Karl Radek – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 02 May 2024 00:30:26 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.25 L’internazionalismo e la guerra in Ucraina https://www.carmillaonline.com/2022/11/22/linternazionalismo-e-la-guerra-in-ucraina/ Tue, 22 Nov 2022 21:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74715 di Sandro Moiso

Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria, La guerra in Ucraina e l’internazionalismo proletario, Milano 2022, pp. 210, euro 10,00

Dal 24 febbraio ad oggi intorno al conflitto sviluppatosi in Ucraina non solo è cresciuto il numero delle vittime e dei caduti su entrambi i fronti, aumentata a dismisura la cifra dei danni e delle distruzioni e il prezzo delle materie prime (soprattutto grano e gas) toccate dall’andamento della guerra (oltre che dall’intramontabile speculazione commerciale e finanziaria), ma anche la quantità di menzogne narrate dalla propaganda delle parti coinvolte, dai governi, dai presunti [...]]]> di Sandro Moiso

Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria, La guerra in Ucraina e l’internazionalismo proletario, Milano 2022, pp. 210, euro 10,00

Dal 24 febbraio ad oggi intorno al conflitto sviluppatosi in Ucraina non solo è cresciuto il numero delle vittime e dei caduti su entrambi i fronti, aumentata a dismisura la cifra dei danni e delle distruzioni e il prezzo delle materie prime (soprattutto grano e gas) toccate dall’andamento della guerra (oltre che dall’intramontabile speculazione commerciale e finanziaria), ma anche la quantità di menzogne narrate dalla propaganda delle parti coinvolte, dai governi, dai presunti esperti e dai vertici militari e diplomatici europei e statunitensi.

La “nebbia” di guerra, diffusa da bufale evidenti e narrazioni ben altrimenti architettate, però, non ha solo cercato di confondere l’opinione pubblica, che a dir del vero non sempre si è prestata così facilmente al discorso della guerra giusta oppure difensiva, ma è anche servita a creare spaccature non lievi all’interno di un pensiero e di una pratica antagonista che, dopo aver ignorato per decenni il discorso sulla guerra, non ha mancato di scoprire l’esigenza di schierarsi, troppo spesso, con l’uno o l’altro degli schieramenti in lotta.

Ben venga dunque il testo appena pubblicato dai compagni facenti riferimento alla Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria che, senza mancare di fornire abbondanza di dati sulle cause politiche, militari, economiche ricollegabili allo sfruttamento dei territori compresi nei grandi spazi che si estendono tra i confini orientali dell’Unione Europea e la Federazione degli Stati russi e alla loro importanza geopolitica, si sforzano nel tentativo di fornire una lettura internazionalista non soltanto degli avvenimenti inerenti al conflitto, ma anche ai compiti che l’antagonismo di classe dovrebbe darsi in un simile, drammatico e dirimente frangente.

Così, cominciando proprio là dove il libro si conclude con le sue appendici, appare utile ancora oggi la ripubblicazione dei due manifesti delle conferenze di Zimmerwald (settembre 1915) e di Kiental (1° maggio 1916) che posero le basi per l’opposizione internazionalista al primo grande macello imperialista. Il primo

originariamente redatto da Lev Trotsky e successivamente emendato, che venne adottato dalla Conferenza Socialista Internazionale svoltasi a Zimmerwald, in Svizzera, a conclusione dei suoi lavori, l’8 settembre 1915. La sua approvazione fu preceduta da lunghe e vivaci discussioni, dovute soprattutto alle posizioni rivoluzionarie delle tendenze di estrema sinistra – capeggiate da V.I. Lenin e dai bolscevichi russi – che si opponevano all’atteggiamento pacifista della maggioranza dei delegati1.

Il secondo redatto da Giuseppe Modigliani, Ernst Meyer e Karl Radek in rappresentanza, rispettivamente, delle correnti di destra, di centro e di sinistra della conferenza, fu adottato il 30 aprile 1916. Entrambi importanti perché, come scrivono ancora i curatori del testo:

Siamo nel 1915- 1916, quando la guerra ha già mostrato il suo vero volto, la sua vera funzione di scannatoio di sfruttati a tutto e solo vantaggio delle classi sfruttatrici, e la Seconda Internazionale si è già schierata in maggioranza in senso opportunista e sciovinista “per la difesa della propria patria”. In questa terribile congiuntura – anticipando quella che sarà, a partire dal febbraio 1917, la potente risposta e riscossa del proletariato russo ed europeo martirizzato dal massacro mondiale – un pugno di militanti rivoluzionari internazionalisti traccia la prospettiva da seguire per mettere fine alla guerra proclamando che “il nemico principale è nel proprio paese” e rompendo la pace sociale sul fronte interno, la pestifera solidarietà nazionale. Un primo passo, secondo Lenin, per andare oltre verso la trasformazione della guerra tra stati, della guerra imperialista, in guerra civile rivoluzionaria contro gli stati capitalistici e imperialisti. Come poi avverrà con il grande assalto internazionale al cielo del decennio 1917-1927 che, seppur sconfitto, è rimasto eternamente presente ai borghesi dotati di coscienza di classe come un incubo2.

Cento anni non sono poi così tanti, soprattutto se il modo di produzione dominante è rimasto lo stesso di quello che aveva gia causato il conflitto di allora, quello mondiale successivo e ancora tutte le devastazioni belliche, sociali, economiche e ambientali che ne hanno accompagnato l’espansione fino ad ora. Espansione basato non soltanto sul sopruso sociale, politico e repressivo, ma anche sul tentativo continuo e reiterato di imporlo come unico punto di vista “condiviso”.

