Ken Loach – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Aug 2025 20:00:00 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La Giacarta della sanità pubblica https://www.carmillaonline.com/2022/12/27/la-giacarta-della-sanita-pubblica/ Mon, 26 Dec 2022 23:01:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75348 di Luca Cangianti

C’era una volta in Italia è un film documentario sulla distruzione della sanità pubblica, ma si apre con le immagini del colpo di stato in Cile. La seconda parte del titolo, inoltre, contiene una minaccia: Giacarta sta arrivando. Si riferisce all’assassinio, da parte dell’esercito indonesiano sostenuto dal governo Usa, di circa un milione di civili nell’ambito della politica di contrasto al locale partito comunista. Il motivo di tale abbinamento bizzarro è che quei crimini servirono a imporre una svolta neoliberista al capitalismo mondiale. Questa stessa politica economica oggi è responsabile [...]]]> di Luca Cangianti

C’era una volta in Italia è un film documentario sulla distruzione della sanità pubblica, ma si apre con le immagini del colpo di stato in Cile. La seconda parte del titolo, inoltre, contiene una minaccia: Giacarta sta arrivando. Si riferisce all’assassinio, da parte dell’esercito indonesiano sostenuto dal governo Usa, di circa un milione di civili nell’ambito della politica di contrasto al locale partito comunista. Il motivo di tale abbinamento bizzarro è che quei crimini servirono a imporre una svolta neoliberista al capitalismo mondiale. Questa stessa politica economica oggi è responsabile di nuove stragi di civili, per esempio nella sanità.

Federico Greco e Mirko Melchiorre sono due dei tre registi che nel 2017 hanno diretto PIIGS – un fortunato documentario in cui il cinema veniva messo al servizio della divulgazione economica per svelare i meccanismi perversi dell’austerità europea.
Nella nuova pellicola, in sala in questi giorni, raccontano la storia della chiusura nel 2010 dell’ospedale di Cariati, un comune della provincia cosentina, per rispettare uno dei tanti piani di rientro dal debito sanitario. In seguito a quel provvedimento e agli effetti moltiplicatori della pandemia, le conseguenze non si fanno attendere: la sanità locale collassa, i tempi di attesa per una visita specialistica o un’analisi diagnostica crescono a dismisura, inizia la migrazione verso le strutture del Settentrione e la necessità di accedere ai servizi privati a pagamento – almeno per coloro che possono permetterselo, gli altri aspettano e spesso muoiono. Ecco la Giacarta della sanità pubblica italiana.

C’era una volta in Italia è però anche la storia di coraggio, tenacia e speranza di un gruppo di cittadini che occupano l’Ospedale Vittorio Cosentino chiedendone la riapertura con flash mob, blocchi stradali e ferroviari, e il coinvolgimento di personaggi pubblici come Roger Waters, il fondatore dei Pink Floyd, e Gino Strada. Il cinema di Greco e Melchiorre diventa così voce di un popolo umile, eroico e ribelle in lotta per la vita e la dignità; ma non si ferma a questa cronaca empatica, narrata dalla voce di Peppino Mazzotta, vuole afferrarne le ragioni e le cause.

Le vicende degli attivisti di Cariati sono quindi accompagnate dalle analisi di esperti del mondo sanitario (tra cui Vittorio Agnoletto e Ivan Cavicchi, direttore di Farmaindustria alla fine degli anni ’90), dal sociologo svizzero Jean Ziegler, da Ken Loach, oltre che dai già citati Roger Waters e Gino Strada. Ne emerge un panorama in cui un sistema sanitario pubblico – frutto delle lotte degli anni sessanta e settanta e secondo a livello mondiale solo a quello francese – è stato progressivamente definanziato per rispettare i trattati europei e per creare nuovi mercati nel settore della sanità privata. Come in altri campi, da quello degli interventi militari a quelli della flessibilizzazione del lavoro, i responsabili di questa distruzione sono stati principalmente i governi del centrosinistra.

C’è un passaggio di grande impatto emotivo in cui i cittadini di Cariati simulano una danza sognante. Nelle pieghe dei loro volti segnati dalla fatica della lotta, Greco e Melchiorre sono riusciti a immortalare la speranza in un mondo migliore.

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Sorry, Malony doveva essere gambizzato https://www.carmillaonline.com/2020/01/11/sorry-malony-doveva-essere-gambizzato/ Fri, 10 Jan 2020 23:01:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57354 di Nico Maccentelli

Mentre ero in fila, ho udito il commento di una signora che usciva dalla proiezione delle 17,20 di Sorry we missed you, l’ultimo film di Ken Loach: “Se volete deprimervi”. In quel momento ho pensato quanto sia impossibile far penetrare un barlume di coscienza sociale nelle teste lobotomizzate dall’oblìo imperante della società dello spettacolo.

Ma poi, vedendo il film, mi sono depresso anch’io. Ken Loach ha ormai conquistato la capacità di sintetizzare in una pellicola di cento minuti i drammi familiari come diretta e inesorabile conseguenza dell’oppressione semi-schiavistica [...]]]> di Nico Maccentelli

Mentre ero in fila, ho udito il commento di una signora che usciva dalla proiezione delle 17,20 di Sorry we missed you, l’ultimo film di Ken Loach: “Se volete deprimervi”. In quel momento ho pensato quanto sia impossibile far penetrare un barlume di coscienza sociale nelle teste lobotomizzate dall’oblìo imperante della società dello spettacolo.

Ma poi, vedendo il film, mi sono depresso anch’io. Ken Loach ha ormai conquistato la capacità di sintetizzare in una pellicola di cento minuti i drammi familiari come diretta e inesorabile conseguenza dell’oppressione semi-schiavistica del capitale sul lavoro. Tuttavia siamo lontani dall’ironia sagace e soprattutto dalla soluzione seppur paradossale che veniva data in opere come Riff raff e Piovono pietre, dove andava a fuoco il cantiere. Il regista britannico rosso, originario di Nuneaton nella contea del Warwickshire, prosegue la strada di Io, Daniel Blake dove non c’è scampo, alcuna speranza per chi entra nella macchina tritacarne privatizzata del sistema sanitario inglese, così come racconta molto bene Sorry we missed you nel mondo del lavoro parcellizzato di Amazon e Zara, degli hub della logistica dei tanti lumpen proletariat spacciati per padroncini, in realtà completamente decontrattualizzati e sui quali pendono costi, sanzioni, oneri nei rimpiazzi, rischi scaricati su di loro da un apparato d comando sul lavoro spietato, dove la concorrenza tra autotrasportatori è portata al parossiismo.

