoli precedentemente “liberi” dalla presenza dell’uomo e delle sue opere. Processo determinato da una ricerca di profitti e accumulo di ricchezze destinate al reinvestimento sempre più esosa, rapida e diffusa.

«Nelle parti orientali incominciata, quelle d’inumerabile quantità de’ viventi avendo private, senza ristare d’un luogo in uno altro continuandosi, verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata»2. Non a caso la peste medievale di cui fu testimone il Boccaccio e intorno a cui si articola buona parte della ricerca, iniziò a diffondersi in Europa seguendo le rotte commerciali tra Oriente e Occidente. In particolare sulle rotte seguite dai genovesi tra i loro magazzini sul Mar Nero e il Mediterraneo.

Mentre sussistevano dubbi sulla contagiosità degli esseri umani, vivi o morti, e degli animali (tra i quali erano però ritenuti pericolosi quelli dotati di pelo o piume), già dal’400 furono infatti individuati nelle merci i veicoli principali dell’infezione:

A Ragusa alla fine del ‘500 le autorità sanitarie consideravano altamente pericolosi la lana e i tessuti di lana, per cui le imbarcazioni cariche di questi articoli e materie prime provenienti da luoghi sospetti non venivano accolte […] verso la metà del ‘600,in ogni caso, sussisteva la perfetta consapevolezza della trasmissione del contagio anche attraverso le merci infette, e di quali oggetti o materiali lo propagassero più di altri. Un documento emanato dalle autorità sanitarie genovesi all’epoca della grande epidemia del 1656/57 elenca minuziosamente i prodotti in cui non si annidava il morbo, quelli in cui si annidava e quelli su cui si era incerti […] la maggior parte del legno, se ruvido e pieno di crepe era tra i principali veicoli di contagio, tanto che fin dal ‘400, nella costruzione dei lazzaretti, erano banditi i soffitti in legno e utilizzato esclusivamente il laterizio3.

«Dico che di tanta efficacia fu la qualità della pestilenzia narrata nello appiccarsi da uno a altro, che non solamente l’uomo all’uomo, ma questo, che è molto più, assai volte visibilmente fece, cioè che la cosa dell’uomo infermo stato, o morto di tale infermità, tocca da un altro animale fuori della spezie dell’uomo, non solamente della infermità il contaminasse ma quello infra brevissimo spazio uccidesse»4. Il ripresentarsi nel XIV secolo della peste, assente fin dall’VIII secolo sul territorio europeo, da un lato colse la società impreparata ad affrontarla e successivamente spinse le autorità a prendere provvedimenti di quarantena e divieto di spostamento non troppo dissimili da quelli attuali. L’autrice ne fa un lungo elenco, pur ricordando che nonostante questo la peste rimase a lungo endemica nel Vecchio Continente: «ripresentandosi ovunque con cadenza decennale, e divenendo parte integrante del normale ritmo di vita, per cui, soprattutto nei centri urbani, la popolazione fu costretta suo malgrado ad adeguarvisi»5. Tutto ciò fa svolgere alla Zanoboni, alcune ulteriori riflessioni:

Comprese in un arco cronologico esteso dall’antichità greca e romana ai primi decenni del XVIII secolo, le epidemie di peste coinvolsero in ogni epoca tutti i possibili aspetti della vita economica, politica, sociale, pubblica e privata, dando ampia materia di discussione a svariate discipline. La storia della medicina e quella sanitaria, la psicologia, la letteratura, la demografia, la storia economica e quella politica, hanno affrontato nel corso dei secoli questo tema affascinante e terribile, mettendo in evidenza impressionanti analogie.
E’ incredibile soprattutto constatare come, nonostante i progressi straordinari delle discipline mediche, gli strumenti a disposizione ai nostri giorni per la prevenzione delle epidemie siano ancora quelli elaborati nel ‘300 a partire dal Nord della Penisola (Milano, Firenze, Venezia, Genova, Lucca), recepiti tardi dal resto dell’Europa (tardissimo dall’Inghilterra), e adottai con successo fino al 17206.

