Keynes – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Aug 2025 20:00:00 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La rivoluzione come una bella avventura / 4: Germania e Stati Uniti 1918-1934 (e oltre) https://www.carmillaonline.com/2025/01/15/la-rivoluzione-come-una-bella-avventura-4-germania-e-stati-uniti-1918-1934-e-oltre/ Wed, 15 Jan 2025 21:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86478 di Sandro Moiso

Paul Mattick, La rivoluzione. Una bella avventura, Asterios Editore, Trieste 2020, pp. 174, 18 euro

Si spiega in questa occasione la scelta del titolo di una serie di articoli che, probabilmente, ha fatto arricciare il naso a diversi elettori. L’accostamento di Rivoluzione e Avventura può infatti aver dato l’idea di una forzatura letteraria ed ideologica nei confronti di un tema serio, o almeno ritenuto tale da coloro che del grigiore politico hanno fatto uno schema esistenziale immemore di tutta la gioia, la passione e di tutto il coraggioso slancio soggettivo insiti e necessari all’interno di un reale [...]]]> di Sandro Moiso

Paul Mattick, La rivoluzione. Una bella avventura, Asterios Editore, Trieste 2020, pp. 174, 18 euro

Si spiega in questa occasione la scelta del titolo di una serie di articoli che, probabilmente, ha fatto arricciare il naso a diversi elettori. L’accostamento di Rivoluzione e Avventura può infatti aver dato l’idea di una forzatura letteraria ed ideologica nei confronti di un tema serio, o almeno ritenuto tale da coloro che del grigiore politico hanno fatto uno schema esistenziale immemore di tutta la gioia, la passione e di tutto il coraggioso slancio soggettivo insiti e necessari all’interno di un reale e vitale movimento rivoluzionario.

A far comprendere tutto ciò cui si è appena accennato è proprio l’”autobiografia” di Paul Mattick uscita alcuni anni or sono per l’editore triestino Asterios nella collana “in folio” con il numero 21 e precedentemente pubblicata in Francia nel 2013 con il titolo La Révolution fut une belle aventure. Des rues de Berlin en révolte aux mouvements radicaux américains (1918- 1934). Edizione da cui è tratta la postfazione di Laure Batier e di Charles Reeve dell’edizione italiana curata da Antonio Pagliarone che è anche autore della prefazione alla stessa. Prima di addentrarci nella lettura dell’avventura rivoluzionaria di Mattick occorre però inquadrare il comunista tedesco nel periodo in cui visse.

Paul Mattick (Slupsk, 13 marzo 1904 – Boston, 7 febbraio 1981) può essere collocato all’interno del comunismo di sinistra, in cui rappresentò uno dei maggiori esponenti di quello cosiddetto consiliarista, critico infatti sia del bolscevismo che dello stesso Lenin il cui pensiero e azione politica erano stati rivolti, a suo dire, sostanzialmente all’ascesa di un capitalismo di stato, controllato attraverso le maglie di uno stato estremamente autoritario e, per certi versi, prossimo al fascismo.

Nato nella Pomerania polacca, al tempo facente parte dell’impero guglielmino, crebbe a Berlino in una famiglia operaia sindacalizzata e politicizzata. A 14 anni, entrò a far parte della Freie Sozialistiche Jugend, la frazione giovanile della Lega di Spartaco fondata da Rosa Luxemburg e Karl Liebnecht. Ed è a questo punto, agli albori della cosiddetta rivoluzione tedesca, che la narrazione delle sue “avventure” ha inizio. Così, nella conversazione con Michael Buckmiller pubblicata in parte come ottavo capitolo del testo, Paul Mattick, a proposito di quei primi anni di militanza giovanile, afferma:

Nel mio percorso non c’è stata nessuna rottura. Come se ci fossero in un primo momento la pratica e il gusto dell’avventura e poi, una volta soddisfatte le condizioni materiali, il lavoro teorico. No, tutto si limitava ad una questione di tempo. Ci mancava proprio questo per capire di più le cose. […] C’era la pratica, ma c’era anche la teoria. Non si entrava nell’organizzazione Freie Sozialistiche Jugend come se si andasse ad un club di ginnastica. […] Comunque sia, se avessimo avuto più tempo per noi, se non avessimo dovuto lavorare molte ore1, è certo che saremmo stati molto più maturi sul piano teorico. Abbiamo cercato, nelle condizioni che ci venivano imposte, di crescere intellettualmente. Ma, nello stesso tempo, c’era un movimento operaio reale, di cui facevamo parte, e che cercava la sua via rivoluzionaria2.