In Sorry we missed you anche se hai ben presente (mosca rara di questi tempi) cosa siano le vertenze della logistica nostrana, sei portato a dirti: ma no, non è così. E invece è così, proprio così. E questo è il grande merito di Loach, nel prendere per il bavero gli spettatori e di fatto dire loro: hai visto cosa accade quando compri su Amazon con Prime?

Il film procede in un’escalation senza vie d’uscita verso l’ecatombe conclusiva, a loop, ma senza il colpo finale dell’infarto di Daniel Blake. Un girone dantesco dal quale come in un quadro di Escher tutto si ripete e non puoi uscire dal paradosso di una società “libera” che non ti dà nulla: solo debiti, miseria e pisciate nelle bottiglie di plastica per non sforare sui tempi di consegna.

Siamo lontani dall’operaio massa pupazzo di Chaplin perso tra gli ingranaggi industriali o imboccato da braccetti meccanici in Tempi moderni. Così come siamo lontani dalla composizione di classe dei decenni passati, dove la fabbrica comprendeva tutto il ciclo di produzione senza frammentazioni delle sue fasi fino alla circolazione delle merci e in subappalti, che così tanto hanno inciso sulla composizione di classe stessa, nascondendola alla società, espiantando ogni automatica acquisizione di una coscienza collettiva e di un’identità di classe.

Nell’opera di Ken Loach c’è tutto l’approdo del lungo percorso dagli anni ’80 iniziato con il tatcherismo, con accenni persino espliciti nei dialoghi all’epoca della grande lotta dei minatori, la cui sconfitta (ora lo sappiamo) ha aperto la strada a un’era mondiale di ristrutturazione neoliberale dell’intero sistema capitalistico.

Anche la coesione tra soggetti vista in Piovono pietre, nel loro lavoro come nella loro vita dentro la periferia proletaria britannica dimenticata dal mondo, in questo contesto non c’è e del resto non può esserci neppure lontanamente: ognuno pensa al suo furgone, alla pistola digitale che lo controlla step by step e alle consegne. Non c’è altro, non si va oltre lo scatto d’ira individuale subito sedata dagli autotrasportatori stessi, rassegnati e incapaci di pensiero critico. E le conseguenze di un lavoro totalizzante, alienante, ricadono sulla famiglia rendendo il protagonista Rick Turner e sua moglie, operatrice socio-sanitaria sempre in giro per la città, del tutto impotenti su problemi che dovrebbero richiedere la loro presenza per avere una minima possibilità di soluzione.

In quest’ultimo Ken Loach non c’è però soluzione, nessun agit prop, nessuna esortazione a reagire. In una narrazione che non dà speranze c’è solo sottomissione e cronaca descrittiva senza sbavature ironiche. Solo il prodotto culturale e comportamentale secco della distruzione dell’identità sociale, di gruppo, di classe. L’inerzia. 

Lo stesso Malony, lo spietato kapò del terminal logistico che fa da scenario al destino di Rick, è il decisore incontrastato di ogni destino individuale in una sorta di personificazione dell’assolutismo capitalista subappaltato agli aguzzini.

In definitiva, è forse questo l’aspetto negativo delle ultime pellicole di Loach: la pura denuncia senza vie d’uscite reali o surreali, la sola proclamazione dell’esistente, l’ammissione della sconfitta epocale, considerando questo piccolo atto disvelante di rivolta intellettuale come sufficiente ad assolvere la propria missione riformatrice o rivoluzionaria che sia.

Ma non lo è.

Ci si poteva aspettare di meglio dalla costruzione dei personaggi, lavorare per individuare in loro una forza potenziale di esseri umani e sociali capaci di reazione, la fiammella anche fioca di una dimensione politica nel senso di partecipazione anche solo embrionale e inconsapevole alla polis, la coscienza di un’identità perduta e di un esodo da compiere verso nuove forme di identità collettiva e di comunità solidale. Ma Rick, con le ferite sul corpo e nell’animo, torna al lavoro.

Se volete deprimervi…

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Linee di fuga. La scia di zolfo del sublime Éric Cantona https://www.carmillaonline.com/2018/02/13/la-scia-zolfo-del-sublime-eric-cantona/ Mon, 12 Feb 2018 23:01:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=43597 di Gioacchino Toni

Je so’ pazzo je so’ pazzo / e vogl’essere chi vogl’io / ascite fora d’a casa mia / je so’ pazzo je so’ pazzo / c’ho il popolo che mi aspetta / e scusate vado di fretta / non mi date sempre ragione / io lo so che sono un errore / nella vita voglio vivere / almeno un giorno da leone / e lo Stato questa volta / non mi deve condannare / pecché so’ pazzo / je so’ pazzo / e oggi voglio parlare (Pino Daniele)

L’11 maggio del 1997 si è vista in campo per [...]]]> di Gioacchino Toni

Je so’ pazzo je so’ pazzo / e vogl’essere chi vogl’io / ascite fora d’a casa mia / je so’ pazzo je so’ pazzo / c’ho il popolo che mi aspetta / e scusate vado di fretta / non mi date sempre ragione / io lo so che sono un errore / nella vita voglio vivere / almeno un giorno da leone / e lo Stato questa volta / non mi deve condannare / pecché so’ pazzo / je so’ pazzo / e oggi voglio parlare (Pino Daniele)

L’11 maggio del 1997 si è vista in campo per l’ultima volta la maglia numero 7 del Manchester United recante sulla schiena il nome di Cantona. Quel giorno un groppo alla gola si è diffuso non soltanto sugli spalti dell’Old Trafford ma anche tra molti appassionati di calcio che, indipendentemente dalla maglia tifata, hanno avuto la fortuna di assistere alle gesta di Éric Daniel Pierre Cantona e non importa se da avversario. Se le scarpette del francese alla fine della partita giocata contro il West Ham in quel giorno di maggio hanno smesso di dare spettacolo, l’aura di Cantona è sopravvissuta e se i supporter dello United, che hanno visto indossare la maglia rossa da leggende del calcio del calibro di Best, Law e Charlton, lo hanno eletto “calciatore del secolo” deve esserci qualcosa di speciale in quello scontroso calciatore nato nel 1966 a Les Caillols, un sobborgo di Marsiglia, da madre catalana e padre sardo.