Anche se oggi, infatti, si pone perentoriamente l’accento sui vaccini, occorre qui sottolineare che due scienziate e ricercatrici del King’s College di Londra e dell’università di Bristol, in Gran Bretagna, specializzate in storia della medicina e della scienza, Caitjan Gainty ed Agnes Arnold Forster, spiegano che la speranza che vi stiamo riponendo, almeno sotto l’aspetto di sanità pubblica su scala globale, è esagerata7.
Inoltre, anche Richard Horton, direttore della celebre rivista scientifica “The Lancet”, tra le cinque più autorevoli al mondo, ha voluto sottolineare come

la gestione dell’emergenza, basata solo su sicurezza ed epidemiologia, non raggiunge l’obbiettivo di tutelare la salute e prevenire i morti. Covid-19 non è la peste nera né una livella: è una malattia che uccide quasi sempre persone svantaggiate, perché con redditi bassi e socialmente escluse oppure perché affette da malattie croniche, dovute a fenomeni eliminabili se si rinnovassero le politiche pubbliche su ambiente, salute e istruzione. Senza riconoscere le cause e senza intervenire sulle condizioni in cui il virus diventa letale, nessuna misura sarà efficace. Nemmeno un vaccino.
[…] la sindemia implica una relazione tra più malattie e condizioni ambientali o socio-economiche. L’interagire tra queste patologie e situazioni rafforza e aggrava ciascuna di esse. Questo nuovo approccio alla salute pubblica è stato elaborato da Merril Singer nel 1990 e fatto proprio da molti scienziati negli ultimi anni. Consente di studiare al meglio l’evoluzione e il diffondersi di malattie lungo un contesto sociale, politico e storico, in modo di evitare l’analisi di una malattia senza considerare il contesto in cui si diffonde. Per intenderci, chi vive in una zona a basso reddito o altamente inquinata, corre un maggior rischio di contrarre tumori, diabete, obesità o un’altra malattia cronica. Allo stesso tempo, la maggiore probabilità di contrarre infermità fa salire anche le possibilità di non raggiungere redditi o condizioni di lavoro che garantiscano uno stile di vita adeguato, e così via, in un circolo vizioso.
La sindemia è quel fenomeno, osservato a livello globale, per cui le fasce svantaggiate della popolazione risultano sempre più esposte alle malattie croniche e allo stesso tempo sempre più povere8.

Infine può rivelarsi utile ricordare come già David Quammen, autore del fondamentale Spillover (Adelphi, Milano 2012), abbia suggerito, in largo anticipo, che:

Le ragioni per cui assisteremo ad altre crisi come questa nel futuro sono che 1) i nostri diversi ecosistemi naturali sono pieni di molte specie di animali, piante e altre creature, ognuna delle quali contiene in sé virus unici; 2) molti di questi virus, specialmente quelli presenti nei mammiferi selvatici, possono contagiare gli esseri umani; 3) stiamo invadendo e alterando questi ecosistemi con più decisione che mai, esponendoci dunque ai nuovi virus e 4) quando un virus effettua uno “spillover”, un salto di specie da un portatore animale non-umano agli esseri umani, e si adatta alla trasmissione uomo-uomo, beh, quel virus ha vinto la lotteria: ora ha una popolazione di 7.7 miliardi di individui che vivono in alte densità demografiche, viaggiando in lungo e in largo, attraverso cui può diffondersi […] Più distruggiamo gli ecosistemi, più smuoviamo i virus dai loro ospiti naturali e ci offriamo come un ospite alternativo […] consumiamo risorse in modo troppo affamato, a volte troppo avido, il che ci rende una specie di buco nero al centro della galassia: tutto è attirato verso di noi. Compresi i virus.
Una soluzione? Dobbiamo ridurre velocemente il grado delle nostre alterazioni dell’ambiente, e ridimensionare gradualmente la dimensione della nostra popolazione e la nostra domanda di risorse.
Siamo davvero una specie animale, legata in modo indissolubile alle altre, nelle nostre origini, nella nostra evoluzione, in salute e in malattia9.