Mentre i due mammasantissima del militarismo atlantista Mattarella e Draghi martellano sull’assoluta necessità e bontà della guerra alla Russia, per la libertà dell’Italia e la difesa dei suoi “valori”, e da autocrati del capitale quali sono, ci invitano a fare tutti i sacrifici necessari per portare alla sua rovina la “nemica” Russia di Putin. Mentre lo stuolo dei loro pappagalletti in parlamento e nei media ci assorda con le sue invettive contro il “nemico esterno”. Mentre la feroce (e alquanto grottesca) discendente degli Junker prussiani von der Leyen, portavoce dell’industria bellica renana, gareggia con la sanguinaria premier britannica Truss nell’oltranzismo anti-russo rispolverando ogni giorno di più temi e toni della propaganda nazista. Mentre anche presunti personaggi “anti-sistema” vanno girando la penisola per chiedere il voto in nome di una Italia o più europea, o più sovrana, o più neutrale e “pacifista”, purché al di sopra di tutto ci sia sempre lei, la patria, l’Italia capitalista e imperialista (che fu la patria del fascismo e si prepara ad incoronare una lontana discendente del fascismo repubblichino)3.

Posizioni che non possono assolutamente essere condivise, invece, da chi schiera con l’internazionalismo di classe e la lotta contro il militarismo imperialista, come nei 21 punti fermi elencati già nell’introduzione al testo si sottolinea (come nei testi posti in appendice si rimarca). Sottolineatura dovuta questa, poiché, come ancora si ricorda nell’Introduzione, «essendo la guerra l’orgia delle menzogne» diventa necessario smontare anche l’immaginario che l’accompagna.
Per esempio la menzogna

secondo cui sarebbe in corso una romantica, se non rivoluzionaria, lotta di autodeterminazione condotta da tutte le classi della società ucraina strettamente unite tra loro come un sol uomo (Zelensky), di indipendenza nazionale della libera Ucraina contro il vecchio, incorreggibile orco russo. L’Ucraina di oggi tutto è salvo che una nazione libera, essendo stata progressivamente occupata, prima che dalle armate russe, dagli insediamenti economici, finanziari, diplomatici, militari, massmediatici dell’intero Occidente, e con speciale aggressività da un giro di interessi che fa capo alla banda Biden-Obama e Co. – un’occupazione resa possibile dal prevalere, in seno alla borghesia ucraina, della frazione legata all’Occidente. Ancora meno libera lo è, ovviamente, dal 24 febbraio, a seguito dell’invasione russa, che è stata l’occasione buona per moltiplicare l’invasione dei potentati occidentali, e le loro pretese sulle sue membra martoriate. Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia, la Polonia, l’Italia, la Romania, etc. etc., ogni paese “amico” pretende la sua quota di carne ucraina. E per effetto dell’“aiuto” di questi amorevoli Shylock l’Ucraina è più che mai un paese rovinato per i futuri decenni, alla bancarotta, in verticale perdita di popolazione, colonizzato dai suoi “amici” liberatori, oltre che straziato dai bombardamenti e dai carri russi4.

Ma se va disvelata la menzogna occidentale sulle motivazioni della guerra per garantire la giusta pace all’Ucraina, altrettanto va smontata la “verità” sbandierata da Putin nei suoi discorsi che sembrano spesso voler riabilitare l’antico sogno imperiale zarista.

Nel suo impegnativo discorso del 30 settembre per legittimare l’annessione delle province del Donbass, Putin si è presentato come un novello Che Guevara che sventola la bandiera dell’anticolonialismo tricontinentale contro l’imperialismo occidentale. La sua ben costruita invettiva non manca di efficacia e di richiami incontestabili alla “legge del pugno”, all’illimitata avidità di ricchezze e di profitti, alla pretesa di dominio totale sul mondo, all’inarrivabile ipocrisia dell’“Occidente collettivo” saccheggiatore dei popoli di tutto il mondo (per questo, qui, è stato completamente censurato). Senonché quella invettiva è tutta costruita sul richiamo alla “grande Russia”, alla “grande Russia storica” con la sua “storia millenaria”, al “posto che le spetta nel mondo” in quanto “grande potenza millenaria, una civiltà-paese”. Il che comporta la completa rivendicazione della Russia imperiale, zarista, una “prigione di popoli” secondo Lenin. Una rivendicazione che Putin fece senza mezzi termini, attaccando i bolscevichi, nel discorso del 21 febbraio in cui descrisse l’Ucraina come una costruzione artificiale da cancellare. Non una sola parola, fosse anche di mero distanziamento formale, sul fatto che la “grande potenza millenaria” prima feudale e poi feudalcapitalistica ha oppresso una molteplicità di popoli tra i quali tutt’oggi l’“Occidente collettivo” ha gioco facile nel seminare la russofobia5.

In entrambi i casi però si tace soprattutto sul fatto che

l’Ucraina è un paese dalle strepitose ricchezze naturali, non ancora del tutto esplorate. Può sfamare 600 milioni di abitanti nel mondo (avendone appena 40). Possiede il 5% delle risorse minerarie del mondo, pur avendo appena lo 0,4 della superficie terrestre globale. È tra le prime dieci nazioni produttrici ed esportatrici di metalli al mondo – 20.000 depositi per 194 minerali6.

A tale argomento il libro dedica un intero capitolo, dettagliato e ricco di dati, Dall’uranio al mais a tutte le altre strabilianti ricchezze dell’Ucraina, così come non si manca mai di sottolineare l’importanza della posizione geo-politica di quel paese, soprattutto dal punto di vista militare visto che chi lo occupa può spingere le proprie forze verso il cuore dell’Europa, il Nord della stessa oppure verso la Russia, la Turchia e gli stretti che separano il Mar Nero dal Mediterraneo e il Vicino Oriente.