Sono significative queste affermazioni di uno dei più importanti teorici del comunismo di sinistra sull’importanza del legame tra lavoro teorico e prassi rivoluzionaria e su come il primo sia spesso appannaggio di coloro che non devono prestare molte ore alla fatica del lavoro di fabbrica o salariato. Una separazione che troppo spesso ha visto riflettersi anche nelle organizzazioni rivoluzionarie la separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale tipica dell’organizzazione del lavoro di stampo capitalistico. Separazione che soltanto una pratica rivoluzionaria attiva e in un contesto favorevole al suo sviluppo può superare, di cui la pratica consiliarista fu certamente espressione.

In realtà tutto il testo si basa principalmente, come spiegano Laure Batier e Charles Reeve nella Postfazione, su quanto riportato da due interviste concesse da Paul Mattick, a Claudio Pozzoli, il 7 ottobre 1972 ad Amsterdam, e al già citato Michael Buckmiller, dal 21 al 23 luglio 1976 nel Vermont dove risiedeva fin dai pri anni ‘50. Interviste riorganizzate tra di loro, grazie anche al sostegno del figlio del comunista tedesco-americano, Paul Mattick Jr.

Dopo le prime “avventure” giovanili durante le quali il giovane Paul, dopo aver aderito al KAPD (Kommunistische Arbeiterpartei Deutschlands), il Partito comunista operaio tedesco nel quale iniziò a militare nelle fila dell’organizzazione giovanile Rote Jugend scrivendo per il suo giornale, rischiò di essere ancora più volte arrestato e ucciso, rimasto senza lavoro e impossibilitato a trovarlo per motivi “politici” e deluso dalla normalizzazione seguita all’avvento della Repubblica di Weimar il nostro, nel 1926, si vide costretto ad emigrare negli Stati Uniti. Da dove continuò comunque a mantenere i rapporti sia con il KAPD che con l’AAUE (Allgemeine Arbeiter-Union – Einheitsorganisation), l’organizzazione sindacale “unitaria” fondata da Otto Rühle, all’interno della quale aveva precedentemente stabilito contatti con intellettuali, scrittori e artisti che lavoravano per la stessa.

Giunto negli Stati Uniti Mattick avrebbe ritrovare là un’occupazione come operaio, sia dedicarsi agli studi e a quel lavoro teorico che lo avrebbe portato nel giro di qualche decennio a diventare uno dei maggiori esponenti del comunismo di sinistra e dei consigli. Nel fare questo, però, non si allontanò mai dal lavoro organizzativo che si manifestò sia attraverso il tentativo, una volta giunto a Chicago sul finire degli anni Venti, di unire le diverse organizzazioni di lavoratori tedeschi, cercando di far rivivere nel 1931, ma senza successo, il «Chicagoer Arbeiter-Zeitung», un giornale carico di tradizione, sia attraverso il suo avvicinamento, per un certo periodo, agli IWW, gli Industrial Workers of the World, unico sindacato rivoluzionario unitario al di sopra delle differenziazioni di mestiere, categoria o appartenenza nazionale e razziale.

Nel 1934 Mattick, con alcuni apparteneti agli IWW e alcuni militanti espulsi dal PPA, Partito Proletario d’America, fondò il Partito dei Lavoratori Uniti (United Workers Party), poi ribattezzato Gruppo dei Comunisti dei consiglio (CCG). Organizzazione che rimase in stretto contatto con i gruppi i della sinistra comunista sopravvissuti in Germania e pubblicò l’«International Council Correspondence», giornale in cui erano pubblicati articoli e dibattiti provenienti dall’Europa insieme alle analisi economiche ed i commenti politici critici di temi d’attualità negli USA e in altre parti del mondo. Poiché nella seconda metà degli anni trenta il comunismo dei consigli europeo fu costretto a darsi alla clandestinità per poi scomparire formalmente, dal 1938 Mattick cambiò il nome della rivista, di cui era il principale collaboratore, in «Living Marxism» e, dal 1942, in «New Essays».

Nonostante il fallimento dei suoi tentativi di riorganizzare il movimento operaio di quegli anni, Mattick ebbe comunque il modo sia di avvicinarsi maggiormente alle opere di Henrik Grossman sulla teoria della crisi in Marx3, sia di stringere amicizia e collaborare con Karl Korsch, altro teorico della sinistra comunista e non leninista, proprio per il tramite della rivista «New Essays»4.