Quindi, potenzialmente, la scienza attuale parrebbe aver fatto degli importanti passi in una direzione impensabile nei secoli analizzati dal libro della Zanoboni, mentre al contempo la società umana non è ancora uscita dal modo di produzione che proprio in quel periodo si sviluppava e rafforzava, fino a diventare dominante. Per questo, in attesa di abolirlo insieme a tutte le sue nefaste conseguenze, la lettura e lo studio del testo edito da Jouvence può rivelarsi davvero utile. Tenendo conto del fatto che l’attenzione dell’autrice per le contraddizioni sociale ed economiche e le caratteristiche politiche di una società capitalistica ai suoi albori non è affatto casuale ed è particolarmente presente anche in un altro suo bel libro, edito sempre da Jouvence: Scioperi e rivolte nel Medioevo. Le città italiane ed europee nei secoli XIII -XV (Milano 2015).


  1. E’ grosso modo in questo periodo, intorno alla fine del XVI secolo, che gli storici inglesi Simon Lewis e Mark Maslino situano quell’accelerazione delle trasformazioni destinate a modificare la posizione dell’Uomo sul pianeta e l’affermazione dell’idea di poter dominare la Natura a proprio vantaggio. Simon L. Lewis – MarkA. Maslin, Il pianeta umano. Come abbiamo creato l’Antropocene, Giulio Einaudi editore, Torino 2019  

  2. Giovanni Boccaccio, Decameron, Prima giornata  

  3. Maria Paola Zanoboni, La vita al tempo della peste, Editoriale Jouvence, Milano 2020, p. 41  

  4. G. Boccaccio, op. cit.  

  5. M. P. Zanoboni, op. cit. p. 47  

  6. Ibidem, p. 13  

  7. Simone Cosimi, Perché non bastano i vaccini per sconfiggere un virus, e varrà anche per il Covid-19, “Esquire”, gennaio 2021  

  8. Si veda Edmondo Peralta, “Covid-19 is not a pandemic”: non una pandemia, ma una “sindemia” (qui mentre qui è reperibile l’originale )  

  9. Si veda qui  

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La carica dei 600 https://www.carmillaonline.com/2014/03/06/13250/ Wed, 05 Mar 2014 23:10:05 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13250 di Sandro Moiso

balaclava 1

“A furia di incidenti, di guerre provocate ad arte, di primavere improbabili, come quella fasulla in Libia, o come in Egitto dove ora comandano i militari dopo un colpo di Stato nel silenzio più assoluto delle cosiddette democrazie, a furia di nazioni usate come terreno di scontro di interessi internazionali a colpi di bombe e di disinformazione, come in Siria, la situazione potrebbe sfuggire a tutti di mano. Potrebbe scoppiare un incendio che brucia la casa come può succedere a un bambino che gioca con i fiammiferi. Andò così nel 1914, Sarajevo fu solo una scintilla” di Sandro Moiso

balaclava 1

“A furia di incidenti, di guerre provocate ad arte, di primavere improbabili, come quella fasulla in Libia, o come in Egitto dove ora comandano i militari dopo un colpo di Stato nel silenzio più assoluto delle cosiddette democrazie, a furia di nazioni usate come terreno di scontro di interessi internazionali a colpi di bombe e di disinformazione, come in Siria, la situazione potrebbe sfuggire a tutti di mano. Potrebbe scoppiare un incendio che brucia la casa come può succedere a un bambino che gioca con i fiammiferi. Andò così nel 1914, Sarajevo fu solo una scintilla”1. Per una volta Beppe Grillo non ha postato soltanto un’ennesima boutade, ma si è avvicinato ai fatti con una certa precisione. Diamogliene atto. Anche se, dal punto di vista dell’antagonismo di classe, la questione rimane un po’ più complessa.

D’altra parte ciò che scrive sul suo blog era già stato precedentemente affermato qui, su Carmilla, proprio a proposito della Siria2. E oggi, come allora, lo scontro politico in Ucraina potrebbe sia fermarsi, e rimanere tale, sia svilupparsi in un conflitto più allargato. Ciò che conta però è la tendenza e questa rimane sicuramente, e soprattutto da parte statunitense, indirizzata verso una situazione di guerra diffusa, destinata a minare gli equilibri e gli interessi europei nel Mediterraneo e nell’Europa Orientale. Come le code di giovani nazionalisti ucraini pronti ad arruolarsi a Kiev, dopo la visita di Kerry, fanno purtroppo presagire.

