Kirov – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 31 Aug 2025 20:00:19 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Otello Gaggi: perseguitato dal fascismo, eliminato dallo stalinismo https://www.carmillaonline.com/2015/06/17/otello-gaggi-perseguitato-dal-fascismo-eliminato-dallo-stalinismo/ Wed, 17 Jun 2015 20:30:19 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23275 di Sandro Moiso

otello gaggi Giorgio Sacchetti, OTELLO GAGGI. Vittima del fascismo e dello stalinismo, Nuova edizione riveduta ed ampliata, BFS edizioni 2015, pp.104, € 12,00

Nella infinita, e talvolta soltanto retorica, diatriba che accompagna da sempre il conteggio delle vittime, dei martiri, degli eroi e dei combattenti caduti sui due fronti della guerra civile italiana tra il 1943 e il 1945 e, ancor prima, tra il 1919 e i primi anni del regime fascista, spesso non vengono conteggiati tutti quei militanti e proletari che una volta rifugiatisi nel paese dei soviet, colpiti da provvedimenti persecutori e condanne dei tribunali fascistizzati [...]]]> di Sandro Moiso

otello gaggi Giorgio Sacchetti, OTELLO GAGGI. Vittima del fascismo e dello stalinismo, Nuova edizione riveduta ed ampliata, BFS edizioni 2015, pp.104, € 12,00

Nella infinita, e talvolta soltanto retorica, diatriba che accompagna da sempre il conteggio delle vittime, dei martiri, degli eroi e dei combattenti caduti sui due fronti della guerra civile italiana tra il 1943 e il 1945 e, ancor prima, tra il 1919 e i primi anni del regime fascista, spesso non vengono conteggiati tutti quei militanti e proletari che una volta rifugiatisi nel paese dei soviet, colpiti da provvedimenti persecutori e condanne dei tribunali fascistizzati e dallo squadrismo nero, finirono con l’essere lì eliminati fisicamente nel corso delle epurazioni volute da Stalin e dai suoi accoliti per eliminare ogni opposizione interna al Partito Bolscevico e all’Internazionale Comunista. Tragedia che in alcuni casi continuò anche fuori dei confini dell’URSS dopo la caduta del fascismo e dell’occupazione tedesca, come nel caso dell’omicidio del militante internazionalista Mario Acquaviva avvenuto a Casale l’11 luglio 1945 ad opera del partigianesimo togliattiano.1

Per molti anni infatti, grazie anche alle connivenze del Partito Comunista Italiano, il cui leader Palmiro Togliatti aveva pienamente condiviso la responsabilità dei provvedimenti letali presi nei confronti dei rifugiati politici che avevano osato criticare le scelte dello stalinismo, si è venuto così a formare, precedendo nel tempo quello di estrema destra nei confronti della shoa, una sorta di vero e proprio “negazionismo di sinistra” tutto teso a negare oppure a giustificare tali provvedimenti liquidatori nei confronti di centinaia di militanti antifascisti italiani che avevano cercato scampo nell’URSS.

Esattamente come nel caso del negazionismo, tali rimozioni o, ancor peggio, giustificazioni storico-politiche avevano tutte l’obiettivo di negare la realtà dei fatti o, addirittura, le testimonianze dirette di chi era sopravvissuto sia alle purghe che al gulag e aveva potuto tornare in Italia a denunciare ciò che era avvenuto,2 nonostante le denunce su ciò che stava avvenendo o era già avvenuto fossero note, grazie all’opposizione all’estero sia internazionalista che trozkista. O, ancora, grazie alla prima dettagliata sintesi, con tanto di elenco di qualche centinaio di nomi, pubblicata da Alfonso Leonetti nel 1978.3

Il saggio di Giorgio Sacchetti, professore associato di Storia contemporanea e docente a contratto di Storia delle ideologie del novecento in Europa presso il dipartimento di Scienze politiche, giuridiche e studi internazionali dell’università di Padova e già autore di altri saggi sulla storia del movimento libertario ed antifascista, ricostruisce le vicende e la tragedia di un operaio anarchico delle ferriere di San Giovanni Valdarno che, riparato in modo avventuroso in Russia per sfuggire alla vendetta fascista , avrebbe trovato la morte nei campi di lavoro siberiani dopo più di un decennio di detenzione, cui era stato condannato come “controrivoluzionario”.

