Kolyma – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 01 Aug 2025 20:00:30 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Varlan Šalamov: una voce dalla Kolyma https://www.carmillaonline.com/2024/11/20/la-voce-di-un-fantasma-della-kolyma/ Wed, 20 Nov 2024 21:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85321 di Sandro Moiso

Varlan Šalamov, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, a cura di Irina Sirotinskaja, traduzione di Claudia Zonghetti, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 468, 24 euro

Ogni nuova uscita in Italia di un’opera di Varlam Tichonovič Šalamov dovrebbe rappresentare un evento culturale di rara importanza, ma anche se l’autore russo è stato tradotto nel nostro paese fin dal 1976, sei anni prima della sua morte, ancora non sembra aver raggiunto la notorietà che sicuramente meriterebbe. Quasi che non si trattasse altro che di un fantasma o di un ricordo da cancellare, per alcuni, o da utilizzare, [...]]]> di Sandro Moiso

Varlan Šalamov, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, a cura di Irina Sirotinskaja, traduzione di Claudia Zonghetti, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 468, 24 euro

Ogni nuova uscita in Italia di un’opera di Varlam Tichonovič Šalamov dovrebbe rappresentare un evento culturale di rara importanza, ma anche se l’autore russo è stato tradotto nel nostro paese fin dal 1976, sei anni prima della sua morte, ancora non sembra aver raggiunto la notorietà che sicuramente meriterebbe. Quasi che non si trattasse altro che di un fantasma o di un ricordo da cancellare, per alcuni, o da utilizzare, per altri, per condannare in blocco l’esperienza sovietica nel suo insieme, dalla Rivoluzione di Ottobre almeno fino agli anni successivi alla morte di Stalin, invece che di una delle voci più significative e potenti dell’intera letteratura del ‘900.

Quella prima pubblicazione italiana, ovvero Kolyma. Racconti dai lager staliniani, a cura di Piero Sinatti ed edita da Savelli, con una traduzione condotta sul testo russo dallo stesso curatore, avvenne senza il consenso dell’autore, anticipando una pratica editoriale per cui in Occidente le novelle di Šalamov sarebbero state pubblicate in prima battuta senza la conoscenza o il consenso dell’autore che, per questo motivo, mostrò sempre un particolare risentimento, poiché dallo sfruttamento editoriale occidentale della sua opera più importante Šalamov non avrebbe mai guadagnato un solo rublo. Cosa che, tra le molte altre, lo avrebbe costretto a trascorrere gli ultimi anni di vita in precarie condizioni economiche, in una casa di riposo per scrittori anziani e disabili situata a Mosca.

Nato a Vologda nel 1907 e scomparso a Mosca nel 1982, Varlan Šalamov è stato uno scrittore, poeta e giornalista d’età sovietica. Prigioniero politico per lunghi anni, sopravvisse all’esperienza del gulag nel corso dei più di vent’anni che trascorse nel bacino della Kolyma che prende il nome dall’omonimo fiume artico della Russia siberiana nordorientale che sfocia nel Mare della Siberia Orientale), dopo aver percorso 2.129 chilometri.

Il fiume Kolyma attraversa una delle regioni più fredde ed inospitali della Siberia, caratterizzata dal permafrost e da un clima estremo, dove si raggiungono temperature minime fra le più basse dell’emisfero settentrionale del pianeta, motivo per cui il fiume è ghiacciato per la maggior parte dell’anno Negli anni dello stalinismo tale regione costituiva la sede di alcuni dei più importanti e conosciuti campi di lavoro forzato, essenzialmente costruiti per lo sfruttamento delle abbondanti risorse minerarie (soprattutto oro), nei quali, secondo le cifre riportate da diversi storici, dagli anni Trenta fino ai primi Cinquanta morirono circa tre milioni di deportati.

Di questo autentico inferno in terra, già utilizzato dal regime zarista, ma in seguito allargato e reso più efficiente da quello staliniano, esistono numerose testimonianze, a partire dalla Memoria della casa dei morti di Fëdor Dostoevskij1 fino alla dettagliata descrizione dell’Arcipelago Gulag di Aleksandr Solženicyn, certamente quest’ultimo tra i più importanti testimoni dell’esperienza concentrazionaria siberiana.