Anche se qui da noi si fa a gara, nei mezzi di informazione, nel far vedere chi è più ignorante di cose ucraine3 e di tutto ciò che riguarda la storia recente e passata , dovrebbe essere chiaro che l’Ucraina e, in particolare, la penisola della Crimea costituiscono nei rapporti con la Russia un nodo sicuramente delicato, spinoso e pericoloso. Un autentico terreno minato per la politica, la diplomazia, la geopolitica e l’economia.

Qualsiasi studente che abbia terminato la quarta classe degli istituti superiori dovrebbe, infatti, sapere che uno dei conflitti più sanguinosi della metà dell’ottocento fu proprio quello che vide coinvolte Gran Bretagna, Francia e Impero Ottomano da un lato e Impero Zarista dall’altro per il controllo della penisola della Crimea e di Sebastopoli. Peccato che, troppo spesso, non si spieghi il perché di quella guerra che vide schierate su fronti opposti due potenze che dal congresso di Vienna in avanti avevano costituito il cuore politico e militare della Santa Alleanza ovvero Russia e Gran Bretagna.

Unite nella reazione e nella controrivoluzione, ma nemiche negli scopi di espansione imperiale. Unite nel reprimere qualsiasi sollevazione rivoluzionaria in Europa, ma nemiche giurate dal Caucaso all’Hindu Kush e dal Mare Mediterraneo agli oceani e ai mari del nord. Ma una domanda ancora più difficile sarebbe, per gran parte del giornalismo italiano e per gli insegnanti di storia, chiedere quali fossero, e ancora siano, i porti principali per le flotte russe e quale la loro dislocazione.

Sì, perché il rapporto della Russia, in ogni sua forma statuale (Impero, Sovietica o attuale), con il mare è stato da sempre problema di non poco conto. Impero o nazione dal territorio immenso, ma scarsamente dotato di sbocchi al mare o, per lo meno, di sbocchi al mare utili sia dal punto di vista commerciale che militare. Non per nulla fu proprio lo czar Pietro I detto il Grande a cercare di sviluppare una prima flotta russa a partire dalla fondazione di San Pietroburgo, che per quello czar avrebbe dovuto costituire lo sbocco verso il mare, e l’ammodernamento del paese, in chiave anti-svedese e di politica di potenza sul Baltico ed oltre.

Infatti uno dei motivi della cronica arretratezza dello sviluppo russo aveva, sicuramente, ed ha avuto, anche in epoca sovietica, origine nella scarsità di accessi al mare. Infatti da Atene a Roma, dal Portogallo alla Spagna e dall’Olanda alla Gran Bretagna fino agli Stati Uniti, la libertà di accesso al mare e agli oceani e il loro dominio ha sempre costituito non solo un motivo di potenza ma, anche, di sviluppo. Mentre la Russia, sicuramente imponente come potenza continentale, si è sempre vista invece relegata a pochi altri porti oltre a quelli sul Baltico, mare chiuso e talvolta gelato:

– Primi tra tutti i porti sul Mar Nero e, in particolare, oltre a quello di Odessa, in Crimea. Sostanzialmente chiusi in un mare il cui controllo sta però nelle mani della Turchia (da lì l’insanabile conflitto politico e militare tra le due nazioni di cui si è avvantaggiata da sempre la NATO), attraverso il Bosforo e poi attraverso i Dardanelli.

– Il porto di Vladivostock, in Siberia, nell’estremo oriente del paese, che costituisce il più importante (quasi unico) accesso diretto della Russia all’Oceano Pacifico, ma chiuso tra Cina, Corea del Nord e Mar del Giappone ed estremamente isolato dal resto del paese (come si dimostrò durante la guerra civile quando fu occupato da truppe canadesi, cecoslovacche, americane, giapponesi ed italiane), di cui costituisce la stazione finale della ferrovia transiberiana.

