Jorge Luis Borges – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il valore dell’oblio https://www.carmillaonline.com/2024/10/08/il-valore-delloblio/ Tue, 08 Oct 2024 21:40:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84790 di Francisco Soriano

oblìo (non com. obblìo) s. m. [der. di obliare], letter. – 1. a. Dimenticanza (non come fatto momentaneo, per distrazione o per difetto di memoria, ma come stato più o meno duraturo, come scomparsa o sospensione dal ricordo).

oblivióne = lat. OBLIVIÓNE comp. del prefisso OB e del rad. LIV-, al quale il Corssen riconnette lív-or pallore, lív-idus livido, nericcio: onde ob-liv-ísci significherebbe impallidire, divenire oscuro. Voce poet. Il non aver più ricordanza.

 

Di solito è la memoria, il ricordo, la rimembranza ad avere un ruolo importante nell’immaginario collettivo e nel bagaglio valoriale delle persone. La memoria è sedimento, struttura, esperienza, induce alla [...]]]> di Francisco Soriano

oblìo (non com. obblìo) s. m. [der. di obliare], letter. – 1. a. Dimenticanza (non come fatto momentaneo, per distrazione o per difetto di memoria, ma come stato più o meno duraturo, come scomparsa o sospensione dal ricordo).

oblivióne = lat. OBLIVIÓNE comp. del prefisso OB e del rad. LIV-, al quale il Corssen riconnette lív-or pallore, lív-idus livido, nericcio: onde ob-liv-ísci significherebbe impallidire, divenire oscuro. Voce poet. Il non aver più ricordanza.

 

Di solito è la memoria, il ricordo, la rimembranza ad avere un ruolo importante nell’immaginario collettivo e nel bagaglio valoriale delle persone. La memoria è sedimento, struttura, esperienza, induce alla previsione degli accadimenti, è pedagogia, sostegno al futuro e lotta all’imprevedibilità del destino. E l’oblio, invece?

Esiste un oblio attivo? Può essere una risorsa? Forse l’oblio è per se stesso memoria, la favorisce, nel momento in cui si sceglie di non recuperare i ricordi negativi e disturbanti, né gli spazi inibenti e irrilevanti, creando nel vuoto della dimenticanza una dimensione nuova di vita. Così l’oblio può consentire l’acquisizione della conoscenza e predisporre condizioni positive per il pensiero creativo. Per questo motivo dimenticare significa anche misurare le emozioni, setacciarle, regolarle, cancellarle, conservarle, bilanciarle. In poesia l’oblio appare sullo stesso piano della memoria, come uno spazio e un attraversamento, un luogo dove le cose capitano ed esistono.

Nella poesia di Jorge Luis Borges intitolata Everness, lo scrittore sembra sostenere che l’oblio non esiste. Gli nega uno spazio e pare relegarlo in un vuoto non definibile. Nessuna energia per l’oblio, né logoramento, né forza generativa: «sólo una cosa no hay. Es el olvido». Nel tentativo di definire l’oblio, Borges non si ferma alla sua «negazione», alla stregua di chi sostiene ad esempio che il male è solo assenza del bene. Per lo scrittore argentino è importante ciò che esiste davvero, e non esiste nulla che non possa essere ricordato.

La sola cosa che non c’è è l’oblio.

Dio salva col metallo anche la scoria

e nella sua profetica memoria

le lune passate o future sono una.

 

Dunque tutto è presente. Mille effigi del volto amato provano negli specchi l’esistenza della memoria di oggi e di quella che verrà lasciata nei domani. «E tutto è una parte del diverso», a sua volta «specchio di quel ricordo: l’universo».

 

Tutto è presente. Sì, le mille effigi

che tra i due crepuscoli del giorno

il tuo volto ha lasciato negli specchi

e quelle che potrà lasciarvi ancora.

 

E tutto è una parte del diverso

specchio di quel ricordo, l’universo;

non hanno fine i suoi ardui corridoi,

 

davanti a te si chiudono le porte;

solo dall’altra parte del tramonto

vedrai gli Archetipi e gli Splendori[1].