Ma tra l’ultimo e Šalamov intercorrono svariati gradi di diversità, sia sul piano politico che letterario. Infatti il secondo, figlio di un prete ortodosso, dopo tre anni trascorsi nello studio del diritto sovietico presso l’Università Statale di Mosca, fu arrestato il 19 febbraio del 1929 e condannato a tre anni di lavori forzati nella città di Višera, nella zona degli Urali, per essersi unito ad un gruppo trotzkista. L’accusa era quella di aver distribuito le Lettere al Congresso del Partito, note anche come Testamento di Lenin, in cui venivano sollevate critiche all’operato di Stalin, oltre a quella di aver partecipato ad un picchetto dimostrativo per il decimo anniversario della Rivoluzione d’ottobre con lo slogan Abbasso Stalin!2. E precipitando così in un sistema carcerario spietato tanto con i condannati quanto con i loro momentanei aguzzini.

D’estate si lavorava dieci ore al giorno, senza festivi, con una sola turnazione, come dicevano lì: una giornata di riposo ogni dieci giorni. In ottobre le ore diventavano otto, in dicembre sei, in gennaio quattro. In febbraio la curva di rialzava: prima sei, poi otto, e poi di nuovo dieci ore.
“In un giorno la Kolyma estrae tanto di quell’oro che ci si potrebbe sfamare il mondo per ventiquattro ore” scrisse Berzin sulla Pravda nel 1936 per le celebrazioni dei tre anni della sua impresa, quando i primi seicento chilometri della celebre “rotabile” della Kolyma erano già stati costruiti.
Nel 1937, in veste di ordinaria integrazione, alla Kolyma vennero mandati i trockisti, come li chiamavano allora. Tra i quali figuravano molti conoscenti di Berzin. Erano arrivati con delle strane istruzioni: “da utilizzare solo per lavori fisici pesanti”, vietare la corrispondenza, riferire mensilmente sulla loro condotta.
Berzin e Filippov fecero rapporto: quel contingente non era adatto alle condizioni dell’Estremo Nord, glieli avevano mandati senza la documentazione medica necessaria, nei convogli c’erano molti vecchi e malati, il novante per cento dei nuovi detenuti aveva svolto solo lavoro intellettuale, ed era del tuto antieconomico utilizzarli nell’Estremo Nord.
Berzin venne convocato a Mosca con un telegramma e arrestato direttamente sul treno. E ora aspettava la morte dentro una cella3.

Rilasciato nel 1931, dopo che nel 1936 aveva visto la luce il suo primo racconto, Le tre morti del Dottor Austino, fu nuovamente arrestato il 12 gennaio 1937, durante le grandi purghe, per “attività trockiste contro-rivoluzionarie” e mandato ai lavori forzati per cinque anni nella Kolyma, dove ne 1943 gli venne inflitta una seconda pena, stavolta per dieci anni, per “agitazione antisovietica”.

Durante la prigionia lavorò prima nelle miniere d’oro, poi in quelle di carbone. Durante tale periodo Šalamov si ammalò di tifo e più volte fu posto in regime punitivo, sia per reati d’opinione sia per tentativi di fuga. A differenza di Solženicyn, però, negli scritti di Šalamov non si avverte mai l’afflato religioso e nazionalistico del primo, mentre invece, anche nei momenti più bui narrati nei suoi racconti della Kolyma, si avverte una certa dose di ironia che spesso riesce a far sorridere il lettore, tipica espressione della letteratura russa, da Puškin a Gogol’ fino ad altri scrittore russi e sovietici del XIX e del XX secolo.

Per riscoprire o scoprire per la prima volta le doti e le capacità di questo grande e perseguitato scrittore, si rivela dunque veramente utile e ricca di spunti la raccolta di testi appena pubblicata dalle edizioni Adelphi, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, che si inserisce nella pubblicazione dei suoi scritti, editi e non in Italia, che la casa editrice del fu Roberto Calasso porta meritoriamente avanti da anni4. Il testo raccoglie scritti prodotti fra gli anni Cinquanta e Settanta ed è apparso per la prima volta nel 2004.