Fu però, in quegli anni, proprio per l’esperienza prima a fianco del vasto movimento dei disoccupati creatosi negli Stati Uniti a partire dalla Grande crisi del 1929 e negli anni successivi e poi in seguito ai provvedimenti economici e sociali del New Deal roosveltiano, che Mattick maturò e affinò maggiormente le sue analisi sul movimento operaio e la critica al pensiero economico di Keynes e la sua applicazione in chiave riformistica e neo-capitalistica, redigendo una serie di note critiche e articoli contro la teoria e la pratica keynesiane. Lavoro in cui sviluppò ulteriormente la teoria dello sviluppo capitalista di Marx e Grossmann al fine di rispondere criticamente ai nuovi fenomeni e forme del capitalismo moderno..

Pur escluso dai circoli intellettuali legati alle Università e pur trovandosi nuovamente, a partire dal 1940, in gravi difficoltà sia economico-lavorative che personali, Paul riuscì a continuare ostinatamente e, si potrebbe dire, in direzione contraria sia alla fiducia nel riformismo del piano di Roosvelt che del leninismo ormai trasformato in marxismo-leninismo dallo stupro teorico e politico operato in quegli anni dallo stalinismo, a sviluppare un lavoro teorico che ancora alla fine degli anni Sessanta e all’inizio degli anni Settanta lo avrebbe fatto riscoprire sia dai movimenti studenteschi che da quelli radicali di classe sia al di qual che al di là dell’Oceano Atlantico5. E proprio nell’intervista a Lotta Contimua del 1977, egli avrebbe saputo sintetizzare al meglio la sua critica al keynesismo, inquadrandola nella crisi economica della seconda metà degli anni Settanta.

“Prima del 1930 ai periodi di depressione si rispondeva con procedure deflazionistiche, cioè lasciando che le “leggi del mercato” svolgessero il loro compito nell’aspettativa che prima o poi il declino dell’attività economica avrebbe finito col ripristinare l’equilibrio perduto tra domanda e offerta e rilanciato così la redditività capitale. La crisi del 1930, tuttavia, era troppo profonda e troppo estesa per permettere ai modi tradizionali di affrontarla. Si rispose con procedure inflazionistiche, cioè con interventi governativi nel meccanismo di mercato, fino al punto di giungere a una ristrutturazione dell’economia mondiale attraverso una centralizzazione forzata dei capitali nazionali più deboli che con una vera e propria distruzione di una frazione cospicua dei capitali nazionali sia nella forma monetaria che in quella fisica. Finanziato mediante disavanzi pubblici, cioè, con metodi inflazionistici, i risultati erano ancora deflazionistici, ma su un piano molto più ampio di quanto non fosse stato realizzato in precedenza facendo affidamento passivo sulle “leggi del mercato”. Il lungo periodo di depressione e la seconda guerra mondiale, e il conseguente enorme distruzione di capitale, hanno così creato le condizioni per un periodo straordinariamente lungo di espansione del capitale nelle principali nazioni occidentali.
Sia la deflazione che l’inflazione hanno portato quindi allo stesso risultato, una nuova ripresa dei capitali, e successivamente e alternativamente utilizzati nel tentativo per garantire la stabilità economica e sociale appena conquistata. Indubbiamente, è possibile tramite il finanziamento del deficit, cioè attraverso il credito, ravvivare un’economia stagnante. Ma è non è possibile mantenere in questo modo il saggio di profitto sul capitale e quindi perpetuare le condizioni di prosperità. Era quindi solo questione di tempo prima che il meccanismo di crisi della produzione di capitale si ripeta. Ormai è ovvio che la mera disponibilità di credito per espandere la produzione non è una soluzione alla crisi, ma un una politica di ripiego fugace con effetti “positivi” soltanto temporanei. Che, se non seguito da una vera e propria ripresa dei capitali basata su maggiori profitti, deve obbligatoriamente crollare su sé stessa. Il “rimedio keynesiano” ha portato semplicemente a una nuova situazione di crisi con crescente disoccupazione e crescente inflazione, entrambe ugualmente dannose per il capitalismo”.

Sempre allineato con la difesa dell’iniziativa spontanea e cosciente dei lavoratori e contrario all’intervento esterno in chiave partitico-settaria all’interno del movimento operaio, Mattick, nella stessa intervista avrebbe criticato l’ideologia e la pratica della lotta armata, senza rinnegare però la violenza necessaria per la difesa degli interessi di classe oppure per il ribaltamento offensivo delle condizioni dello sfruttamento capitalistico e della sua organizzazione sociale.