 

Picasso, La ragazza davanti allo specchio

La metafora dello «specchio» pone però dei quesiti. Nella cultura nipponica, ad esempio, esso rappresenta il vuoto perché non contiene le immagini, non le conserva, non le «ricorda», appunto. Così in quest’ottica l’immagine riflessa potrebbe rappresentare un’ulteriore finzione, irrealtà, dimenticanza. Anche in questo caso le parole del poeta pongono altri dilemmi. Come Zenone che spiega l’unità in contrapposizione al molteplice con i suoi paradossi ancora oggi irrisolvibili, così il poeta argentino, nel definire la memoria quasi come una entità fatta salva imperituramente dal divino dove passato e futuro trovano residenza, vuole contribuire alla definizione dell’unità delle cose.

La ricerca degli spazi dell’oblio riconduce al suo opposto, o quanto meno, se viene percepito anch’esso come una attività della nostra mente e dunque del nostro spirito non può che essere dedotto o argomentato in relazione/contrapposizione con la memoria. L’oblio può essere immaginato come l’opposto di mneme o di anamnesi? Nella scia di quanto suggerito da Platone, la prima rappresenterebbe una sorta di registrazione e catalogazione degli eventi e dei dati, la seconda una vera e propria attività: una ricerca. Se la considerazione che si dà all’oblio corrisponde alla sua alterità «assoluta» nei confronti della memoria, lo si potrebbe definire come uno spazio di inattività, quasi di nascondimento, di volontaria incoscienza di ciò che è stato vissuto, visto, fatto. La perdita della memoria in riferimento all’oblio è dunque ipotizzabile come perdita del passato: è invece prezioso nella memoria, utile forse, addirittura pedagogico, mentre al contrario quando è relegato al vuoto della dimenticanza è per evitare terribili dolori, mancamenti, attraversamenti patologici, ripetizioni, noia, dubbi.

Il grande pensatore Martin Buber nella cornice della sua cultura ebraica affermava che «se non ci fosse la dimenticanza l’uomo penserebbe continuamente alla propria morte e non costruirebbe e non intraprenderebbe nulla. Perciò Dio ha posto negli uomini la dimenticanza. Per questo un angelo è incaricato di insegnare al bambino così che non dimentichi nulla e un altro angelo è incaricato di battergli sulla bocca perché dimentichi quello che ha imparato»[2]. Anche in questo caso si fa ricorso al divino, ma in una prospettiva opposta a quella di Borges, sublimando cioè la capacità negli uomini della dimenticanza come motore vitale dell’intera esistenza, per il raggiungimento dell’obiettivo superiore di progredire nella memoria e nella dimenticanza nello stesso tempo. In Buber è positiva la progressione dell’umanità: egli non contrappone gli angeli portatori di due messaggi opposti, ma addirittura li rende partecipi a un unico fine comune. La geniale intuizione del filosofo ebreo ci pone in condizione di accogliere memoria e oblio con lo stesso valore e in una unità difficile da percepire se non in quest’unica ottica, che vorrebbe incarnare una profezia del bene e della felicità.

Marcel Proust in una caricatura

Come dimenticare il contributo di Marcel Proust sul tema delle rimembranze e dell’oblio? Lo scrittore transalpino ha fatto oggetto della sua opera proprio le intuizioni sul tempo, sulla memoria e sulla dimenticanza. Il primo passo è individuare una forma dicotomica della memoria: quella volontaria tipica dell’intelligenza e quella involontaria che viene attivata da oggetti o stimoli che in apparenza ci appaiono di poca importanza. Forse proprio quest’ultima, che può sembrare «inconsistente», è al contrario rilevante perché determinerebbe una resurrezione, un ritorno, una inattesa deflagrazione di qualcosa che ci appare morto definitivamente e nella realtà così non è. Sarebbe fuorviante, infatti, immaginare la memoria involontaria come semplicemente percettiva, seppure con il valore di restituire alla vita cose, persone o situazioni pensate come morte o definitivamente cancellate. In realtà le percezioni non si clonano né si duplicano, ma vengono assimilate dentro di noi solo parzialmente, senza mai spezzare un rapporto di comunicazione con l’intelletto. Basti pensare al processo di resurrezione delle «cose accantonate», alla sua complessità, tanto per poter immaginare questa dinamica di «rielaborazione». Da questo postulato si può comprendere facilmente che la forza della memoria sta proprio nella dimenticanza e nel ruolo della categorizzazione, nel senso che l’intelligenza esclude ciò che non riesce, o non vuole, definire e categorizzare. Per questo Proust dice che è la parte migliore ed essenziale quella che resta fuori di noi. In definitiva l’origine e il motore del ricordo è in seno all’oblio, non gli è estraneo né sopravvive al di fuori. «Ecco perché la parte migliore della nostra memoria è fuori di noi […]. Fuori di noi? In noi, per meglio dire, ma sottratta ai nostri stessi sguardi, in un oblio più o meno prolungato. Solo grazie a quest’oblio possiamo di tanto in tanto ritrovare l’essere che fummo […]. Nella piena luce della memoria abituale le immagini del passato impallidiscono a poco a poco, si cancellano, non ne rimane più nulla, non le troveremo più. O piuttosto, non le troveremmo più, se qualche parola […] non fosse stata accuratamente rinchiusa nell’oblio, allo stesso modo che si deposita alla Biblioteca Nazionale l’esemplare di un libro che rischierebbe altrimenti di diventare introvabile»[3].