Testi che, oltre che all’esperienza della Kolyma che rimane centrale nella vita e nell’opera di Šalamov, ci riportano anche alla Vologda della sua infanzia, dove si manifestarono precocemente sia l’amore per la poesia che l’insaziabile sete di libri; ma anche alla rigogliosa scena letteraria sovietica degli anni Venti, dove brillavano le stelle di Šklovskij, Majakovskij, Mandel’štam e Bulgakov. Uno straordinario e quasi unico ambiente letterario e artistico messo in moto dalla Rivoluzione, ma presto destinato a scomparire, «spazzato via dalla scopa di ferro dello Stato». Mentre in chiusura ci riporta al tempo della sua riabilitazione ufficiale e dell’amicizia con Pasternak.

Ho molti dubbi, troppi. E’ una domanda che chiunque scriva memorie, qualunque scrittore grande o piccolo, conosce: servirà a qualcuno questo mio racconto? […] A chi servirà da esempio? Educherà qualcuno a non cedere al male e a fare il bene? Sarà o non sarà un’affermazione del bene, del bene sempre e comunque, dato che è nel valore etico dell’arte che vedo l’unico suo vero criterio… E poi perché io? Non sono né Amundsen né Peery… La mia esperienza è condivisa da milioni di persone. E non c’è dubbio che fra quei milioni c’è gente con una vista più acuta della mia, con una passione più forte, una memoria migliore e un talento più grande del mio5.

È un interrogativo doloroso quello che Varlan Šalamov si pone nello scritto degli anni Settanta qui riportato. Pagine in cui Šalamov non si limita a mettere a nudo se stesso, ma rivive e ci fa vivere l’inferno del lager: l’implacabile freddo siberiano, la fame assillante, l’umiliazione continua dei lavori forzati e delle violenze, e tutte le efferate tecniche messe in atto dal potere sovietico per ridurre i detenuti a “relitti umani”. Condizione cui, nel 1946, lo stesso era stao ridotto. Una violenza, quella di ridurre un detenuto allo stremo, per cui esisteva anche un termine gergale russo dochodjaga, “giunto in fondo”. Una condizione cui il detenuto giungeva dopo essere stato picchiato da tutta la scorta. «Diventi un dochodjaga e tocchi il fondo quando ti indebolisci del tutto a causa della mansione troppo gravosa, senza dormire a sufficienza, un lavoro di manovalanza a cinquanta gradi sotto zero» come avrebbe ricordato ancora l’autore russo in altre sue memorie.

La sua vita sarebbe stata salvata da un medico anche lui prigioniero, Andrej Pantjuchov che, correndo qualche rischio, riuscì a prenderlo come proprio assistente presso l’ospedale del campo, dove iniziò a lavorare stabilmente come infermiere, un po’ come il protagonista di Il primo cerchio di Solženicyn. Questa nuova sistemazione gli consentì di sopravvivere e, successivamente, di riprendere a scrivere. Esperienza e dubbi che lo accomunano ad un altro celebre sopravvissuto e “salvato”, Primo Levi, e che dimostrano come tutti i parallelismi tra gulag sovietico e lager nazisti siano pienamente giustificati. Anche se Levi, al momento della pubblicazione dei primi racconti di Šalamov in Italia, non seppe riconoscerne la comune volontà di «catturare briciole di verità, per quanto squallide siano» e, nel commentare il capolavoro, non riuscì ad andare oltre una “commozione e simpatia” per le pagine dello scrittore russo. Forse ancora parzialmente abbagliato dal “mito politico” della presunta “unicità” della Shoa e di un male considerato “assoluto” da chi si ostinava e si ostina a negare gli orrori del gulag e della repressione staliniana, ovvero di quel “male” di cui parlava l’autore russo nei suoi racconti.

Šalamov, rilasciato nel 1951, avrebbe continuato a lavorare e scrivere nello stesso ospedale, finché, nel 1952, dopo aver spedito alcune sue poesie a Boris Pasternak, avrebbe avuto modo di tornare a Mosca e di conoscere e frequentare, dopo la morte di Stalin nel 1953 e dopo la sua personale riabilitazione ufficiale avvenuta nel 1956, altri importanti scrittori come Solženicyn e Nadežda Mandel’štam, oltre che lo stesso Pasternak.