Per certi versi Cantona è stato uno degli ultimi grandi personaggi di un calcio ormai avviato a trasformarsi da sport popolare affogato tra le pietre rosse delle abitazioni e dei pub nel borgo di Trafford, nella Greater Manchester, a spettacolo televisivo diffuso dalle parabole a livello mondiale. A questo artista del calcio che non disdegna di cimentarsi con la pittura e con il cinema, il giornalista francese Philippe Auclair dedica il monumentale libro Cantona. Il ribelle che volle diventare re, pubblicato nel 2017 in italiano dall’editore Le Milieu.

Éric Cantona è qualcosa in più di un semplice calciatore: è un’anima inquieta che vive il calcio come un’arte tra le altre, come uno strumento con cui esprimere la sensibilità e la follia che fanno parte dell’uomo e che non dovrebbero mai essere soffocate. Così si esprime Cantona in un’intervista rilasciata alla rivista «France Football» nell’autunno del 1987: «Ho bisogno di avere reazioni folli per essere felice – e anche per rendere in campo. Devi avere la forza per essere pazzo. Non sul momento, quando la sincerità è fondamentale, ma dopo, per reclamare la propria originalità. Il calcio non accetta le differenze, ed è questo l’aspetto che più mi delude. I giocatori sono troppo banali. Sono macchine costruite per giocare, non hanno il diritto di pensare con la propria testa. […] Sono troppo deluso dall’ambiente del calcio. La gente che viene a vedere le partite non ha alcuna sensibilità, alcuna follia, nessuna capacità di pensare. È un contesto in cui non vivo la vita che vorrei vivere. Mi sto solamente avvicinando a un’altra vita, a un’altra vita che sto aspettando […] Il calcio è un’arte minore. A me interessa l’arte maggiore […] lo sanno tutti che dipingo. Ma ho altre passioni. Voglio vivere nella follia dell’artista creativo» (pp. 74-75). «C’è un confine sottile tra libertà e caos. Per certi versi, abbraccio l’idea dell’anarchia. Ciò che cerco realmente, è un’anarchia di pensiero, una liberazione della mente da tutte le convenzioni» (p. 267).

È sicuramente insolito trovare un calciatore che dichiara di essere attratto da figure di banditi che hanno scosso la Francia degli anni Settanta. «I nomi di Mesrine e Spaggiari per i francesi hanno una risonanza profonda e cupa. Erano entrambi famosi banditi degli anni Settanta, diventati eroi per alcuni settori della società per aver assalito in maniera audace i simboli dell’establishment borghese […]. Per loro, o almeno è ciò che affermavano, il crimine era anche un atto di rivolta, un discorso morale e politico che, per certi versi, li portava al di là dei confini stabiliti tra bene e male. Spaggiari aveva qualche giustificazione per affermarlo. Fu l’autore di una delle rapine più sbalorditive di sempre, il furto di cinquanta milioni di franchi dalla Société Générale di Nizza del 1976, lasciando lo slogan “Sans armes, ni haine, ni violence” (senza armi, né odio, né violenza) su una cassaforte. Mesrine, che nella sua autobiografia di successo scritta in carcere (L’Istinto di morte) si vantava di aver commesso non meno di trentanove omicidi, incarnò una sorta di discutibile Robin Hood dei tempi moderni. Dopo un’inverosimile fuga da una stanza per gli interrogatori, Spaggiari passò alla macchia gli ultimi dodici anni della sua vita, prima di morire in Italia per un tumore alla gola. Mesrine, un delinquente dotato di grande carisma che, col sigaro tra le labbra, offrì dello champagne al poliziotto che aveva rintracciato il suo nascondiglio, morì trivellato da una pioggia di proiettili nel 1979, con delle granate a mano e delle armi automatiche ai suoi piedi. Sarebbe facile pensare che il riferimento di Cantona a quei famosi criminali fosse legato alle convenzioni nella società francese – ricordo i nomi di Spaggiari e Mesrine venire citati con una certa ammirazione a cena nella mia famiglia al tempo delle loro imprese – ma, oltre a tradire un’identificazione con l’avventuriero dissidente, la cosa rivelava anche un nichilismo politico che per più di un secolo è stato una costante tentazione per gli individualisti. L’inclinazione politica di Éric non può essere definita secondo la classica dicotomia destra-sinistra. […] Ciò che univa Mesrine e Spaggiari – e che deve aver sedotto Cantona – era il rifiuto dell’autorità, qualunque essa fosse. Éric non si è mai schierato con nessun partito, ma era piuttosto felice di alzarsi in piedi e rispondere quando veniva chiamato in causa (dagli amici o dalle circostanze) a esprimersi contro i politici o le idee che odiava. Il “sistema”. Il razzismo. Gli errori giudiziari (a un certo punto ha manifestato il suo sostegno al pastore corso Yvan Colonna, condannato per l’uccisione del prefetto Érignac). È lui […] ad aver dichiarato in diretta alla televisione: “Napoleone è osannato, anche se ha restaurato la schiavitù. Un gigante, mentre invece era un nano che oggi è stato rimpiazzato da un Le Pen con indosso una maschera: Sarkozy”. Rileggendo alcuni passaggi delle memorie di Mesrine, mi sono imbattuto in questa frase: “Se vivete nell’ombra, non vi avvicinerete mai al sole”. E ho pensato che avrebbe potuto essere di Cantona. La sfrontatezza di quell’affermazione, senza fioriture, mi ha ricordato molte delle massime date in pasto ai giornalisti quando era una giovane promessa ad Auxerre: mostrando teatralmente la sua inclinazione per la verità e rivelando tuttavia un desiderio e un bisogno di essere visto come un révolté, una parola di cui non riesco a trovare un corrispondente in inglese. Un “ribelle” forse, ma la cui ribellione deriva da un’innata sete di giustizia, che sa di non poter placare» (p. 265).