Escher, Mani che disegnano

«Stravolgete la mia memoria e avrete altresì contraffatto la mia identità»[4], sosteneva Gesualdo Bufalino, segnalando l’esistenza comune di identità e memoria. Ma l’oblio consente di re-immaginare, re-impostare e dare alle immagini, alle cose, alle essenze una nuova natura letteraria e poetica. Bufalino sottolinea quanto la scrittura possa far ritornare in vita, come in Cere perse, «il miracolo del Bis, il bellissimo Riessere»[5]. Dunque la memoria e il suo contrario sono le ragioni per cui si scrive, ci si interroga, obbligatoriamente si mistifica, ma non si nega mai alla scrittura il valore arcano che le permette di resuscitare qualsiasi cosa. Bufalino ripone così nell’oblio e nella memoria il ruolo di una fonte, un’eterna capacità di vagabondare fra identità perduta e dimenticanza, quest’ultima rigenerativa e cosciente. La parola, le parole sono l’unico stratagemma per rimanere in equilibrio sul borro della creatività, del dominio sulla ricerca sempre viva seppure immersa nel tragico viatico del Nulla, che pervade ogni dove la nostra esistenza.

L’oblio esiste. Esiste quel luogo cancellato dalle cartine delle coscienze, dalle mappe dello spirito, da ogni segnale che indichi una direzione. La poesia ancora una volta assolve al suo furore tacito, alla sua fulgida capacità di permeare nel buio di ogni passato cancellato o consapevolmente dimenticato il dono di una nuova vita. Sia essa tragica o felice, dolorosa o delicata gioia, si insinua, talvolta atterrisce, altre esplode in un battito di luci. Questo è l’oblio necessario avamposto anche dell’amore, per se stessi, per il prossimo. Gettare nell’oblio ogni senso di dolore, di torto subito, di angoscia, è preludio alla gioia, forse alla felicità. Il ricordo e la memoria sono spesso un punto di arrivo insanabile, definitivo, una zavorra dalla quale non si è in grado di liberarsi. Quale pace e quale ricostruzione con la memoria di un male che apparirà per sempre invincibile? Che sia l’oblio la proposta di una rinascita?

 

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NOTE:

[1] Jorge Luis Borges, El Otro, El Mismo (1964); trad. it. L’altro, lo stesso, in Tutte le opere, Mondadori, Milano 1985, vol. II, p. 157.

[2] Martin Buber, I racconti dei Chassidim, Guanda, Parma 2021.

[3] Marcel Proust, A l’ombre des jeunes filles en fleurs (1918); trad. it. All’ombra delle fanciulle in fiore, Einaudi, Torino 2017, p. 236.

 

[4] G. Bufalino, Lanterna cieca, in Opere 1981-1988, Bompiani, Milano 2010, p. 1021.

[5] Id., Le ragioni dello scrivere, ivi, p. 823.

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Noi, la Creatura e altre macchine fragili https://www.carmillaonline.com/2023/05/05/noi-la-creatura-e-altre-macchine-fragili/ Fri, 05 May 2023 20:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77072 di Franco Pezzini

Alcuni anni fa, le ricorrenze bicentenarie dell’epocale tenzone narrativa a Villa Diodati (1816) e poi dell’uscita del suo frutto più importante, il primo Frankenstein (1818), avevano condotto a un’euforia di articoli, volumi, riedizioni. Su quell’onda erano apparse in particolare due edizioni importanti. Anzitutto Mary Shelley, Frankenstein, prima edizione critica e traduzione dal testo 1818 con richiami a quello del 1831, note e apparato a cura del collettivo Sara Noto Goodwell (dietro cui si celava in realtà l’ottimo lavoro di Massimo Scorsone), con prefazione di Nicoletta Vallorani, per i tipi della torinese Lindau, 2018: un’operazione benvenuta, che permetteva di [...]]]> di Franco Pezzini