“La violenza è immanente al sistema e quindi una necessità sia per il lavoro che per il capitale. La borghesia può governare solo in virtù del suo controllo sui mezzi di produzione, quindi deve difendere questo controllo con mezzi extra-economici, attraverso il suo monopolio sui mezzi di soppressione. Già il rifiuto di lavorare svuota di significato il possesso dei mezzi di produzione, poiché è solo il processo lavorativo che produce il profitto capitalistico. Una “pura” la lotta “economica” tra lavoro e capitale è quindi fuori questione; la borghesia completerà sempre questa lotta con la violenza, dovunque essa minacci seriamente la redditività del capitale. Non consta ai lavoratori di scegliere tra metodi non violenti e violenti di lotta di classe. È la borghesia, in possesso dell’apparato statale, che determina quale sarà in qualsiasi occasione particolare. Alla violenza si può rispondere solo con la violenza, anche se le armi sono estremamente disuguali. Non entra qui in gioco alcuna questione di principio, ma solo la realtà della struttura sociale di classe e dello sviluppo delle sue contraddizioni.
Tuttavia, la domanda che ci si pone è se gli elementi radicali delle lotte anti-capitalistiche dovrebbero prendere l’iniziativa nell’uso della violenza, invece di lasciare la decisione alla borghesia e ai suoi mercenari. Potrebbe esserci situazioni, certo, che trovano la borghesia impreparata e dove uno scontro violento con le sue forze armate potrebbe favorire i rivoluzionari. Ma tutta la storia del radicalismo mostra chiaramente che tali eventi accidentali non sono di alcuna utilità. In ambito militare in termini di condizioni, la borghesia avrà sempre il sopravvento, a meno che il movimento rivoluzionario non sia assume proporzioni tali da incidere sullo stesso apparato statale, scindendo o sciogliendo le sue forze armate. È solo in concomitanza con grandi movimenti di massa, che disgregano totalmente il tessuto sociale, che diventa possibile strappare i mezzi di produzione e con questo giungere alla soppressione delle classi dominanti.
È per questo motivo che è così pericoloso insistere sulla non violenza e fare della violenza il privilegio esclusivo del classe dirigente. Ma qui parliamo di situazioni molto critiche, non come quelle che esistono attualmente nei paesi capitalistici, e anche di forze grandi e sufficientemente armate in grado di condurre la loro lotta per un periodo di tempo considerevole. In mancanza di tale situazioni critiche, tali azioni non sono altro che un suicidio collettivo, non sgradito alla borghesia. Possono essere apprezzati in termini morali o anche estetici, ma non servire al corso della rivoluzione proletaria, se non entrando nel folklore della rivoluzione.”

Tra le sue opere di maggior rilievo vanno infine ricordate Marx and Keynes. The Limits of Mixed Economy del 19696, che venne tradotta in diverse lingue, così come Critique of Herbert Marcuse: The one-dimensional man in class society, saggio sulla celebre opera di Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione (1964), in cui Mattick respinse con forza la tesi di Marcuse secondo la quale il “proletariato”, così come Marx lo aveva inteso, era diventato un “concetto mitologico” nella società capitalista avanzata.

Chi scrive si è allontanato dalle pagine del libro di Mattick e sulla sua esperienza, ma ciò che è indubitabile è il fatto che fino alla fine dei suoi giorni il rivoluzionario comunista guardò il mondo tanto con uno sguardo “oggettivo” rivolto alla comprensione critica dell’esistente e delle difficoltà insite in esso per lo sviluppo di un movimento rivoluzionario quanto con quello limpido e “soggettivo” di chi sogna la più grande e irrinunciabile delle avventure.


  1. Il riferimento è al fatto che Paul Mattick era entrato giovanissimo come apprendista alla Siemens e successivamente, all’età di 17 anni, alla Klöckner-Humboldt-Deutz di Colonia, dove rimase fino al suo licenziamento a causa dell’organizzazione degli scioperi e della partecipazione ai moti insurrezionali che condussero anche al suo arresto.  

  2. P. Mattick, La rivoluzione. Una bella avventura, Asterios Editore, Trieste 2020, pp. 124–125.  

  3. H. Grossman, Il crollo del capitalismo. La legge dell’accumulazione e del crollo del sistema capitalista, Jaca Book, Milano 1976 (ed.originale Das Akkumulations- und Zusammenbruchsgesetz des kapitalistischen Systems. (Zugleich eine Krisentheorie) – 1929.  