Come recita il titolo di uno dei testi più celebri sull’argomento: una piccola pietra nel mare delle storie, dimenticate e rimosse, dell’antifascismo e dell’antistalinismo classista,4 eliminato per volontà dei vertici del partito sovietico e di quelli asserviti di quello italiano. Piccola, ma significativa. Un’autentica sineddoche storico-politica utile a comprendere come le vicende, anche infinitesimali, di una parte dell’antifascismo e del sovversivismo italiano tra gli anni venti e il 1945 possano rappresentare un’intera tragedia non ancora completamente affrontata dalla storiografia di classe.5

Rispetto all’edizione pubblicata nel 1992, sempre dalla Biblioteca Franco Serantini, la presente può avvalersi di nuovi documenti ed importanti testimonianze anche dei parenti russi collegati alla nuova famiglia che il Gaggi aveva là ricostituito. Ma è soprattutto dalle carte del “processone” contro quello che fu definito il soviet del Valdarno (quasi un centinaio di imputati, tra cui lo stesso Otello, latitante per i fatti di Castelnuovo Sabbioni del 1921) che “ traspaiono chiari i termini di uno scontro di classe di inaudita brutalità nel quale la schermaglia giudiziaria è solo un pretesto per saldare i conti politici e sindacali ormai pendenti fin dal periodo del famoso Biennio rosso”, utili ai fini di comprendere “quale sia stato il clima della violenta battaglia tra fascisti e sovversivi in quell’epoca e la successiva «normalizzazione»” (pag. 9)

Dal voluminoso e inesplorato fascicolo del Casellario politico, presso l’Archivio centrale dello Stato in Roma, sono inoltre usciti importanti documenti soprattutto relativi agli anni della sua permanenza nell’URSS e accurate informative dell’ambasciata italiana a Mosca, luogo quest’ultimo di indicibili transiti controllato a vista dalla polizia sovietica, postazione dell’OVRA e crocevia di ambigui personaggi. Sono carte preziose per capire il destino doloroso della comunità italiana in quel paese. Ne esce uno spaccato assai significativo sulla situazione di terrore e di sospetto vissuta in tutto l’ambiente dell’emigrazione” (pp. 9-10) Cui vanno ancora aggiunti stralci dall’interrogatorio al Gaggi trascritti negli archivi sovietici.6

Nato a San Giovanni Valdarno il 6 maggio 1896 nella numerosa famiglia di un operaio siderurgico, Otello percorrerà nella sua gioventù tutte le tappe di una militanza politica radicale. Assunto come operaio in ferriera a 15 anni, “sa il fatto suo come mestiere, ma «non è assiduo al lavoro» come lamentano i caporali dello stabilimento di quel giovane che, per di più, ha frequentazioni con soggetti poco raccomandabili e risulta accanito lettore di stampa sovversiva” (pag. 22)

Dall’Archivio centrale dello Stato risulta, poi, che: “Ha fatto propaganda contro la guerra del 1915 partecipando come promotore abusivo a manifestazioni clamorose, sì da essere denunziato. Antimilitarista per viltà e per assenza di sentimento patriottico, nonché per indole ribelle, incorse sotto le armi in delitti che condussero alla sua espulsione dall’esercito” (pag. 23)

Evidentemente, anche in questo caso, le vicende del Gaggi rappresentano ancora una volta molto bene la situazione generalizzata di conflitto e di rifiuto del militarismo e della guerra che si era venuta a creare in Italia nel corso del primo macello imperialista, se è vero che: “Su circa 5.200.000 sudditi del Regno, chiamati alle armi dal 1915 al 1918, in 870.000 subiscono denunzie all’autorità giudiziaria. Di questi oltre la metà (470.000, in maggioranza residenti all’estero) per renitenza alla leva e il resto per fatti commessi sotto le armi. Su 350.000 processi celebrati dai tribunali di guerra sono 140.000 le sentenze di assoluzione e 210.000 quelle di condanna […] Il 15% dei mobilitati e il 6% di coloro che, come Gaggi, pure avevano risposto alla chiamata scendendo in trincea e accettando di indossare la divisa di soldato, si trovarono quindi sotto processo per il loro NO alla guerra” (pag. 27)

Ma saranno i drammatici fatti del 23 marzo 1921 a segnare il destino di Otello, quando in Valdarno, a seguito di una provocazione fascista si svilupperà un violento scontro tra forze dell’ordine e squadristi da un lato e lavoratori antifascisti che per armarsi e reagire avevano svaligiato un’armeria. Tra gli antifascisti si conteranno un morto e nove feriti, mentre nel vicino bacino minerario i minatori sequestreranno l’intera direzione degli impianti e resterà ucciso un ingegnere e ferito il direttore degli stessi.