Alcuni anni fa, le ricorrenze bicentenarie dell’epocale tenzone narrativa a Villa Diodati (1816) e poi dell’uscita del suo frutto più importante, il primo Frankenstein (1818), avevano condotto a un’euforia di articoli, volumi, riedizioni. Su quell’onda erano apparse in particolare due edizioni importanti. Anzitutto Mary Shelley, Frankenstein, prima edizione critica e traduzione dal testo 1818 con richiami a quello del 1831, note e apparato a cura del collettivo Sara Noto Goodwell (dietro cui si celava in realtà l’ottimo lavoro di Massimo Scorsone), con prefazione di Nicoletta Vallorani, per i tipi della torinese Lindau, 2018: un’operazione benvenuta, che permetteva di confrontare i testi delle due principali edizioni storiche, notando il passaggio dalla versione più ruvida e ribelle di una Mary Shelley giovanissima – che qualche lettore preferisce per la sua intatta freschezza – all’altra definitiva del 1831, più levigata e moderata. La seconda, Villa Diodati Files. Il primo Frankenstein, curata da Fabio Camilletti grazie a Nova Delphi, Roma 2018, presenta connotati curiosi e di grande fascino: riporta infatti il contenuto originario del manoscritto di Mary senza l’editing del suo geniale partner Percy Bysshe Shelley – dunque un testo più “imperfetto” di quello pubblicato, ma tale da fornirci un più diretto colpo d’occhio sulla scrittura della ragazza Mary e sfatare definitivamente il pregiudizio sessista che avrebbe voluto il romanzo frutto del lavoro del brillante Percy e non della sua giovanissima compagna.

Ovviamente parecchie altre case avevano nel frattempo allestito nuove edizioni del romanzo, e ormai la versione 1818 può essere reperita facilmente anche in Italia, dove in precedenza si trovava in libreria solo quella definitiva. Ma, in attesa delle mirabilia che potranno essere offerte dal bicentenario 2031, Mary Shelley ha continuato a suscitare interessi e scrittura: a essere portata per esempio nelle scuole, per le provocazioni vivide che reca a un pubblico di adolescenti.

Materiali d’interesse sono a questo proposito offerti da un volume divulgativo di grande intelligenza da poco uscito, Vita e visioni. Mary Shelley e noi, a cura di Vittorina Maestroni e Thomas Casadei, con una graphic novel di Claudia Leonardi (pp. 137, € 15) per i tipi Mucchi, Modena 2023: un testo adatto soprattutto a lettori giovani, e che affronta il panorama dell’opera dell’autrice – non solo Frankenstein ma Valperga (1823), L’ultimo uomo (1826) e cenni sul resto (in effetti non andrebbe dimenticato il suo romanzo ultimo Falkner, 1837, ottimamente presentato in Italia come Il segreto di Falkner, a cura di Elena Tregnaghi, Edizioni della Sera, Roma 2017) – mediante una prospettiva di genere. Alla Presentazione dei curatori segue Mary Shelley: una graphic novel, apprezzabile al netto di alcune libertà; una breve, partecipe biografia a cura di Silvia Bartoli, Mary Shelley: una vita fra dolore e scrittura; la panoramica sui tre romanzi citati Scrittura, sogni e visioni. Selezione e traduzione dei testi a cura di Lilla Maria Crisafulli (con S. Bartoli, P. Leech e V. Maestroni); un’interessante rassegna di Parole-chiave dell’opera di Mary (Maternità; Trauma, dolore, sofferenza; Mostro; Bellezza; Fantascienza; Donne e scienza; Cultura patriarcale; Relazioni; Repubblicanesimo; Traduzione), commentata a firma di più autori. Termina il tutto una sezione Strumenti, articolata in Lo sapevi che… e in Consigli di lettura a cura del Centro documentazione donna. Finito di stampare – significativamente – l’8 marzo di quest’anno, il volume persegue come detto una prospettiva di genere: un grandangolo che permette in realtà di cogliere in modo molto ampio e sfaccettato i temi dell’opera shelleyana e induce senz’altro a consigliare questo testo per attività didattiche.