Purtroppo il metodo dell’eliminazione dei famigliari e dell’isolamento anche morale dei condannati, tipico dello stalinismo e delle sue crudeli e ferree logiche, avrebbe fatto sì che, al termine della prigionia, l’autore scoprisse che la sua famiglia non esisteva più e che la figlia, ormai adulta, rifiutava di riconoscerlo. Le sue condizioni di salute, nel frattempo, erano talmente peggiorate da far sì che, ormai invalido, gli fosse assegnata una pensione. Soltanto nel 1978, a Londra, sarebbe stata stampata la prima edizione integrale in russo dei suoi racconti, mentre nel 1987, cinque anni dopo la sua morte, l’opera vide la luce anche in Unione Sovietica.

Ci sarebbero ancora tantissime riflessioni e osservazioni da fare, sia sullo scrittore che sui testi appena pubblicati da Adelphi, ma una cosa che vale la pena qui di sottolineare ancora è la vicinanza “morale” tra il testimone della Kolyma e un altro grande scrittore russo caduto in disgrazia durante lo stalinismo e il periodo successivo spacciato per “destalinizzazione”: Vasilij Semënovič Grossman6.

Accomunati entrambi dalle medesima volontà di rintracciare le radici del Bene e del Male in una umanità segnata dall’esperienza dei due più oscuri abissi del ‘900: i lager nazisti e il gulag sovietico. Così, chi qui scrive preferisce lasciare ai lettori la scoperta e l’interpretazione di un libro di cui raccomanda l’imprescindibile lettura, non soltanto per il suo valore letterario, ma anche ai fini della comprensione dei drammi e delle tragedie del XX secolo e della svolta controrivoluzionaria messa in atto dal regime sovietico a partire dalla fine degli anni Venti.


  1. In proposito si veda qui  

  2. Si veda: P. Broué, Comunisti contro Stalin. Il massacro di una generazione, A.C. Editoriale Coop, Milano 2026.  

  3. V. Šalamov, Berzin. Schema di romanzo saggio, p. 327 ora in V. Šalamov, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 317-329.  

  4. Si vedano, per l’appunto: I racconti della Kolyma [ed. parziale], traduzione di Marco Binni, Collana Biblioteca n.298, Adelphi, Milano, 1995, e successivamente Collana gli Adelphi n.153, Adelphi, Milano, 1999; La quarta Vologda, a cura di Anna Raffetto, Collana Biblioteca n.412, Adelphi, Milano, 2001 e Višera. Antiromanzo, trad. di Claudia Zonghetti, Collana Biblioteca n.560, Adelphi, Milano, 2010,  

  5. V. Šalamov, La Kolyma, p. 163 ora in V. Šalamov, op. cit. pp. 163-305.  

  6. Le cui opere principali sono tutte disponibili nel catalogo Adelphi (tra parentesi l’anno della prima pubblicazione degli stessi nel catalogo della casa editrice milanese). I romanzi: Vita e destino (2008), Tutto scorre (1987), Stalingrado (2022), Il popolo è immortale (2024). Le raccolte di articoli, saggi e racconti: Ucraina senza ebrei (2023), Uno scrittore in guerra (2015), Il bene sia con voi! (2011), La cagnetta (2013) L’inferno di Treblinka (2010).  

]]>
Vabbè, vabbè, silenzio! https://www.carmillaonline.com/2024/03/20/vabbe-vabbe-silenzio/ Wed, 20 Mar 2024 21:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81633 di Sandro Moiso

Nikolaj Gogol’, Memorie di un pazzo, a cura di Serena Vitale. Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 103, 10 euro.

«Sono convinto che a San Pietroburgo ci siano molte persone che vanno in giro parlando da sole. E’ una città di mezzi matti…E’ raro trovare così intensi, cupi, strani influssi sull’animo umano come a San Pietroburgo…» (Svidrigajlov, in Delitto e castigo di Fëdor Michajlovič Dostoevskij)

In occasione del solstizio di marzo, vale la pena di parafrasare Mattinata fiorentina, una vecchia canzone di Luciano Tajoli: è primavera, svegliatevi lettori, col primo sole qualche classico delle letteratura universale è sempre [...]]]> di Sandro Moiso

Nikolaj Gogol’, Memorie di un pazzo, a cura di Serena Vitale. Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 103, 10 euro.