Philippe Auclair ricostruisce la vita di “King Éric”, come ancora oggi viene definito dai supporter dei red devils, vistando i luoghi in cui ha vissuto e intervistando più di duecento testimoni delle sue gesta dentro e fuori il rettangolo verde, dai primi allenatori ai compagni di squadra. Insofferente all’autorità, in campo e fuori, estroso e imprevedibile, Cantona brucia velocemente le tappe calpestando i campi francesi di Auxerre, Marsiglia, Bordeaux, Montpellier e Nîmes per poi attraversare la Manica e passare da Leeds fino a calcare, da assoluto protagonista, il palcoscenico dell’Old Trafford di Manchester.

Il libro, che si apre con un affresco della natia periferia meticcia marsigliese, non manca di mettere in luce aspetti di Cantona che il mondo pallonaro considera semplicemente vezzi stravaganti di chi intende essere originale a tutti i costi, come nel caso della passione per la pittura di Éric, passione che nel rude ambiente calcistico gli procura più di qualche presa in giro. «Un calciatore che dipinge? Che ridere, un’assurdità. Nell’universo machista del calcio, e in particolare di quello inglese, tra i motivi di ostracismo, un’inclinazione artistica, specie se un’inclinazione genuina come quella di Cantona, si classifica appena dopo l’omosessualità. Per i suoi nemici, il suo interesse per l’arte non era altro che l’ennesima prova della sua insopportabile arroganza. “Dipingo” significava: “Sono migliore di voi”. Il che voleva dire conoscere davvero poco l’uomo (cosa che sarebbe accaduta spesso). La vanità non c’entrava nulla in quel bisogno di introspezione» (pp. 29-30). «L’idea che le persone hanno di me non mi interessa. Quando sono sulla passerella di Paco Rabanne, per esempio, non bisogna andare a cercare un altro motivo, sto soltanto dando piacere al mio corpo. La cosa più importante è sentirsi a proprio agio con il proprio corpo, senza barare. Posare per un grande fotografo è un piacere egoistico – ma nella vita non c’è nulla di innocente. “Tout est égoïsme”» (p. 223).

Il primo contratto professionistico Cantona lo firma con l’Auxerre ed i buoni risultati conseguiti lo portano presto allo Stade Vélodrome del suo Olympique Marsiglia ove però, anche a causa del suo difficile carattere, non ottiene i risultati sperati e finisce col vestire a fasi alterne le maglie del Bordeaux, del Montpellier e del Nîmes. Risse e liti furibonde con i compagni di squadra e con gli arbitri, feroci critiche nei confronti del ct della Nazionale francese finiscono per procurargli diversi grattacapi a cui reagisce con la solita sbruffoneria.
Il 7 dicembre del 1991 nel corso della partita del Nîmes con il Saint-Étienne, all’ennesimo fallo subito e non fischiato, Cantona mette in scena uno dei suoi memorabili coup de théâtre: tira il pallone contro l’arbitro e si avvia direttamente verso gli spogliatoi senza girarsi verso il malcapitato che sventola goffamente al suo indirizzo un cartellino rosso. Alla commissione disciplinare Cantona si dice pronto a pagare il conto in termini di squalifica ma chiede di essere trattato come qualsiasi altro calciatore. Ma Cantona non è un giocatore come gli altri, perdio! «Non la possiamo giudicare come qualunque altro giocatore. Quando passa, lascia sempre una scia di zolfo. Da gente come lei ci si può aspettare di tutto» (p. 128). Così si esprime il presidente della disciplinare. La reazione di Cantona? Passa in rassegna uno ad uno i membri della commissione ripetendo a ciascuno un unico secco e inequivocabile termine: «Idiot!», guadagnando così altri due mesi di squalifica oltre alle quattro gare di sospensione appena ricevute. Un suicidio, calcisticamente parlando. Anzi, un primo suicidio calcistico, perché il nostro si suiciderà, sempre calcisticamente parlando, una seconda volta.

Il clima in Francia si è fatto pesante per lui, dunque capisce che forse è meglio cambiare aria e decide di trasferirsi nel West Yorkshire, al mitico Elland Road del Leeds United, lo stadio indicato da Alex Ferguson come il più intimidatorio sui cui abbia mai giocato o allenato. Nel ricostruire la situazione del calcio inglese nel momento in cui il giovane marsigliese mette piede a Leeds il giornalista Philippe Auclair scrive: «Il bando dalle competizioni europee post Heysel aveva spinto il calcio ad accartocciarsi sulla sua parte peggiore, un perverso miscuglio di paura – degli altri, degli stranieri, degli eccentrici – e di glorificazione delle virtù “virili” nelle quali un osservatore imparziale poteva vedere solo rozzezza e brutalità. Lo spettacolo in campo rifletteva quanto accadeva sulle tribune. Il calcio tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta offriva uno spettacolo scialbo, e a volte violento. C’era un’abbondanza di centrocampisti con un piede solo che correvano da un’area all’altra del rettangolo di gioco, capaci solo di sgobbare, contrastare e fare lanci lunghi. Quasi tutte le squadre annoveravano il cosiddetto centravanti “tipico” o “vecchia maniera”, tutto colpi di testa e gomitate. Alcuni erano buoni professionisti […]. Ma molti altri erano solo bulli che sul Continente sarebbero stati espulsi su due piedi. I difensori centrali scaraventavano i palloni lontano dalla zona pericolosa con la benedizione dei propri allenatori. Correvano tutti a cento all’ora, inzuppando le maglie con un sudore onesto, dando calci, ricevendone, sacrificando il loro eventuale talento nell’incessante ricerca della vittoria […] Nel corso degli otto anni intercorsi tra la carneficina dell’Heysel e il primo titolo del Manchester United dal 1967, il calcio inglese diede l’impressione di essere giocato nel cuore dell’inverno, su campi spazzati dal vento e infangati per la pioggia. Poteva avere ancora un certo fascino per gli habitué del sabato, che però erano sempre meno numerosi, malgrado i prezzi popolari dei biglietti, e non solo perché i tifosi cosiddetti normali volevano evitare problemi. L’hooliganismo era il sintomo, e non per forza una causa, di quel triste declino» (pp. 164-165).