  4. Si vedano gli scritti contenuti in P. Mattick, K. Korsch, H. Langerhans, Capitalismo e fascismo verso la guerra. Antologia dai «New Essays» (scritti 1934–1943), a cura di G. Bonacchi e C. Pozzoli, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1976.  

  5. Per quanto riguarda l’Italia, oltre a uelli già citati, si vedano Ribelli e rinnegati. Il ruolo degli intellettuali e la crisi del movimento operaio, (a cura di C. Pozzoli), Musolini editore, Torino 1976; Crisi e teorie della crisi (testi di Paul Mattick, Christoph Deutschmann e Volkhard Brandes; trad. it. di Giuseppe Mininni), Dedalo, Bari 1979; Critica dei neomarxistii (trad. it. di Giuseppe Mininni), Dedalo, Bari 1979 e Il marxismo ultimo rifugio della borghesia? Scritti scelti (a cura di Antonio Pagliarone), Sedizioni, Milano 2008, si veda l’intervista pubblicata sul quotidiano Lotta Continua ancora nell’ottobre 1977 (qui)  

  6. P. Mattick, Marx and Keynes. The limits of the mixed economy, Boston, Porter Sargent Publisher, 1969 (edito in Italia come Marx e Keynes. I limiti dell’economia mista, trad. it. di Luigi Occhionero, De Donato, Bari 1969)  

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Dare a Cesare quel che è di Cesare (e ai sindacati confederali quel che spetta loro) https://www.carmillaonline.com/2021/10/21/dare-a-cesare-quel-che-e-di-cesare-e-ai-sindacati-confederali-cio-che-spetta-loro/ Thu, 21 Oct 2021 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68768 di Sandro Moiso

Poiché siamo abituati a dare a Cesare ciò che è di Cesare e al cielo ciò che gli appartiene, va detto che un merito, per ora forse l’unico, che il movimento No Green Pass può vantare è quello di aver contribuito indirettamente a far sì che, non certo per la prima volta ma in maniera più consistente, i sindacati confederali risplendessero alla luce del servilismo e del collaborazionismo che da sempre ne contraddistingue azione e funzione politica.

Contro la marmaglia ribelle, nei giorni precedenti il 15 ottobre, i media, [...]]]> di Sandro Moiso

Poiché siamo abituati a dare a Cesare ciò che è di Cesare e al cielo ciò che gli appartiene, va detto che un merito, per ora forse l’unico, che il movimento No Green Pass può vantare è quello di aver contribuito indirettamente a far sì che, non certo per la prima volta ma in maniera più consistente, i sindacati confederali risplendessero alla luce del servilismo e del collaborazionismo che da sempre ne contraddistingue azione e funzione politica.

Contro la marmaglia ribelle, nei giorni precedenti il 15 ottobre, i media, il PD e il governo stesso si sono sperticati gola e mani nell’esaltazione dell’opera di pacificazione sociale portata avanti da CGIL, CISL e UIL e in particolare dalla figura, ormai prossima alla beatificazione, di Luciano Lama in occasione delle celebrazioni per il centenario della sua nascita.

Mentre si sorrideva, giustamente, della richiesta di Salvini a Draghi affinché il presidente del consiglio contribuisse a riportare la pace sociale in vista delle elezioni amministrative e dei successivi ballottaggi, molti, quasi sempre offuscati da qualsiasi superficiale richiamo alla mistica dell’antifascismo istituzionale, ignoravano o sembravano soprassedere sull’autentica e definitiva dichiarazione d’intenti manifestata dai leader sindacali, “unitari” nel sostenere la necessità di evitare qualsiasi tipo di conflittualità sociale al fine di permettere la ripresa economica promessa dal PNRR.

Certo non è la prima volta che i sindacati della concertazione, uscita pari pari dalla Carta del Lavoro di mussoliniana memoria, chiedono sacrifici e compartecipazione dei lavoratori in nome del supremo interesse nazionale. La storia degli ultimi cinquant’anni ne è piena, ma tale funzione di collaborazione spesso è apparsa più sfumata rispetto alle dichiarazioni attuali.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza con le sue “opportunità”, o spacciate come tali ai giovani e alle donne soprattutto, appare come una sorta di novello Piano Marshall, cui è stato paragonato più volte. Un’occasione da non perdere sia per gli imprenditori che per i lavoratori e le lavoratrici e i disoccupati. Discorso che, basandosi sulla promessa della crescita del PIL, dovrebbe annullare qualsiasi altra reazione alle sue reali e differenti conseguenze per i primi e per i secondi.

