KGB – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Esperienze estetiche fondamentali / 12: Dostioffsky e Solzenicyn https://www.carmillaonline.com/2023/12/29/esperienze-estetiche-fondamentali-12-dostioffsky-e-solzenicyn/ Fri, 29 Dec 2023 21:00:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80260 di Diego Gabutti

Ma ha mai assassinato qualcuno, Dostoevskij? Dei suoi romanzi, tutti quelli che conosco potrebbero intitolarsi Storia di un Delitto. È un’ossessione, in lui; non è naturale che parli sempre di questo». «So poco della sua vita, mia cara Albertine. Sicuramente, come tutti, Dostoevskij ha conosciuto il peccato, in una forma o nell’altra, e probabilmente in una forma proibita dalle leggi. In questo senso doveva essere un po’ criminale, come i suoi eroi. (Marcel Proust, La prigioniera)

Sembra impossibile poter parlare del genio di Dostoevskij senza che la parola criminale ci si affacci dinanzi imperiosa. (Thomas Mann, Dostoevskij, [...]]]> di Diego Gabutti

Ma ha mai assassinato qualcuno, Dostoevskij? Dei suoi romanzi, tutti quelli che conosco potrebbero intitolarsi Storia di un Delitto. È un’ossessione, in lui; non è naturale che parli sempre di questo». «So poco della sua vita, mia cara Albertine. Sicuramente, come tutti, Dostoevskij ha conosciuto il peccato, in una forma o nell’altra, e probabilmente in una forma proibita dalle leggi. In questo senso doveva essere un po’ criminale, come i suoi eroi. (Marcel Proust, La prigioniera)

Sembra impossibile poter parlare del genio di Dostoevskij senza che la parola criminale ci si affacci dinanzi imperiosa. (Thomas Mann, Dostoevskij, con misura)

«Come si chiama quello scrittore russo di cui parli sempre… quello che si riempiva le scarpe di carta di giornale e andava in giro con un cappello a cilindro che aveva trovato in un bidone della spazzatura?» Era un’esagerazione di quello che gli avevo raccontato di Dostoevskij. «Ah sì, ecco, ecco… Dostioffski. [Ci sono facce che possono] chiamarsi soltanto in un modo…Dostioffski. (Jack Kerouac – On the Road)

Dostoevskij e Solženicyn

Dov’eri quando hai letto per la prima volta la storia dell’usuraia, dell’assassino cervellotico e della puttana prossima alla santità, per non parlare di Porfirij Petrovič, il poliziotto «in vestaglia, biancheria pulitissima e vecchie pantofole» o di Marmeladov, il padre alcolista e snaturato? E la storia degli zeck, dei campi di lavoro, delle persecuzioni, delle torture e delle rivolte? Dov’ero io? Facile. Non mi serve una madeleine per ricordarlo (è già tanto una mentina).

È come chiedere a un pellegrino della mia età dov’era quando Neil Armstrong e Buzz Aldrin sbarcarono sulla Luna il 20 luglio del 1969. Tutti ce lo ricordiamo. Tanto più, nel mio caso, perché il 21 luglio, il giorno dopo lo sbarco, cioè il giorno della passeggiata lunare, era il mio compleanno. Ero nel giardino di casa, caldo afoso, caffè freddo, dove con mio padre avevo trasportato il televisore del salotto e ce ne stavamo tutti lì, eccitati e contenti, a fissare un po’ lo schermo, un po’ «la luna in ciel, silenziosa luna». Notte stellata. C’era qualcosa di Star Trek e di 2001 nell’aria. In studio, a Roma, Enzo Jannacci cantava La Luna è una lampadina.

La luna l’è ona lampadina tacata in sul plafun
E i stell paren limon traa in dell’acqua
E mi sont chi, ‘nsul marciapeé
Che cammini avanti e indreé, Lina
E me fann mal i peé, Lina!

Allo stesso modo non c’è lettore dei «russi» – specie di Dostoevskij, il «russo» supremo – che non sappia rispondere alla domanda: «Dov’eri quando hai letto per la prima volta Delitto e castigo?» Io ero in una casa senza ascensore di Via Verolengo, a Torino, Borgo Dora, ai tempi una periferia operaia, oggi la Casbah. Quarto piano. Una tromba delle scale così vasta e spaventosa che mi muovevo rasente le pareti, lo sguardo al muro, mentre salivo da un piano all’altro e gli scalini sembravano non finire mai, come in un incubo. Era dicembre, le nove o dieci di sera. Fuori (forse) nevicava. Niente riscaldamento centrale: una stufa elettrica. Avevo cenato in una trattoria chiassosa lì nei pressi, e adesso sedevo davanti alla stufa con questo libro in mano. Indossavo tutti i maglioni del nonno trovati nell’armadio.

Avevo le chiavi della minuscola casa torinese dei miei nonni, che vivevano al mare e a Torino si vedevano raramente. Mi ero rifugiato lì, in solitudine, con una copia di Delitto e castigo. Non ricordo il preciso perché di quell’esilio volontario. Forse c’entrava qualcosa Wakefield, «il fuorilegge dell’universo» di Nathaniel Hawthorne. Ma più che altro era un modo che avevo io, da giovanissimo, di scacciare la malinconia e di regolare la circolazione (chiamatemi Ismaele). Quanto a Delitto e castigo, era l’edizione NUE, una splendida collana Einaudi.

C’era una sovra copertina bianca con quattro strisce rosse in bell’evidenza, lo struzzo in fondo pagina e quella che pareva la fototessera di Dostoesvkij sopra il titolo. «Introduzione di Leoníd Grossman, traduzione d’Alfredo Polledro», si leggeva a metà della copertina, tra lo struzzo e il titolo in caratteri maiuscoli. M’ero preparato il caffè. Era bollente e, sorbendolo a piccoli sorsi, cominciai da Grossman. Già quello mi sembrò un mezzo romanzo.

Questo per collocare nel tempo e nello spazio la prima lettura di Delitto e castigo. Via Verolengo, la stufa elettrica e (forse) la neve. E fin qui ci siamo. Però non ricordo dove precisamente ero, sempre in fatto di «russi» da leggere e patire, quando capitai per la prima volta su Arcipelago Gulag. In compenso so esattamente «quand’ero» nel momento in cui me ne punse repentina e indifferibile vaghezza: primavera del 1978, il giorno del rapimento Moro. Fu allora che decisi di leggere l’Arcipelago e di cambiar cavallo.

Avevo sentito del rapimento il pomeriggio del 16 marzo, quando le Bierre avevano abbattuto come animali al macello cinque figli di mamma e sequestrato il presidente della Dc, al quale avrebbero poi fatto fare la stessa fine, anzi una fine peggiore, potenziata da 40 giorni d’agonia: una piccola sala-torture della Lubianka fatta in casa. Con Paolo Pianarosa eravamo finiti nella sede delle edizioni Area (o Libri Rossi, non ricordo più la precisa ragion sociale, ma era un network goscista, al quale facevano capo riviste, piccole case editrici, minuscole etichette discografiche). Un tiepido pomeriggio milanese. C’erano Nanni Balestrini e altri gabibbi – forse Elvio Fachinelli, forse Oreste Del Buono – e tutti schiamazzavano e festeggiavano la bell’impresa, ma che bravi questi pistoleros qua, minchia che efficienza, che coraggio, e che geometrica potenza.
Tirava una brutta aria.

Anni prima, nella sede sabauda del Partito comunista d’Italia (marxleninista) avevo conosciuto uno di questi tagliagole da action film, tale Rocco Micaletto, membro all’epoca del sequestro Moro della Direzione strategica bierre. Una volta Micaletto mi accusò d’aver rubato cinque o sei chili di monetine da cinquanta, dieci e cinque lire raccolte dagli strilloni maò-maò addetti alla vendita militante di Nuova Unità, il giornale del gruppuscolo. Prove non ce ne sono, ma sospetto che le avesse rubate lui allo scopo d’accusarmi, chissà cosa gli avevo fatto, ma soprattutto chissà in che modo pensava che farmi pesare sulla reputazione, oltre che sulla gobba, mia o di chiunque altro, il peso di tutte quelle monetine potesse aiutare la causa del proletariato, che pareva stargli molto a cuore. Naturalmente nessuno prese sul serio la sua denuncia, e la cosa finì lì. Micaletto era uno strano personaggio. Qualunque cosa facesse, tipo prendere un caffè, salire sul tram, salutare un conoscente per strada, lui la faceva con aria losca e circospetta, come Parker, nei romanzi di Richard Stark, quando studiava un colpo alla banca e perlustrava la location della rapina fingendosi un cliente distratto o un passante bighellone. Micaletto camminava guardingo, a passi veloci, poi lenti, poi di nuovo veloci, gli occhi che guizzavano da destra a sinistra. Chissà cosa gli passava per la testa. Sembrava sempre impegnato in un’impresa criminale nota a lui solo. Col tempo, a giudicare dall’agguato di Via Fani, non era migliorato.

A Milano, dunque, quel 16 marzo 1978 si schiamazzava. Coriandoli, triccheballacche, putipù. Paolo e io ce ne tornammo a casa presto. Nemmeno ricordo perché (o da chi, e quando) fossimo stati invitati alla festa (ma dovevano entrarci le edizioni L’erba Voglio di Fachinelli, dove l’anno prima avevamo pubblicato Adorno sorride). Personalmente leggevo volentieri memoir di rivoluzionari e storie del comunismo, che collezionavo e schedavo come schedavo e collezionavo romanzi sugli universi paralleli, ma del comunismo pratico e delle utopie a randellate, calci, pugni e paroloni non ne potevo più da un pezzo. Quanto ai comunisti, poi, meno se ne frequentano, pensavo già da tempo, e più ne guadagna la qualità della vita. Adesso, poi, dopo quel ridicolo pomeriggio milanese, la misura era colma.

Fu allora, in ogni modo, che mi decisi finalmente a comprare i primi due volumi, passati in Italia sotto silenzio, di Arcipelago Gulag, che Mondadori aveva tradotto e pubblicato nel 1974. Fu una lettura emozionante. Giovannino Guareschi avrebbe detto: «Utile e istruttiva». Sa il cielo perché non l’avessi letto prima. M’ero imbattuto, prima di leggerlo, come devo avere già detto qualche capitolo fa, ma repetita juvant, in una pacata riflessione d’Umberto Eco sull’opera e sulla figura di Solženicyn: «Un Dostoevkij da strapazzo».

Qui, con permesso, una parentesi.
Ero un grande fan di Solženicyn, quando mi capitò di lavorare con Giancarlo Vigorelli, nei primi anni novanta. Di Vigorelli non sapevo nulla, e ancora ne so poco, salvo che s’occupava di letteratura e che aveva scritto qualche libro, tra cui una biografia di Teilhard de Chardin, Il gesuita proibito, che ho lì dal tempo dei tempi e non ho mai letto.

Era una persona simpatica e gentile, cosa che mi stupì, perché prima di conoscerlo ero fortemente prevenuto. Era stato Solženicyn, citandolo con disprezzo nella sua autobiografia dei primi settanta, La quercia e il vitello, a mettermi in guardia contro di lui. Vigorelli, raccontava Solženicyn, aveva rilasciato una fantasiosa intervista a un giornale italiano nella quale millantava, di ritorno dall’Urss, d’aver parlato con l’autore dell’Ivan Denisovič, che la stampa borghese diceva oppresso dalle autorità, addirittura sul punto di finire di nuovo nei campi, mentre lui l’aveva trovato d’umore tranquillo, in buoni rapporti con l’Unione Scrittori, col partito, financo col Kgb. Vergogna, commentava Solženicyn, che non aveva mai incontrato Vigorelli, e nemmeno sapeva chi fosse. Per arruffianarsi gli altissimi papaveri sovietici, s’indignava il dissidente russo, Vigorelli aveva mentito alla stampa, prodigandosi per i persecutori e beffando le vittime. Ero indignato anch’io, finché non mi capitò di lavorarci insieme nella redazione del Giorno e, da lettore inesausto di spy stories, non capii cos’era quasi certamente successo: il dipartimento trucco e parrucco del Kgb aveva gabellato per Solženicyn uno dei suoi mutaforma (bastava poco per somigliare a Solženicyn: colbacco, barba finta, pelliccia, cartella dei manoscritti e croce ortodossa con tre barre traversali al collo). Come in Intrigo a Stoccolma, il grande film di Mark Robson, 1963, dove un sosia di Edward G. Robinson, qui nella parte d’un fisico occidentale premiato col Nobel, prende il suo posto e annuncia di volersi trasferire in Unione sovietica per mettersi al servizio della pace, gli «organi» sovietici avevano molto probabilmente fatto incontrare Vigorelli con una specie di malvagio sosia dostoevskiano di Solženicyn e quel povero merlo del biografo di Teilhard de Chardin c’era cascato (be’, ci sarei cascato anch’io).
Signori, i Dostoevskij da strapazzo del Kgb.

E per questa via – chiusa la parentesi – torniamo alla vecchia usuraia, a Raskol’nikov e Marmeladov, alla stufa elettrica, e soprattutto a Leoníd Grossman.
Saggista col passo del narratore, un po’ come Viktor Šklovskij, ma di gran lunga meno bravo e stuzzicante, Grossman per un po’ fu tra le mie letture preferite. C’erano soltanto due suoi libri tradotti in italiano: Dostoevskij artista (Bompiani 1961) e Dostoevskij (Samonà e Savelli 1968). Quest’ultimo, quando mi baloccai per la prima volta con Delitto e castigo, non era ancora uscito; dal primo, che sfoggiava ben «9 illustrazioni fuori testo», ritagliai con cura l’immagine black & white su carta lucida di Raskol’nikov, il nichilista originario, che brandisce l’ascia e intanto contempla le carcasse, ai suoi piedi, delle sue due vittime: la malvagia usuraia, e sua sorella, «una donna mite». Appesi l’illustrazione al muro, sopra la scrivania, e così – ogni volta che alzavo gli occhi dalla macchina da scrivere, un’Olivetti 44, roba vintage – mi ritrovavo a fissare Raskol’nikov che fissava i cadaveri straziati delle sue vittime.