E’ un testo ricco e propositivo quello che viene qui recensito, che ogni lettore farebbe bene a procurarsi per poter formulare giudizi più approfonditi e meno avventati sul conflitto in corso, le sue possibile conseguenze su scala planetaria e le forme della sua risoluzione che, a giudizio di chi scrive, possono esse riassunte nelle parole che già chiudevano il Manifeso di Zimmerwald, riportato, come si è già detto nel testo:

Proletari! Dopo lo scatenarsi della guerra avete messo tutte le vostre energie, tutto il vostro coraggio, tutta la vostra sopportazione al servizio delle classi possidenti. Oggi, restando sul terreno di un’irriducibile lotta di classe, occorre agire per la vostra causa, per il sacro obiettivo del socialismo, per l’emancipazione dei popoli oppressi e delle classi asservite. È dovere e compito dei socialisti dei paesi belligeranti intraprendere questa lotta con tutta la loro energia. È dovere e compito dei socialisti dei paesi neutrali aiutare con ogni mezzo i propri fratelli in questa lotta contro la barbarie sanguinaria. Mai nella storia mondiale c’è stato compito più urgente, più elevato, più nobile; la sua realizzazione deve essere nostra opera comune. Nessun sacrificio è troppo grande, nessun fardello troppo pesante per raggiungere questo obiettivo: il ripristino della pace tra i popoli. Operai e operaie, madri e padri, vedove e orfani, feriti e mutilati, a tutti voi che soffrite per la guerra e a causa della guerra, noi gridiamo: Al di sopra di tutte le frontiere, al di sopra dei campi di battaglia, al di là delle campagne e delle città devastate: Proletari di tutti i paesi, unitevi!

Non per una pace “giusta”, non per la pace “dei padroni”, ma per la fine dell’obbrobrioso sistema di sfruttamento, della specie e della Natura con cui dovrebbe convivere armoniosamente, che chiama pace ciò che per la stragrande maggioranza dell’umanità è ancora sempre e soltanto guerra.


  1. Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria, La guerra in Ucraina e l’internazionalismo proletario, Milano 2022, p. 197  

  2. La guerra in Ucraina, op. cit., p. 184 

  3. ivi, p. 186  

  4. ivi, pp. 6-7  

  5. ivi, pp. 8-9  

  6. ivi, p. 7  

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‘Iateve a cuccà! Siete impotenti anche a caricare la sveglia! https://www.carmillaonline.com/2019/08/07/iateve-a-cucca-siete-impotenti-anche-a-caricare-la-sveglia/ Wed, 07 Aug 2019 20:16:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53892 di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Un’avventura di Amadeo Bordiga. Noir a Berlino, Milieu edizioni, 2019, pp. 248, 16,90 euro

Mettiamola così: siete pronti a partire per le ferie, lo zaino è preparato, la destinazione stabilita. Manca soltanto una cosa: il libro da leggere in vacanza. Camilleri e Montalbano vi hanno definitivamente rotto, grazie anche alle celebrazioni agiografiche iniziate ben prima della scomparsa dello scrittore siciliano, e i saggi moltitudinari o autobiografici di Toni Negri pure. In compenso i banchi delle librerie pullulano di libri insignificanti oppure di ennesime ristampe di testi già [...]]]> di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Un’avventura di Amadeo Bordiga. Noir a Berlino, Milieu edizioni, 2019, pp. 248, 16,90 euro

Mettiamola così: siete pronti a partire per le ferie, lo zaino è preparato, la destinazione stabilita. Manca soltanto una cosa: il libro da leggere in vacanza.
Camilleri e Montalbano vi hanno definitivamente rotto, grazie anche alle celebrazioni agiografiche iniziate ben prima della scomparsa dello scrittore siciliano, e i saggi moltitudinari o autobiografici di Toni Negri pure. In compenso i banchi delle librerie pullulano di libri insignificanti oppure di ennesime ristampe di testi già usciti in tutte le edizioni possibili. Quindi con Černyševskij e Lenin vi domandate nervosamente: Che fare?

Poi la vedete, improvvisamente, quella copertina con Stalin che sembra fare marameo al mondo e quella sì, vi incuriosisce. Il titolo potrà apparirvi strano: Un’avventura di Amadeo Bordiga…ma Bordiga non era quello che Togliatti aveva definito dinosauro o brontosauro?
Allora datemi ascolto, afferratelo, alla cassa fate un po’ come vi pare, e portatelo via con voi. Avete trovato il romanzo giusto per passare qualche giorno con intelligenza, divertimento e possibilità di riflettere su una storia mai abbastanza esplorata e, soprattutto, compresa: quella del fallimento del comunismo novecentesco.
E, specialmente, delle sue varianti sovietiche .

Poiché rivelare tutta la trama del libro sarebbe criminale, accontentatevi, per ora, di sapere che tra i protagonisti delle vicende narrate, ambientate nella seconda metà degli anni Venti dello scorso secolo, troverete, oltre al suddetto Amadeo Bordiga, anche Anton Pannekoek, Karl Radek (che ha l’onore di comparire fin dalle prime righe), Walter Benjamin, Georges Gurdjieff, Edgar Snow, Yakov Blumkin (che fu il primo bolscevico in assoluto ad essere condannato a morte in URSS con l’accusa di trotzkismo), Guido Keller, Nero Wolfe e Koba alias Stalin alias Iosif Vissarionovič Džugašvili.

Se non conoscete tutti i personaggi qui elencati non preoccupatevi, in questa nuova edizione l’autore ha curato, nei Titoli di coda, un ricco, sintetico e divertente dizionario biografico dei personaggi principali che vi aiuterà nella lettura.

Il tutto si svolge intorno ad un fitto carteggio e, anche, ad un presunto incontro segreto avvenuto, tra Karl Marx e il cancelliere di ferro Otto von Bismarck, proprio negli anni della prima unificazione tedesca. Carteggio e prove che Stalin vorrebbe far sparire per far sì che il paradiso comunista non possa essere dipinto come men bello e che, attraverso infinite e casuali peripezie, giunge nelle mani del suo implacabile ed incorruttibile avversario Amadeo Bordiga, inflessibile teorico del marxismo di sinistra e amante assoluto del caffè napoletano.