Per questo motivo, tra i manifestanti colpiti da provvedimenti giudiziari, 92 su 94 saranno accusati di omicidio. Tra questi Otello Gaggi che, pur essendo stato riconosciuto dai testimoni della parte avversa come colui che si era frapposto tra i minatori armati e il direttore nel tentativo di salvarlo dalla furia proletaria, sarà condannato in contumacia a trent’anni di reclusione, tre anni di vigilanza e 165,50 lire di pena pecuniaria.

Ha inizio da quel momento il travagliato viaggio di Otello verso il paese di utopia: la terra dei soviet. Occorre qui comprendere “come nel movimento operaio italiano e internazionale nasca e perduri il mito della Russia rivoluzionaria, mito di lunga durata che si rivela terreno fertile per lo sviluppo successivo di categorie politiche come lo stalinismo ( e il «togliattismo» per quanto riguarda la specifica vicenda italiana). Con una dinamica in parte analoga a quella già in atto per le masse cattoliche nei confronti dell’autorità millenaria dell’istituzione Chiesa, si instaura un vincolo di tipo ideologico fideistico, mutuato dall’attesa messianica del «sol dell’avvenire», nei confronti dello Stato sovietico appena sorto” (pp. 47-48)

Cui occorrerebbe aggiungere che una parte della fiducia derivava anche, nel caso in questione, dal fatto che all’epoca dei fatti di Castelnuovo dei Sabbioni (la località mineraria di cui si è prima parlato) “il PCd’I è stato appena costituito a Livorno, eppure già riscuote vasti consensi e simpatie tra il movimento operaio valdarnese. Non solo socialisti seguaci di Bordiga, ma anche sindacalisti dell’USI e molti anarchici passeranno al nuovo partito” (nota pag, 39)

Anche se l’accusa di “bordighismo” sarà quella che dopo il 1926, sia in URSS che nel partito italiano sotto la direzione di Togliatti, porterà molti militanti all’espulsione o addirittura alla condanna ai lavori forzati o alla morte, l’entusiasmo iniziale verso il nuovo leader del movimento operaio e per il giovane partito nato a Livorno spingerà molti sovversivi a parteggiare per l’Unione Sovietica e il partito bolscevico. E forse anche per questo motivo il Gaggi, dopo una funambolesca fuga di massa avvenuta il 6 giugno 1921 dal carcere in cui era stato rinchiuso in stato di “arrestato provvisorio”, finirà col giungere ad Odessa sul Mar Nero.

Risulterà in seguito che già nel 1922, a Baku, l’anarchico toscano sarà condannato a tre anni di detenzione per motivi politici, anche se dal dicembre 1921 all’aprile dell’anno successivo era stato ospite dell’Hotel Lux di Mosca, riservato in genere ai dirigenti di partito o ai loro familiari. Ma le condizioni di esistenza del Gaggi e della nuova famiglia che egli ha ricostituito in Russia si faranno via via più precarie, in un clima di sospetto e di delusione che il militante valdarnese non manca di segnalare nelle sue missive ai compagni più fidati.

Gaggi che svolge l’attività di venditore di libri “sospetto ai gerarchi”, a partire dal 1930, pur non perdendo la sua abitudine alla critica, si vedrà sempre più minacciato e diffidato, mentre a partire “dal 1933 tutti gli stranieri residenti nel paese iniziano ad essere considerati, in quanto tali, «nemici dell’URSS»” e “di lì a poco si approverà anche la cosiddetta legge sul «tradimento della patria» che comporta la pena capitale ed estende la responsabilità penale ai familiari del condannato” (pag. 64).

Il totale abbandono delle istanze internazionaliste sulle cui basi era nato l’esperimento sovietico e il ritorno al nazionalismo di stampo slavofilo , segna l’inizio della catastrofe per migliaia di militanti del partito sovietico e per molti di coloro che avevano sperato di trovare nell’URSS un rifugio sicuro dall’ondata montante del fascismo e del nazionalsocialismo. Così la notte del 28 dicembre1934, quattro settimane dopo l’assassinio di Sergej Kirov, considerato l’astro nascente del nuovo firmamento bolscevico in grado di insidiare la leadership del dittatore georgiano, che avrebbe dato la stura alle purghe e ai processi di Mosca, “«gli organi addetti alla sicurezza dello Stato proletario» prelevano dalle loro abitazioni con un’azione simultanea nella città di Mosca, undici persone di cui dieci di nazionalità italiana” (pag. 68). Tra questi l’anarchico valdarnese e la sua compagna russa.