Non sembra vero. Dico Micaletto, ma ero strano anch’io. Avrei potuto appiccicare al muro una pin-up con grandi poppe ritagliata da Playmen o da Le Ore, da Supersex, come facevano più dignitosamente i camionisti. O un poster del Presidente Mao, come forse facevano Micaletto e soci. C’era solo l’imbarazzo della scelta: la locandina di C’era una volta il West, una veduta del Grand Canyon, la faccia giuliva del Dalai Lama, una foto di famiglia, una Crying Girl di Roy Lichtenstein. E invece eccomi lì a contemplare, tra tutti i possibili soggetti che avrei potuto appendere al muro e guardare sorridendo beato ogni volta che alzavo gli occhi dalla macchina da scrivere, proprio l’immagine di Rodiòn Romànovič Raskol’nikov, l’Ur-nichilista («se l’ha fatto Napoleone, e tutti giù il cappello, potrò ben farlo anch’io, cazzo!») con l’accetta grondante sangue in mano. Ne avessi parlato con uno psicoanalista, per esempio Fachinelli, chissà le risate, seguite da una ricetta per il Valium e il consiglio di fare lunghe passeggiate, ma non ne parlai con nessuno: il nichilismo ebbe la meglio, come la Nutella su qualsivoglia dieta, e Raskol’nikov rimase appiccicato al muro, tipo un Elvis Presley satanico.

Dico nichilismo, ma intendo Dostoevskij, naturalmente. Egli denunciò l’inumanesimo nichilista a gran voce, ma ne era incantato, e invece di dissolverlo, come si proponeva, con argomenti vuoi razionali vuoi mistici, lo esaltò e lo spettacolarizzò, passandone la fiaccola prima a Nietzsche, quindi ai fascisti e ai bolscevichi, infine ai «malamente» religiosi, «pazzi di Dio» come lui (nell’Inferno a rovescio, in originale Inside Outside, un romanzo di Philip Josè Farmer, Dostoevskij è noto, tra i dannati, appunto come «Fëdor pazzo di Dio», e una ragione c’è: l’infatuazione nichilista). C’è più Raskol’nikov che Muḥammad nella jihad, e più Raskol’nikov che Kim Jong-un a Pyongyang. Vi stupireste se – incorniciata, sulle scrivanie di Putin e Trump, o di Osama bin Laden prima che gli saldassero il conto, accanto alle foto dei figli e di mammà – comparisse la stessa illustrazione stile Dracula che io avevo appiccicato al muro di casa mia un’era geologica fa, quando la parola «Islam» non faceva ancora pensare all’11 settembre e ai tagliatori di teste, come nel nuovo millennio, ma a Anthony Quinn, che nel 1962 aveva interpretato la parte di Awda Abu Tayi, sceicco e guerrigliero, in Lawrence d’Arabia di David Lean (un film semplicemente geniale, senza neppure l’ombra d’un difetto)? Intanto che elaborava trame astrattiste nelle quali i suoi eroi e antieroi, gli ossessi, i santi, gl’idioti, si muovevano come nei labirinti impossibili di M.C. Escher, Dostoevskij portò anche la morale della favola dove nessun moralista s’era mai spinto prima: fino a negarla con l’aria di volerla salvare dalla rovina. Tirò la volata al nichilismo, come i gregari, pompando sui pedali, la tiravano a Coppi e Bartali al Giro d’Italia.
Guai a dirlo, però. Anche pensarlo è male.

Oggi, con la Russia all’attacco dell’Ucraina e delle società aperte, Dostoevskij è diventato ancor più intoccabile del solito. Accennare al suo debole per l’Apocalisse, al suo fanatismo zarista, alla sua idea di Terza Roma, al suo ossessivo clericalismo, alla sua sperticata passione per modelli sociali autoritari è Verboten, vietato, politicamente scorretto. Eppure non sono opinioni stravaganti, o mai sentite prima. Sono piene le biblioteche di riflessioni sul lato oscuro di Dostoevskij. È proprio per il suo lato oscuro che l’autore di Delitto e castigo figura tra i più grandi romanzieri d’ogni tempo insieme a Melville, Dickens, Tolkien, Balzac, nessuno dei quali è però andato così vicino a capitombolare nell’abisso come lui.

Per Dostoevskij il Male è un’esperienza complessa, prismatica, e persino coraggiosa, come testimoniano i suoi demoni, i suoi Karamazov, i suoi adolescenti, i suoi epilettici e (aritanga) i suoi idioti, tutti meno innocui e meno santi di quanto si sforzino d’apparire. Fare il Male, nell’opera di Dostoevskij, è un tentativo d’esplorare, al sinistro scopo di conoscerle, le regioni estreme della natura dell’uomo e dell’universo. Agl’indemoniati Dostoevskij – che da giovane fu un utopista e che dopo la katorga (o casa dei morti, come lui chiamò la galera siberiana) tornò a sognare una società perfettamente conciliata – accorda lo status d’idealisti e di visionari o di criminali complicati. Non è una dichiarazione d’amore, ma poco ci manca. Sognatori, i demoni sbagliano a sognare le libertà occidentali, l’eguaglianza, la libertà di stampa e d’opinione, i diritti. Dovrebbero sognare, piuttosto, la sottomissione a un re clericale, e dunque anche un po’ filosofo, lo zar onnipotente, unto del Signore.

Dostoevskij evoca e invoca una sorta d’Islam ortodosso, che non vieta le immagini ma smania per le icone (ai santi ortodossi seguiranno i mammasanta del comunismo con monumenti, ritratti, agiografie, film e città chiamate col loro nome). Ciò che evoca c’è già, è la Russia, ma a lui ancora non sembra abbastanza, ne vuole di più, più Russia, più zar, più Chiesa ortodossa, più monaci e asceti, vuole che il russianesimo dilaghi nel mondo e lo raddrizzi, come dopo gli zar si proporranno anche Lenin, Stalin e Putin. Dostoevskij non si limita a denunciare, in anticipo sui tempi, lo scandalo universale del bolscevismo a venire, come gli sarà riconosciuto, ma con la sua opera lo annuncia e insieme lo fraintende: anziché la negazione dell’ortodossia, della Terza Roma, ne sarà il compimento. È nei «cantucci», dove gli uomini del sottosuolo e gli studenti radicali impegnati nella cospirazione, covano i loro rancori, che prende forma la Santa Russia sovietica dei nuovi re-imperatori, degli «intelligent» che leggono, interpretano, commentano e ritoccano Marx, dei pianificatori invasati che tifano per l’industria pesante e si proclamano seguaci del socialismo scientifico ma odiano la scienza, dei riformatori che detestano il contadiname e che, quale sia il delitto, conoscono un solo castigo: la morte.

«È possibile che io abbia letto troppo Dostoevskij», scrive Viktor Erofeev nel suo Il buon Stalin (Einaudi 2008). «Egli era effettivamente un figlio del secolo della miscredenza e ha portato alla rovina molte anime russe. Ha caricato sulle spalle dei lettori il suo classico abbandono di Dio, il suo vuoto, la sua impotente via crucis alla ricerca del senso. Ha trascinato la croce stramazzando lungo la via. C’era chi deplorava Gogol’ perché aveva scortato i russi in un oscuro bosco d’anime morte e li aveva abbandonati senza un barlume di speranza. Ma Gogol’ si reggeva a galla sulla sua lingua geniale come un nuotatore sul Mar Morto. Dostoevskij ha trascinato tutti a fondo. Pochi sono riemersi».

Ma all’epoca, in Via Verolengo, quattro maglioni, un caffè dopo l’altro, mentre fuori (forse) nevicava e io ero intrigato più dal delitto che dal castigo e le ore si facevano piccole senza che mi venisse sonno, di Dostoevskij sapevo ben poco. Avevo visto qualche sceneggiato in tv. Tutto qui, o poco più. Avevo forse qualche vago ricordo, ma non ci giurerei, dell’Idiota che Giorgio Albertazzi, nel 1959, aveva ridotto per il piccolo schermo e interpretato: un Principe Myskin giocondo e una San Pietroburgo di cartapesta. C’era stata, nel 1963, anche una riduzione televisiva di Delitto e castigo, ma mi era sfuggita, vai a capire perché. Più avanti, nel 1969, ci sarebbe stata una memorabile versione dei Fratelli Karamazov, che si può ancora vedere su RayPlay. Richard Brooks, regista del Seme della violenza (da Evan Hunter, cioè Ed McBain) e dei Professionisti, uno dei primi western «adulti», aveva diretto nel 1958 un Karamazov cinematografico con William Shatner (il Capitano Kirk di Star Trek) nella parte di Alëša e Yul Brinner nella parte di Dmitrij (un Dmitrij calvo circondato da suonatori di balalaika).

Per il momento c’era il libro che stavo leggendo. Avvinazzati sentimentali, aristocratici al di là del bene e del male, prostitute virtuose e pure, casi umani, famiglie in rovina, poliziotti che anticipano i grandi detective novecenteschi, assassini in preda a «febbri cerebrali». Che cosa sia una febbre cerebrale, e come questa febbre si distingua da una normale febbre batterica, non è ben chiaro, ma nei romanzi di Dostoevskij, al primo inciampo o saltabecco nichilistico, ne soffrono tutti. Da una parola in su, eccoli colti da «una specie di turbamento cerebrale». Raskol’nikov, in particolare, è sempre affetto da attacchi più o meno gravi di febbre cerebrale. Si guarda intorno, sospettoso, smarrito, e non è mai certo se quel che vede sta accadendo realmente o non si tratta piuttosto di un’allucinazione. Le allucinazioni sono un classico sintomo di febbre cerebrale dostoevskiana. Ma anche gl’incubi, le allucinazioni e persino le novelle fantasy-horror, tipo La leggenda del Grande Inquisitore, che Ivan Karamazov legge al fratello baciapile, a loro modo accadono davvero (Dio esiste, racconta Ivan, ma è un pasticcione, se non peggio, e dunque le sue opere vanno corrette, perfezionate, tanto che Egli stesso, alla fine della predica dell’Inquisitore, accetta di lasciare il governo degli uomini ai preti, ai funzionari sadomaso, ai teologi in stato d’ebbrezza e, alla lunga, ai bolscevichi).

Allegoricamente parlando, è attraverso la fiction che s’afferma il vero. Quindi è inutile star lì a chiedersi se Ivan Karamazov, sempre lui, sta davvero parlando con il demonio, che lo visita ogni notte tentandolo e coglionandolo, o se sta avendo un brutto sogno dopo un’indigestione di borsch con barbabietole, manzo, maiale e panna acida. «Disinvolto e amichevole», un «ospite inatteso», il diavolo di Ivan Karamazov, «non porta l’orologio, ma un occhialino di tartaruga raccomandato a un cordoncino scuro», ed è dotato d’un intelletto sottile, da sofista, un maestro della «vera causistica gesuitica». Dice cose «ragionevoli». Non parla male. Come contraddirlo, per dire, quando lamenta che non ci sono più i tormenti d’una volta, signora cara: «Prima ce n’era per ogni gusto, ma ora stanno diventando sempre più morali, “rimorsi di coscienza” e sciocchezze di questo genere». Come in Delitto e castigo, potrebbe aggiungere. (È per inciso lo stesso demòne che qualche decade più avanti incontra Adrian Leverkuhn nel Doctor Faustus di Mann).

A fare un brutto sogno, in Delitto e castigo, è Svidrigajlov, ricco e pervertito, forse anche lui un assassino, di certo un nichilista, e per di più uno stalker (molesta la sorella di Raskol’nikov, Avdot’ja Romànovna, che vuole assolutamente spulzellare).

Svidrigajlov era pensieroso. «E se là ci fossero solo ragni o qualcosa del genere?» disse a un tratto. «È pazzo», pensò Raskol’nikov. «Ecco, noi ci immaginiamo sempre l’eternità come un’idea che non si può comprendere, qualcosa d’immenso, immenso! Ma perché per forza immenso? E se invece, pensi un po’, ci fosse solo una stanzetta, sì, una specie di bagno di campagna, sporco di fuliggine, e ragni in ogni angolo, e l’eternità fosse tutta qui? A volte, sa, me la figuro cosí». «E davvero, davvero non immagina niente di piú consolante e piú giusto di questo?» esclamò Raskol’nikov con un senso di sofferenza. «Piú giusto? Ma chi può saperlo, forse proprio questo è giusto, e sa, io lo farei apposta cosí, assolutamente!» rispose Svidrigajlov, con un sorriso vago.

Dostoevskij, per costruire le sue trame metafisiche, dove ciascuno compie o fantastica un’azione e poi ci ricama sopra, usa il normale materiale da romanzo: amori contorti, tradimenti, intrighi familiari, passioni politiche, coincidenze, fatalità. Da queste trame, semplicemente dotando i personaggi d’un fioretto o d’un tomahawk, si potrebbe benissimo ricavare un romanzo di James Fenimore Cooper o di Dumas père. Per questo i suoi romanzi sono così belli. Nietzsche e Kafka – entrambi folgorati da Dostoevskij – non saranno altrettanto bravi né altrettanto profondi.

Ogni mossa dei personaggi di Dostoevskij, senza che le sue trame rocambolesche e concitate rallentino o ne risentano, è un puntaspilli di note a margine, d’incisi metafisici, di curve e spigoli filosofici. Abbondano gli aforismi e le frasi da citare. Solženicyn, invece, nessuna deviazione, non un inciso, zero note a margine. E mai una concessione alla trama: la febbre cerebrale comunista, parla da sé, forte e chiaro, inconfondibile, senza bisogno di protesi e bellurie.

Solženicyn non scrive romanzi neppure quando scrive romanzi. È uno storico e un memorialista, come Senofonte, e proprio come accade con Senofonte i personaggi più riusciti delle sue storie sono i fuggiaschi, gli zeck in fuga dal Gulag. Protagonisti d’evasioni destinate al fallimento, sono non di meno «fuggiaschi convinti», come li ha battezzati lui in Arcipelago. A differenza di Dostoevskij, che invoca l’etica senza crederci davvero, l’autore del Primo cerchio, di Divisione Cancro, di Lenin a Zurigo e dell’Ivan Denisovič è un sincero moralista, un nemico del totalitarismo comunista, almeno finché non si gratta la sua anima russa e non ne salta fuori un altro tartaro. Nessuno, escluso naturalmente Varlam Šalamov, autore dei Racconti di Kolyma, ha mai scritto memorie efficaci come Arcipelago Gulag e La quercia e il vitello. Solženicyn non perde tempo con la filosofia. Dieci volte più mistico e clericale di Dostoeskij, è cento volte più pratico e concreto di lui. Racconta quel che è capitato a lui, al suo paese, al popolo russo. Niente arzigogoli. Fatti, fatti, fatti.