Per certi versi, sostiene Auclair, la fortuna di Cantona è quella di giungere in Inghilterra proprio in un momento in cui il calcio locale è l’opposto del suo gioco votato al “beau geste”: in caso di fallimento la colpa potrebbe facilmente essere fatta cadere sull’incompatibilità tra le due filosofie calcistiche, in caso di successo, invece, il merito andrebbe tutto al calciatore capace di imporsi nonostante tutto e tutti. Le differenze tra le due modalità di vivere il calcio sono ben spiegate dall’autore del libro a partire da alcune espressioni calcistiche francesi che non hanno un corrispettivo immediato inglese. «Il primo problema lo riscontrai cercando l’equivalente di l’amour du geste, un espressione che Éric ha sempre amato usare. “Geste” non ha un equivalente in inglese, a meno che non si decida di prendere per buono “gesto tecnico”, a cui manca però la nobiltà (forse eccessiva) del sostantivo francese, la cui storia semantica racchiude al tempo stesso la finzione e la letteratura cavalleresca (che in Francia chiamiamo chanson de geste – Cantona nei panni di Lancillotto, ecco una bella idea per un film). I britannici avevano “noce moscata” per pétit pont (piccolo tunnel, un’espressione che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni) ma niente per grand pont, che in Francia usiamo quando un giocatore aggira l’avversario toccando il pallone da una parte e lanciandosi dall’altra per recuperarlo dopo averlo superato. Tutto il resto lo chiamavano tocco. Non ho mai trovato nulla che assomigliasse a “aile de pigeon” (ala di piccione, ovviamente), una meravigliosa scorciatoia semantica per uno dei “gestes” più eleganti nel calcio: il colpo di tacco volante, con cui ci si porta avanti la palla, dopo averla ricevuta troppo arretrata, o si serve un compagno. Noi abbiamo anche il “madjer”, dal giocatore marocchino Rabah Madjer, per descrivere un gesto simile usato per segnare una rete. E il “coup du sombrero”, una specialità di Patrick Vieira, con cui il pallone, di solito subito dopo lo stop, viene fatto passare sopra la testa dell’avversario e poi recuperato. Per trovarne un esempio calzante, guardate il capolavoro di Cantona con la maglia del Leeds contro il Chelsea verso la fine della stagione 1991-1992, quando il malcapitato Paul Elliot fece – due volte di seguito – una perfetta imitazione dell’attaccapanni. O Paul Gascoigne che irride Colin Hendry prima di mettere a segno una delle sue reti più belle in nazionale a Wembley. Esistono numerose altre parole del genere, di cui “feuille morte” – la foglia morta, ossia un tiro, di solito su punizione, calciato con pochissima forza e che, grazie alla sua precisione e all’effetto sorpresa, cade lentamente sotto l’incrocio dei pali ingannando il portiere – e il “coup du foulard” – la rabona – sono soltanto due dei più noti nel mio paese. Anche per un gesto elementare come una “déviation” in Inghilterra si utilizza sempre il termine “tocco”. Ciò che mi sorprende di più è che questi “pezzi di bravura” non vengono da un pianeta sconosciuto ai giocatori britannici. Facevano tutti parte del repertorio di George Best, di Robin Friday e Chris Waddle. […] Il fatto sorprendente è che gli inglesi non hanno mai creato un vocabolario che permettesse loro di riferirsi (in allenamento, nei resoconti sulle partite o nei discorsi da pub) ad alcune delle manifestazioni più armoniose e a volte più efficaci del talento di un calciatore su un terreno di gioco. Forse perché quei tocchi fantasiosi erano e sono tuttora considerati sleali? O perché erano troppo arroganti e andavano contro il vero spirito del gioco?» (pp. 220-221).

Tornando alla permanenza di Cantona a Leeds, seppur breve è sufficiente per vederlo fare le valige dopo essere stato tra i protagonisti della stagione della vittoria del titolo del 1992 e aver rifilato una storica tripletta al Liverpool nella vittoria per 4 a 3 nel Charity Shield. Alla notizia del suo addio alla squadra il centralino del «Post» di Leeds è sommerso da 1337 telefonate di tifosi e ben 1065 di questi sono infuriati per la sua cessione, si sentono traditi dalla sua partenza in direzione di un club odiato ma diversi personaggi che gravitano attorno al club della città del West Yorkshire tirano un sospiro di sollievo per essersi liberati di un personaggio ingombrante, arrogante e, per di più, francese. Il tradimento è una brutta bestia nel calcio e in un istante l’adulazione degli spalti dell’Elland Road per Cantona si trasforma in odio. Nel frattempo a livello di nazionale francese gli europei del 1992, poi vinti dalla Danimarca, sono un disastro: nonostante la qualità dei giocatori la Francia esce malconcia dalla competizione e l’apporto di Cantona si rivela inconsistente. Le valige chiuse a Leeds vengono riaperte nella città di Manchester ove il calciatore approda allo United di Alex Ferguson ed è lì che il calciatore si consacra come leggenda. «Se è mai esistito sulla terra un giocatore perfetto per il Manchester United, quello era Cantona. Penso che per tutta la vita avesse cercato qualcuno che lo guardasse e lo facesse sentire a casa. Aveva viaggiato molto: alcune persone hanno una certa tendenza al nomadismo. Ma quando è arrivato qui, lo ha capito immediatamente: questa è casa mia» Alex Ferguson (p. 200).