Gaggi negli interrogatori finirà col confessare le sue “terribili colpe”, soprattutto quella di aver condiviso con altri compagni l’opinione “«che in URSS i lavoratori vivano male e che nel paese non ci sia libertà»” (pag.70). Riconosciute, quindi, le proprie colpe il militante toscano sarà successivamente condannato a tre anni di confino. Andrebbe qui segnalato che nel quinquennio 1929 – 1934 era in corso un avvicinamento di carattere politico-economico tra Italia fascista e Russia stalinizzata che avrebbe portato alla realizzazione di progetti comuni, con la realizzazione di fabbriche (per esempio quella di una di cuscinetti a sfera nel 1932, le cui foto dell’inaugurazione con Togliatti al centro si trovano ancora presso l’Archivio storico Fiat). E pare quindi evidente che uno dei caposaldi del business tra imprenditori e gerarchi italiani e gerarchi sovietici7 dovesse essere proprio quello della pacificazione delle frange operaie e politiche più ribelli.

E proprio nel 1935, anno della condanna al confino di Gaggi, ha inizio il mito dell’operaio Aleksej Stachanov che, secondo la vulgata stalinista, avrebbe estratto, con una tecnica di divisione dei ruoli lavorativi di sua ideazione, la notte del 31 agosto, 102 tonnellate di carbone, pari a quattordici volte la quota prevista, in meno di sei ore. Mentre erano proprio gli operai che rifiutavano l’enorme sforzo produttivo richiesto dall’industrializzazione a marce forzate sovietica ad essere deportati ed eliminati dopo aver impiccato ai soffitti delle officine i loro colleghi stakanovisti.8

Le vicende politiche dello stalinismo e delle sue vittime sono state trattate troppe volte, da un lato e dall’altro della barricata, da un punto di vista ideologico e politico mentre a ben guardare9 sono sempre i concreti rapporti di classe a definire i regimi, i modi di produzione che li sostengono e le loro eventuali e tutt’altro che “innaturali” alleanze. Soprattutto nei confronti della risorsa lavoro: dalle officine al gulag e ai lager.

Per quanto riguarda le vicende del Gaggi, “si saprà poi che, in data 29 luglio 1937, era stato nuovamente arrestato «per attività antisovietica svolta tra gli altri prigionieri» e per questo condannato (9 gennaio 1938) a ulteriori cinque anni di carcere. Dal 1938 in poi risultano tre trasferimenti in campi di lavoro destinati alle costruzioni ferroviarie, al disboscamento e alle coltivazioni agricole, tutti situati a nord del paese e gestiti da diverse amministrazioni del sistema concentrazionario sovietico” (pag.88)

Ed è a questo punto che si perdono definitivamente e sciaguratamente le sue tracce, nonostante l’appello rivolto da Victor Serge a Palmiro Togliatti che naturalmente, quando era ancora Ministro del Governo antifascista di Roma, si rifiutò di rispondere. Ma qui occorre fermarsi, anche se le responsabilità togliattiane e del partito italiano stalinizzato nell’opera di eliminazione della dissidenza interna ed internazionale risultano dettagliatissime nel lavoro di Sacchetti. Opera che, seppur segnata a tratti da un’eccessiva enfasi libertaria, tutti coloro che ancora si ritengono avversari del capitale e delle sue maschere politiche e nazionali dovrebbero leggere. Soprattutto chi ancora oggi si crogiola nel “mito” di Stalin e della “patria dei lavoratori”.


  1. Si legga in proposito Giorgio Bona, Sangue di tutti noi, Scritturapura casa editrice, Asti 2012  

  2. Si vedano, soltanto come esempio: G. Fabre, Roma a Mosca. Lo spionaggio fascista in URSS e il caso Guarnaschelli, Dedalo 1990, in cui, sulla base di pochissimi e superficiali elementi si cerca di avvalorare la tesi staliniana dell’appartenenza degli oppositori ai servizi segreti fascisti e ad un complotto controrivoluzionario anti-sovietico, già sbandierato ai tempi dell’eliminazione della vecchia guardia bolscevica e trotzkista. Oppure, sull’altro fronte: Dante Corneli, Il redivivo tiburtino, testimonianza diretta di un sopravvissuto che, una volta tornato in Italia , non trovò nessuno disposto a pubblicare le sue memorie, né nel suo partito, il PCI, perché ritenuto un provocatore, né tanto meno nella restante editoria che lo riteneva comunista e quindi sovversivo. Costringendolo così a pubblicare privatamente la sua testimonianza; cosa che lo accomuna a Primo Levi, il cui fondamentale Se questo è un uomo venne infatti stampato nell’autunno del 1947, in 2.500 copie, da una piccola casa editrice torinese, la De Silva diretta da Franco Antonicelli, dopo che alcuni grandi editori, fra cui Einaudi, avevano rifiutato il manoscritto. Soltanto nel 1958 la casa editrice Einaudi, che ne avrebbe poi fatto uno dei suoi monumenti, lo avrebbe accolto ripubblicandolo nei suoi “Saggi”  