Pochi libri, nella storia della letteratura universale, hanno cambiato il mondo. Per lo più si è trattato di buone novelle, d’annunci religiosi, di vangeli, bibbie e corani. Ma Arcipelago Gulag, che ha cambiato il mondo più di qualunque altro libro negli ultimi secoli, tutto è tranne che una buona novella. Non è nemmeno letteratura, come I demoni di Dostoevskij, del quale è tuttavia il capitolo finale, o Una giornata di Ivan Denisovič, il romanzo breve che mostrò anche ai russi sotto incantesimo di che materia sono fatti i sogni del comunismo (e gli abiti nuovi dei commissari del popolo). Arcipelago Gulag è un terrificante e straordinario pamphlet. È l’Inferno di Dante in forma di reportage. Come nella Divina Commedia, anche in Arcipelago Gulag è tutto vero e indubitabile (solo che Dante collocò la sua galleria di santi, mostri e peccatori all’interno d’una variopinta cornice fantasy, mentre in Arcipelago Gulag la cornice horror è vera quanto ogni singolo personaggio al suo interno, e i gironi infernali non sono metaforici).

Quel che si racconta in Arcipelago è così vero e così intollerabile che il mondo non poté adeguarvisi e ne fu trasfigurato. Era il 1974 quando il libro evase dalla Russia brezneviana e apparve in Occidente; il comunismo non gli sopravvisse a lungo. Rimase in coma ancora quindici anni, fino al 1989, poi furono gli stessi stalinosauri a decretare la propria estinzione.

Aleksandr Isaevič Solženicyn, con la sua barba incolta e la sua prosa ispirata, ricca d’anatemi e ammonizioni, aveva l’aspetto, la vocazione e forse anche la stoffa del profeta biblico. Perciò, anche se non furono una buona novella, le sue memorie dallo sprofondo dei campi di lavoro e sterminio sovietici furono egualmente testi religiosi: altrettanti capitoli d’una moderna Apocalisse. Furono i suoi reportage dal finimondo a trasformare i maoisti francesi, una delle peggiori ghenghe gosciste su piazza, in nouveaux philosophes e a privare il comunismo, in un lampo, d’ogni residuo appeal. Solženicyn era il profeta che invece d’annunciare future catastrofi ne raccontava una già avvenuta e irreparabile.

Parlava da un mondo postatomico, devastato dal fallout e da virus mutanti (come quelli delle storie di fantascienza, o come La strada lungo la quale s’incamminano il padre e il figlio senza nome di Cormac McCarthy). Esortò nel suo discorso più noto a «vivere senza menzogna». Chi decide di vivere senza menzogna «non scriverà più né firmerà o pubblicherà una sola frase che a suo parere distorca la verità. Abbandonerà qualsiasi seduta, lezione, riunione, spettacolo, proiezione cinematografica non appena oda una falsità, un’assurdità ideologica o frasi di sfacciata propaganda». Erano regole da sopravvissuti alla Bomba: il codice di chi è scampato alla morte nelle miniere di Kolyma, nei campi hitleriani, nelle guerre globali combattute in nome di razze, classi e Libri sacri.

Ma se il bolscevismo, che quando uscì Arcipelago Gulag dominava oltre la metà del mondo, non sopravvisse al libro che aprì gli occhi di chi fino a quel momento aveva finto di non sapere, non vedere e neppure immaginare, Solženicyn non sopravvisse al successo della sua missione. Esule in America, dopo il Premio Nobel e l’epulsione dall’Urss, continuò a indossare panni profetici, con l’aggravante del grottesco, come quando prese la parola ad Harvard per spiegare che «l’anima umana anela a cose più alte, e più calde, e più pure di quelle offerte oggi dall’esistenza massificata d’Occidente, annunciata dalla rivoltante invasione della pubblicità, dall’abbrutimento della televisione e dal frastuono di una musica insopportabile».

Erano parole da filisteo. Solženicyn, con la sua barba incolta, la sua camicia extralarge da mugicco e la sua voce tonante da pulpito, s’era ridotto a parlare come un Rasputin da Saturday Night Live. Sembrava John Belushi che faceva l’imitazione di Solženicyn. Dedicò più di trent’anni a scrivere La Ruota rossa, opera monumentale ma minore (nemmeno io, che tracanno praticamente ogni cosa, non importa quanto lunga e narcotica, sono mai riuscito a leggerla per intero). Scrisse anche un libro vergognoso sul rapporto tra russi ed ebrei (indovinate chi aveva ragione, o «non così torto», tra i «giudei» e i sobillatori dei pogrom). Tornò in Russia nei primi novanta. Accolto dapprincipio con grandi festeggiamenti, fu presto dimenticato e quando morì novantenne, nel 2008, il suo più caro amico era Vladimir Putin, al quale l’autore d’Arcipelago Gulag chiese – nel nome santissimo del Cristo Pantocratore, che nell’iconografia ortodossa saluta con le tre dita alzate della mano destra – di reintrodurre in Russia la pena di morte, «almeno» per i reati di terrorismo. Putin (che è Putin) rifiutò.

Sbaglierò, ma avrebbe rifiutato anche Sauron, l’Oscuro Signore, il super villain d’un altro libro che ha cambiato, a modo suo, la storia del mondo. Erano i primi mesi del 1968. Pentendomene quasi subito, mi ero appena sbarazzato, svendendola ai bancarellai, della mia vasta collezione di fantascienza, faticosamente accumulata negli anni. Avevo deciso che, passato da A.E. van Vogt e Philip Josè Farmer al marxismo, quella era roba per me troppo frivola. Qualche mese fa, quando cominciarono a uscire in edicola, allegati al Corriere dello sport, i fumetti di Flash Gordon nella geniale versione di Dan Barry di cui mi ero stupidamente privato in gioventù, tornai a ripetermi, per l’ennesima volta, d’aver sbagliato tutto, come capita sempre quando si fanno mosse avventate.

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Vite brevi ed esemplari delle spie / 3 https://www.carmillaonline.com/2023/08/21/vite-brevi-ed-esemplari-delle-spie-3/ Mon, 21 Aug 2023 20:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78014 di Diego Gabutti

Willy Fisher

1957. Un gruppo di cacciatori di spie dell’FBI fa irruzione in una stanza dell’Hotel Latham, Manhattan, puntando le pistole sull’uomo nudo, sdraiato sul letto, che fuma una sigaretta e contempla le crepe del soffitto. «Lei è in arresto, colonnello! Siamo al corrente delle sue attività spionistiche!» Sono circa le sette del mattino. Ci siamo, pensa lui mentre si mette in piedi. Con una mano si copre la pudenda, con l’altra afferra la dentiera sul comodino e se la caccia in bocca. Con la sigaretta che gli ciondola tra [...]]]> di Diego Gabutti

Willy Fisher

1957. Un gruppo di cacciatori di spie dell’FBI fa irruzione in una stanza dell’Hotel Latham, Manhattan, puntando le pistole sull’uomo nudo, sdraiato sul letto, che fuma una sigaretta e contempla le crepe del soffitto. «Lei è in arresto, colonnello! Siamo al corrente delle sue attività spionistiche!» Sono circa le sette del mattino. Ci siamo, pensa lui mentre si mette in piedi. Con una mano si copre la pudenda, con l’altra afferra la dentiera sul comodino e se la caccia in bocca. Con la sigaretta che gli ciondola tra le labbra, dichiara con voce indignata di chiamarsi Emil Goldfus e protesta contro la violazione dei suoi diritti costituzionali. Pensa (strano pensiero) che da allora in poi dovrà tenere d’occhio Orlov lo Svedese. «Un agente segreto», dirà più tardi al suo avvocato, «si prepara a questo momento per tutta la vita».

«Goldfus», cinque giorni dopo l’arresto, rivela di chiamarsi Rudof Ivanovič Abel, colonnello dei servizi segreti sovietici. Dichiara d’essere stato personalmente istruito da Vjačeslav Michajlovič Molotov (che Stalin chiamava familiarmente «deretano di piombo») durante un’ultima cena al Cremlino, nel 1948, la sera prima di lasciare Mosca per New York. In quanto Abel, agente sovietico confesso, sarà scambiato anni dopo col pilota americano Gary Powers, abbattuto nei cieli dell’Urss durante una ricognizione aerea. Ma il fatto è che Abel non è affatto Abel. È Willy Fischer, nato in Inghilterra nel 1902 da un rivoluzionario di professione bolscevico, nello spionaggio sovietico praticamente fin da bambino.

Il vero Abel è morto l’anno prima a Mosca. Entrambi maestri di guerra segreta, lui e Fischer erano sempre stati inseparabili, come Gianni e Pinotto. Lo racconta Kirtill Chenkin in un memorabile libro di memorie, Il cacciatore capovolto. Il caso Abel, Adelphi 1982, dove spiega che Fischer assume l’identità di Abel, il suo vecchio compagno, per lanciare un segnale alla centrale moscovita: la copertura regge, non sto collaborando, la missione continua.

«Elemento antisovietico», transfuga in Israele dai primi settanta, Chenkin è amico e ammiratore di Fischer, che insieme a Rudolf Abel era stato suo istruttore alla scuola di spionaggio durante la seconda guerra mondiale, quando il Kgb lo aveva reclutato. «Willy», scrive, «mi aveva insegnato a guardare la realtà in modo che ne risalti il lato nascosto. Quando tu hai afferrato l’essenza d’un disegno criptico, non puoi fare a meno di vedere – in mezzo ai rami, o tra le corna d’un cervo – il cacciatore capovolto, non poi tanto abilmente nascosto». Chenkin, che vuole lasciare la scuola di spionaggio perché non gli piace il clima, chiese consiglio a Fischer e questi gli dice, scuotendo la testa, che «una volta spie, si è spie fino alla morte. Ma un ragazzo sveglio», aggiunge poi sottovoce, «può sempre mostrare, volendo, la propria assoluta inettitudine al servizio segreto».

Mangiata la foglia, Chenkin comincia a infastidire i superiori con proposte bislacche. Suggerisce d’istituire strette di mano segrete per riconoscersi tra agenti sul campo. Telefona ai colleghi per informarsi se la ricezione dei messaggi in codice è stata abbastanza chiara. Finché un bel giorno non gli dicono che per il momento la sua collaborazione non è necessaria (non ci richiami, richiamiamo noi). Fischer, insomma, era nel suo mestiere un’autorità indiscussa.

E veniamo allo Svedese, che al momento dell’arresto occupa tutti i pensieri del «colonnello». Aleksandr Michajlovič Orlov, altrimenti detto «lo Svedese» oppure «Nikolskij», è un vecchio bolscevico, capo dello spionaggio sovietico in Europa fino al 1938, epoca di purghe sanguinose, quando declina l’invito di tornare a Mosca da Parigi per conferire con i grandi capi e s’invola dalla capitale francese dopo aver svuotato la cassaforte dell’ufficio. Ormai da vent’anni Orlov vive negli Stati Uniti, vezzeggiato dalla CIA, per conto della quale istruisce le reclute sui metodi e le magie del Kgb. Orlov e Fischer sono vecchi amici.

Perché lo Svedese non smaschera il falso Abel rivelando che il suo vero nome è Fisher? E Willy, ulteriore mistero, che cosa sta esattamente spiando a New York? Segreti atomici americani non ce ne sono mai stati, non per i russi, ai quali fior di scienziati occidentali passano sottobanco tutte le informazioni utili. Ma nessuno di questi informatori, neppure Ethel e Julius Rosemberg, finiti sulla sedia elettrica per spionaggio atomico, passa attraverso la rete di Fischer. Altra stranezza: i Rosenberg morirono sempre negando d’essere spie, mentre lui lo ammise subito, senza essere per questo trattato da traditore e anzi guadagnandosi uno sproposito di medaglie al suo ritorno in Urss, dopo lo scambio con Gary Powers sul «ponte delle spie» di Berlino.

Come fu scoperto? Fu tradito da un maramaldissimo: il tenente colonnello «Heihannen», tra i migliori elementi del Kgb, braccio destro di Willy a Brooklyn. Strana spia, questo Heihannen. Gli agenti segreti praticano l’arte dell’invisibilità affinchè nessuno li noti, mentre lui è sempre ubriaco, picchia la moglie in pubblico, litiga con i vicini di casa, ruba, insulta i poliziotti e si fa arrestare. Una spia che non ha niente da spiare, un disertore da decenni al servizio della Cia che lo può smascherare ma non lo fa, un braccio destro che fa di tutto per farsi notare. Che storia è? Chenkin non ha dubbi: da qualche parte, in questo disegno, c’è un cacciatore capovolto. È possibile, secondo Chelkin, che una falsa rete di spie sia stata offerta a Cia e Fbi per coprire la rete vera, rimasta ignota. È possibile, certo, ma non si saprà mai.

Willy, dice ancora Chenkin, era un fan di Dashiell Hammett, l’autore del Falcone maltese, comunista ed ex detective dell’Agenzia Pinkerton. Negli anni quaranta, alla scuola di spionaggio, Fisher amava raccontare ai suoi allievi la parabola hammettiana di quell’uomo che abbandona tutto per farsi una nuova vita, stanco della moglie chiacchierona e dei figli urlanti, dell’automobile da quattro soldi, del lavoro malpagato e della squalllida villetta di periferia dove abita ormai da troppo tempo, finché non viene ripescato anni dopo alla guida di un’automobile scassata, diretto a una squallida villetta di periferia, dove lo aspettano una moglie chiacchierona e un paio di figli urlanti (vedi Dashiell Hammett, Continental Op. Tutti i racconti, Mondadori 2021). Era la copertura perfetta, il perfetto cacciatore capovolto.

Willy è un Eroe dell’Unione Sovietica quando muore di tumore nel 1971. Istruttore fino all’ultimo del Kgb, il suo migliore amico è il giovane Chenkin, un dissidente. Crede nel socialismo come in una catastrofe inevitabile, dice Chenkin. Ma non molla, e continua a spiare. «Il radioso futuro si è definitivamente rovesciato in notte dei tempi? Che ci vuoi fare? Il mestiere è mestiere».