Le clip che si trovano in internet e che pretendono in pochi minuti di mostrare l’amour du geste messo in scena da Cantona con la maglia del Manchester United offrono soltanto una pallida idea di quello che i tifosi hanno vissuto in diretta sugli spalti e che ad libitum si sono raccontati tra una pinta e l’altra nei pub. Il 25 gennaio del 1995 “King Éric”, calcisticamente parlando, si suicida una seconda volta: espulso, nell’abbandonare il terreno di gioco sferra uno sciagurato colpo di kung-fu nei confronti di un tifoso del Crystal Palace in vena di insulti. Questa follia costa al giocatore nove mesi di squalifica. Alla conferenza stampa, sotto agli occhi di decine di macchine fotografiche e di telecamere Cantona non trova di meglio che affrontare quanto accaduto uscendosene con una frase destinata a restare nella storia: «Quando i gabbiani [sorso d’acqua] seguono un peschereccio [la “o” quasi impercettibile, allungandosi all’indietro, sorridendo e fermandosi un’altra volta], è perché pensano che [altra pausa] delle sardine stiano per essere gettate in [piccola esitazione] mare (un sorriso e un cenno col capo). Grazie, davvero» (p. 309). Le interpretazioni della stampa sportiva si sprecano, invano. «Il mio avvocato e i dirigenti volevano che parlassi. Così ho fatto. Non è stato niente di che, non voleva dire nulla. Avrei potuto dire: “Le tende sono rosa ma mi piacciono lo stesso”» (p. 309). Il primo di ottobre 1995 Cantona torna in campo contro il Liverpool e fino all’11 maggio del 1997 torna a deliziare i tifosi con l’amour du geste.

Successivamente la storia diventa altra, o forse no. Tra mille contraddizioni l’inquietudine di Cantona continua a conquistare il palcoscenico, tra campagne per far crollare il sistema bancario, redditizie pubblicità per multinazionali e partecipazioni cinematografiche. Tra tutto ciò occorre almeno ricordare l’uscita nel 2009 del film Looking for Eric (Il mio amico Eric) diretto da Ken Loach, tratto da un’idea dello stesso Cantona con sceneggiatura di Paul Laverty.

 

 


Linee di fuga: serie completa

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Gli archetipi di Io, Daniel Blake di Ken Loach https://www.carmillaonline.com/2016/12/13/gli-archetipi-daniel-blake-ken-loach/ Mon, 12 Dec 2016 23:01:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35283 di Mauro Baldrati

daniel-blake-982x540Di per sé il film non necessita di elaborate riflessioni. E’ semplice, ben fatto, forte, con una sceneggiatura che tiene fino alla fine. Costituisce un ritratto spietato, a tratti verista, del mostro burocratico che infuria nel welfare inglese, o almeno ciò che ne resta, dopo le scorrerie liberiste di Margaret Thatcher. E’ preciso, persino puntiglioso, nel suo impianto “avvocatesco” come l’ha definito Goffredo Fofi.

Daniel Blake è un falegname reduce da un brutto infarto, che l’ha privato anche del sostentamento. Il suo referto medico, infatti, gli impedisce [...]]]> di Mauro Baldrati

daniel-blake-982x540Di per sé il film non necessita di elaborate riflessioni. E’ semplice, ben fatto, forte, con una sceneggiatura che tiene fino alla fine. Costituisce un ritratto spietato, a tratti verista, del mostro burocratico che infuria nel welfare inglese, o almeno ciò che ne resta, dopo le scorrerie liberiste di Margaret Thatcher. E’ preciso, persino puntiglioso, nel suo impianto “avvocatesco” come l’ha definito Goffredo Fofi.

Daniel Blake è un falegname reduce da un brutto infarto, che l’ha privato anche del sostentamento. Il suo referto medico, infatti, gli impedisce di lavorare. Per cui non gli resta che richiedere l’assegno di invalidità. E qui inizia l’incubo, il viaggio allucinante nei meandri di una burocrazia dominata da moduli da compilare on-line, che per Daniel, un uomo vecchio stampo che non conosce i computer, sono un ulteriore motivo di sofferenza. Si scontra, spesso protestando e indignandosi, con normative che si contraddicono l’una con l’altra, imposte da gelidi funzionari che non hanno nulla di umano, sembrano macchine parlanti. La pensione gli viene negata, dopo una specie di odissea che strappa indignazione ma anche più di una risata allo spettatore, travolto da un mix di ironia e teatro dell’assurdo, che suscita domande tipo: “Ma come sono messi gli inglesi? Peggio di noi!”.

Daniel non ha altre risorse che l’indennità di disoccupazione, in attesa di un ricorso che non può presentare perché manca “la telefonata del responsabile” che conferma il rifiuto della pensione. Ma anche qui la maschera crudele della burocrazia mostra la sua smorfia. Per accedere al sussidio deve dimostrare che passa 35 ore alla settimana a cercare lavoro, soprattutto con un sistema on-line (di nuovo). In uno dei suoi sussulti di “cittadino” fa presente che non può cercare lavoro, perché i medici l’hanno giudicato inabile. E allora deve fare richiesta di assegno di invalidità, ribatte la funzionaria-macchina (risate tra il pubblico). Respinta, dice. La funzionaria-macchina non si scompone, chiede cosa intende fare: vuole compilare il modulo o no?

La storia va avanti con ritmo incalzante, con un accanimento che risulta persino eccessivo, probabilmente per difesa psicologica dello spettatore, che forse ha rimosso i deliri burocratici di casa propria, e vederli rappresentati con un tale puntiglio crea un meccanismo difensivo di stupore. Daniel più volte ha la tentazione di lasciare perdere, di mandare tutto al diavolo, ma sa che questo è proprio ciò che vogliono “loro”: eliminare i richiedenti bisognosi, buttarli in strada in stato di emarginazione terminale a sopravvivere coi buoni del banco alimentare. Ogni tanto un raggio di luce, nella fotografia volutamente squallida e povera, si sprigiona dalla solidarietà che si manifesta tra gli appartenenti alla stessa classe degli esclusi, delle vittime del sistema liberista classista. Come il rapporto tra Daniel e una madre single con due figli che riesce a malapena a sfamare. E’ una specie di vitalità, un elemento di speranza nel gelido deserto della burocrazia.

Se fosse un film neorealista avrebbe un finale aperto, con auspici positivi, ma il terribile senso di impotenza che pervade il personaggio si chiude, coerentemente, in tragedia: la tragedia di un cittadino che non vale nulla, che non esiste, la cui dignità viene calpestata fino alla fine.

Fine, appunto.

Invece no. Perché qui sta il limite del film. Un limite che non riesce a riscattarsi nel clima di forte denuncia sociale. Un clima avvocatesco, non politico.