  3. A. Leonetti, Vittime italiane dello stalinismo in URSS, Milano, La Salamandra 1978  

  4. Emilio Guarnaschelli, Una piccola pietra. Le lettere di un operaio comunista morto nei gulag di Stalin, prima edizione Garzanti 1982 con prefazione di Alfonso Leonetti, poi Marsilio 1998  

  5. Tanto che in Italia una delle opere più importanti sull’argomento, fino ad ora pubblicate, è stata per lungo tempo disponibile soltanto nel volume collettaneo REFLECTIOS ON THE GULAG with a documentary appendix on the italian victims of repression in the URSS, a cura di Elena Dundovich, Francesca Gori e Emanuela Guercetti, Annali Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Anno Trentasettesimo 2001 poi solo parzialmente ripubblicato in Gulag. Storia e memoria, Feltrinelli UE/saggi 2004  

  6. Riportati nel testo di F.Bigazzi e G.Lehner (a cura di), Dialogho del terrore.I processi ai comunisti italiana in Unione Sovietica (1930 – 1940), Ponte alle Grazie, Firenze 1991  

  7. Si veda sempre in proposito il fondamentale: Pier Luigi Bassignana, Fascisti nel paese dei soviet, Bollati Boringhieri 2000  

  8. Come ricordava Danilo Montaldi nel suo Saggio sulla politica comunista in Italia (1919 – 1970), Edizioni Quaderni Piacentini 1976  

  9. Come nel caso di Margarete Buber Neumann, moglie di un importante dirigente del partito tedesco, rifugiatosi nell’URSS per sfuggire al nazismo e qui eliminato durante le grandi purghe staliniane, restituita alla Germania nazista e ai suoi lager in occasione del patto Ribbentopp – Molotov del 1939  

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Vite nella Rivoluzione: Michail Bulgakov. https://www.carmillaonline.com/2014/03/12/vite-nella-rivoluzione-michail-bulgakov/ Tue, 11 Mar 2014 23:10:20 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13410 di Sandro Moiso

bulgakovMarietta Čudakova, Michail Bulgakov. Cronaca di una vita, Odoya, Bologna 2013, pp. 480, euro 30,00

La morte si sconta vivendo” (G.Ungaretti, 1916)

Se la storia della letteratura russa prodotta in età sovietica, e soprattutto durante l’era di Stalin, è già di per sé drammatica, la lettura dell’opera di Marietta Čudakova dedicata alla biografia di Michail Afanas’evič Bulgakov può risultare addirittura straziante. Basato su lettere, testimonianze e, soprattutto nella parte finale, sui diari della terza moglie di Bulgakov, Elena Sergeevna Bulgakova, il testo ricostruisce esattamente la cronaca, ordinata per periodi triennali, della vita del grande scrittore russo.

Marietta Čudakova [...]]]> di Sandro Moiso

bulgakovMarietta Čudakova, Michail Bulgakov. Cronaca di una vita, Odoya, Bologna 2013, pp. 480, euro 30,00

La morte
si sconta
vivendo
(G.Ungaretti, 1916)

Se la storia della letteratura russa prodotta in età sovietica, e soprattutto durante l’era di Stalin, è già di per sé drammatica, la lettura dell’opera di Marietta Čudakova dedicata alla biografia di Michail Afanas’evič Bulgakov può risultare addirittura straziante.
Basato su lettere, testimonianze e, soprattutto nella parte finale, sui diari della terza moglie di Bulgakov, Elena Sergeevna Bulgakova, il testo ricostruisce esattamente la cronaca, ordinata per periodi triennali, della vita del grande scrittore russo.

Marietta Čudakova può probabilmente ancora essere considerata, a livello internazionale, la massima esperta bulgakoviana. Teorica letteraria e scrittrice va considerata fra le più alte autorità nel panorama critico letterario russo e, oltre ad insegnare presso l’Istituto Letterario Gor’kij di Mosca, è stata visiting professor all’Università del South Carolina, a Stanford e all’École Normale Supérieure di Parigi. Inoltre, è la presidentessa della Fondazione Bulgakov e ha curato l’introduzione di molte opere dello stesso pubblicate in Italia.