Bruno Maksimovic Pontecorvo

Fisico delle particelle e storico della scienza, Frank Close ha scritto libri sull’antimateria, sull’epopea della fisica moderna fino alla scoperta del Bosone di Higgs e sulla caccia al neutrino. Proprio il neutrino è la particella a lungo sfuggente di cui segue la pista, tra gli altri, anche il fisico italiano Bruno Pontecorvo, uno dei «ragazzi di Via Panisperna», più tardi noto nella sua seconda patria, l’Urss, come «Bruno Maksimovič Pontekorvo».

Pontecorvo (ma anche un po’ Pontekorvo, il cittadino sovietico membro del Pcus) è l’idolo di Close, che in Vita divisa (Einaudi, 2016) ne racconta la biografia politica e scientifica. Due i Pontecorvo, come due erano anche i Fuchs: il fisico teorico e il comunista. Come scienziato, Pontecorvo fu certamente ammirevole, un pioniere della fisica sperimentale, uno studioso brillante e originale, ma come uomo del suo tempo, devoto per (quasi) tutta la vita alla più grottesca ideologia del secolo breve, fu un disastro.

Nel 1950 fugge con moglie e figli piccoli in Urss, dove per anni non gli è consentito neppure di scrivere ai suoi fratelli (tra cui Gillo, il regista di film comunisti) e ai suoi genitori; dove non lo lasciano mai nemmeno avvicinarsi a un acceleratore di particelle; dove gli tocca vivere per una vita intera in una città che non può lasciare nemmeno per fare un giro a Mosca o a Leningrado; dove non riceve mai una visita dagli scienziati suoi vicini di casa e dove due poliziotti lo scortano ogni giorno da casa al lavoro e dal lavoro a casa.

Intorno alla città segreta e ultrasorvegliata in cui vive da galeotto di lusso, i lavori pesanti sono affidati a prigionieri, gente vestita di stracci, la testa rasata, tutti magri come acciughe, puro Gulag, e «Pontekorvo» pensa che siano lavoratori volontari, giusto un po’ male in arnese (be’, dice di pensarlo, anche se naturalmente non sono pensieri degni del suo QI). Miriam Mafai, nel 1982, intervista lo scienziato ormai ottantenne per un libro-intervista nostalgico e sospiroso; quando Close, molti anni dopo, chiede alla giornalista italiana perché Pontecorvo, secondo lei, ha lasciato la libera Inghilterra per trasferirsi all’inferno, lei risponde con tipica (e ridicola) alterigia togliattiana che «ci sono cose che puoi capire solo se sei comunista».

Pontecorvo aveva un’altra risposta (stavolta degna del suo QI): «Sono stato un cretino». È quel che dice dopo la caduta del comunismo, un’era geologica troppo tardi, «parlando con un giornalista inglese», a beneficio del quale «giudica con franchezza e senza mezzi termini le sue convinzioni del passato». Dice anche di più: «Per molti anni ho creduto che il comunismo fosse una scienza; mi accorgo ora che non è una scienza, ma una religione».

È Kim Philby, a mettere in allarme Pontecorvo, lo scienziato, e Pontekorvo, l’agente segreto, dopo che altre spie atomiche sono state smascherate dall’FBI e una pista di briciole di pane porta fino a lui. Pontecorvo, a quel punto, può soltanto fuggire in Urss, dove da perfetto trinariciuto porta con sé anche i tre figli bambini e una moglie che soffre di crisi depressive. A organizzare la fuga è Emilio Sereni, cugino dello scienziato e pezzo grosso del Partito comunista italiano. Pontekorvo crede nei Processi di Mosca, nel materialismo storico e dialettico; crede persino nel complotto dei medici ebrei (col quale Stalin si gingilla prima di morire). Pontekorvo si beve tutto, ogni sciocchezza, ogni superstizione. È il secolo breve. Alegher.

H.A.R. Philby, in arte «Kim»

Sua moglie, Eleanor Philby: «Lo ricordo come un marito affettuoso, intelligente e sentimentale. Credo che possegga ancora qualcuna di queste qualità. Ha tradito molte persone, me tra le altre. Non gli piace la musica pop, ma qualche tempo fa gli ho spedito un disco dei Beatles, Help».
 
«Non sono un patito dello spionaggio. Della vita di Kim Philby conosco solo i dati basilari. Non ho mai letto una sua biografia, in inglese o in russo, né prevedo che ne leggerò mai una. Tra le alternative che si offrono a un essere umano egli scelse la più aberrante: tradire un gruppo di persone a favore d’un altro», scrive il poeta russo Iosif Brodskij in Un cimelio, un saggio memorabile che trovate in Profilo di Clio, Adelphi 2003.
 
Lui stesso, Philby, fatuo e snob, nella sua autobiografia: «Come, perché e quando sono diventato membro del servizio segreto sovietico è una questione che riguarda solo me e i miei compagni. Dirò solo che, quando mi venne fatta questa proposta, non esitai. Non si discute l’offerta di far parte d’una forza d’élite».
 
Gelido, dopo aver dedicato i suoi libri migliori (perdoniamogli i peggiori, e sono stati tanti) allo studio d’una sorta di metafisica del tradimento, John le Carré si chiedeva, nel 1968, «come passerà Philby il resto dei suoi giorni? Bevendo? Aspettando l’olocausto dell’Inghilterra? Oggi si trincera in una sdegnosa solitudine. Tra dieci anni fermerà i turisti inglesi per le strade di Mosca. Immaginate quell’occhio lacrimoso e quella voce arrochita dal whisky, quel suo charme insinuante. “L’Inghilterra è un paese fascista” dirà. “non potevo non farlo”».

«Ma siamo proprio sicuri che lo fece?» si chiede il logico statunitense Daniel C. Dennett. Figlio del residente Cia a Beirut negli anni cinquanta, studioso degli stati di coscienza, padre della teoria dei «memi», Dennett spiega che «quando Philby si presentò a Mosca per la prima volta, egli era (apparentemente) sospettato dal Kgb d’essere un infiltrato britannico – un triplo agente, se preferite. Per anni è circolata una storia nei circoli dell’intelligence, che sosteneva questa tesi. L’idea è che quando il SIS “esonerò” Philby nel 1951, fu trovato un modo brillante di sistemare il delicato problema della fiducia. “Congratulazioni, Kim, vecchio mio. Abbiamo sempre saputo che eri leale. E come prossimo incarico vogliamo che tu finga di rassegnare le dimissioni dal SIS e che ti trasferisca a Beirut, dove la tua copertura sarà quella di giornalista in esilio”. […] Una volta che il SIS ebbe dato a Philby questo nuovo incarico, le sue preoccupazioni svanirono. Non aveva nessuna importanza se Kim fosse davvero un patriota britannico leale che fingeva d’essere un agente scontento o se fosse veramente un agente sovietico leale che fingeva d’essere un agente britannico leale. Si sarebbe comportato nello stesso modo in entrambi i casi; le sue attività sarebbero state interpretabili e prevedibili da entrambe le prospettive intenzionali speculari».
 
«La smania di presentare Andropov [generalissimo, ex capo del Kgb] come un occidentale in tutto e per tutto non conosce limiti», scrive Kirill Chenkin nel suo pamphlet del 1983 su Jurij Vladimirovič Andropov, che all’epoca era appena salito sul trono di tutte le Russie. «I dettagli più pittoreschi che finora si conoscono sulla vita e le abitudini del nuovo Segretario Generale del Pcus li ha forniti alla stampa, per la maggior parte, un giovane diplomatico sovietico passato in Occidente nel luglio del 1971, Vladimir Sacharov.

Nel 1971 Sacharov aveva appena 26 anni. Qualche mese fa, tredici anni dopo la sua fuga all’ovest, Sacharov, in una intervista a Penthouse, ha aggiunto un altro particolare piccante al ritratto di Andropov. Pare, sostiene Sacharov, che Andropov sia debitore del suo successo, in gran parte, a Kim Philby, ex collaboratore dei servizi di spionaggio inglesi e, per più di vent’anni, spia sovietica, fuggito via Beirut in Urss nel 1963. Stando a Sacharov, Philby, divenuto uno stretto collaboratore di Andropov, avrebbe trasformato il Kgb da una “banda di straccioni” in una organizzazione di altissima efficienza copiata esattamente sull’Intelligence Service britannico.

Il nocciolo della storia, ahimè, è un altro. È difficile, forse, trovare un servizio di spionaggio e controspionaggio che sia stato tanto infiltrato, per decenni, da agenti sovietici come quello britannico. Lo stesso Philby occupava un posto di rilievo nel MI5. E persino il capo da anni dell’intero controspionaggio inglese, sir Roger Hollis, sembra sia stato un agente sovietico, anche se le accuse non furono mai provate. Su sir Roger rimane qualche incertezza. Ma per altri collaboratori dei servizi inglesi, e tutti di rango piuttosto alto, come George Blake, Maclean, Anthony Blunt, i fatti addebitati loro sono stati confermati e ammessi. Eppure tutti si facevano fare gli abiti a Londra. In che senso allora avrebbe potuto prestare i lumi della sua esperienza un Kim Philby alla riorganizzazione del Kgb? Non è chiaro. Sbaglio, o lavorava anche lui per l’organizzazione quand’era ancora una “banda di straccioni”?».

«[Il lavoro di Graham Greene] si svolge a stretto contatto con Kim Philby», scrive Paolo Bertinetti nella cronologia in apertura di Romanzi 1936-1955, il primo volume delle opere di Greene. Con Philby «si instaura un rapporto di reciproca stima durato tutta la vita (negli anni Ottanta Greene s’incontrerà ancora con Philby in Urss). […] Nel maggio 1944, poco dopo una promozione accordata a Philby, che a sua volta gli offriva una promozione, Greene dà le dimissioni dal servizio, per trasferirsi presso un altro organismo, in qualche modo sempre connesso con l’intelligence, che si occupa di propaganda. Perché Greene si sia dimesso in un momento cruciale della guerra, poco prima dello sbarco in Normandia, rimane misterioso e le sue spiegazioni per nulla convincenti, benché sia stata avanzata l’ipotesi che Greene avesse avuto il sospetto che Philby facesse il doppio gioco e che questo fosse il motivo delle dimissioni».

(Fine)

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Traditori di tutti, traditi del tutto https://www.carmillaonline.com/2022/11/15/traditori-di-tutti-traditi-da-tutto/ Tue, 15 Nov 2022 21:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74689 di Sandro Moiso

Jorge Semprún, La seconda morte di Ramón Mercader, Edizioni Settecolori, Milano 2022, pp. 462, 28,00 euro

Le storie non iniziano mai dove sembrano essere iniziate. Hanno origini oscure e un giorno ti ritrovi buttato nel bel mezzo di una storia. (Jorge Semprún)

I romanzi di John le Carré, già sulla scia di Graham Greene, ci hanno da tempo insegnato che il lavoro delle spie non consiste affatto negli esercizi circensi resi celebri dallo 007 di ian Fleming ma, piuttosto, nella pratica costante del tradimento, dell’inganno e dell’architettare tranelli, [...]]]> di Sandro Moiso

Jorge Semprún, La seconda morte di Ramón Mercader, Edizioni Settecolori, Milano 2022, pp. 462, 28,00 euro

Le storie non iniziano mai dove sembrano essere iniziate. Hanno origini oscure e un giorno ti ritrovi buttato nel bel mezzo di una storia. (Jorge Semprún)

I romanzi di John le Carré, già sulla scia di Graham Greene, ci hanno da tempo insegnato che il lavoro delle spie non consiste affatto negli esercizi circensi resi celebri dallo 007 di ian Fleming ma, piuttosto, nella pratica costante del tradimento, dell’inganno e dell’architettare tranelli, troppo spesso, fine a se stessi (o quasi.) Basta leggere, infatti, le pagine di romanzi quali La talpa, La spia venuta dal freddo, Tutti gli uomini di Smiley o La tamburina per entrare in un mondo di servizi segreti occidentali (MI6, CIA o Mossad) in cui a dominare sono l’astuzia, la spietatezza, il calcolo (spesso personale) e la disillusione,

Il romanzo di Jorge Semprún (1923- 2011), appena pubblicato in Italia da Settecolori, nonostante la sua edizione originale risalga al 1969, ci introduce nello stesso mondo, però visto dal “fronte orientale”, speculare avversario dei protagonisti dei romanzi di le Carré. Qui gli agenti operano per il KGB (siamo ancora in piena guerra fredda, e gli avversari (?) sono quelli della CIA. Il tutto complicato da un elemento che per i difensori dell’ordine liberale non esisteva: il sentirsi, o meno, rappresentanti di una Rivoluzione che avrebbe dovuto rovesciare il mondo, ma che invece non lo ha fatto.

Oltre a ciò, nel romanzo si affaccia in continuazione la storia collettiva e personale della Guerra Civile spagnola. Anch’essa caratterizzata da tradimenti, violenze, soprusi che non hanno lasciato certo immacolata la sua immagine. Anche sul fronte repubblicano.
E vi è molto di autobiografico nel romanzo, visto che l’autore, spagnolo di origine e francese per vocazione letteraria, aveva dovuto abbandonare la Spagna appena tredicenne, al seguito della famiglia di un diplomatico della Repubblica, riparata in Francia agli inizi della guerra nel 1936.

Non solo, l’autore, pur appartenente ad una famiglia borghese di rango, democratica e cattolica, aveva in seguito aderito al Partito comunista spagnolo di Santiago Carrillo ed era diventato agente dei servizi segreti dello stesso e dei paesi dell’Est. Un percorso non dissimile, anche se con motivazioni estremamente diverse, a quello di le Carré che, prima di diventare scrittore, era stato agente dei servizi inglesi del MI6.