Detto questo c’è un po’ da rimpiangere il sottotitolo della prima edizione del romanzo: Il romanzo della rivoluzione come fantasmagoria1, più adatto a riassumere le vicende narrate.
Più che di un noir si tratta infatti di un avvincente e dinamico pastiche, in cui storia e politica, realtà e fantasia, dramma e comicità si fondono in maniera naturalissima e credibile, dando vita a pagine spesso esilaranti.
Ad esempio quelle in cui il comunista napoletano, anche nei momenti più confusi, non perde la calma nei confronti della necessità di preparare un buon caffè oppure quelle in cui Marx e Bismarck si incontrano travestiti in birreria, fumando un buon sigaro.

Qualche parola va qui però spesa per l’autore, Diego Gabutti, contraddittorio scrittore, saggista e giornalista (forse preferirebbe essere definito corsivista) attivo fin dalla seconda metà degli anni Settanta.
A partire da quell’Adorno sorride ovvero guerra di corsa contro una ghenga-giocattolo, pubblicato insieme a Gastone Pianarosa per le edizioni L’erba voglio nel maggio del 1977, destinato ad accendere un’infiammata polemica con la casa editrice Einaudi, Franco Fortini e Cesare Cases per la traduzione dei Minima moralia (definita dai due allora giovani autori immoralia) di Adorno.

Seguito nel 1979 da Fantascienza e comunismo 2 che, mescolando William Burroughs, Philip José Farmer, Kafka e Alice in Wonderland, avrebbe spalancato in Italia nuove frontiere per l’interpretazione della letteratura di anticipazione.
Poi, nel 1982, il romanzo di cui qui si parla che, secondo la testimonianza dell’autore, gli avrebbe poi aperto le porte per la collaborazione continuativa con il giornale di Montanelli, in qualità di corsivista e recensore.

Percorso contorto, in cui la critica si sarebbe mescolata ad un’ironia sempre più implacabile, contro tutti e tutto e in particolare contro le differenti e fallimentari manifestazioni del comunismo e delle avanguardie del ‘900,3 ma che non avrebbe impedito a Gabutti di accettare l’incarico di direttore responsabile per la rivista N+1, dedicata alla riflessione politica su basi marxiste e bordighiste.
Il tutto forse riassunto proprio nelle pagine finali del romanzo, in cui, dopo lo storico ed epico scontro con Stalin al VI esecutivo allargato dell’Internazionale Comunista, il fondatore del PCd’I afferma: Eccolo qua, il partito mondiale! Eh! Che colpo d’occhio d’avanguardia! Pilotatori del domani! ‘Iateve a cuccà! Andate a dormire! Siete impotenti anche a caricare la sveglia!
Condannando così al ludibrio generale, per l’eternità e in un sol colpo, tutti i costruttori di partiti, rivoluzioni e semplificazioni politico-ideologiche ed etiche di ogni risma.

Un percorso sicuramente bizzarro e interessante, non meno intelligente ed ironico del testo appena ripubblicato da Milieu, di cui torno sinceramente a invitare tutti alla lettura.


  1. D. Gabutti, Un’avventura di Amadeo Bordiga, Longanesi, Milano 1982  

  2. D. Gabutti, Fantascienza e comunismo, La salamandra, Milano 1979  

  3. Come dimostrano i saggi contenuti nel recente: D. Gabutti, Cospiratori e poeti. Dalla Comune di Parigi al Maggio 68, Neri Pozza, Vicenza 2018  

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Appuntamenti mancati, indirizzi sbagliati https://www.carmillaonline.com/2016/05/09/appuntamenti-mancati-indirizzi-sbagliati/ Mon, 09 May 2016 20:30:07 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30419 di Sandro Moiso Copertina1923

Corrado Basile, L’«OTTOBRE TEDESCO» DEL 1923 E IL SUO FALLIMENTO. La mancata estensione della rivoluzione in Occidente, Edizioni Colibrì 2016, pp.170, € 15,00

Corrado Basile da anni si dedica a ricostruire criticamente la storia dell’esperienza della Sinistra Comunista italiana ed internazionale nel corso del XX secolo e, in particolare, della sua parabola nei primi decenni dello stesso. La sua ultima fatica editoriale pertanto si colloca in tale continuità di studi, ma, allo stesso tempo, si propone come un’importante riflessione su temi e problemi ancora di cocente [...]]]> di Sandro Moiso Copertina1923

Corrado Basile, L’«OTTOBRE TEDESCO» DEL 1923 E IL SUO FALLIMENTO. La mancata estensione della rivoluzione in Occidente, Edizioni Colibrì 2016, pp.170, € 15,00

Corrado Basile da anni si dedica a ricostruire criticamente la storia dell’esperienza della Sinistra Comunista italiana ed internazionale nel corso del XX secolo e, in particolare, della sua parabola nei primi decenni dello stesso. La sua ultima fatica editoriale pertanto si colloca in tale continuità di studi, ma, allo stesso tempo, si propone come un’importante riflessione su temi e problemi ancora di cocente attualità. Primo tra tutti quello della centralità , o meno, della classe operaia e del suo ruolo all’interno di un radicale sovvertimento del modo di produzione attuale e della politica di alleanze che, attraverso le sue organizzazioni e partiti, dovrebbe saper mettere in piedi in una tale prospettiva. Ben al di là, naturalmente, della “egemonia”, principalmente culturale, teorizzata da Gramsci.

Tema delicato in cui una sorta di idealizzazione della stessa, ricollegabile alle trasformazioni avvenute forse più a partire più dall’inizio del ‘900 che ai fondatori del socialismo, ha forse raggiunto nell’operaismo degli anni settanta, e nei suoi attuali epigoni, il suo limite e il suo massimo rilievo teorico.1

Fin dalla premessa l’autore si chiede, a proposito della mancata rivoluzione tedesca del 1923, “perché fino a oggi l’argomento in Italia è stato affrontato in modo più che fuggevole, nonostante il fatto che in quel tentativo siano stati coinvolti all’incirca un milione di lavoratori e varie centinaia di migliaia di comunisti, e non solo tedeschi, cosa che nella storia non si era mai verificata prima e non si è più verificata successivamente. Dalla storiografia di tipo accademico c’era da aspettarselo: quello che si è rivelato come un «non evento» non poteva suscitare grande interesse”.