«Sono convinto che a San Pietroburgo ci siano molte persone che vanno in giro parlando da sole. E’ una città di mezzi matti…E’ raro trovare così intensi, cupi, strani influssi sull’animo umano come a San Pietroburgo…» (Svidrigajlov, in Delitto e castigo di Fëdor Michajlovič Dostoevskij)

In occasione del solstizio di marzo, vale la pena di parafrasare Mattinata fiorentina, una vecchia canzone di Luciano Tajoli: è primavera, svegliatevi lettori, col primo sole qualche classico delle letteratura universale è sempre bene leggerlo. E il testo appena riproposto da Adelphi, nella collana Piccola Biblioteca con il numero 800, e magnificamente curato da Serena Vitale è proprio uno di questi.

Prima di parlare del testo di Gogol’, però, occorre dedicare ancora qualche parola al lavoro della curatrice. Professoressa di Lingua e letteratura russa, ha insegnato in diversi atenei italiani (tra cui l’Istituto Orientale di Napoli e l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano) dal 1971 al 2015. Scrittrice e autrice di saggi, curatele e traduzioni, si è misurata con i maggiori autori russi e cechi quali Josif Aleksandrovič Brodskij, Marina Ivanovna Cvetaeva, Aleksandr Sergeevič Puškin, Vladimir Nabokov, Sergej Esenin, Michail Bulgakov, Sergei Timofeevič Aksakov, Vladimir Majakovskij. Ha tradotto anche Milan Kundera, Osip Mandel’štam, Vladimir Zazubrin, Andrej Platonov e Fëdor Dostoevskij. Traduzioni e curatele in gran parte svolte per la stessa Adelphi presso la quale ha pubblicato anche due fondamentali saggi su Puskin e Majakovskij. Entrambi travestiti da romanzi-indagine sulle cause della morte dei due autori1.

Dedicato quanto dovuto alla serietà ed esperienza della curatrice, occorre ora passare all’opera qui recensita con una prima considerazione sulla follia di questi tempi di guerra. Cosa che ha fatto sì che mentre una parte del demimonde intellettuale e politico che frequenta i media mainstream si sia scandalizzato per le decine di migliaia di firme di artisti raccolte contro la partecipazione di Israele alla prossima Biennale di Venezia, altrettanto non abbia fatto nei confronti della, realmente, spaventosa richiesta di cancellazione, in Occidente o lungo i suoi confini ucraini, della grande cultura letteraria russa, successiva all’invasione putiniana dell’Ucraina. Sia in ambito pubblicistico che universitario e di dibattito mediatico.

Tanto da far sì che, mentre si cercava e si cerca tutt’ora una valida opposizione al regime putiniano accettandone anche personaggi xenofobi e nazionalisti quali Alexei Navalny2, ci si è dimenticati o, per meglio dire, è cancellato il fatto che gran parte della grande letteratura russa, prima, e sovietica, successivamente, del XIX e XX secolo è stata sempre esemplarmente critica nei confronti sia del regime zarista che di quello staliniano. Affrontando spesso, proprio per questo motivo, lunghi periodi di detenzione, esilio se non addirittura la morte.

Una letteratura che, anche nel caso di autori come Gogol’ (1809-1852) e Dostoevskij, è stata recentemente definita come eccessivamente russofila e slavofila per l’ironia con cui a volte venivano trattate le mode culturali occidentali e per le critiche contenute anche a quelle politiche, che pur avevano animato grandi critici dell’arretratezza russa e del regime arcaico che la prima causava sia a livello politico che economico e culturale in autori e filosofi come Aleksandr Herzen (1812 – 1870). Contestandole, spesso, un richiamo arcaico alla comune contadina tradizionale russa, l’obščina, che pur fu uno degli elementi che fecero ripensare anche a Karl Marx, nell’ultima parte della sua vita, la teoria univoca dello sviluppo capitalistico e delle sue contraddizioni3. D’altra parte, parlando nello specifico di un autore come Gogol’, il riferimento al giudizio di Marx sui possibili sviluppi della comune contadina russa non è affatto fuori luogo. Scriveva infatti il filosofo tedesco:

Lo Stato ha contribuito all’arricchimento di una nuova feccia capitalistica, che succhia il sangue già impoverito della “comune rurale”. Schiacciata dalle imposte dirette dello Stato, sfruttata in maniera fraudolenta dagliintrusi capitalisti, mercanti, ecc. e dai “proprietari” fondiari, essa è per sovrammercato minata dagli usurai del villaggio, dai conflitti d’interessi provocato al suo interno dalle condizioni che le sono statte imposte4.