Ancor prima, però, il futuro scrittore spagnolo era entrato nella resistenza francese contro i tedeschi ed era finito prigioniero a Buchenwald. Così, come racconta nella bella postfazione al testo Romain Cortés:

Nell’aprile del 1945, tre ufficiali con la divisa britannica, ma in forza all’esercito del generale americano Patton, fissarono con uno sguardo spaventato il ventenne che li osservava all’ingresso del campo di concentramento di Buchenwald, da poco liberato. Capelli rasati a zero, una magrezza estrema, il ragazzo indossava degli stivali di cuoio dell’esercito russo, aveva a tracolla una mitraglietta tedesca sotto cui, a strati, l’uniforme del carcerato si mischiava con ritocchi civili e militari. Jorge Semprún era il nome di quell’apparizione. […] A Buchenwald Semprún era arrivato un anno prima, dopo che la Gestapo lo aveva arrestato in un rastrellamento di provincia, sorpreso nel sonno in uno dei tanti rifugi clandestini della Resistenza. Il risultato di quell’anno, in quello che non era un campo di sterminio, ma i cui forni crematori tramutavano in fumo i corpi di chi vi moriva per fame, stenti, fatica, spandendo nell’aria l’odore dolciastro della carne umana bruciata, era ciò che si stagliava davanti agli occhi come pietrificati dei tre ufficiali. Un fantasma, più che un sopravvissuto, si sorprese a pensare il diretto interessato. «I fantasmi fanno sempre paura. Io non ero veramente sopravvissuto alla morte, non l’avevo evitata. Non le ero sfuggito. Piuttosto, l’avevo percorsa da un capo all’altro. Ne avevo percorso i sentieri, mi ero perduto e ritrovato, immenso territorio dove scorre l’assenza. Un fantasma, appunto». Dietro questa constatazione, Semprún sentiva però premere qualcos’altro, sempre più forte nei diciotto giorni che passarono dalla liberazione di Buchenwald al suo ritorno a Parigi, in un convoglio di rimpatriati organizzato da una associazione religiosa. «Ero convinto di essere immortale. Fuori pericolo, in ogni caso. Mi era successo tutto, niente poteva più accadermi. Nient’altro che la vita, da mordere con denti voraci. È con questa sicurezza che ho attraversato, più tardi, dieci anni di clandestinità in Spagna» 1.

Clandestinità e azione politica durante le quali si rese progressivamente conto di quante menzogne occorresse sostenere oppure contribuire a diffondere, anche nei confronti di amici e compagni “innocenti”, purché la grande macchina partitica ed organizzativa, oltre che propagandistica, di una rivoluzione da tempo spentasi potesse continuare a rappresentarsi come l’erede delle tradizione rivoluzionaria e proletaria.

Sono le stesse domande che sembra porsi il protagonista del romanzo. Un agente trentatreenne che, durante una missione ad Amsterdam, nel 1966, si rende conto di essere stato tradito e venduto agli agenti della CIA.

Qual era l’uomo incaricato di seguirlo? Uno qualunque. Quelli della CIA, aveva pensato, stanno diventando irriconoscibili, ultimamente: assomigliano a degli universitari, a dei ricercatori della Rand Corporation, oppure a dei seduttori con le tempie brizzolate. A chiunque. Alcuni non sembrano nemmeno americani, hanno una faccia umana. È lo stile Kennedy, forse2.

Ma il vero problema si nasconde tra le file del KGB, forse ai livelli più alti. Forse proprio tra quei vecchi agenti e compagni che per il Partito avevano già sopportato tutto. Anche il Gulag, prima di essere riabilitati ed inseriti nuovamente nelle fila e ai vertici dei servizi operativi.

«Che cosa siamo noi, esattamente? Può dirmelo, Georgij Nikolaevič?». […]
A Zurigo, due anni prima, in Froschaugasse, aveva fatto una domanda a Georgij Nikolaevič Užakov, e questi aveva riso, con gli occhi celesti che gli brillavano.
«La storia si ripete come una farsa, vero?» aveva detto Užakov. «Siamo la ripetizione farsesca e beffarda di una storia del passato».
«Quale storia?».
«Ma quella della rivoluzione, ovviamente» diceva Georgij Nikolaevič.
«Una storia mancata» diceva lui.
«Ma via! Se non fosse mancata, non si ripeterebbe come una farsa. Anzi, non si ripeterebbe in alcun modo».
Lui, però, insisteva. «E il nostro ruolo qual è, in questa farsa?».
Užakov lo stava fissando. Non sembrava vederlo. Lo stava fissando, senza vederlo. Stava fissando altrove, nel proprio passato.
«Un ruolo tragico» diceva alla fine. «Tragico e beffardo. Siamo solo la caricatura dei funzionari della rivoluzione. Non ci sono più professionisti della rivoluzione mondiale, ci sono solo agenti infiltrati, funzionari dei servizi speciali»3.

Ecco, il rivoluzionario o preteso tale. si era trasformato, o era stato trasformato, in un funzionario, in un burocrate, un grigio esecutore di ordini. Magari dell’assassinio e del tradimento. Come in ogni dittatura che si rispetti, come per un altro fronte aveva già spiegato già Hannah Arendt nel suo La banalità del male (1963).
Non a caso il protagonista porta lo stesso, pesantissimo nome di un personaggio simbolicamente importante del tortuoso percorso della rivoluzione dall’Ottobre allo stalinismo e al Gulag: Ramón Mercader, l’assassino di Leone Trotzkij in Messico, nel 1940.

Figura tragica e dannata, degna forse di figurare nel romanzo Il demone meschino di Fëdor Sologub, scritto tra il 1892 e il 1902 e apparso a puntate nel 1905. Condannato a vent’anni di carcere in Messico come esecutore dell’assassinio, Mercader scontò tutto il periodo della condanna, senza mai parlare o confessare, in attesa di tornare in Russia a ritirare la medaglia d’oro che Stalin gli aveva assegnato per il compito svolto e gli onori che avrebbero dovuto essergli tributati. Ma Stalin era morto nel 1953 e quando Mercader era ritornato in URSS erano già passati quattro anni da quel congresso, voluto da Nikita Kruscev (segretario generale del Partito dal 1954 al 1964), che ne aveva rivelato i crimini. E per questo motivo, ignorato ed evitato da tutti, aveva dovuto accontentarsi di una dacia e di una pensione assegnategli dallo Stato, come unica ricompensa dei suoi “servizi”. Dopo aver vissuto nelle vicinanze di Mosca per un decennio si sarebbe trasferito a Cuba nel 1970, dove morì nel 1978 a 65 anni. Ecco il destino dell’”eroe” socialista.

Walter Wetter alzava il suo boccale di birra, quasi vuoto.
«Sai?» diceva. «Adesso brindiamo alla salute di Ramón Mercader».
Wettlich lo guardava. «Perché? È in pericolo?».
Walter Wetter sorrideva malignamente. «Ma no, non quello. Alla salute dell’altro, il vero Ramón Mercader».
Herbert Wettlich, visibilmente, non apprezzava lo scherzo. «E perché, se posso?» chiedeva, con una voce che voleva essere di biasimo.
«Ma perché è un militante esemplare, via!».
E Walter Wetter rideva sinceramente, una grande risata cupa, e a Herbert Wettlich quello scherzo piaceva sempre meno, ed ecco il nostro eroe positivo, pensava Walter Wetter, con una risata sempre più violenta, c’è da chiedersi perché i critici e i teorici della letteratura socialista si siano scervellati così a lungo, eccolo l’eroe positivo, Ramón Mercader del Río, ammesso che sia il suo vero nome, il militante che ha sacrificato tutto alla Causa, e quando dico tutto è tutto, non è una metafora, tutto, sé stesso, e la Causa stessa, tutto sacrificato nel silenzio e nel pubblico ludibrio, e non vale la pena di cercare altrove, signore e signori, eccolo l’eroe positivo, non vale la pena tentare di spingere in primo piano sulla scena letteraria – fedele riflesso socialista di una realtà radiosa – spingere avanti tutti quei trattoristi, quelle esemplari mungitrici di mucche da latte, quei tecnici che nella gioia del pensiero corretto inventano il metodo migliore per fondere i pezzi di una nuova macchina, non vale davvero la pena, parlateci piuttosto di Ramón Mercader del Río, il nostro eroe positivo4.

Per i suoi dubbi e le sue critiche Semprún era stato espulso dal partito spagnolo nel 1965 e, pur continuando a dichiararsi comunista per anni, aveva deciso di non più tacere e trasformare in letteratura ciò che apparentemente avrebbe dovuto appartenere soltanto alla Storia con la s maiuscola. Ricevendo, inevitabilmente, l’ostracismo dall’«Humanité», il quotidiano del Partito comunista francese, al momento dell’uscita di La seconda morte di Ramón Mercader in Francia.

Nel 1979, su insistenza di Leonardo Sciascia, altra splendida figura di intellettuale eretico, sarebbe stata pubblicata in Italia, da Sellerio, l’opera autobiografica che ripercorreva il cammino dell’autore tra le rovine e le menzogne del socialismo reale (e di Santiago Carrillo, storico segretario rigidamente allineato all’URSS del Partito comunista spagnolo): Autobiografia di Federico Sánchez, uscita l’anno prima per le Editions du Seuil, in Francia.

E proprio nelle pagine della Postfazione, Romain Cortés ci aiuta a disvelare il “segreto” della mancata pubblicazione fino ad ora del romanzo di cui si è fin qui parlato, anche se di Semprún in Italia erano già state pubblicate, da Einaudi, altre opere.

In Francia, l’unica critica astiosa al libro venne dal quotidiano «L’Humanité», organo del PCF, il Partito comunista francese […] Si tratta di una posizione minoritaria, come del resto è sempre più calante, come appeal e come voti, il peso culturale e politico di quel partito, sorpreso dal «maggio francese» come dall’invasione della Cecoslovacchia, ancora egemone nella classe operaia, ma non più in quella borghese e intellettuale, costretto di lì a non molto a ritrovarsi come competitor quel François Mitterrand che di fatto rifonda il Partito socialista e lo mette alla guida della sinistra…
Ma in Italia? In Italia il ruolo e il peso del Pci sono ben diversi e la situazione sociale, economica e politica molto più turbolenta di quella francese, dove la contestazione dura appena un mese e per un de Gaulle che se ne va c’è un Pompidou che arriva… Dopo aver espulso, proprio in quel 1969, per «frazionismo» il gruppo del Manifesto, nel 1973 Berlinguer proporrà il «compromesso storico», l’anno prima è saltato per aria l’editore Feltrinelli, c’è già stata piazza Fontana, hanno già fatto la loro comparsa le Brigate rosse, fra «strategia della tensione» e «autunno caldo», hanno insomma preso il via gli «anni di piombo». Il decennio dei Settanta è dunque il meno ideale per un libro che al fondo sostiene che tutto il comunismo non è stato altro che un gigantesco, sanguinoso inganno, che il Partito, con la p maiuscola, è la Burocrazia, non la Rivoluzione, che l’abitudine al bis-pensiero e alla neolingua di orwelliana memoria (anche di questo, criticamente, si parla nel romanzo), è una camicia di Nesso destinata bruciare chi la indossa… E che a dirlo sia uno che continua a definirsi comunista non migliora le cose, ma le peggiora5.

Agli estimatori della buona letteratura, lontana dal mainstream modaiolo e poco interessata alle verità preconfezionate, non resta allora che ringraziare l’editore milanese che, seppur ideologicamente distante dalle posizioni espresse da chi scrive e da Carmilla più in generale, sta però conducendo un ottimo lavoro di riscoperta, traduzione e pubblicazione di testi fino ad ora sconosciuti, o quasi, ai lettori italiani.


  1. R. Cortés, La scrittura e la vita, postfazione a J. Semprún, La seconda morte di Ramón Mercader, Settecolori, Milano 2022, pp. 454-455  

  2. J. Semprún, op. cit., p. 31  

  3. pp. 273-275  

  4. pp. 271-272  

  5. R. Cortés, op. cit., pp.450-451  

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La Controfigura https://www.carmillaonline.com/2015/05/02/la-controfigura-2-eduardo-rozsa/ Sat, 02 May 2015 20:23:08 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21991 di Luisa Catanese 

Seconda parte  [Qui la prima parte]

tumblr_lci97cNbNO1qb0bzxo1_1280Vedo dei corpi nudi, quasi nudi, lordi di sangue, riversi sul pavimento. Eduardo, un irlandese, un magiaro di Romania… Per Eduardo non piango una sola lacrima perché non saprei chi sto piangendo. Ora che sono padre provo a pensare che i suoi genitori sono morti prima di lui: non gli capiterà di leggere e di ascoltare quello che si dice e si scrive di loro figlio. Eduardo Rózsa Flores era un mercenario che voleva uccidere il presidente Evo Morales. Era un neofascista [...]]]> di Luisa Catanese 

Seconda parte 
[Qui la prima parte]