– Arcangelo, posto sul Mar Bianco e scelto nel 1693 dal solito Pietro il Grande come sede dei cantieri navali russi. Idea che fu poi superata dalla fondazione nel 1704 di San Pietroburgo poiché il porto di Arcangelo rimaneva bloccato dai ghiacci per almeno cinque mesi all’anno. Proprio questa impossibilità di navigare per lunghi periodi sul Mare di Barents e sui susseguenti Mar di Kara e sul Mar Glaciale Artico fino al Mare della Siberia Orientale e al Pacifico, spinse l’Unione Sovietica alla costruzione di navi rompighiaccio sempre più grandi e potenti, fino alle attuali a propulsione nucleare. Anche, se in anni recenti, il riscaldamento globale ha permesso alle navi russe di navigare lungo tutte le coste settentrionali fino all’Oceano per tutto l’inverno. E questo costituirà ben presto per gli americani un vero e proprio problema “ambientale”.

– A tutto ciò va poi aggiunto che se la più grande nazione del mondo è sostanzialmente sotto-popolata e la sua popolazione è principalmente concentrata nella Russia europea, ciò è dovuto alla scarsa abitabilità di un territorio, come quello siberiano, in cui la presenza del permafrost 4 impedisce la presenza di qualsiasi forma di agricoltura, con una densità media di popolazione di 2 abitanti per kmq.
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Tutto ciò dovrebbe rendere chiaro che l’accanimento politico-mediatico e militare occidentale attuale nei confronti di territori strategici per la Russia (in Siria, è già stato precedentemente detto, vi è l’unica base navale russa nel Mare Mediterraneo), non potrà essere tollerata né da Putin né da qualsiasi altro gerarca russo (compreso quel vecchio ubriacone di Boris Eltsin cui l’Occidente poté chiedere qualsiasi cosa, ma che non avrebbe mai ceduto la Crimea).
Senza contare, poi, che l’Ucraina, oltre che importante per la sua posizione geo-strategica, è anche fondamentale per la sua produzione agricola, che ne ha fatto per secoli l’autentico granaio d’Europa e della Russia.

Chi spinge, oggi, in direzione della secessione sta cercando la guerra economica e mediatica oppure, domani, guerreggiata oppure, ancora, la semplice sottomissione della Russia alle pretese americane di dominio. Non vi sono altre scuse. Dimenticando, però, che la Russia di Putin sembra poco propensa a piegarsi ai voleri della NATO e dell’Occidente, così come ha già dimostrato in Siria e col sorprendente recupero di posizionamento politico in Egitto.

Certo, la Russia può essere vista come un gigante militare dai piedi economici d’argilla, come è provato ancora in questi giorni dalle difficoltà del rublo e della borsa russa, ma il controllo dei rifornimenti di gas, dai suoi enormi giacimenti verso l’Europa, concede ai suoi governanti un significativo potere di contrattazione, anche se la crisi economica mondiale ha finito col pesare sul valore delle sue riserve di materie prime. Ma la crisi pesa anche sugli Stati Uniti che, nonostante la fasulla retorica obamiana, hanno ben poco da proporre (un miliardo di dollari di aiuti all’Ucraina quando questa ha bisogno di decine di miliardi) se non lo spettro delle sanzioni economiche e militari. Di fatto le stesse modalità operative rimaste nelle mani del leader del Cremlino.

Chi scrive sicuramente non parteggia per la Russia di Putin e, tanto meno, ha mai parteggiato per la retorica “socialista” della Russia staliniana o brezneviana, ma le scuse addotte oggi per un possibile intervento ricordano troppo il pianto sui luoghi santi non rispettati dai russi che gli inglesi usarono in preparazione della guerra di Crimea. Oggi sostituito dal solito cordoglio per la solita generica libertà offesa, dalla lotta all’omofobia o dal sabotaggio delle Olimpiadi di Sochi e del G8 ivi convocato e dal pianto di Papa Francesco per i poveri ucraini.