Ma proprio questa cronaca, importante sia per chi è interessato alla storia della letteratura di età sovietica quanto per chi lo è nei confronti dell’era di Stalin, costituisce il coronamento della sua attività e, quasi sicuramente, di una vita. Infatti, dal 1965 al 1984 l’autrice ha lavorato al Dipartimento dei Manoscritti della Biblioteca di Stato dell’URSS, svolgendo un ruolo fondamentale nell’acquisizione dell’archivio personale dell’autore custodito dalla vedova Elena Sergeevna, grazie alla quale i suoi lavori inediti (quasi tutti) furono salvati dall’oblio e pubblicati molti anni dopo la sua morte. La prima edizione della biografia risale in Russia al 1988 e ha costituito fino ad oggi il primo ed autorevole studio approfondito sulla vita dello scrittore.

Vita che ha inizio a Kiev nel 1891, in una famiglia profondamente intrisa dalla tradizione culturale e religiosa russo-ortodossa, socialmente lontana dagli ambienti in cui si formava solitamente l’intelligencija. Laureatosi in Medicina, si troverà coinvolto prima nei drammi del primo conflitto mondiale e, in seguito, in quelli della guerra civile, durante la quale, proprio per tradizione famigliare, egli parteggerà per le armate bianche anche se il suo coinvolgimento sarà sempre legato, prima di tutto, alla sua professione medica.

La Čudakova è abilissima nel collegare, sempre, alle fasi della vita di Bulgakov le pagine dei suoi racconti e dei suoi romanzi. Risulta, infatti, chiaramente che fin dai primi scritti, pubblicati su vari giornali, e fino a quelli pubblicati, poi, su alcune riviste letterarie sovietiche e dal primo romanzo, “La guardia bianca”, fino al suo capolavoro “Il Maestro e Margherita”, ogni pagina dell’autore russo è impregnata di autobiografismo.

Costantemente “mosso dalla volontà di trasformare il rapporto tra «biografia» e «creazione»”, si possono individuare “ nel processo creativo di Bulgakov […] due movimenti convergenti. Da un lato le riflessioni sulle proprie scelte e sul proprio destino si vestono di mire letterarie e vengono acconciate nella cornice di un’idea a essa precedente. Dall’altro il romanzo (in questo caso “Il Maestro e Margherita” – NdA), con le questioni che tocca e la sua extratemporalità […], non può che lasciare un segno sull’interpretazione dei problemi autobiografici di chi scrive, inducendolo a guardare alla propria vita come qualcosa che dal tempo è slegato. Alle conseguenze di scelte fatali non c’è rimedio […] e chi cerca aiuto in Satana e lega per sempre le sue sorti al diavolo ( e dunque «non merita la luce») ne pagherà lo scotto in eterno” (pag.358).

La questione, qui efficacemente sintetizzata dalla Čudakova, non è di poco conto, perché se, da un lato, apre ad una riflessione sull’opera letteraria in generale, dall’altro ricollega l’opera di Bulgakov non solo alle scelte morali, politiche e culturali dello stesso ma, più in generale, al destino di tutti i letterati, e non solo, dell’epoca staliniana in cui l’autore si trovò a vivere.
Nel primo caso, la riflessione rende evidente che spesso le maggiori opere degli autori più importanti della letteratura universale, da Dante Alighieri a Louis-Ferdinand Céline, da Giacomo Leopardi a Franz Kafka e da Marcel Proust allo stesso Michail Bulgakov, solo per citarne alcuni e molto diversi tra loro, sono il risultato proprio di un processo in cui l’autobiografismo, trasfigurato in elemento romanzesco, si eleva al di sopra della misera vita individuale per diventare invece lo specchio delle ansie, delle delusioni e delle speranze dell’intera specie umana.

Mentre nel secondo, pur rimanendo anch’esso un tema universale della grande letteratura, la questione delle scelte individuali in tempi di dittatura totalitaria, anche se travestita da “comunista” o “proletaria”, rende chiaro come il “libero arbitrio” degli artisti, dei letterati e degli intellettuali, anche se si potrebbe affermare la stessa cosa per tutti i cittadini, finisce quasi sempre con l’essere estremamente condizionato dall’autoritarismo e dalle giravolte ideologico-politiche di chi sta al potere. Fatto che, proprio in epoca staliniana, raggiunse i vertici dell’assurdo e dell’auto-cannibalismo.