tumblr_lci97cNbNO1qb0bzxo1_1280Vedo dei corpi nudi, quasi nudi, lordi di sangue, riversi sul pavimento. Eduardo, un irlandese, un magiaro di Romania… Per Eduardo non piango una sola lacrima perché non saprei chi sto piangendo. Ora che sono padre provo a pensare che i suoi genitori sono morti prima di lui: non gli capiterà di leggere e di ascoltare quello che si dice e si scrive di loro figlio.
Eduardo Rózsa Flores era un mercenario che voleva uccidere il presidente Evo Morales. Era un neofascista che intendeva promuovere l’insurrezione e la secessione del dipartimento di Santa Cruz, ricco di risorse, dal resto della Bolivia. Dunque, prendo nota: organizzazione di una milizia, repressione dell’esercito statale, intervento straniero, riconoscimento dell’indipendenza o di qualcosa di simile.
Prima di partire per l’America Latina ha rilasciato un’intervista a un giornalista ungherese: affermava di non aver nulla contro Morales, ma che presto sarebbe tornato nel paese natale per organizzare la difesa dall’imminente attacco dell’esercito boliviano.
Su un periodico venezuelano si sostiene che chiunque dipinga Rózsa Flores come fascista è un diffamatore: lui era amico del rivoluzionario, prigioniero politico nelle carceri francesi, Ilich Ramírez. Visto che Ramírez, detto Carlos lo Sciacallo, è un pen-friend del presidente Hugo Chávez, alleato fraterno di Evo Morales, allora Rózsa Flores non può che essere un combattente per la libertà e per la giustizia.
Leggo qua e là che Eduardo Rózsa Flores collaborava con la CIA. Faceva il doppio o magari il triplo gioco. È stato chiamato in Bolivia dalle forze di sicurezza governative per decapitare l’organizzazione dei secessionisti: ha esplosivo che può avergli dato solo l’esercito boliviano. Le forze speciali dell’esercito lo hanno ucciso perché non risultasse che era stato reclutato per colpire affaristi, faccendieri, uomini politici secessionisti.
Era legato a croati di estrema destra, residenti in Bolivia nel dipartimento di Santa Cruz, loschi figuri che trafficano armi e droga. Aveva senza dubbio legami stretti con riviste di destra e collaborava con Jobbik, partito di estrema destra ungherese, che pare non disdegni di essere finanziato da potenze straniere del Vicino e Medio Oriente e da gruppi dell’Islam radicale.
Dai magiari più nazi, che per qualche tempo forse lo hanno considerato un camerata o un possibile alleato, ora viene giudicato un ebreo, un falso eroe, un agente bisessuale del Mossad, infiltrato nella destra ungherese.
C’è l’imbarazzo della scelta, insomma. Era uno psicopatico, uno Zelig nazionalista alla ricerca del pericolo per farsi di adrenalina e morire come un Che Guevara? No, dice qualcuno, era un impulsivo che si butta generosamente nella mischia senza riflettere: uno che ha tutti i pezzi del mosaico in tasca, ma li ricompone troppo in fretta e male. Lo possiamo dunque immaginare come una creatura di laboratorio, fuggita dalle gabbie del socialismo autoritario, una chimera che cuciva insieme le membra del cane da guerra e del capro espiatorio? No, assicura un altro, aveva un progetto chiaro. Era un musulmano sincero, la cui memoria viene infangata: un combattente internazionalista dell’Islam politico, vittima di un complotto.
Vedo dei corpi nudi, quasi nudi, lordi di sangue, riversi sul pavimento. Eduardo, un irlandese, un magiaro di Romania. Vedo altri due uomini, vivi, un croato e un ungherese, che presto saranno chiusi nelle galere della Bolivia: sono incappucciati, in ginocchio, la schiena nuda, segnata. Vedo Eduardo che abbraccia i suoi commilitoni, che ancora ride, che mostra all’obiettivo pistole e munizioni disposte su un tavolo. Lo vedo mentre finge di dormire tra due armi automatiche, con la testa su un guanciale e la mano sinistra poggiata sulla pancia, coperto solo da un lenzuolo che lascia in mostra la maggior parte del suo corpo tarchiato, pesante. Vedo le foto del suo cadavere supino: addosso ha un orologio e un braccialetto di corda sottile, un tatuaggio sulla spalla sinistra, un altro più piccolo sulla spalla destra, i fori delle pallottole. Lo zigomo destro è livido e lacerato, la fronte e il naso sembrano contusi. Tanto sangue rappreso a terra, tra il corpo e il pavimento.
«L’obiettivo del fotografo è dalla parte della testa. Il corpo è disteso e preme lungo una cassettiera. L’avambraccio destro è sollevato da terra, il polso è piegato; le nocche, il pugno semiaperto poggiano sulla parte bassa del torace. Il braccio sinistro, che preme contro la cassettiera, attraversa il petto. C’è un cassetto aperto che pende sul corpo. Non si capisce da dove venga questo cassetto. Sembra che lo abbiano aperto per sostenere uno di quei cartoncini gialli che si mettono sulla scena del delitto. Sul cadavere c’è questo cartoncino giallo e sopra è scritto il numero uno. Il cartoncino poggia sul cassetto e sulla pancia. I genitali e l’ombelico sono coperti dal cartoncino. I capezzoli sono coperti dal braccio sinistro. C’è qualcosa che vela un angolo della foto e la parte superiore della testa, dove i capelli sono più radi».
«L’hanno ucciso senza troppi complimenti, ma sembra che abbia approvato la sceneggiatura. Se è una fiction, dobbiamo aspettarci di rivederlo ancora vivo».
«Nato e morto a Santa Cruz. Ucciso in Bolivia come Che Guevara. Forse tradito. Eroe e vittima… Lo devo dire a Daniele».
«Credi che volesse morire così?»
«Ho trovato l’intervista a un uomo e a una donna ungherese. Sono presentati come il miglior amico e la fidanzata. L’amicizia risale al 1998. Invece con la fidanzata stava insieme da tre o quattro anni. Si erano conosciuti in un parco di Budapest, dove portavano il cane; ma non ci abitavano più a Budapest, si erano trasferiti in una cittadina di campagna. Ho visto la foto della donna. Sullo sfondo c’era un orto».
«Viene fuori qualcosa?»
«L’amico conferma la versione di Eduardo. Quello che dice nell’intervista rilasciata prima di partire: io non ce l’ho con Evo Morales, vado là per difendere Santa Cruz dall’esercito. L’amico dice che Eduardo alle elezioni stava dalla parte di Morales: un indigeno, una bella novità per la Bolivia eccetera eccetera. Ma poi la novità indigena in pochi mesi diventa il rischio di una dittatura ed Eduardo Rozsa Flores doveva salvare la patria, che non è più l’intera Bolivia ma solo il dipartimento di Santa Cruz. Poi va a Santa Cruz e la situazione non è quella che si aspettava…»
«Lo dice questo fantomatico amico? Che cosa vuol dire?»
«Io ti riferisco che il giornalista dice che l’amico magiaro dice che Eduardo diceva… Eduardo si aspettava un’altra situazione. La situazione in cui si trovava era diversa da quella per cui si era preparato un piano. Non lo so, troppo fumo, contraddizioni, ingenuità poco credibili. La fidanzata sostiene che Eduardo non apprezzava la vicinanza tra Morales e Chávez. Però, sei mesi prima che l’uccidano, Eduardo viene intervistato da un venezuelano, vicino a Chávez, nonché ammiratore di Ilich Ramírez, lo Sciacallo, che come sai era una vecchia conoscenza di Eduardo. L’intervistatore chiede a Eduardo: che cosa ne pensi della fase politica, cioè di Hugo Chávez? Eduardo ci gira un po’ intorno, non si sbilancia sulla politica interna venezuelana: la butta sulla fratellanza e l’avvenire dei popoli dell’America Latina, un continente attraversato da un vento di rinnovamento. Poi, però, dice chiaramente di apprezzare la politica estera di Chávez: Palestina, Iran… Non te la faccio lunga. Esiste forse una coerenza nascosta, un filo di qualche colore che tiene unite le toppe. Però Eduardo continua a cantarla in modo un po’ diverso secondo il pubblico… Uno che è fuggito da un paio di golpe in Sud America, che ha servito l’esercito nel Patto di Varsavia, pensa che Evo Morales aspiri alla dittatura? A me sembra ridicolo, assurdo, o almeno molto strano. Forse sono io superficiale. Secondo la fidanzata, Eduardo in Croazia formò la sua brigata internazionale per proteggere gli inviati di guerra, dopo che alcuni giornalisti stranieri erano stati uccisi».
«Era una donna nei secoli fedele. Pensi che sia davvero così ingenua?»
«Il busto di Stalin, che teneva in camera da letto, era stato ricollocato nel giardino di casa loro. Ci aveva scritto sotto: “Vomitate qui”. E quando c’era una festa, gli invitati sbronzi potevano vomitare in faccia a Stalin».
«Ha mai detto una sola volta: io ho sbagliato?»
«Ogni volta dissimula qualcosa. Vuole eliminare le contraddizioni. Forse il busto di Stalin, quando abitava coi genitori, lo teneva in camera per fare un dispetto al padre. O magari gli cambiava di posto, secondo l’ospite… Dopo essere stato in Russia alla scuola del KGB, ha un’illuminazione: “Mi resi conto che tutto era puro teatro, parole vuote, che non significavano nulla”. L’ho trascritto da un’intervista recente. Però a quei tempi continuava a lavorare per i servizi segreti ungheresi. E allora non si capisce bene cosa fossero questo “puro teatro” e queste “parole vuote”. Il teatro gli piaceva moltissimo. E non era solo teatro: la guerra e la polizia segreta le sapevano fare bene. Lui partecipava e ha imparato. Nel regime ci stava di casa, come soldato, come agente segreto».
«Lì non preparava insurrezioni».
«Forse sì, in Romania, per la minoranza magiara. Ma siamo già in un romanzo… In Ungheria non credo, ma a questo punto… Daniele si ricorda che diceva parole di ammirazione per János Kádár, che ha governato l’Ungheria per decenni. Ci indicava la casa. Lo stimava. Forse era riconoscenza…»
«Le parole vuote che sentiva a Mosca potevano essere uguaglianza, proletariato, internazionalismo. Doveva trovarle così vuote che, per dare sostanza al suo teatro, e a se stesso, e forse anche alla sua vaga idea di giustizia, poi ha riempito gli stampi col materiale che trovava per strada».
«La sua idea di autodeterminazione, applicata alla realtà, sembra una versione di destra del frazionismo dell’estrema sinistra. I suoi amici negano che lo facesse per soldi. Ho provato a scrivere su un foglio tutte le definizioni, oltre a mercenario, che mi venivano in mente o che trovavo scritte su di lui. Sei pronta? Islamista rivoluzionario, anti-imperialista e anti-capitalista, ma disposto ad alleanze tattiche con chiunque, con nazionalisti o con potenze locali e mondiali; sovranista, giustizialista, rossobruno, montonero di religione islamica; socialfascista, neofascista, socialista nazionale o, se preferisci, nazional-socialista delle piccole patrie; autonomista differenzialista; nazionalista antiautoritario, anarconazionalista, etnoinsurrezionalista…»
«Basta anche meno».
«Potrei continuare. È più utile rintracciare le contraddizioni, le continuità…»
«Stava nella corrente. Voleva partecipare, ma voleva ancora di più essere un protagonista. Si adeguava ai luoghi e ai tempi, ma non faceva autocritica. Nascondeva le contraddizioni, sbianchettava una parte del suo passato. Le cancellature, gli errori non si dovevano vedere. Desiderava sentirsi al centro del mondo. Aveva un ego smisurato».
«Mostra una vocazione religiosa, missionaria, umanitaria: si converte a ogni cambio di stagione, dopo la caduta di Saddam Hussein si propone come mediatore o come portavoce del governo provvisorio dell’Iraq, porta aiuti umanitari in Sudan e in Indonesia, muore come un martire a Santa Cruz».
«Non poteva scegliere un luogo migliore».
«Rozsa e Croce… Opus Dei, Rosa e Croce. E nel 2007 ha scritto versi sufi in ungherese».
«Già su questo si potrebbe scrivere un romanzo».
«Ma ha un’altra vocazione, forse più sincera, o forse no, per le armi e la guerra. Per lui la lotta di classe era diventata una di quelle parole vuote. Alla fine degli anni Ottanta le minoranze nazionali gli sembrano più tangibili, più disponibili, più facili della lotta di classe».
«Sembra che il conflitto non possa essere altro che lotta armata, guerra di soldati. Guerra tra popoli; mai lotta di proletari, operai, scioperi, movimenti. Mai movimenti di donne. Un affare di maschi armati che si mettono in posa per un film o per una foto, a quanto vedo. Uomini che spargono sangue per spartirsi la Terra. Non mi hai parlato quasi mai di donne. C’era la madre ed è morta. Mi hai raccontato che aveva qualche storia…»
«Delle hostess. Me l’ha ricordato Daniele».
«C’è l’ultima fidanzata che ripete quello che lui dice, e forse ci crede. Dove sono i proletari? Dove sono le donne? Nella sua vita, nella Storia…»
Le donne nella sua vita, nella Storia… Durante il viaggio in Europa, mentre Daniele riusciva a trovare il tempo per leggere qualche pagina in francese del saggio De l’amour, il suo balordo compagno di stanza, che si sentiva in dovere di conoscere molte ragazze, prima di uscir la sera trovava giusto il tempo per lavarsi e cambiare la biancheria. Avremmo incontrato, conosciuto, parlato, solo parlato, con parecchie ragazze ma non a Budapest.
«No, compañera. Le donne in lotta non stavano nel fascio di luce… Era fidanzato. Lei dice che si sarebbero sposati presto».
«Che poi fosse bisessuale o no non cambia niente. Sui diritti dei gay scommetto che la pensava più o meno come il collega Vladimir Putin. Direi che gli piacevano le persone che affascinava, che accettavano la sua autorità».
«Una donna c’è: sua sorella ***. Io e Daniele non l’abbiamo incontrata perché non era a Budapest. È l’unica rimasta della sua famiglia».
«Già, me l’avevi detto».
«In un’intervista viene fuori che il fratello con le sue donne era un po’ despota. Dice che la relazione più lunga era stata con una chica russa che lo avrebbe definito l’uomo della sua vita. Non so se questa ragazza esiste. Mi pare che a Budapest lui frequentasse un’ungherese. Non era la chica russa di cui parla la sorella. Noi non le abbiamo mai viste. In un parco una sera ci ha presentato un paio di ragazze. Non abbiamo fatto a tempo nemmeno a dire due parole».
«La sorella esiste, però».
«Dirige il Museo di Arte contemporanea a Santa Cruz. In quel museo ci sono anche i quadri del padre».
«Dunque, esiste. Ormai esiste più del fratello».
«Nel film su Eduardo lei non esiste. Il protagonista non ha una sorella».