Quello che Ken Loach rappresenta si può dividere in due archetipi: un sistema sociale-burocratico che ha dichiarato guerra: all’umanità, all’uomo in quanto tale. Guerra alla specie. Che cos’è la guerra? E’ predazione, occupazione violenta di territori, di comunità, eliminazione dei diritti e dell’autodeterminazione. I popoli sono invasi da truppe di occupazione che dispongono di loro, del lavoro, del futuro. Chi sgarra viene eliminato.

Il secondo archetipo è una vittima, Daniel Blake. Una delle tante, privato delle sue poche risorse, che vengono inglobate dagli occupanti. Se non serve più, che si faccia da parte. Se muore, è meglio. Una zavorra in meno. Daniel si trascina nel suo ruolo di vittima, continuamente. Cerca di opporre la sua dignità al meccanismo antiumano che lo domina. Ma poiché il sistema risponde con nuove aggressioni burocratiche, si sente umiliato. Ma come, umiliato? Che si fa in caso di guerra, contro le truppe di occupazione? Se non esiste un esercito che possa combattere a viso aperto si fa resistenza. Ogni mezzo è lecito contro chi ci ha dichiarato unilateralmente guerra. Resistenza, anche solo individuale se non vi sono altre risorse. Senza avere mai per la testa, neanche lontanamente, il dubbio dell’umiliazione. Invece Daniel continua a opporre il suo stato di “cittadino”, coi suoi valori integri, onestà, sincerità, a funzionari-macchina senza scrupoli che sono pronti a terminarlo. Come la lettera finale, scritta a mano, che viene letta in un momento altamente emotivo dalla ragazza madre: Io sono un uomo, scrive Daniel, non sono un ladro, non un parassita, ma semplicemente un uomo. Un ladro? Un parassita? Quando ti hanno tolto tutto, ti hanno rovinato la vita e la salute, a te, ai tuoi cari, ti poni il problema di essere un ladro? Non credi di dovere resistere ad ogni costo, cercando per quanto possibile di fregare il blocco di occupazione? Non sta qui la vera dignità, nella resistenza?

Per esempio la scena del graffito, esemplare: arrivato al punto di massima esasperazione scrive sul muro il suo nome, la sua storia: lasciatemi fare ricorso, prima di farmi morire di fame. Riceve gli applausi della gente, attestati di solidarietà, e l’arrivo della polizia. Arrestato, gli viene consegnata un’ammonizione. Per una volta nessuna sanzione, anche considerando la sua condotta esemplare, ma alla prossima… Daniel subisce a testa bassa e se ne va con le spalle curve, cittadino umiliato. Cazziato e perdonato. Per ora.

Ma come? Sei l’Archetipo nell’Archetipo e non lo scrivi di nuovo, e ancora, di notte, senza farti vedere, e se ti arrestano neghi: io? Non l’ho scritto. Chissà chi è stato. E poi lo riscrivi, riempi la città di scritte, fai viaggiare il tuo messaggio di lotta, di resistenza. Affermi la tua esistenza. Perché sei in guerra. E non l’hai dichiarata tu.

Per questo il film ha vinto la Palma d’Oro. Questi premi istituzionali, cinematografici, letterari, sono attenti alla qualità, alla denuncia sociale, e questo film non scherza; ma c’è un limite preciso: ben venga l’indignazione, la rappresentazione delle storture, la prepotenza, l’ingiustizia, ma non si deve uscire dall’emotività; non si deve scavalcare lo steccato della regola non scritta: non ci si azzardi a entrare nella fase strutturale, mettendo davvero in discussione l’esistenza stessa del sistema, il suo ribaltamento e la sua distruzione.

Questo mai.
Se lo fai, se salti lo steccato, il premio te lo scordi.

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Jimmy’s Hall e American Sniper: parallele così vicine e così lontane https://www.carmillaonline.com/2015/01/11/jimmys-hall-american-sniper-parallele-cosi-vicine-cosi-lontane/ Sat, 10 Jan 2015 23:01:03 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=19944 di Rinaldo Capra

iraL’uscita a distanza ravvicinata di due film politicamente schierati, crea nel pubblico sentimenti profondi, forti emozioni e reazioni così simili e opposte, facce di una stessa medaglia. La cosa non è frequente ed è funzionale alla comprensione dei temi trattati. I due film, proposti a cavallo delle feste natalizie, sono di due autori famosi, sensibili alla storia sociopolitica seppur schierati su opposti fronti. Sono nell’immaginario collettivo accomunati dall’onestà intellettuale, dall’orgoglio di classe, dalla difesa dei propri valori ad ogni costo, osservatori dolenti e critici dell’inutilità della violenza, narrano storie che corrono parallele e che pur rispecchiandosi a distanza [...]]]> di Rinaldo Capra

iraL’uscita a distanza ravvicinata di due film politicamente schierati, crea nel pubblico sentimenti profondi, forti emozioni e reazioni così simili e opposte, facce di una stessa medaglia. La cosa non è frequente ed è funzionale alla comprensione dei temi trattati. I due film, proposti a cavallo delle feste natalizie, sono di due autori famosi, sensibili alla storia sociopolitica seppur schierati su opposti fronti. Sono nell’immaginario collettivo accomunati dall’onestà intellettuale, dall’orgoglio di classe, dalla difesa dei propri valori ad ogni costo, osservatori dolenti e critici dell’inutilità della violenza, narrano storie che corrono parallele e che pur rispecchiandosi a distanza ravvicinata non s’incontrano mai, ma vivono una dell’altra.

Due pellicole necessarie che confrontandosi moltiplicano la loro forza espressiva. La macchina cinema ha dato il meglio di sé, due storie avvincenti, esemplari, incalzanti, che ti fanno sentire l’odore dell’erba irlandese come della sabbia del deserto iracheno. Gli splendidi interpreti incarnano i protagonisti delle storie, con grande realismo ed efficacia, ci trascinano dentro la storia, diventano tangibili le loro tensioni ideali, la disperazione amorosa, la lealtà verso gli amici e la causa, le paure. Storie lontane ma simili e separate solo dalla latitudine e dall’epoca e viste da due punti di osservazione opposti a creare un’ontologia del conflitto sociale, culturale, umano.