Osservando, però, subito dopo che “Si potrà essere o meno d’accordo su singoli aspetti della nostra analisi, ma non si potrà evitare di riconoscere che i motivi veri della sconfitta in Germania (primo fra tutti il mancato riconoscimento dell’idea che la rivoluzione comunista doveva avere carattere popolare o non sarebbe stata, idea presente, anche se poco considerata, nel famoso opuscolo di Lenin sull’Estremismo) siano esistiti e necessitino ancora di una seria discussione, nonostante la mole d’acqua che è passata sotto i ponti della storia.
Purtroppo in Italia, e non solo in Italia, ha circolato e alimentato, con effetti disastrosi, la cultura di quella che è stata chiamata «sinistra rivoluzionaria» la tesi secondo la quale la rivoluzione nei paesi sviluppati sarebbe stata, e sarebbe ancora al risveglio della classe operaia, di estrema «semplicità», con uno svolgimento positivo assicurabile da un grado spinto di intransigenza formale rispetto a obiettivi programmatici generalissimi. Ristabilire la verità sul 1923 in Germania, che ha attestato proprio l’esatto contrario della «semplicità» del processo rivoluzionario in Occidente, è quanto abbiamo cercato di fare
”.

Il tema centrale dello studio qui esaminato riguarda quindi le possibili strategie e tattiche di un percorso politico destinato a sfociare nel superamento dei rapporti di produzione e dominio di carattere capitalistico. Tema che Basile focalizza soprattutto analizzando l’azione del Partito Comunista Tedesco che, all’epoca, costituiva il secondo partito, numericamente e per ordine di importanza, dopo quello bolscevico all’interno dell’Internazionale Comunista.2

Era chiaro che il proletariato tedesco non poteva restare inerte di fronte alle ripercussioni della crisi mondiale sulla disastrata economia del paese e alla progressiva svalutazione del danaro, all’aumento dei prezzi dei generi alimentari e di prima necessità, alla crescita della disoccupazione e all’impoverimento di sempre più vasti settori della popolazione, per la quale giorno dopo giorno si aggravava ovviamente anche il problema delle abitazioni. Ed era altrettanto chiaro che la KPD (Partito Comunista Tedesco) non poteva sottrarsi al compito di dare a questo fenomeno una prospettiva politica pratica, fuori da un ambito propagandistico generale”.

Ma, in Germania, proprio l’orientamento operaista significò “contrapporre alcune decine di milioni di lavoratori al resto della popolazione, che ammontava a un po’ più di sessanta milioni, tra la quale, nel vuoto lasciato dai comunisti e dagli stessi socialdemocratici, cominciarono a prendere sempre più piede le destre e l’estrema destra (i nazionalisti, i gruppi paramilitari reazionari derivati dai Corpi Franchi, l’Orgesch, i völkischen e i nazionalsocialisti), che sfruttarono la protesta sociale cercando di indirizzarla anche in senso fisico contro il movimento operaio e le sue organizzazioni”. La rivoluzione non poteva certo vincere lasciando da parte più della metà della popolazione del paese.

Il dramma prese inizio a partire dall’entrata sul territorio tedesco delle truppe franco-belghe che fin dal 10 gennaio 1923 “occuparono nei giorni successivi Düsseldorf, Bochum e Dortmund. La Germania perse così il 40 per cento del suo ferro, il 70 per cento della sua ghisa e l’88 per cento del suo carbone […]La Germania fu trascinata in una spirale inflazionistica peggiore di quella in atto, voluta dai finanzieri e dagli industriali speculatori, che liquidò la resistenza, investì i risparmiatori, assumendo l’aspetto di un’espropriazione sistematica delle classi medie e precipitando i lavoratori in una miseria inaudita. Il cambio del marco tedesco, a pochi mesi di distanza dall’occupazione della Ruhr, passò da 48.000 in maggio a 4,6 milioni per un dollaro in agosto. Si può facilmente immaginare l’abisso in cui repentinamente precipitarono le condizioni di vita della popolazione. Scoppiarono infatti vere e proprie «rivolte della fame» in parecchie città. E il tasso di cambio continuò a salire”.

Karl Radek, all’epoca uno dei più important rappresentanti del Partito Bolscevico e dell’Internazionale, ebbe ad osservare che i comunisti, in tale situazione, avrebbero avuto tutto l’interesse a non consegnare all’imperialismo francese il cuore della rivoluzione: il bacino della Ruhr.
Sempre Radek affermò che “Il fatto decisivo in tutta la situazione è che una grande nazione industriale è stata ridotta al rango di una colonia. Questa sconfitta della borghesia tedesca suscita un grande movimento rivoluzionario. Il nazionalismo, che un tempo era soltanto uno strumento per rafforzare i governi borghesi, si converte in un fattore di accelerazione dell’attuale rovina capitalistica

E continua poi ancora: “Il partito tedesco non si è affatto adattato all’ondata nazionale, esso non ha smesso di incoraggiare la fraternizzazione con i soldati francesi […], ma la KPD non deve trascurare che la differenza tra il nazionalismo e gli interessi rivoluzionari della nazione tedesca che sono adesso la stessa cosa degli interessi nazionali rivoluzionari del proletariato […] Quello che viene definito nazionalismo tedesco non è soltanto nazionalismo, bensì un vasto movimento nazionale d’importanza rivoluzionaria. Le ampie masse piccolo borghesi, le masse dei tecnici e degli intellettuali, che svolgeranno un ruolo importante nella rivoluzione proletaria per il fatto che nel sistema borghese tutte queste masse vengono schiacciate, declassate e proletarizzate, danno ai loro rapporti con il capitalismo degenerato la forma di una ribellione nazionale. […] Noi dobbiamo combattere l’ideologia nazionalistica, aprire gli occhi alle masse che ne sono strumentalizzate. Ma se non vogliamo essere un mero partito operaio di opposizione, ma un partito operaio che combatte per il potere dobbiamo trovare il cammino che conduce a queste masse”.