Verosimile ma falso. Inverosimile ma vero. Ogni verità sembra parte di una menzogna, dice Luisa. Ogni scelta sembra sfuggire a una strategia chiara.
Dovrei prendermi la briga di cercare i suoi libri, i suoi articoli in ungherese. C’era un ragazzo di Napoli o di Salerno che avevo conosciuto in sala studio… Ha vissuto per anni in Ungheria, e chissà dove abita ora: lui potrebbe aiutarmi a tradurre, se trovassi il suo indirizzo, se ricordassi ancora il suo cognome. L’ho rivisto per caso una volta che passava a Bologna; gli ho chiesto se conosceva il nome di Eduardo, che ancora era vivo, e gliel’ho ripetuto tre volte, ma lui niente, mai sentito. Avevo scritto l’indirizzo su un biglietto che ho infilato nel portafoglio, che poi ho svuotato in un cassetto, che poi ho riversato in uno scatolone prima del trasloco… Tre scatoloni sono ancora chiusi, in cantina. La carta è più difficile da falsificare. Le enciclopedie online vengono continuamente modificate. Di Eduardo ci sono poesie, memorie, scritti politici, articoli sui giornali. È tutto una menzogna, un alibi? Devo mettere tra parentesi le sue imprese in Croazia e i suoi rapporti con l’estrema destra ungherese. Provo a prendere sul serio le sue parole.
«L’immoralità, la menzogna, i crimini commessi in nome del “socialismo reale” sono imperdonabili. Bisogna usare molto detersivo per lavare questa ignominia. Ti parlo della realtà, non delle idee. Non della necessità, che davvero esiste, di costruire una società più giusta. Bisogna in primo luogo tenere in considerazione i veri desideri del popolo. Ciò che facciamo non è contro ma per il popolo, nell’interesse delle nostre nazioni. Imparai a odiare le famigerate élite del campo socialista per un semplice motivo: questi miserabili erano più interessati, anzi, erano interessati solo a restare al potere, con i loro privilegi, coi loro vantaggi. Per loro il “socialismo” era solo una copertura, che non aveva nulla a che fare con ciò che in basso, il popolo, sentiva e desiderava. Sono arrivato alla conclusione che non si può parlare di socialismo né realizzarlo se non si rispettano pienamente la libertà e il diritto all’autodeterminazione, sia degli individui che compongono la società, sia dei popoli e delle nazioni. Se no che cosa ci distingue da quelli che diciamo di odiare, se commettiamo i loro stessi errori, i loro stessi crimini. Una cosa è prendere il potere, con o senza armi, imporre una direzione, innescare un processo. Ma più tardi non è possibile prendere tutte le decisioni, necessarie o no, al posto del popolo, per cui abbiamo preso il potere o fatto la rivoluzione o vinto una guerra di indipendenza. Per questo ritengo che uno degli esempi più validi sia quello della Rivoluzione sandinista in tutto il suo sviluppo… Nessuno ha il diritto di soppiantare il popolo. Noi siamo servi, impiegati, schiavi di una causa, e non abbiamo più diritti degli altri. Sulle nostre spalle abbiamo doveri, compiti da adempiere».
Lo pubblica il 31 ottobre e muore ucciso il 19 aprile, in compagnia di un contractor irlandese e di un magiaro transilvano di estrema destra, che cantava e scriveva canzoni.
Bisogna usare molto detersivo per lavare questa ignominia, diceva. Bisogna lavare l’ignominia del passato con un sapone nero, esfoliante. Sapone di Croazia, abluzioni rituali, candeggina Jobbik.
Per loro il socialismo era solo una copertura. I veri desideri del popolo. Nell’interesse delle nostre nazioni.
Quali desideri? Quali nazioni? Quanti desideri, quante nazioni? Bisogna dividere chi canta la ninna nanna in serbo-croato da chi la canta in croato-serbo. I bambini potrebbero confondersi. Gli altri fanno il segno della croce al contrario. Chi vuole ricevere una cartolina in cirillico sta da una parte, chi la desidera in alfabeto latino dall’altra. Quali desideri del popolo? I desideri del popolo prima di colazione o dopo cena? Quale popolo? Il popolo del dipartimento, della provincia, del comune, del quartiere, del condominio… I desideri di un imprenditore sono i desideri del popolo? Sono legali o illegali questi desideri? Per quanto tempo? Quanti giorni prima e quanti giorni dopo aver votato a un referendum o alle elezioni?
Il popolo desidera servire chi parla e prega in dialetto. Non vede l’ora di lavorare per i capaci e i meritevoli della sua piccola grande patria. Equilibrismo, stare a galla, volontà di emergere, cavalcare la tigre. Dal piccolo padre alla piccola patria. Dalla periferia bisogna tornare in centro; poi ci ritiriamo in campagna a coltivare l’orto; e finalmente vai a morire ammazzato sotto la Santa Croce materna. Voleva essere ricordato. Era un protagonista secondario. Ha vissuto molte vite, una vita romanzesca. Ha giocato su più tavoli. Tutte le nazioni giocano lo stesso gioco? Un’alleanza tra una parte dell’islamismo radicale e movimenti nazionalisti di destra contro il nemico. Contro il capitalismo globale, contro l’impero, contro gli imperi? Cerca alleati per combattere il nemico, ma come fa a invitare tutti gli amici al compleanno? Alle feste beveva alcolici? E durante il Ramadan? Perché combatte contro Morales? È troppo moderato, troppo pacifico, troppo indio? Neanche la socialdemocrazia della Svezia era abbastanza eroica. Il presidente indio pianifica di segregare, deculturare, sbattezzare, sterilizzare, drogare, umiliare, sfruttare, torturare, incarcerare, tassare i borghesi cattolici bianchi di Santa Cruz? Chi è questo imprenditore boliviano di destra, questo Branko Marinkovic Jovicevic, figlio di un croato, che vuole la secessione?
Poniamo che Eduardo non fosse in Bolivia per assassinare Morales. Mettiamo che non volesse uccidere qualche notabile locale, a destra o a manca, perché si gridasse al lupo, per giustificare una secessione, per rendere vero il risultato di un referendum ritenuto illegale. Lo hanno ucciso senza armi in pugno, senza processo. E forse lo hanno anche torturato. Ma non riesco, Luisa, a trovare una ragione per il resto. Non riesco a trovare una sola ragione per riabilitarlo, giustificarlo, scagionarlo… Per riconoscerlo come un amico, per perdonargli di avere assunto le sembianze e il ruolo di un nemico. Questo non è un gulag. Qui dentro lo giudico. Voglio e posso confrontare quello che dice con quello che fa, quello che fa oggi con quello che faceva ieri, quello che dice a te con quello che dice a un altro, quello che fa con uno con quello che fa con un altro, quello che dice e fa con i risultati che si producono nel mondo… Perché organizzare una milizia contro il governo boliviano? Infuriava la repressione? Perché favorire una cricca di proprietari bianchi avversi al presidente indio, eletto e confermato dal voto? Perché una faccia nota, un nome noto, uno come Eduardo che scrive e parla volentieri, che si fa notare in mille modi, dovrebbe riuscire a giocare alla guerra senza pagarne il prezzo? Perché sta in posa sul letto di un albergo di non so dove fingendo di dormire tra due armi automatiche? Perché parte in quarta, perché si gingilla con le armi, perché rischia di innescare una guerra civile, la secessione di una regione che non è colonizzata, che non è davvero assediata dall’esercito, che non subisce un’oppressione razzista o di classe?
Volevi evitare che Santa Cruz fosse schiacciata dalle forze armate boliviane? Non mi pare che sia successo. Sulla tua lapide qualcuno potrà scrivere le parole vittima, eroe, sacrificio. Col tuo sacrificio hai impedito che l’esercito della Bolivia mettesse a ferro e fuoco la tua città natale o con la tua morte hai legittimato l’invio di forze militari nella regione? Hai giustificato e favorito, in forma più blanda, quello che ritenevi una minaccia? Hai sventato un complotto contro Morales? Hai aiutato il governo a sgominare una banda di affaristi che volevano la secessione?
Ho letto che negli ultimi anni Evo Morales ha aumentato il suo consenso nel dipartimento di Santa Cruz. Sono ignorante, vivo a migliaia di chilometri. Sono un moralista ottuso. Mi hai fatto bere champagne a digiuno. Mentre ero nudo in un bagno turco, mi hai detto: «No, non credo che siamo pronti per la democrazia: io sono per la monarchia costituzionale».
Vuoi cambiare idea? Ne hai diritto, compagno post-stalinista. Ma prima di passare al nazionalismo del popolo grasso devi chiedere scusa. A qualcuno devi chiedere scusa. Devi chiedere scusa anche a me.

Lo hanno ucciso. Non posso testimoniare che le teste di cuoio lo abbiano torturato. Sulle schiene dei due che sono ancora vivi qualcuno riesce a distinguere segni che i miei occhi non riescono a vedere. Sono quasi sicuro: lo hanno ucciso mentre era disarmato. Forse li hanno lasciati morire dissanguati. La porta è sfondata, il camerata irlandese è a terra bocconi. Si intravede un tatuaggio sull’omero sinistro, il grande letto è disfatto, da una grande borsa fiorisce una sporta di plastica bianca. Il frigo bar è aperto, il televisore che guarda verso i letti è al suo posto, intatto. L’irlandese è morto tra il televisore e il letto. Due sedie stanno attorno a un piccolo tavolo tondo, la camicia di Eduardo è poggiata sullo schienale di una sedia, un’altra camicia sull’altro schienale.
Ecco l’obitorio. Ci sono tre corpi distesi su tre tavoli. Uno, due, tre teste a destra. Tre corpi su tovaglie che sono buste di plastica grigia. Oltre i cadaveri c’è una finestra, piastrelle bianche. Dalla parte dei piedi, in un angolo, appeso alla parete, c’è un tubo di gomma arrotolato. Ci lavano i pavimenti e tutto quello che si può lavare. L’acqua e il sangue escono da un tombino, come in una grande doccia. La luce al neon viene dall’alto. Un uomo canuto, calvo, capelli corti, grandi occhiali, vestito di bianco, guarda Eduardo in faccia. Sul petto del morto è posato qualcosa che somiglia a un piccolo sacco di carta marrone. Il torace dell’irlandese è ancora sporco di sangue. Il mento è alto, la bocca semiaperta. Il terzo cadavere, vicino alla finestra, ha la testa reclinata verso sinistra, le braccia rigide, gli avambracci sollevati. Sembra che i polsi siano legati.
Ti rivedo su un tavolo. La luce è diversa. Ti guardiamo da sopra la testa. Ti tocca un guanto che riveste la mano sinistra di una donna. La mano poggia, copre il pettorale destro. Il corpo è pulito; i capelli corti, radi, sono ancora bagnati. Non saprei dire se quelli che vedo sono i fori di sette pallottole. Un colpo, una ferita, una bruciatura è vicina alla clavicola. Sembra piovuta dall’alto. Ne ho abbastanza. Se gli sbirri boliviani sono cattivi, voi tre mi piacete ancora meno. Non lo so, non me ne intendo, non sono un medico legale, ho la nausea.
L’irlandese è stravolto; tu invece hai la faccia serena, quasi sorridi. Si dice spesso: sembra che dorma. Ti hanno ricomposto il viso, ti hanno lavato. Ti hanno portato fuori dall’albergo. Qualcuno, immagino, ha riconosciuto il tuo cadavere. Eri davvero tu il parassita inquieto che sommuoveva il sacco sigillato di finta pelle?
«Aveva pubblicato questa intervista, nel suo blog, sei mesi prima di morire in Bolivia. Qui, leggi tu dallo spagnolo, dichiara di apprezzare la Rivoluzione sandinista. In tutto il suo sviluppo, dice. Direi che si riferisce al sandinismo fino a oggi… Esiste l’Alleanza bolivariana per l’America Latina. Nicaragua, Bolivia, Venezuela, Cuba, quando è stato ucciso, erano già alleati. Perché lui dovrebbe andare a uccidere Morales? Perché dovrebbe favorire la secessione del dipartimento di Santa Cruz? Se si prendono sul serio le sue parole, queste sue parole… Forse non dovrei prenderlo troppo sul serio. A volte immagino, non ci credo, non sono così matto, ma immagino che sia vivo da qualche parte. E mi viene da pensare al Nicaragua. Forse c’è stato negli anni Ottanta. Prima di te. Era un militare. Un giornalista italiano scrive che gli mostrò una foto, un ritaglio di giornale, in cui Eduardo, con occhiali da sole, col kalashnikov in mano, stava dietro a Daniel Ortega…»
«È possibile. Quando i paesi socialisti europei rifornivano di armi i paesi fratelli, c’erano degli esperti che accompagnavano la spedizione…».
«Eduardo diceva che l’uomo della foto non era lui. Era un sosia. Penso che sia vero in ogni caso. Lui è stato più volte il sosia di se stesso… Mi viene da pensare che in Nicaragua vive un sosia di Eduardo che forse è Eduardo. Me lo immagino su una spiaggia. Non so se gli piacesse il mare. Gli piacevano i bagni turchi, le saune e le piscine. E senz’altro gli piaceva tenere pochi vestiti addosso. Tu, Giorgio, vorrei che mi dicessi se c’è un posto in Nicaragua dove ti saresti rifugiato, per viverci, per nasconderti».
«A Casares, all’hotel El Casino. Era una vecchia costruzione in legno, stile coloniale: un enorme patio interno, dove si mangiava, e tutte le stanze al piano di sopra… Tra una stanza e l’altra c’erano solo divisori: i letti, i rumori, gli odori, ogni cosa sotto lo stesso grande soffitto, e anche i pipistrelli che volavano dentro. Ai piedi dei letti c’era la polverina gialla contro le zecche. Sembrava di tornare indietro di un secolo. Ricordo che servivano le langostas tamaño familiar. Ogni tanto si sentiva ovunque un sibilo, più che altro un acuto. Annunciava l’ennesima aragosta che finiva viva nella pentola dell’acqua bollente di Doña Florinda, che poi morí sotto le macerie del suo hotel. E poi si digeriva con la solita media de Flor de Caña 7 años… El Casino fu distrutto dal maremoto del 1992. Sì, sul Pacifico. L’hanno ricostruito…»
«Forse un giorno mi arriverà una cartolina dal Nicaragua».

Ogni verità sembra parte di una menzogna, dice Luisa. Ogni sua scelta sembra sfuggire a una strategia univoca: «C’è chi ritiene che ci siano strategie senza stratega. Alcuni strateghi possono essere piccoli azionisti di una strategia più grande. Chi possiede quote di una piccola strategia, che controlla a sua volta quote minoritarie di una strategia più grande, si accontenta di piccoli guadagni, strategici per lui ma solo tattici per la strategia più grande. Molti possiedono quote di una strategia, ma ignorano o non si preoccupano di sapere che questa detiene un pacchetto di azioni di un’altra».
Per moltiplicare le trame, per evocare teorie più o meno fondate, per fornire materiale a parecchi libri e fiction televisive, mi bastava andare a cercare fra le vecchie lettere, disseppellire agende, quaderni impalliditi in un cassetto.