Decisamente una diversa complessità offre uno splendido studio di Emanuela Piga Bruni, La macchina fragile. L’inconscio artificiale fra letteratura, cinema e televisione (pp. 179, € 19) Carocci, Roma 2022: se l’intersezione-Frankenstein riguarda anche qui solo una delle opere citate, per quanto emblematica, il focus è la provocazione su cosa significhi essere umani a partire dalla figura dell’automa nell’immaginario letterario e audiovisivo.

 

Il volume riguarda gli effetti di una rivoluzione tecnologica molto discussa e che la comunità umana sente imminente. Se nel corso del XX secolo sono state considerate rilevanti le conseguenze culturali e antropologiche della possibilità di riprodurre il manufatto artistico attraverso la tecnica, gli scrittori di finzione si sono spesso confrontati con quelle legate alla riproduzione tecnologica dell’umano stesso. Il tema centrale del libro riguarda i concetti di fragilità e vulnerabilità nella dimensione sociale e tecnologica della contemporaneità, nell’ibridazione dell’umano con la macchina, e nella crescente automazione degli oggetti che ci circondano e delle attività a cui prendiamo parte. L’argomento è declinato su diversi livelli di discorso: la fragilità umana, quella corporea e nella dimensione interiore ed esistenziale, la fragilità dell’ambiente che ci circonda, quella del nostro pianeta vulnerabile all’impatto di otto miliardi di esseri umani che lo sottomettono nell’esercizio della vita. A complemento di queste condizioni incarnate nel reale, esploreremo ipotesi affini, ma applicate a figure dell’immaginario fantascientifico. Attraverso l’analisi di una selezione di testi che provengono dalla letteratura, dal cinema, dall’animazione e dalla serialità televisiva, e lungo il crinale che le ibridazioni tra natura e artificio rendono via via meno netto, andremo alla ricerca di cosa significhi essere umani scrutando nell’immagine rovesciata della natura umana, nel negativo che è dato dall’artificio dell’automa e del cyborg.

 

Il testo, dalla bibliografia ricchissima, si articola in cinque parti: il ripercorrerle sinteticamente in questa sede potrà offrire solo una vaghissima impressione della ricchezza dei contenuti. La prima parte, Tra paradigma indiziario e seduta psicoanalitica: il dialogo con la macchina antropomorfa, prende avvio dall’interrogarsi su Il problema della coscienza, con le sue dimensioni sfuggenti; Oltre l’antropocentrismo conduce a riflettere sul concetto di io, sulla critica della “tradizione dell’umanesimo occidentale, basata su una serie di opposizioni dicotomiche che risalgono alla suddivisione cartesiana tra res cogitans e res extensa” (identità/alterità, natura/cultura, uomo/donna, bianco/nero ecc.), sulle istanze del postumano degli studi di Donna Haraway; Il cyborg e l’androide tratta della rappresentazione della creatura artificiale offrendo un po’ di puntualizzazioni lessicali. “L’atteggiamento dell’umano nei confronti della creatura artificiale oscilla tra fascinazione e paura”: e di qui si apre un discorso sui Dialoghi perturbanti tra uomo e oggetti umanoidi, con il riferimento fondamentale alla categoria del Perturbante (Jentsch, Freud…) e la teoria della uncanny valley di Masahiro Mori. Proprio la chiave del dialogo finisce con l’essere rivelativa: e lo studio procede con esempi in questo senso tratti da testi letterari e cinematografici. In particolare attraverso due autori emblematici: Isaac Asimov: i robot e l’interrogatorio; Philip K. Dick: i replicanti e la misurazione dell’empatia; e di qui si passa alla seconda parte.

Dal cyberpunk al postumano:Ghost in the Shell’ prende le mosse da un’Ontologia del cyborg. Considerando preliminarmente che “Negli ultimi settant’anni, la figura dell’umano-macchina ha cambiato statuto, passando dalla dimensione dell’immaginario a quella dell’esistente”, e che “Il cyborg ha attraversato i sottogeneri della letteratura fantascientifica, e non di rado è femminile e immaginato da scrittrici”. Donna Haraway definisce il cyborg

 

un controparadigma che descrive l’intersezione del corpo con una realtà esterna molteplice e complessa: è una lettura moderna non solo del corpo, non solo delle macchine, ma di quello che passa e succede tra di loro. In quanto modo di intervenire nel dibattito sul rapporto tra mente e corpo, il cyborg è un costrutto post-metafisico.