Agli inizi di luglio, si verificò il montare spontaneo di scioperi rivendicativi a causa del crollo del marco e dell’aumento vertiginoso di tutti i prezzi, con il governo che sembrava in procinto di dichiarare bancarotta. Contemporaneamente gli occupanti francesi e belgi nella Ruhr spingevano avanti un movimento secessionista e in Baviera il governo di estrema destra si muoveva per rendersi autonomo da Berlino; la Reichswehr, con i gruppi paramilitari fascisti, si preparava dal canto suo a intervenire contro i governi operai della Sassonia e della Turingia.
La Centrale della KPD lanciò un appello per organizzare in tutto il paese per la fine del mese una «giornata antifascista» che prevedeva la mobilitazione dei proletari contro la minaccia del fascismo e l’agitazione tra le masse piccolo borghesi per separarle dai loro dirigenti.

Ma tale appello portò, progressivamente a far dipendere sempre di più l’azione dei comunisti e delle masse già potenzialmente in rivolta dalle scelte operate dal partito socialdemocratico e dal sindacato con cui si era cercata l’alleanza a discapito di un’azione allargata anche a quei settori “nazionalisti” che, di fronte ad un’azione più decisa della KPD, avrebbero dovuto decidere se stare dalla parte del capitale o dei lavoratori e dei contadini . Così quando, di fronte agli scontri che si verificarono in alcune prove preliminari a ridosso di scioperi rivendicativi, la polizia della Prussia e il governo del Reich vietarono la manifestazione, si propose di svolgere la manifestazione stessa soltanto là dove, come in Sassonia e in Turingia, non fosse stata sospesa dalle autorità o dove, come nella Ruhr e nell’Alta Slesia, queste ultime non potessero impedirla. Nel resto del paese si sarebbero dovuti tenere comizi in spazi chiusi. In considerazione anche del fatto che i fascisti sembravano molto superiori ai comunisti quanto ad armamento e sarebbe stato utopico credere che i socialdemocratici avrebbero seguito i comunisti nel caso di scontri diretti, nei quali la polizia, trovandosi di fronte a nulla più che una dimostrazione di protesta, sarebbe stata tra l’altro dalla parte dei fascisti.

Ai primi di agosto, la Commissione di Berlino dei sindacati, nella quale era presente una forte componente socialdemocratica, sia di destra sia di sinistra, invitò l’ADGB (Allgemeine Deutsche Gewerkschaftsbund – Confederazione generale dei sindacati tedeschi), la SPD (Sozialdemokratische Partei Deutschlands – Partito Socialdemocratico Tedesco), l’USPD (Unabhängige Sozialdemokratische Partei Deutschlands – Partito Socialdemocratico Indipendente Tedesco) e la KPD a una riunione di «concertazione», ma questa iniziativa fu surclassata subito dalle azioni di massa e dagli scontri con la polizia e con l’esercito che, con morti e feriti in varie città, fecero aumentare ancor più la tensione.

Ruolo propulsore nella dichiarazione di uno sciopero generale di tre giorni ebbero i comitati di fabbrica, che avevano raggiunto il numero di ventimila, con un Consiglio d’azione a livello nazionale, presieduto da un comunista, che l’11 agosto esso approvò un programma in nove punti: dimissioni del governo, formazione di un governo operaio e contadino, requisizione dei viveri e loro distribuzione sotto il controllo delle organizzazioni proletarie, riconoscimento ufficiale dei comitati di vigilanza appositamente costituiti, decadenza dell’interdizione degli organismi operai di autodifesa, salario orario minimo, riassunzione dei disoccupati, revoca dello stato d’assedio e del divieto di manifestare, liberazione dei prigionieri politici operai.

Lo stesso giorno il partito socialdemocratico fu costretto ad annunciare la fine del proprio sostegno al governo Cuno che si dimise. L’incarico di formare un nuovo governo fu affidato da Ebert, presidente socialdemocratico della repubblica, al deputato popolare Gustav Stresemann. Questi diede vita a un ministero di «grande coalizione». Su tale base la socialdemocrazia, pronta a voltare le spalle alle lotte operaie e all’ipotesi di un accordo con i comunisti, appoggiò Stresemann ed entrò nel governo con quattro ministri.

A poco a poco, nel giro di una settimana, le lotte si esaurirono. Cominciarono arresti e licenziamenti (che raggiunsero la cifra di centomila verso la fine del mese). Anche i vertici dei comitati di fabbrica furono colpiti dalla repressione, così come l’apparato della KPD.
Nel partito si fece strada, lentamente e nonostante forti incertezze, l’idea che forse la situazione era più matura per un’azione rivoluzionaria di quanto esso avesse ritenuto fino alla «giornata antifascista» di fine luglio. Le lotte rivendicative degli operai e dei disoccupati erano nel frattempo ricominciate, così come quelle per la casa e per gli approvvigionamenti, mentre si moltiplicavano gli scontri con la polizia e con l’esercito.