Come ha scritto l’economista, saggista ed editorialista di Limes, Geminello Alvi: «La percezione del mondo in forma di Pil serve non alla conoscenza, ma alla retorica degli stati. […] Il Pil e i suoi abusi sono il più perfetto esempio […] di omologare chiunque, equalizzandolo alle proprie manie di benessere e di potenza […] Il Pil è un indice della potenza statale, e di una qualche vera efficienza solo in tempo di guerra.»1

Per questo motivo l’idea di reddito netto, che era nata nel Seicento proprio per misurare ed accrescere tale potenza, «evolvette a prodotto o reddito nazionale moderno durante la seconda guerra mondiale, per opera di mediocri burocrati ai quali neppure Keynes credeva[…] E cosa si propone oggi nel tanto dissertare sul Pil? Di renderlo ancora più comprensivo, della felicità e di indici ecologici alla moda. Quando si dovrebbe invece lavorare per restringerlo, indi per limitare l’economicizzazione omologante.»2

Il riferimento a Keynes non è casuale poiché proprio il teorico dell’intervento dello Stato nell’economia finì con l’essere il vero, anche se spesso indiretto, ispiratore delle politiche che finirono col caratterizzare le scelte delle maggiori economie uscite devastate dagli effetti della Grande Crisi o Grande Depressione.
Nella competizione allora in corso per uscire da quegli effetti e per la ridistribuzione di quote importanti del mercato e della ricchezza mondiale, sempre secondo Alvi, sulla base degli studi di Costantino Bresciani Turroni3:

il keynesismo hitleriano funzionò pure meglio del New Deal. Nel 1938 gli Stati Uniti producevano un reddito nazionale del 23% inferiore a quello del 1929, e la Germania hitleriana già nel 1938 aveva raggiunto un reddito superiore del 5% a quello del 1929. La svolta tedesca era certo dipesa dal riarmo che provocò inflazione ma anche da spese pubbliche non troppo diverse da quelle dei borgomastri che negli anni venti indebitarono la Germania: autostrade e stadi. Per non dire degli aumenti salariali4.

Il fatto che la ripresa definitiva dalla Grande Depressione fosse poi giunta soltanto con la guerra (mondiale) non può costituire altro che un corollario delle scelte basate su un incremento gigantesco delle spese statali destinate a “grandi opere” (tra le quali occorre inserire il “riarmo” delle maggiori potenze dell’epoca), maggiori consumi (e quindi maggior produzione di merci) e controllo e uso indiscriminato di risorse umane, naturali ed energetiche.

Lo spesso declamato, ancor oggi da certa sinistra, keynesismo necessita di governi autoritari, oppure per usare un eufemismo “fortemente centralizzati”, spesso imposti attraverso la forza, il ricatto o l’inganno (e spesso da tutti e tre questi elementi insieme), in un contesto in cui: «Fare della statistica il criterio della verità è l’ipocrisia indispensabile di qualunque democrazia, la quale favorisce l’omologazione capitalistica.»5
E se qualcuno si stupisse del sentire parlare di democrazia in un contesto in cui si è parlato anche di nazismo, è sempre utile ricordare il fatto che Hitler andò al potere come cancelliere, nel gennaio del 1933, dopo aver vinto le elezioni del 6 novembre 1932 con il 33,1% dei voti (pur perdendo circa il 4% dei voti rispetto a quelli ottenuti nel luglio dello stesso anno) ed essersi alleato in parlamento col Partito Popolare Nazionale Tedesco (8,5% dei voti e 52 seggi).

In democrazia vincono i numeri delle maggioranze, vere o artefatte che siano, e da lì sembra derivare anche l’alto valore assegnato alle scienze statistiche come strumenti di “verità assolute” (Pil, numero dei vaccinati sulla popolazione, etc. solo per fare degli esempi). Pertanto oggi, anche se spesso il tema è rimosso ed ignorato, a farla ancora da padrone è lo schema keynesiano dell’intervento pubblico in economia, che si tratti di TAV, ponti sullo stretto, riarmo dell’esercito, dell’aviazione o della marina militare, reddito di cittadinanza a 5 (o meno) stelle o altro ancora.

Subissati di cifre e da una girandola di informazioni sulla ripresa o meno dei consumi, sull’aumento o diminuzione dei posti di lavoro, tutte basate su dati spuri e nudi che non tengono conto della qualità dei beni necessari ed effettivamente consumati o dei lavori riproposti a salario ribassato e orario inalterato, precipitiamo in un mondo indifferenziato di cittadini consumatori e utenti di servizi (sempre più spesso privati, ma finanziati col pubblico denaro come accade soprattutto per la sanità) in cui il problema delle “tasse” sembra sopravanzare quelli della “classe”6.