Bulgakov non volle, non seppe e non poté mai dichiararsi bolscevico o avvicinarsi all’ideologia del partito comunista russo e, proprio per questo motivo, si trovò a vivere culturalmente e letterariamente come un escluso , come un vero e proprio paria. Ma anche coloro che, come tanti autori da Majakovskij a Mandel’štam e da Mejerchol’d a Isaak Babel’ fino a Boris Pilniak, avevano abbracciato la causa rivoluzionaria fin dal suo primo apparire, avrebbero pagato un crudele tributo di sangue sull’altare del piccolo padre di tutte le Russie. Chi col suicidio, chi con la deportazione e lo sfinimento fisico, chi con la fucilazione. La stessa sorte che toccò a tutta la vecchia guardia bolscevica, da Bucharin a Kamenev, e ai migliori generali dell’armata rossa come Michail Tukhachevsky. Anche a coloro che avevano voltato, per tempo, le spalle a Trockij e all’Opposizione operaia.

Scelte fatali, appunto, che non lasciano rimedio. Sicuramente quella di Bulgakov di non piegarsi al potere, anche quando questo si rivolse a lui direttamente, con una telefonata dello stesso Stalin cui, evidentemente, lo scrittore non seppe o non volle dare le giuste risposte. Oppure il rifiuto opposto a chi, ancora nella primavera del 1938 gli chiese di scrivere un romanzo sovietico d’avventura: “«Tiratura imponente, traduzioni in tutte le lingue, soldi a palate – anche valuta estera – e un Assegno seduta stante, come anticipo. Che ne dice?» Bulgakov rifiuta: «Non posso»” Al che lo stesso incaricato lo convince – a fatica – a leggergli “Il Maestro e Margherita”:”Dopo i primi tre capitoli commenta: «Questo non si pubblica di certo». «Perché?» chiede Bulgakov. «Perché no»” (pag. 440).

E’ il destino dell’autore: apprezzato come scrittore e commediografo dai vertici del Partito e dallo stesso Stalin che, insieme a Kirov e Zdanov, assistette svariate volte alla rappresentazione della sua opera teatrale “I giorni dei Turbin” (tratta proprio da quella “Guardia bianca”, mai pubblicata integralmente in patria); ignorato come autore della stessa opera che fu rappresentata centinaia di volte mentre Bulgakov era in vita; inascoltato nei suoi appelli per avere a disposizione almeno una nuova macchina da scrivere o un permesso, per lui e la moglie, per recarsi all’estero per un breve periodo e, infine, costantemente rifiutato come autore di opere letterarie e teatrali sempre apprezzate, in prima battuta, ma quasi mai realmente pubblicate o rappresentate in seguito.

Una vita artistica e personale costantemente rimossa, spinta ai margini della vita culturale o della vita tout court se si pensa alle costanti difficoltà economiche cui l’autore dovette sempre far fronte. Spesso disperatamente. Ma, soprattutto, una vita che costantemente ostacolata nelle sue manifestazioni letterarie ed artistiche si trasformava, di fatto per l’autore, in una non vita. Rimozioni e divieti che, alla fine, accomunarono Bulgakov ad altri autori sovietici, ma dei quali, almeno, non condivise l’onta di aver denunciato altri nel tentativo di affermarsi o sopravvivere, come era invece successo a Boris Pasternak, nell’estate del 1936, quando, insieme a Kostantin Fedin e molti altri, aveva firmato l’esortazione del Direttivo dell’Unione degli Scrittori ad “applicare ai nemici del popolo la pena massima della difesa socialista: fatelo per il bene dell’umanità!” pubblicato sulla Pravda con l’inquietante titolo: “Cancellateli dalla faccia della terra!” che avrebbe, di fatto , inaugurato la stagione dei grandi processi di Mosca e del terrore staliniano.

No, non cercò mai la vendetta o il compromesso Bulgakov. La sua arma era la scrittura, spesso fortemente ironica, come nella migliore tradizione russa da Puskin a Gogol’ fino al più recente Varlan Salamov. Ironia che faceva paura, tanto che i pochi lettori del work in progress bulgakoviano spesso vedevano il fantasma di Stalin anche là dove non c’era, come nella figura di Woland che nel romanzo capolavoro di Bulgakov rappresenta davvero Satana e non il dittatore, in un’opera in cui il Faust di Goethe, rivisitato in ambito sovietico, si mescola alle vicende storiche di Ponzio Pilato e Yeoshua.