 

Di qui la riflessione sulla fascinazione per l’Asia e il Giappone come uno dei tratti distintivi del cyberpunk e La genesi diGhost in the Shell’, manga di Masamune Shirow (1988) poi affiancato dalla reinterpretazione di Mamoru Oshii in formato anime (1995). Un’opera dai connotati illuminanti (“Il cyberpunk aveva recuperato la distinzione in modo ambivalente attraverso la separazione semantica tra hardware/corpo e software/coscienza. Qui questi termini sono ulteriormente traslati rispettivamente nelle metafore shell e ghost”) affrontata da Piga Bruni attraverso gli step di Caduta e rispecchiamento, Autocoscienza e riconoscimento, Ambizione e trascendenza: verso il postumano.

Un’altra opera-cardine è quella cui viene dedicato il capitolo 3, ‘Westworld’ e l’inconscio artificiale: a partire dal film del 1973 scritto e diretto da Michael Crichton e distribuito in Italia con il titolo Il mondo dei robot, da cui deriva la serie televisiva Westworld (in Italia, Westworld – Dove tutto è concesso) creata da Jonathan Nolan e Linda Joy, prime quattro stagioni 2016-2222. Il film originale era stato di grande successo negli anni Settanta e di culto per l’immaginario distopico: la storia di un parco a tema (ben prima dell’altrettanto crichtoniano Jurassic Park) dove qualcosa va storto nella programmazione degli androidi, detti host o “attrazioni”: impossibile dimenticare il raggelante pistolero-androide Yul Brinner. Epopea western e wonderland. Dal film alla serie TV affronta vari nodi della riscrittura: in Forme della serialità televisiva emerge tra l’altro l’influenza di Ghost in the Shell nell’immaginario di Westworld; Dal robot elettromeccanico alla ginoide vitruviana tratta gli adattamenti del romanzo da parte di Nolan e Joy per quanto concerne la fisicità degli androidi; Sguardi situati e visioni creaturali affronta le variazioni di “interiorità” rispetto alla versione-fonte, che conducono gli spettatori a identificarsi in androidi con coscienza e inconscio artificiali (emblematico il caso della ginoide Maeve, la cui prospettiva è “Lontanissima dalla visione pixellata e asettica del pistolero nero nel film”); Variazioni distopiche: dal vecchio West al panopticon riflette sul parco come sistema totalitario. Ampliando l’obiettivo, Labirinti del sogno. Alice e Borges aWestworld’ parte con Figure del labirinto dalla constatazione borgesiana che “Tutto è labirinto, gli oggetti ma anche il tempo e l’universo. Il vero labirinto non è spaziale ma è lo scarto tra ciò che crediamo di vivere e ciò che viviamo realmente”.

 

Per Borges, il labirinto riguarda la vita e la scrittura, sia la realtà sia la finzione. In queste pagine mi soffermo sulla complessità della relazione che lega assieme le due sfere e, con un’estensione metaforica, includo nella riflessione un’articolazione ulteriore del termine “finzione”, il sogno. Altra passione borgesiana, il sogno è una modalità altra «di creare mondi possibili, virtuali, del tutto alternativi al mondo reale» […]. Tanto il labirinto quanto il sogno possiedono due volti. Nella metafora del labirinto troviamo, a un tempo, struttura dell’esperienza, ricerca del sé, percorso di formazione e allegorie del sacro, così come smarrimento, impotenza, orizzonte celato o visione inibita. Il sogno può divenire incubo.

 

Un motivo per cui Borges riprende Lewis Carroll e il dittico di Alice: e qui la riflessione su Westworld si protrae in due direzioni, Il labirinto come struttura dell’esperienza (nonché metafora della memoria, “la quest coincide con la ricerca della propria identità” e “metafora del proprio sé più profondo, da raggiungere, come Alice, oltrepassando lo specchio”) e Il labirinto come metafora della complessità (dove “la sfera in cui maggiormente si dispiega è quella del tempo”). Fino a Risvegli. Il sogno nel sogno, sulla domanda “Am I in a dream?” del personaggio Dolores, con significativi echi non solo al “dubbio ontologico tanto esplorato dalla fantascienza («in quale mondo siamo?»)”, ma alle avventure di Alice, visto che “il parco Westworld è una versione distopica del wonderland”. Gli sviluppi conseguenti non potranno che trattare Presa di coscienza e rivolta: dall’apocalisse alla genesi, con il massacro degli umani funzionale a un nuovo inizio, e L’inconscio artificiale, sulle reveries che permettono agli androidi di evolvere e riappropriarsi della memoria (“In quanto immagini di esperienze appartenenti al passato, sono brandelli di un inconscio artificiale di tipo personale” trattandosi di “ricordi di storie dismesse”), a sovvertire il sistema.