La democrazia rappresentativa, ovvero quella che ci ostiniamo a chiamare “borghese”, si nutre innanzitutto di cifre e se i numeri non ci sono, all’occorrenza, come nel caso dell’attuale governo o di quello Monti, si trovano. Gli utili idioti dei partiti, di ogni cifra e colore, disposti a tutto pur di restare a galla sugli scranni parlamentari, nonostante la presenza di quasi un 60% di cittadini non votanti, delusi, scazzati e arrabbiati, si troveranno sempre.
Talmente idioti da non rendersi conto di come questa ripetuta, ormai, tradizione di presidenti del consiglio non eletti, ma nominati, tutto sommato risalente in Italia fino al primo governo Mussolini, non contribuisce ad altro che a privarli ulteriormente di qualsiasi autorità e funzione reale.

Così, mentre si urla al lupo fascista e si convocano grandi manifestazioni di pensionati antifascisti (Che è…sarà mica che poi vengono quelli e ce decurtano la pensione e i diritti acquisiti. Daje, non pensamoce, cantamo n’altra volta “Bella ciao”…), il settore sindacale che conta ormai il più alto numero di iscritti ma di peso specifico politico ed economico pari a zero, l’autoritarismo si rafforza all’ombra della vulgata democratica e delle coperture finanziarie europee o straniere. Perché, lo si dica con chiarezza almeno per una volta, Draghi sembra ripetere i fasti di un altro “grande statista italiano”: Alcide De Gasperi.

Quello eletto con l’appoggio del Vaticano e del Piano Marshall, cui guarda caso oggi spesso si paragona il Recovery Fund europeo, l’attuale con alle spalle i voti delle burocrazie finanziarie europee e i fondi da distribuire con il PNRR. Entrambi autorizzati ad esercitare la loro autorità e portare a termine un disegno politico in nome di interessi altri da quelli della maggioranza dei lavoratori e dei cittadini meno abbienti. Evviva la ricostruzione! Evviva tutte le ricostruzioni post-belliche e post-pandemiche, sempre a vantaggio di pochi ma ripagate dal sudore, dal sangue (che diciamo a proposito del vertiginoso e vergognoso aumento dei morti sul lavoro?) e dai sacrifici di tutti gli altri, soprattutto se proletari, giovani disoccupati e donne.

Pil docet et impera. Tanto che anche il premio Nobel per la fisica Giorgio Parisi, appena celebrato dai media nazionali con lo stesso clamore riservato ai vincitori di medaglie d’oro nelle competizioni olimpiche o paralimpiche, è stato bruscamente messo da parte e dimenticato appena ha osato affermare, criticando in parlamento questa misura delle prestazioni economiche di un paese, che incremento del Pil e lotta contro le cause del cambiamento climatico non possono essere compatibili7. Evidentemente per i soloni della politica e dell’informazione un fisico non può vantare competenze nel campo di scienze economiche sempre più attente al paranormale finanziario che alla quotidianità della vita della specie.

Il sindacato invece può farlo, eccome: basta che dica sempre sì e sia più realista del re nel promuovere la partecipazione dei lavoratori agli interessi dell’incremento del Pil e del capitale privato (spacciato per “nazionale”). Soprattutto se nel farlo invoca, come a Trieste ed ovunque vi sia anche soltanto il fantasma di una lotta, l’intervento delle forze dell’ordine contro i facinorosi, quasi sempre dipinti a prescindere come violenti e fascisti.

Per quanto riguarda la generazione cui appartiene chi scrive, si può tranquillamente affermare che diede una sonora ed inequivocabile risposta a tale scelta, sia a Roma in occasione della cacciata di Luciano Lama, gran promotore delle politiche dei sacrifici e della pace sociale insieme al suo sindacato, dall’Università che sulle scale delle Facoltà umanistiche di Torino, pochi giorni dopo i fatti romani. Era il 1977 e tanto basti per restare dell’idea che proprio ciò è quanto compete ai sindacati confederali, adusi a sedersi al tavolo delle trattative ancor prima di dichiarare scioperi o manifestazioni, per definire in partenza con i funzionari del capitale e dello Stato ciò che sia lecito richiedere ed attendersi.