Lo conferma anche Elena Sergeevna, che annota: «Finito di leggere Miša (nomignolo attribuito all’autore – NdA) chiese:”Chi è Woland?” Vilenkin disse di averlo intuito, “Ma non speri che lo annunci a gran voce!”». Anche Vilenkin cita la domanda nelle sue memorie, e aggiunge: «Nessuno si decise a rispondergli: era un rischio». Ognuno, dunque, scrive la risposta su un pezzo di carta, che poi passa agli altri.«Michail Afanas’evič, curioso, venne alle mie spalle, e quando mi vide scrivere “Satana” mi carezzò la testa»” (pag.455).

D’altra parte la vena fantastica che attraversava le sue opere più importanti (oltre al solito “Il Maestro e Margherita” anche “Diavoleide” oppure “Le uova fatali” o, ancora “Cuore di cane“), pur affondando le proprie radici nella tradizione letteraria russa, non poteva essere apprezzata in un tempo in cui il severo realismo promosso da Zdanov richiedeva esclusivamente opere che cantassero il valore dell’industrializzazione forzata, dello stakanovismo e della lotta ai kulaki. Senza contare che Bulgakov, nella sua carriera di medico, avendo potuto osservare quanto poco eroico ed affidabile fosse quel popolo russo che la letteratura ufficiale chiedeva di esaltare ad ogni piè sospinto, non poteva prestarsi ad essere un ingegnere dell’animo umano così come lo stesso Stalin chiedeva agli scrittori di diventare1. Finendo con l’essere molto più vicino alle opere ottocentesche, ironiche e crudeli insieme, di Saltykov-Ščedrin che al realismo socialista, insopportabilmente retorico, di un Fadeev.

Ma le capacità letterarie di Bulgakov, che sovrastavano indiscusse quelle di tanti pseudo sperimentatori ed autori della letteratura proletaria, spingevano i critici burocrati della letteratura di partito a chiedergli di rivolgere la sua satira contro i nemici del popolo e del socialismo in un solo paese. Cui, l’autore, non poteva far altro che rispondere:”Qualunque tentativo di creare la satira è condannata a fallire miseramente. La satira non si crea da fuori. La satira nasce da sola quando meno te lo aspetti. E nasce quando uno scrittore che ritiene imperfetto il suo presente si indigna e decide di smascherarlo con la letteratura. Perciò ritengo che avrà vita grama, in terra sovietica, anzi gramissima”. (pag. 361)

Relegato al ruolo di adattatore di opere letterarie per il teatro, poi a librettista, talvolta ad attore, Bulgakov sopravvisse attraverso gli anni del terrore vedendo rappresentati ottocento volte i suoi “Giorni dei Turbin” senza mai essere citato dai giornali sovietici come autore di quello straordinario successo di pubblico; vide ancora rappresentata la sua “Vita del Signor di Molière”, diversamente detta “Cabala dei Bigotti”, con l’appoggio di Stanislavskij, ma non vide mai la pubblicazione dei suoi romanzi preferiti e del suo capolavoro2 .

Condannato ad un’autentica morte civile, non troppo diversa dalla morte vera e, talvolta, più dolorosa poiché prolungata nel tempo in una sorta di ultra-decennale agonia, Bulgakov lavorò fino quasi all’ultimo giorno sulle pagine del suo ultimo ed insuperato romanzo. Morì, come il padre, di nefrosclerosi ipertensiva, tra atroci sofferenze, il 10 marzo 1940. Per tutto questo vale, dunque, la pena di ricordarlo ancora oggi, a settantaquattro anni dalla morte, con rispetto estremo, attraverso le pagine di questo testo bellissimo, anche se non sempre di facile lettura.

E’ tutto finito dunque?
Proprio così, caro il mio discepolo
(Michail Bulgakov, “Il Maestro e Margherita”)


  1. Stalin approvò e proclamò obbligatoria per tutta l’arte sovietica la parola d’ordine del realismo socialista. La cosa riguardava innanzitutto la letteratura: il metodo del realismo socialista fu infatti definitivamente formulato e approvato per la prima volta nel corso del primo congresso dell’Unione degli scrittori nel 1934 e solo in seguito trasferito senza alcuna modifica nelle altre arti […] L’estetica e la prassi dell’epoca staliniana tendono fondamentalmente all’educazione e alla formazione delle masse, una concezione formulata da Stalin utilizzando in un diverso contesto una metafora dell’avanguardia: gli scrittori sono gli ingegneri dell’animo umano“, Boris Groys, Lo stalinismo ovvero l’opera d’arte totale, Garzanti 1992, pp. 48 – 49  

  2. Pubblicato per la prima volta, in edizione integrale, in Italia da Einaudi nel 1967  

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