A settembre nel giro di alcune settimane, la Germania diventò l’argomento principale degli interventi pubblici dei dirigenti sovietici, dei loro discorsi nei congressi, sindacali o d’altro genere, il centro dell’attenzione della stampa sovietica. In particolare ebbe inizio l’impegno per sostenere le strutture militari della KPD e di quelli che erano chiamati organismi di difesa della classe operaia o «Centurie proletarie». Un generale sovietico già presente in Germania fu posto alla loro testa con lo pseudonimo di Helmuth Wolf e furono creati apparati specifici per l’addestramento militare, per lo spionaggio, per la penetrazione nella polizia e nell’esercito e per le azioni di sabotaggio e terroristiche.

centuria Per quanto riguarda le Centurie proletarie, esse erano state pazientemente costituite agli inizi dell’anno. Il 15 maggio erano state vietate in Prussia, misura presa a ruota in altre regioni, e ciò aveva ostacolato il loro sviluppo, costringendo gli organizzatori a mascherarle come servizi d’ordine o associazioni sportive. Se a maggio ne esistevano 300 in tutta la Germania, in luglio crebbero a 900, per un totale di circa centomila uomini, la metà dei quali concentrati in Sassonia e Turingia, con forti presenze anche nella Ruhr e a Berlino. Nella maggior parte dei casi si trattava di organismi, basati nelle aziende o nelle varie località, a composizione mista, di membri della KPD, dei sindacati e della socialdemocrazia.

L’armamento delle Centurie in ottobre, nell’ipotesi migliore, a parte le pistole, non superava i 50.000 fucili. Si approntarono anche riserve di esplosivi, si svaligiarono botteghe di armaioli e si organizzarono vari furti nelle caserme. In Sassonia si impiantò addirittura una fabbrica clandestina di armi e munizioni.Lo sforzo militare compiuto in pochi mesi fu davvero considerevole. Ma, rapportato alla società tedesca, agli effettivi e all’armamento della Reichswehr, della polizia e dei gruppi paramilitari d’estrema destra, esso appare del tutto inadeguato.

Mentre i comunisti entravano nei governi della Sassonia e della Turingia a fianco dei socialdemocratici, il generale Müller in Sassonia, fin dagli ultimi giorni di settembre, aveva rafforzato lo stato d’emergenza, attribuendo alla Reichswehr il compito di assicurare l’ordine pubblico, vietando ogni manifestazione di strada e gli scioperi, annunciando lo scioglimento delle Centurie proletarie e il ritorno della politica locale ai propri compiti tradizionali di pura amministrazione.
Cosa non meno importante, egli aveva ordinato alle banche di non consegnare i fondi chiesti dai ministri del governo di Dresda. Nello stesso modo si era comportato il generale Reinhardt in Turingia, dove tutto si svolse più o meno come in Sassonia, con la stessa violenza anche se con maggiore lentezza. Il 5 ottobre era stata sospesa la stampa comunista. Ma le truppe erano rimaste consegnate momentaneamente nelle caserme.

La tensione cresceva. Dal ministero sassone dell’economia partì una richiesta alle banche di Dresda per l’apertura di un credito di 150 miliardi di marchi-oro che avrebbe permesso di effettuare gli acquisti più urgenti di generi alimentari per 700.000 abitanti ridotti letteralmente al lumicino.
Le banche comunicarono che il credito sarebbe stato messo a disposizione del generale Müller. La Baviera sospese le vendite del latte e dei prodotti caseari in genere in Sassonia e i granai del Reich aumentarono i prezzi del 41%. Per la Turingia la situazione non era diversa. Era in atto un vero e proprio blocco contro le regioni rosse.

La Reichswehr si mobilitò nelle strade e nelle piazze dove le proteste, anche in Sassonia, contro l’intervento militare prendevano sempre più l’aspetto di una rivolta: di nuovo ad Amburgo, ad Aquisgrana, Berlino, Düsseldorf, Erfurt, Cassel, Essen, Colonia, Francoforte, Hannover, Beuthen, Lubecca, Braunschweig e Allenstein. Questa collera non poteva giungere da sola al livello dell’azione rivoluzionaria: essa, di fronte al protrarsi eventuale della repressione, non poteva trasformarsi in altro che in una rassegnazione disperata. Ma non esisteva soltanto il proletariato, per la piccola borghesia, più pauperizzata che mai, e i ranghi intermedi e inferiori delle forze armate la capitolazione nella Ruhr aveva accresciuto piuttosto che diminuito l’ira, anche se ne beneficiava l’estrema destra, a causa della debolezza che sulla questione specifica aveva recentemente mostrato il KPD che senza un’azione rivoluzionaria diretta, non poteva provocare crepe reali nella forza dello Stato.

Il 20 ottobre i dirigenti comunisti incaricati dell’insurrezione si riunirono clandestinamente a Dresda e sottolinearono unanimemente che prima della data prevista per l’insurrezione era necessario che il proletariato sassone chiamasse in proprio aiuto l’insieme dei lavoratori tedeschi. Solo durante lo sciopero generale, in cui questo aiuto si doveva esprimere e che sarebbe stato indetto da una conferenza dei comitati di fabbrica convocata a Chemnitz il giorno successivo, sarebbe iniziato il sollevamento armato. Ai segretari di distretto si comunicò che il 23 le Centurie e i gruppi d’assalto sarebbero entrati in azione, attaccando caserme e posti di polizia, occupando i nodi stradali, le stazioni, gli uffici postali e gli edifici amministrativi.

Ma, per i tentennamenti e i rifiuti opposti da una parte della socialdemocrazia e degli operai ad essa legati questo ordine finì con l’essere sospeso e solo ad Amburgo (dove i comunisti erano in condizioni di marcata inferiorità rispetto ai socialdemocratici), a causa dell’abbandono in anticipo della riunione della Centrale da parte di un rappresentante dell’organizzazione cittadina, questi partì convinto che l’insurrezione fosse confermata e l’attacco iniziò come stabilito, ma, ovviamente, senza mobilitazione delle masse. All’alba del 23 ottobre, l’organizzazione di combattimento del partito (composta da un po’ più di un migliaio di militanti) attaccò i posti di polizia dei sobborghi della città per rifornirsi di armi e fornirne anche alle Centurie proletarie, che erano state formate, ma non ne disponevano. Poi si puntò verso il centro della città. Mancando la mobilitazione proletaria, per lo meno nelle proporzioni che avrebbe dovuto avere – non si può dire che fu proprio del tutto assente –, l’azione si esaurì in ventiquattr’ore, nella consapevolezza dell’isolamento in cui si svolgeva, a causa della preponderanza delle forze avversarie (la polizia contava varie migliaia di uomini che furono rincalzati via mare). Il partito riuscì a organizzare abbastanza efficacemente la ritirata. Sul terreno restarono alcune decine di morti da ambo le parti. Molti furono i feriti e vennero arrestati un centinaio di comunisti.