Atteggiamento sindacal-confederale che, insieme all’opportunismo e alla vaghezza delle proposte politiche della sinistra istituzionale e limitrofa, ha finito col determinare la sconfitta del movimento operaio italiano. Nella riclassificazione del Pil italiano in profitti, rendite e salari, tentata da Geminello Alvi, lo stesso ha scritto:

Nel 2003 ai lavoratori toccava il 48,9% del reddito nazionale netto; nel 1972 era il 62,9%. La quota dei redditi da lavoro dipendente è regredita, ora è circa la stessa del ’51. dell’Italia prima del boom. Il che vuol dire, esagerando in furia del dettaglio, non troppo distante da quel 46,6% che era la povera quota del 1881. Siamo regrediti, e intanto però mi arresterei dal dire altro. Perché so che al nostro lettore verrebbe da eccepire: “ Bella forza, ma di quanto nel 2004bpartite Iva e indipendenti sono più numerosi di trentacinque anni fa? “. Lecita obiezione, che ha tuttavia pronta replica statistica: nel 1971 c’erano 2,13 lavoratori dipendenti per ogni indipendente, nel 2004 sono 2,15. Il che significa che i dipendenti sono addirittura cresciuti in proporzione rispetto a ventiquattro anni prima. Si può dire: la quota dei lavoratori dipendenti è regredita alle cifre di un’Italia della memoria, quella prima del boom8.

Dall’epoca dei dati appena ora citati molta acqua sporca e alluvionale è corsa sotto i ponti: crisi del 2008, ristrutturazioni aziendali, tagli alla spesa pubblica, riduzione dei lavoratori dipendenti o garantiti, trasferimento delle imprese all’estero o in mani straniere, crescita dei settori maggiormente caratterizzati dal lavoro precario e non garantito, automazione sempre più diffusa anche nel settore dei servizi, aumento della povertà assoluta, concentrazione della ricchezza in un numero sempre più ristretto di mani. Eppure, come al solito, eppure…

Quei dati ci servono, forse ancora di più adesso, per mostrare come il taglio del personale nei settori produttivi, la riduzione dei salari e, per converso, una falsa redistribuzione delle ricchezze basata su “redditi di cittadinanza” ridicoli, se non offensivi per chi ne avesse realmente bisogno, fanno parte di quello stesso processo e stanno alla base delle attuali promesse di ripresa legate al PNRR.

Piano che, nonostante le sonore sberle pur affibbiate al ceto medio e ai lavoratori autonomi, continuerà a poggiare principalmente sull’incremento dello sfruttamento dei lavoratori produttivi e/o a basso reddito. La legge dell’estrazione del plusvalore non è cambiata mai, nonostante tutti gli artifici messi in campo per negarla o giustificarla, in nome dell’interesse nazionale, agli occhi di chi la subisce quotidianamente.

Nonostante le fasulle promesse del segretario della UIL di portare a “zero” le morti sul lavoro e la solita, retorica, citazione delle stesse ad opera di Landini durante la manifestazione romana oppure del presidente Mattarella e del presidente del consiglio Draghi, è inevitabile che gli omicidi sul posti di lavoro siano destinati ad aumentare. Motivo per cui, lasciatelo dire per una volta a chi scrive, sia la richiesta del Green Pass per accedere al posto di lavoro che la “fiera” opposizione alla stessa, in termini di vite dei lavoratori e di qualità del lavoro, non cambieranno nulla. Assolutamente nulla, anche quando si parla della difesa di “posti di lavoro”, in un senso o nell’altro.
La lotta di classe per la liberazione della specie dal giogo capitalistico si giocherà su altri fronti e in altre forme, al di fuori delle logiche confederali, dell’antifascismo istituzionale e delle logiche liberali e individualistiche.
Speriamo, prima o poi, di ritrovarle e, soprattutto, di saperle riconoscere.

Dixi et salvavi animam meam.


  1. Geminello Alvi, Il capitalsimo. Verso l’ideale cinese, Marsilio Editori, Venezia 2011, pp. 31-32  

  2. G. Alvi, op. cit., pp. 32- 40  

  3. Costantino Bresciani Turroni, Osservazioni sulla teoria del moltiplicatore, «Rivista bancaria», 1939, 8, pp. 693-714  

  4. G. Alvi, op. cit., p. 93  

  5. Ivi, pp. 70-71  

  6. Si vedano qui un interessante articolo uscito su Codice Rosso, oltre all’intervento pubblicato su Carmilla sabato 16 ottobre da Jack Orlando  

  7. Si veda qui  

  8. Geminello Alvi, Una Repubblica fondata sulle rendite, Mondadori, Milano 2006, p. 9  

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