Come nei riti feciali dell’antica Roma, la colpevolizzazione del nemico diventa allo stesso tempo rituale e fondamentale nella preparazione della guerra. “Attraverso una vera e propria «litis contestatio», alla quale veniva chiamato, come testimone tutto il creato (dei, piante, animali, uomini, magari passanti ignari) […] e segna un momento essenziale nella vicenda di rottura tra tempo di pace e tempo di guerra5 .

Oltre a tutto ciò va ricordato che l’Ucraina ha una lunga, drammatica e contraddittoria storia: sede della prima Rus’ nel medio Evo vichingo; parte della presenza svedese in Russia in età moderna; residuo parziale (proprio in Crimea) del khanato dell’Orda d’oro; protagonista della resistenza anarchica alle truppe bianche e rosse durante la guerra civile; testimone della più grande carestia europea del ‘900 durante gli anni trenta, di grandi massacri di popolazione ebraica durante l’avanzata nazista e dei trasferimenti forzati di molti suoi abitanti di origine tedesca e tatara verso la Siberia dopo il secondo conflitto mondiale.

Ma oggi tutto questo ha poco a che fare con le rivolte e gli interventi militari. Al massimo ne costituisce lo sfondo confuso da cui è possibile trarre ogni tipo di giustificazione. Per l’uno e l’altro fronte. Quello che conta davvero è che la Crimea per la Russia è irrinunciabile e qualsiasi tentativo di strapparla alla stessa (dalla guerra del 1853 e degli anni seguenti fino alla guerra civile, quando fu sede delle armate bianche di Denikin e Wrangel) è di fatto considerato da quella nazione come una minaccia alla propria sicurezza..

Certo, la rivolta di Kiev affonda le sue radici nella corruzione dell’esecutivo e nella crisi economica e Viktor Yanukovich non ha nessun carattere in grado di suscitare la minima simpatia o giustificazione per il suo operato, ma lì i gruppi di sinistra sono stati malmenati, minacciati e costantemente allontanati dalle piazze dagli appartenenti ai gruppi paramilitari di estrema destra. Proprio là dove, come tutti ricorderanno, la “Rivoluzione arancione” di Yulia Tymoshenko aveva già costituito il modello per tutte quelle che sarebbero state le rivoluzioni telecomandate via social network che sarebbero poi diversamente esplose sulle sponde del Mediterraneo, con i risultati che tutti, oggi, possono avere facilmente sotto gli occhi. Là dove i rivoltosi di Kiev, anche quando armati di fucili di precisione sono stati compianti come vittime quasi inermi, mentre qui, in Italia, chi incendia una betoniera è accusato di terrorismo. No, c’è qualcosa che non funziona…c’è del marcio in Danimarca6 .
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L’assenza di precisi riferimenti di classe e la presenza “importante” sulla piazza di un partito di estrema destra come l’Unione Pan-Ucraina “Libertà”, meglio conosciuto come Svoboda, e il fatto che questo abbia superato nelle elezioni del 2012 il 10% dei voti, non fa presagire niente di buono e fa intravedere risvolti e collegamenti politici internazionali certamente inquietanti. E non può bastare a giustificare ciò il fatto che per decenni l’ideologia del potere nell’URSS, prima del suo disfacimento, fosse stata quella del socialismo di stato.

Si tratta forse di dover parteggiare per la Russia? Ancora, dopo l’esperienza dello stalinismo e dell’espansionismo di stampo sovietico? Sicuramente no, ma non va accettata la retorica con cui si paragona la presenza militare russa in quella penisola con le invasioni dell’Ungheria, della Cecoslovacchia o delle altre nazioni europee definite all’epoca, da Stalin e dai suoi successori, come repubbliche sorelle.

Quelle invasioni rappresentavano la sostanziale continuità politica con la Santa Alleanza ottocentesca. Solo che, dopo Yalta, gli Stati Uniti avevano sostituito la Gran Bretagna nel gioco imperiale europeo e avevano comunque visto di buon occhio, e senza muovere un dito, la repressione violentissima delle rivolte operaie di Berlino Est del 1953, di Budapest del 1956 e dei successivi moti cecoslovacchi e polacchi. Là dove occorreva schiacciare l’iniziativa autonoma di classe erano le due super-potenze ad essere davvero sorelle.