89 dic. Budapest
Caro Alberto!
Auguri por Natale 1989
e felicita e succesi per
il nuovo anno 1990!
affetuosi abbracci
tuo
Eduardo Rózsa

Mi scriveva questa cartolina, chiusa in una busta, forse pochi giorni prima della fucilazione del dittatore rumeno Ceaușescu. Non trovavo più l’involucro, ma la cartolina, che al posto del mio indirizzo recava una faccina sorridente, doveva essere arrivata in una busta affrancata.
Tra la rivolta di Timisoara, la sollevazione popolare nella capitale della Romania e finalmente l’uccisione del tiranno, voluta da un’ampia fazione del partito comunista rumeno, passarono meno di dieci giorni. La scintilla della rivolta di Timisoara era stata la repressione poliziesca contro László Tőkés, un pastore protestante, un cittadino rumeno della minoranza ungherese, che dal 2007 siede nel Parlamento europeo.
Eduardo conosceva certamente László Tőkés, forse ce ne aveva anche parlato. Non posso sapere se avesse contatti con lui, se il pastore fosse un agente segreto ungherese, come oggi in Romania qualcuno si permette di dire. Non so se Eduardo fosse andato in quel periodo a trovarlo, quale sia stata la rilevanza dell’azione di Eduardo in quegli anni, se Eduardo lo abbia incontrato in quei giorni o in altre occasioni. Immagino che fosse una impresa difficile, rischiosa, magari superflua… Quella cartolina così buffa, tenera, innocente, scritta a penna rossa, su cui Eduardo aveva disegnato una faccina tonda, allegra, rubiconda, quella cartolina che a gennaio del 1990 mi aveva fatto sorridere, dopo più di vent’anni, ora che mi fermavo a osservare sull’altra facciata l’immagine spettrale, invernale, notturna – il disegno di una casa, la finestra sbarrata, accesa tra due grandi alberi spogli – quella cartolina mi ricordava il giorno, l’assemblea in cui l’avevo conosciuto e avevo ascoltato per la prima volta la sua denuncia della persecuzione di una minoranza etnica, la sua difesa dei magiari della Romania.
Lungo questo filo – un filo che avevo toccato, che avevo intercettato per caso, un filo che era mio, che avevo afferrato perché non ne avevo altri, perché a Eduardo arrivai così – lungo questo filo forse si collegavano, si traducevano, si scaricavano, fluivano l’uno nell’altro il prima e il dopo, il comunista, che oltre frontiera difendeva un’immagine violata del se stesso ungherese, e il nazionalista, un nazionalista ubiquo, che si separa da una potestà considerata, sentita come illegittima. Era una vicenda per certi versi simile a quella di molti attori, grandi e piccoli, del socialismo reale: ceto politico, burocrazie, militari, agenti segreti, che si erano convertiti, se si trattava di conversione, in apparenza senza trauma e tormenti interiori, talora al mercato e a interessi privati non sempre legali, talora invece al nazionalismo separatista, allo stato etnico, allo sciovinismo e alla geopolitica. Eduardo forse si era preso qualche rischio in più, dava l’impressione di svolte più inspiegabili, radicali, individuali. Ma era davvero così? Nel primo Eduardo, che difendeva i magiari rumeni dal dittatore della Romania, non si trovava già una prefigurazione dell’Eduardo futuro?
Eduardo forse era andato in Croazia per vigilare sulle frontiere di una Grande Ungheria certo defunta, sepolta, immaginaria, ma che si doveva inventare di nuovo, che poteva rinascere solo trasfigurata. La Slavonia, la regione della Croazia dove Eduardo aveva combattuto per la secessione dalla Iugoslavia, confinava con l’Ungheria. La Croazia e l’Ungheria, come l’Austria, dove Eduardo si era affiliato all’Opus Dei, dovevano tornare a essere delle nazioni cattoliche. La Croazia, una Croazia alleata, più centro-europea e meno ingombrante della Iugoslavia, era una via d’accesso al Mediterraneo per uno stato come l’Ungheria che poteva sporgersi fino al mare solo attraverso il lungo corso tortuoso del Danubio. I reduci della Guerra d’indipendenza croata avrebbero potuto seguirlo in altre imprese. La conversione all’Islam poteva servire a creare prossimità, amicizie, alleanze, magari a collegare nuovi oleodotti, con stati dell’Asia ricchi di petrolio. La missione in Bolivia, a favore dei separatisti o anche dei loro nemici bolivariani, poteva rientrare nella stessa strategia di conquista delle risorse energetiche fossili.
Dio, petrolio, patria, famiglia… L’origine è la meta. In Bolivia Eduardo doveva lacerare ma allo stesso tempo ricucire la propria intimità, doveva riparare l’ordine corrotto da quel padre che soltanto dopo il matrimonio aveva confessato alla madre di essere comunista ed ebreo. La leale, la fedele, la cattolica Nelly Flores Arias aveva amato il comunista György Rózsa. La madre non aveva accettato, come il marito le suggeriva, di rifugiarsi con i figli a Panama: aveva scelto di non allentare i vincoli della famiglia, aveva deciso di rimanere sempre al fianco del marito, di abbandonare la patria per seguirlo in Cile, in Svezia, in Ungheria…
Qui potrebbe iniziare la storia di Eduardo in un universo possibile che assomiglia abbastanza a quello in cui viviamo.
Troppo, troppo in fretta. Eccessivo come Eduardo György Rózsa Flores. Devi diffidare del troppo, ma non sai di quale eccesso si tratti. Diffida delle storie troppo chiuse e complete; di quelle troppo piene; di quelle troppo romanzesche. Dovresti trovare il tempo, il coraggio di parlarne con la sorella di Eduardo. Dovresti parlarne con Eduardo, che forse ora è vivo in Nicaragua, in Iran… Per le strade di Budapest, sul filobus o sul tram, ma per questo sarebbe meglio chiedere conferma alla memoria di Daniele, Eduardo ci diceva che Il fu Mattia Pascal era il suo romanzo italiano preferito. E ora lui è libero dal passato, si è separato da quell’identità troppo faticosa.
Voleva chiudere il libro, uscire dal romanzo. La serie era troppo lunga, poco credibile. Voleva una vita nuova, nuda, senza peso. Voleva smettere.
Nell’isola, su una spiaggia del Pacifico, Eduardo ha trovato la pace, un Venerdì lo ha rieducato a uno stato di natura vero, riposante come la morte. Le cellule si disgregano, i liquidi fluiscono, impastano la terra, gli atomi di carbonio viaggiano tra genti e mari oltre ogni frontiera. Il conflitto è nella storia, nella natura, ovunque: non dico la guerra ma il conflitto sì. Gli interessavano i conflitti tra nazioni, dice Luisa, non i conflitti di classe e di genere, che così allo stato puro, fuori dalla mente, se sei privilegiato, spesso si faticano a vedere, richiedono discrezione, autocritica più che armi, risvegliano contraddizioni che lacerano gli individui, le famiglie ma non i territori, non sempre i corpi. Non guerre tra stati; lui voleva guerre di popolo che fondano nuovi stati, spezzando quelli vecchi. Guerre per affrontare i piccoli tiranni senza decapitare la sua piccolissima tirannia.
Volevi essere un capo. Fare quel cazzo che ti pare con il silenzio assenso degli Ordini superiori, con il beneplacito del Capo supremo: Dio, la dura Necessità, il grande Alleato, la Nazione, i veri desideri del Popolo… Purché si mantenga un privilegio, un capitale di prestigio, una patente di ribelle che sa adattarsi all’ordine mondiale.
I conflitti ti andavano bene se potevi essere un eroe. Uno dei tanti non ti accontentavi di essere. Perché quelle tre ragazze italiane se la prendono con il tipo che interviene all’assemblea? Solo perché porta una maglietta su cui sono disegnate cosce e reggicalze? Per il tono arrogante? Per la mascella? Per quello che dice? Lasciatelo parlare, su ragazze, fate le brave. Non è il caso di contestare il Rettore. Ci ha invitati in gita fino a qui, ci ospita a casa sua, questa sera siamo in vacanza. Operai, donne, fabbrichette occupate, centri sociali, giovinastri dei collettivi, gruppetti di femministe, volantini di due cartelle, riunioni in ritardo, contestazioni isteriche, cortei di studenti, conflitti di classe palesi e occulti, reduci irriducibili, assemblee fumose, precari, anarchici, anarcoidi, sindacati di base, occupanti di case, gruppi di autocoscienza, frocie in movimento, antagonisti… Siete fuori dalla vera storia. C’è qualcuno che oserebbe darti torto? Avresti dovuto restare confuso fra tanti; e tanti, per te che sei una moltitudine, sono sempre troppi. Non ti potevamo assoldare in una guerra seria. Conflitti disarmati, scioperi selvaggi, vetrine infrante ma assicurate, calci negli stinchi, manganellate, sputi vaganti, slogan, balletti, qualche sasso, lividi, nasi rotti, picchetti, qualche anno di carcere, rarissimi i morti. Niente di più. Solo guerricciole senza armi automatiche. E tu eri un soldato. Eri un soldato a cui l’esercito regolare andava stretto. «Niente di più noioso che fare il soldato in tempo di pace», dicevi. E allora meglio servire in segreto, nei sotterranei, per poi uscire a combattere le guerre che ci sono e magari quelle da inventare.
A Budapest guardavo le vetrine dei negozi, che in Italia non mi interessavano più; annotavo il salario di un operaio, il costo di un’automobile. Ti chiedevo: «Gli appartamenti di quei palazzoni quanto sono grandi? Quanta gente ci abita?» Tu sorridevi, non sapevi rispondere alle mie domande filistee, e io mi giustificavo in modo maldestro, o forse con ironia, ormai chi può dirlo: «Sai, per noi, in Occidente, la casa in cui vivi è importante».
Ero un ragazzo cresciuto lontano dalla guerra. Nella mia città poteva scoppiare una bomba alla stazione, una banda di poliziotti poteva rapinare e uccidere per anni, ma niente di più. Contraddizioni, conflitti, violenze alla periferia della storia: l’ombra di un colpo di stato, la mafia, qualche omicidio politico, ma lontano dalle grandi e piccole guerre tra stati. Fin da bambino vedevo la guerra al cinema, alla tivù, nei libri illustrati, la ascoltavo nei racconti degli antenati: guerre lontane come il Vietnam e la Linea Gotica, come l’invasione degli alieni, come la fine del mondo civile dopo una guerra con armi nucleari.
«Ricordo che in pullman, mentre si andava a San Leo dal Rettore, qualcuno cantava. Lui si buttava sempre nella mischia. Stava in piedi in coda al pullman: cantava, rideva, raccontava barzellette. Si cantava di tutto. Un festival della prima stronzata che ti viene in mente. A me, con un faccia giuliva, uscì fuori: dai, cantiamo anche gli inni nazionali degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Credo che non ci fosse un solo studente di questi paesi. Non ti so dire. Credo di no. Forse pensavo alla parodia di un videoclip sulla pace nel mondo. We are the world. Non mi ricordo. Lui si fece serio per un attimo e mi disse quasi sottovoce che non era il caso. Lo diceva come a uno che sta facendo una gaffe. Perché? Che cosa voleva dire?»
«Non lo so, Alberto, non ne ho idea. Ci dovrei pensare».
«Tu pensi che ne faccio una questione personale… Non lo è. Ma se uno ti dice “sei un amico”, è anche un fatto personale».
Dove vivrebbe, Eduardo, se fosse ancora vivo?
Con la fidanzata, forse. Non in questa cartolina.
Si vede il Castello di Praga da un’altura, da un parco innevato. Me l’aveva scritta al tavolo di una birreria o prima di prendere sonno in un albergo. L’aveva affrancata con un bollo da mezza corona, su cui non ci sono timbri, e se l’era portata in valigia o in tasca fino a Budapest, da dove l’aveva spedita dentro una busta su cui riesco a leggere il timbro postale dell’11 gennaio 1989. Sulla cartolina, con una penna di un altro colore, aveva aggiunto: «Sono stato a Praga per Natale e Capodanno». E la data: 8 gennaio 1989.

Caro Alberto,
non me ho dimenticato
di te! Ti ricordo, e nella
mia memoria sei un amico
[illeggibile] … (peccato) e tanto lontano,
ma ho la speranza di rive-
derti un giorno… prossimo!
(Amico! Questa è la seconda
cartolina che ti escribo, espero
che la riceverai e me scriverai!)
un abrascione
tuo
Eduardo Rózsa

Scrivemi e anche enviami una
fotografia di te!

È la sua lettera più vecchia. La precedente, che dice di aver spedito, non l’ho mai ricevuta o non riesco più a trovarla. Forse giace in un archivio della Repubblica Ceca o magari in un cassetto, a casa mia o di Daniele.
Dal Nicaragua non riceverò, non riceveremo mai una lettera. Eduardo non scriverà dall’isola del Pacifico del romanzo di Michel Tournier di cui ci raccontò la storia. Eduardo è morto, ma se anche fosse vivo, più che mai vivo sulla spiaggia più selvaggia del Pacifico, non avrebbe nessuna buona ragione, né il tempo né il desiderio, per scriverci.
Questo pensavo, ricordavo e mi aiutava a ricordare Daniele. Questo raccontavo alla mia compagna. Questo discutevo con Giorgio e con Luisa, finché non ho trovato una sua lettera.
Non era nella buchetta della posta, non era la prova che Eduardo è ancora vivo chissà dove. L’avevo cercata ancora una volta nei soliti cassetti. Avevo rovistato in quelle urne, in quei loculi di colombario che conservano i resti di molti incontri casuali, amicizie spente, frammenti di vecchie conoscenze, polvere di carta, ombre del futuro. Questa volta non mi ero soffermato su ogni brandello di carta, sui volantini consumati, sui biglietti d’auguri, su ogni cartolina ricevuta, sulle lettere scritte a metà e mai spedite. Avevo invece cercato quella sola lettera con una certa ansia, con fretta minuziosa, senza mettermi comodo a sedere, senza il gusto di fermarmi a ricordare chi fosse, che faccia avesse quel nome che a prima vista non mi diceva più niente.
Ecco, l’avevo trovata.
Ma non era la prima lettera che Eduardo diceva di avermi spedito nel dicembre del 1988. Era una lettera dell’anno successivo. Era solo una busta vuota. L’involucro vuoto che aveva custodito le parole, che conoscevo già, di quella cartolina in cui Eduardo, con ortografia incerta, mi augurava successi e felicità per il 1990, mi abbracciava con affetto, mi sorrideva con una buffa imitazione della sua faccia larga e allegra.
Avrei potuto inventarla questa lettera nascosta, rubata, smarrita, rivelatrice, esotica. Avrei potuto inventare altri futuri, inesistenti, del suo passato, e parlarvi di una lettera, minacciosa o consolatoria, giunta fino a me da un rifugio lontano. Avrei potuto rivelare dove Eduardo Rózsa Flores, che negli anni ha cambiato volto e nome, che non è più l’uomo che ho conosciuto, se mai lo è stato, mi ha confessato di vivere ora.
Mentirei. Ho trovato solo una busta vuota su cui un giorno Eduardo scrisse il mio nome e il mio indirizzo. E da qui potrei tornare a raccontare le nostre storie agli amici, ai compagni, alle compagne vicine, lontane, disperse tra le agende di un cassetto. Potrei raccontare quello che non so, quello che ho dimenticato, quello che ancora non mi hanno detto, quello che forse ho taciuto.

Foto 10

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