Tema sul quale Nikolaj Gogol’ aveva scritto uno dei suoi capolavori, Le anime morte, un romanzo pubblicato nel 1842 originariamente col titolo Le Avventure di Čičikov, e il sottotitolo Poema imposto dalla censura zarista, che narra in tono satirico-grottesco le disavventure di un piccolo truffatore di provincia nell’Impero russo del 1820. La trama prendeva spunto dal fatto che nell’Impero russo, il termine «anime» designava i servi della gleba maschi. L’intento di Cicikov è infatti quello di acquistare a buon prezzo le “anime morte” dall’ultimo censimento fino a quando non ne verrà registrata la morte nel successivo censimento quinquennale. Čičikov punta così a crearsi, con il minimo sforzo, un numero di servitori (“fantasma”) elevato al punto tale che, ipotecandoli, possa costituire un grosso capitale.

Così come in altri testi, l’autore gioca le carte della narrazione lungo un filo sottile fatto di paradossi, ignoranza, avidità e follie burocratiche che aveva già sviluppato nel racconto Brani dalle memorie di un pazzo scritto nel 1834 e pubblicato per la prima volta nel 1835 nella raccolta di racconti intitolata Arabeschi e successivamente inserito nella raccolta Racconti di Pietroburgo con il titolo abbreviato utilizzato anche dall’attuale edizione Adelphi.

In questo caso lo spunto, come spiega fin dalle pagine introduttive la curatrice, è fornito dalla “tabella dei ranghi” voluta dallo zar Pietro il Grande nel 1722 che

aveva diviso i sudditi – esclusi, ovviamente, i servi della gleba – in quattordici classi, formalizzando il čin (grado), la condizione giuridica e sociale di chi serviva lo Stato nell’esercito, a corte, nella pubblica amministrazione. A ciascun grado corrispondeva un abbigliamento di cui veniva prescritto ogni particolare (lunghezza, ampiezza, numero di bottoni, colletti, baveri, cappucci, pellegrine, colore, tipo di stoffa, mostrine, galloni). Un enorme impero in divisa…5

Un progetto di uniformare una società e un impero che uniformava non soltanto strutture e ruoli amministrativi, ma anche le mentalità individuali e lo stesso comportamento sociale, riducendo le tensioni che lo animavano ad una velleitaria, spesso comica e talvolta tragica competizione tra miserevoli individui tutti affaccendati, principalmente, a competere con coloro che li affiancavano o superavano di un grado o poco più nella scala dei “meriti” acquisiti nei confronti dei superiori, fino al massimo grado.

Un vasto impero burocratizzato in cui il protagonista, Propriščin, in qualche modo da un lato si ispira (e finirà con l’ispirare ancora) ad uno dei più classici personaggi di tanta letteratura russa dell’Ottocento, il činovnik ( il funzionario, l’impiegato nell’amministrazione pubblica) e, dall’altro, alle esperienze dello steso autore che rivestì tale funzione per circa un anno e mezzo tra la fine del 1829 e l’inizio del 1831, a Pietroburgo, col grado più basso in qualità di “registratore di collegio” nel dipartimento dell’Economia statale e degli edifici pubblici. Un breve periodo durante il quale ebbe modo di detestare il lavoro, i colleghi, la farraginosa e soffocante macchina burocratica.

Il racconto riporta tutto ciò, anche se la figura di Propriščin non è affato destinata a suscitare la simpatia o almeno la pietà del lettore. Come sempre, quello di Gogol’ è un mondo in cui la miseria morale supera ampiamente quella economica di cui è il prodotto e tutti i maneggiamenti del protagonista, prima nei confronti del suo diretto superiore, poi nei confronti della figlia del Direttore di cui è innamorato, destinati a portarlo alla follia e in manicomio, pur facendo sorridere il lettore certo non lo commuovono.

Il fatto che Propriščin poco per volta si convinca che i cani possano parlare tra di loro come gli umani e addirittura scriversi lettere e, in seguito, di essere il vero erede al trono di Spagna serve a Gogol’per dipingere un mondo assurdo che il solo realismo non sarebbe certo servito a denunciare e a smontare. Un mondo in cui ognuno spia il suo vicino, a partire dall’abito naturalmente, pronto a prenderne il posto, pur di salire in una scala di valori che sembra esser stata definita apposta per dividere e rendere impossibile qualsiasi tipo di solidarietà tra concittadini più che realmente premiare qualsiasi tipo di merito che non sia esclusivamente legato al servilismo nei confronti dell’autorità statale.