Il conflitto rimaneva e rimane sui mari e sugli altri territori, esattamente come nell’ottocento. Ma la crisi, oggi, su uno sfondo in cui la Cina si va affermando come prima potenza economica, spinge i vecchi antagonisti della guerra fredda a bluffare in maniera sempre più pericolosa, creando una situazione di tensione, cui potrebbe bastare un nonnulla per trasformarsi in un autentico conflitto. Che per gli americani risolverebbe non pochi problemi economici, soprattutto se combattuto, ancora una volta, fuori dai propri confini e, magari, nelle vesti di una guerra civile appoggiata dall’esterno. Esattamente come successe nei Balcani a partire dal 1991.

Obama ha promesso pochi giorni or sono di voler ridurre la spesa militare a quella che era prima del secondo conflitto mondiale per destinare risorse allo sviluppo della società; peccato, però, che da più di un secolo per l’economia statunitense sviluppo e guerra coincidano perfettamente. Un conflitto alle porte dell’Europa e con la Russia, o anche solo la minaccia di una sua eventualità, avrebbe come risultato immediato quello di irrigidire e precarizzare i rapporti economici tra Russia ed Europa e tra Russia e Germania, in particolare, e finirebbe con l’indebolire ulteriormente la fragile economia europea e la sua inconsistente unione politica. Tutto a vantaggio del dollaro e delle imprese americane.

Non a caso, mentre la Francia , proprio come nell’ottocento, si è schierata da subito contro la Russia, Italia e Germania tentennano. Soprattutto l’Italia che, dalla rivolta anti- Mubarak in poi, ha perso terreno in Egitto (dove era il secondo partner economico), in Libia (dove era il primo beneficiario del petrolio e del gas libico) e ora in Ucraina ( dove, ancora una volta, è il secondo partner economico). Anche se, come sempre, la classe politica più vile del mondo occidentale alla fine si schiererà con chi saprà fare la voce più grossa.

Infine, una guerra, guerreggiata o anche solo pesantemente minacciata, servirebbe ancora una volta a dividere le società europee ed i lavoratori delle stesse attraverso il peggior sciovinismo nazionalista. Per questo occorre non cadere nella trappola dello schierarsi con le forze e le potenze in campo. Tutte egualmente ambigue.
Il capitale, di qualsiasi e colore e tendenza, è nemico non solo dei lavoratori ma di tutta la specie umana, come le recenti statistiche della rivista scientifica americana Lancet, sull’aumento del 43% della mortalità infantile in Grecia dovuto alle manovre e ai tagli dettati dall’austerità europea, ben dimostrano.

Nostra patria è il mondo intero, ma il capitale ci è nemico ovunque, comunque e soprattutto in casa nostra. Perché, nonostante le convinzioni dei pacifisti integrali, il capitale significa guerra e la società capitalistica è una società costantemente in guerra: tra le imprese, le nazioni, gli imperi e, last but not least, le classi. Per questo non possiamo far altro che augurargli la fine della brigata di cavalleria leggera inglese a Balaklava, la carica dei seicento7 appunto, durante la guerra di Crimea. Fu distrutta. Amen e così sia.


  1. 1914 Sarajevo – 2014 Sebastopoli, Il blog di Beppe Grillo, 01/03/2014  

  2. War! editoriale del 10 settembre 2013  

  3. Basti pensare che Maidan Nezhaleznosti ovvero Piazza Indipendenza è ripetutamente nominata dai nostri media come Piazza Maidan, là dove “maidan” in Ucraina già significa “piazza”  

  4. Un terreno gelato tutto l’anno anche fino a 1500 metri di profondità  

  5. Franco Fornari, Psicoanalisi della guerra, Feltrinelli 1966, 1970 e 1988, pag.40  

  6. William Shakespeare, Amleto, atto I, scena IV  

  7. Celebrata in un bellissimo film antimilitarista di Tony Richardson del 1968, I seicento di Balaklava e in un album di folk rock antimilitarista dei Pearls Before Swine di Tom Rapp, sempre del 1968, intitolato Balaklava  

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