Nei giorni seguenti lo stato d’emergenza dichiarato dal governo e l’azione decisa della Reichswehr portarono all’eliminazione dei “governi operai” della Sassonia e della Turingia, sostituiti da governi a cui capo vi erano rappresentanti della destra socialdemocratica e finiva così in un fiasco l’ultima occasione, prima dell’avvento del nazismo, che la più importante classe operaia e il più grande partito comunista dell’Occidente avessero mai avuto.

Che in quel fiasco l’incapacità di allargare un fronte dal basso alle esigenze di altri settori di società, non solo operai, abbia avuto un ruolo è cosa certa per l’autore, che conclude il suo lavoro citando Lenin nel 1916 che, in occasione dell’insurrezione irlandese, aveva scritto: “Le fiamme delle insurrezioni nazionali, dovute alla crisi dell’imperialismo, sono divampate sia nelle colonie sia in Europa e […] le simpatie e antipatie nazionali si sono manifestate nonostante le minacce di misure draconiane di repressione. […] La rivoluzione socialista in Europa non può essere nient’altro che l’esplosione della lotta di massa di tutti gli oppressi e di tutti i malcontenti. Una parte della piccola borghesia e degli operai arretrati vi parteciperanno inevitabilmente – senza una tale partecipazione non è possibile una lotta di massa, non è possibile nessuna rivoluzione – e porteranno nel movimento, non meno inevitabilmente, i loro pregiudizi, le loro fantasie reazionarie, le loro debolezze e i loro errori. Ma oggettivamente essi attaccheranno il capitale, e l’avanguardia cosciente della rivoluzione, il proletariato avanzato, esprimendo questa verità oggettiva della lotta di massa varia e disparata, […] potrà unificarla e dirigerla, conquistare il potere […] e attuare le altre misure dittatoriali che condurranno in fin dei conti all’abbattimento della borghesia e alla vittoria del socialismo, il quale si «epurerà» dalle scorie piccolo borghesi tutt’altro che di colpo. […] Non è […] chiaro che in questo senso meno che in ogni altro è lecito contrapporre l’Europa alle colonie? La lotta delle nazioni oppresse in Europa, capace di giungere sino all’insurrezione e alla lotta di strada, sino a spezzare la ferrea disciplina dell’esercito e dello stato d’assedio, «inasprisce la crisi rivoluzionaria in Europa» con forza immensamente maggiore di un’insurrezione molto più sviluppata in una lontana colonia”.

Giunto a questo punto, devo scusarmi con il lettore, per la lunga dissertazione tesa a riassumere i fatti narrati (con maggior dovizia di particolari) nel testo, ma la conoscenza di quegli errori e di tentennamenti, di quei dibattiti a livello tedesco ed internazionale di cui furono protagonisti tutti i maggiori rappresentanti dell’Internazionale Comunista (che l’autore riporta con estrema fedeltà e con un’abbondante raccolta di relazioni e discorsi) non ancora stalinizzata, vale ancora la pena di essere approfondita e conosciuta, non soltanto per pedanteria storica o per il piacere della citazione.parigi 1 maggio

Si può non essere d’accordo con la tesi dell’autore, ma è certo che, e forse soprattutto, oggi la questione della capacità per un movimento antagonista di essere portatore di istanza collettive globali, da Occupy Wall Street al movimento NoTAV passando per Taranto fino al rifiuto dei pareggi di bilancio e delle leggi sul lavoro imposti da Bruxelles e dai governi che ne sono ispirati fino ai diritti dei migranti e degli immigrati, resta un terreno di scontro, ricerca teorica, organizzazione ed azione che proprio l’opposizione di una parte del sindacato al referendum sulle trivelle o l’appoggio alla disperata ed iniqua scelta tra posto di lavoro e salute dei cittadini oppure l’appoggio di una parte delle ex-sinistre alle politiche europee, dimostrano essere ancora centrale e vitale.

Così come si dimostra ancora essenziale la riflessione sul legame tra lotte di classe e questioni nazionali, dalla Palestina al Kurdistan fino al Donbass, e su ciò che si intende come internazionalismo e che non può essere semplificato solamente attraverso la richiesta dell’abolizione di tutti i confini. Oppure su svariati altri temi, come la spontaneità o meno di un’insurrezione, che Corrado Basile tocca nel corso della sua indagine e di cui occorre qui lasciare al lettore l’onere della scoperta.


  1. Come precisa lo stesso autore “Con orientamento operaista intendiamo il fatto di concentrare l’attenzione sui problemi che in modo diretto e immediato riguardavano la condizione dei lavoratori, trascurando tutti gli altri come di second’ordine se non peggio”  

  2. Secondo le fonti disponibili, i membri della KPD nel 1922 dovevano essere circa 220.000, per lo più operai. I giovani comunisti erano 30.000. L’organizzazione si basava sul centralismo democratico. Il partito disponeva di 38 quotidiani con 340.000 abbonati. I deputati al Reichstag erano 14, nei parlamenti regionali erano presenti 72 deputati; i consiglieri municipali erano 12.000 e la KPD disponeva della maggioranza assoluta in 80 consigli e relativa in 170. Dopo il partito bolscevico quello tedesco era il più importante partito della Terza Internazionale. I comunisti influenzavano due milioni e mezzo di lavoratori attraverso i sindacati, i comitati di fabbrica e le organizzazioni dei disoccupati. I comitati di fabbrica erano strutture legali dal 1920 e avevano raggiunto una consistenza numerica considerevole, con un congresso e un consiglio d’azione nazionale orientato molto a sinistra  

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