Parliamo ovviamente di “Jimmy’s Hall – Una storia d’amore e libertà” di Ken Loach e di “American Sniper” di Clint Eastwood . Due film e due storie esemplari, con due protagonisti “archetipici“, eroi paralleli, ma che non s’incontrano mai e non condividono nulla se non la violenza, con due visioni del mondo che sono “ le due visoni del mondo “: quella dei ricchi e quella dei poveri. Jimmy è perfetto per spiegare Chris, legati tra loro come nell’immagine fotografica il negativo è legato al positivo, dove se manca uno dei due, non avremo mai la visione dell’insieme che li ha generati, ma che comunque esiste e ci dovremo sempre fare i conti. Entrambi i film ci raccontano una verità comune: – Lo Stato ha l’assoluto monopolio della violenza! – Qualunque esso sia: occidentale e cristiano, o Islamico e orientale.

La religione con il suo armamentario di minacciosa superstizione e ignoranza, nella sua parte istituzionale, è sempre al fianco dello Stato quando pratica la violenza e lo istiga, lo benedice e lo giustifica. “Dio, Patria e Famiglia” è la banale retorica strumento sempre buono per aizzare, illudere, esaltare i popoli. La presunzione di essere strumento di Dio e della civiltà, di essere nel giusto da parte di soldati e preti è chiara e persistente in entrambi i film, ma lo sguardo è quanto mai diverso. I poveri, i proletari, gli ultimi di ogni latitudine, epoca e fede subiscono sempre e comunque la violenza del sistema, sia quando la impongono ad altri, sia quando la subiscono.

Il soldato che spara è violentato quanto la sua vittima e la pagherà con drammi personali ed emotivi, ingestibili. Forse solo la consapevolezza della vera cifra della violenza del potere può aiutare a difendersi. I due protagonisti sono diversi e complementari, indissolubilmente legati dalla violenza del sistema. Jimmy, rivoluzionario disincantato che ha conosciuto la guerra civile, l’esilio e lo sfruttamento della fabbrica, cerca la felicità con leggerezza (il ballo), la condivisione della libertà da ignoranza e superstizione religiosa con i propri compagni. Pieno di dubbi non ha mai certezze. La violenza della religione è sottile, ricattatoria e alla fine materiale e fisica, esercitata come sempre da soldati comandati da preti, padroni e politici, ma non può cambiare Jimmy che sarà esiliato perché non si piega al sistema.

contractorsChris è figlio della sua terra, il Texas, e di un diacono e ha ricevuto un mandato assoluto da quella bigotta, psicopatica e devastante società capitalistica: difendere i valori Wasp, vendicare il suo popolo e uccidere chiunque non accetti tali valori in qualsiasi parte del mondo in nome di Dio e del progresso. Depresso, emarginato, incapace di guardarsi dentro, privo d’ironia è ossessionato dal suo compito (il protettore) e annega nella retorica di regime. Inconsapevole, la vera religione che pratica è la difesa degli interessi economici Americani. Proletario senza capacità e strumenti i culturali, micidiale strumento di guerra, è per il sistema, e tutto il male che lo circonda è male necessario, sicuro che “ al cospetto del creatore potrà giustificare ogni colpo sparato” perché ha saputo distinguere il bene dal male.

Lo sguardo di Ken Loach è sociale, guarda al personale e ritorna al sociale. Da una prospettiva generale scende nel particolare del personale, dove le esperienze, sentimenti e azioni del singolo creano un patrimonio culturale condiviso e in perenne divenire, che si espande agli altri e torna a essere sociale, a disposizione di tutti, con la libertà e l’uguaglianza come valori condivisi.

Lo sguardo di Clint Eastwood è personale, guarda al sociale e torna al personale come unica soluzione esistenziale, con le proprie certezze monolitiche. Convinto della superiorità ideale dell’Occidente bianco e Imperialista non sa guardare all’Oriente. Impotente non capisce il diverso e ne vuole piegare tutti i valori culturali ai propri. Ne è talmente certo che ritiene inutile cercarne il senso: l’Occidente è cultura e civiltà e l’Oriente è barbarie e ignoranza. Teorizza la funzione epistemologica della violenza, accetta l’uso sociale della menzogna, non cita le origini della guerra che la società occidentale sta facendo e omette i tratti veri, violenti e psicopatici di Kyle e degli eserciti occidentali. Questo il suo personale punto di vista su ciò che è bene e male, non negoziabile a dispetto di credo e culture diverse. Questi valori, nella loro forma più isterica e violenta, sono imposti a tutti con la propaganda e l’educazione diventando psicopatologia di massa. Se si affaccia il dubbio condiviso sull’opportunità di tanta violenza (sollecitato dalla lettera letta dalla madre di Marc al funerale) è presto risolto in chiave personale, con la certezza di aver fatto il proprio dovere e di fronte a Dio e alla Nazione.

L’esposizione finale delle foto del vero Kyle, perennemente armato e durante i suoi funerali, impone di chiarire che quest’uomo era stato congedato su richiesta della moglie per le turbe psichiche manifestate. Nel periodo in cui gli fu diagnosticata una sindrome da stress post traumatico (PTSD) fu protagonista di numerosi episodi violenti che culminarono con la presunta uccisione di due uomini che volevano rubargli l’auto. Forse, anzi ne sono certo, quest’uomo non ha mai esercitato il diritto di scelta, ma ha sempre subito le imposizioni e i condizionamenti sociali.

La critica cinematografica non m’interessa, ma credo che i due film siano da vedere tutt’e due e magari in un tempo ravvicinato. Sono potenti, e assieme ancora di più, i protagonisti ci trascinano nell’impossibile incubo del mondo in cui viviamo e alimentano il sogno di risvegliarci in un altro mondo, in un sistema forse possibile, senza dei onnipotenti, retorica, spacciatori di certezze e rivoluzionari di mestiere, perché citando Loach, ma da “ Il vento che accarezza l’erba”, un agricoltore disse ai due fratelli militanti dell’IRA che se quelli come loro avessero vinto la guerra, l’Irlanda sarebbe diventata “un acquitrino infestato di preti”.

marine california

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