Una situazione che è impossibile non paragonare a quella descritta in altre opere di scrittori dello stesso periodo, ma anche a quella che il lettore può ritrovare in tanta letteratura russa di età sovietica, in cui la posizione sociale e all’interno di un occhiuto partito era definito dal prestigio acquisito attraverso ruoli, spesso bizzarri, vili o servili, o dalla possibilità di avere a disposizione appartamenti meno miserabili se non di lusso oppure semplicemente occupati da un minor numero di famiglie6.

In particolare, il paragone che salta immediatamente agli occhi del lettore più attento è quello con Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov (1891-1940), romanzo dell’assurdo e magico che metteva drammaticamente e, allo stesso tempo, comicamente alla berlina il regime staliniano nel momento del suo massimo “splendore”7, considerato uno dei massimi capolavori della letteratura del XX secolo.
Non a caso l’autore fu un grande ammiratore di Gogol’, da cui carpì la satira feroce e la comica magia come arma per disarmare il colosso statuale russo.

Una capacità, quella di far ridere o, almeno, di suscitare il sorriso anche nei momenti più drammatici che costituisce una delle caratteristiche tipiche della grande letteratura russa, come succede anche nelle opere sul Gulag di Varlam Šalamov8 e che, erroneamente, è stato accostato al realismo magico oppure, come nel caso di Gogol’, fin dall’Ottocento, criticato per l’apparente scarsa attinenza alla realtà.

«Vabbè, vabbè, silenzio!» allora, come avrebbe potuto commentare il protagonista del racconto di Gogol’. Racconto che nell’edizione Adelphi è accompagnato da alcuni frammenti di una pièce teatrale che Gogol’ non completò, Vladimir di terzo grado, nella certezza che avrebbe subito pesanti interventi da parte della censura. Una pièce in cui l’autore si riprometteva di rappresentare la follia in cui precipita un funzionario che non riesce in alcun modo a ottenere una prestigiosa onorificenza.


  1. S. Vitale, Il bottone di Puskin, Adelphi Edizioni, Milano 1995 e Il defunto odiava i pettegolezzi, Adelphi, Milano 2015.  

  2. Significativo che a inizio marzo di quest’anno la moglie di Zelensky non abbia voluto incontrare a Washington, sotto l’egida del presidente Biden, la moglie del dissidente russo, Julija Naval’naja. Si veda anche M. Flammini, Navalny a Kyiv, il Foglio, 22 febbraio 2024, per capire quanto “rispetto” provino gli ucraini per il dissidente russo osannato quale simbolo di liberalismo e democrazia. Senza contare, infine, che sono stati proprio i servizi ucraina a sostenere che Navalny sia morto per “cause naturali”: M. Romeo, Navalny, clamorosa dichiarazione dello 007 ucraino Budanov sulla causa di morte dell’attivista russo, TG.LA7.IT, 25 febbraio 2024.  

  3. Si vedano in proposito: P.P. Poggio, L’Obščina. Comune contadina e rivoluzione in Russia, Jaca Book, Milano 1978 e E. Cinnella, L’altro Marx, Della Porta Editori, Pisa – Cagliari 2014.  

  4. Cit. in E. Cinnella, op. cit., pp. 148-149.  

  5. S. Vitale, « Una città di mezzi matti » in N. Gogol’, Memorie di un pazzo, a cura di Serena Vitale. Adelphi Edizioni, Milano 2024, p. 11.  

  6. Si veda in proposito Y. Slezkine (alias Jane K. Sather), La casa del governo. Una storia russa di utopia e terrore, Feltrinelli, Milano 2018; J. Trifonov, La casa sul lungofiume, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1992 (prima edizione italiana Editori Riuniti 1977)  

  7. M. Bulgakov, Il Maestro e Margherita, Giulio Einaudi editore, Torino 1967.  

  8. V. Šalamov, I racconti di Kolyma, Giulio Einaudi editore, Torino 1999.  

]]>