Il capitolo 4, Il realismo perturbante delle macchine come noi, prende avvio da Una questione morale, sui risvolti etici del tema evocati da Ian McEwan (Machines Like Me and People Like You, 2019); e i paragrafi successivi – Il realismo perturbante, Forme del dialogismo, Forme dell’immedesimazione – approfondiscono le relative provocazioni. Fino alla nota chiave in cui culmina l’intero volume, La fragilità dell’altro attraverso gli step di Contraddizioni e rivolta e La solitudine della creatura: presenti già nell’opera di Mary Shelley, questi stigmi dolorosi finiscono con lo stemperare il nostro timore delle macchine nella contemplazione di esiti di sofferenza che ci affratellano e non possono lasciarci insensibili.

A chiudere il volume come quinto capitolo è un bel contributo di Christiano Presutti, L’umano nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, che prende le mosse dal romanzo steampunk di William Gibson e Bruce Sterling The Difference Engine (La macchina della realtà), 1990. Lo sfocarsi dei confini tra scienze naturali e scienze umane nella seconda rivoluzione industriale grazie all’emergere di nuovi paradigmi “avrebbe portato il mondo scientifico a orientare il proprio punto di vista verso il dominio umanistico e viceversa, in un gioco di specchi e scambi di ruolo che si è protratto sino a oggi e che caratterizza le moderne discipline scientifiche interdisciplinari”. Sempre più lo scienziato è – o dovrebbe essere – indotto a interpellarsi sul significato filosofico e “umanistico” del risultato delle proprie ricerche: e a parte alcune opere pionieristiche dell’ottocento (Mary Shelley, Hoffmann, Poe…), è solo con il secolo successivo che la protofantascienza di Verne e Wells può lasciare il posto alla SF vera e propria. Tra le idee più fortunate sviluppate in quest’ambito sono quelle attorno alla macchina intelligente e al problema dell’emergenza della coscienza. Di qui l’esame di Presutti si sviluppa attraverso tre tappe, La mente artificiale (con le varie definizioni di IA), Che cos’è la coscienza, La coscienza artificiale o immaginare l’impossibile, arricchendo in modo importante l’itinerario di Piga Bruni.

Una ricca bibliografia conclude questo studio molto bello, dove la chiave della macchina fragile rappresenta una preziosissima provocazione. La presa di coscienza della quale dovrebbe illuminare non solo la nostra percezione teorica di questi temi, ma in fondo la vita stessa che ci arrabattiamo a vivere.

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Camerino 47. Attore morto che parla https://www.carmillaonline.com/2021/02/22/camerino-47-attore-morto-che-parla/ Sun, 21 Feb 2021 23:01:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64986 di Alfredo Angelici

(Il 23 febbraio i lavoratori dello spettacolo e della cultura scendono in piazza a un anno esatto dal blocco totale di cinema, teatri ecc. Un composito cartello formato da gruppi di lavoratori autorganizzati e sindacati di base ha indetto una manifestazione per rivendicare misure strutturali e universali di sostegno al reddito e una riforma del settore. Tra le diverse iniziative di lotta intraprese negli ultimi 12 mesi, una sta andando in scena, è proprio il caso di dirlo, dal 20 dicembre scorso a Napoli. #zonarossabellini è il nome [...]]]> di Alfredo Angelici

(Il 23 febbraio i lavoratori dello spettacolo e della cultura scendono in piazza a un anno esatto dal blocco totale di cinema, teatri ecc. Un composito cartello formato da gruppi di lavoratori autorganizzati e sindacati di base ha indetto una manifestazione per rivendicare misure strutturali e universali di sostegno al reddito e una riforma del settore. Tra le diverse iniziative di lotta intraprese negli ultimi 12 mesi, una sta andando in scena, è proprio il caso di dirlo, dal 20 dicembre scorso a Napoli. #zonarossabellini è il nome di questo progetto che unisce protesta e performance artistica: due attrici, un attore e due drammaturghi/registi sono reclusi all’interno del Teatro Bellini senza poter uscire, senza contatti con l’esterno e sotto l’occhio sempre vigile delle telecamere che riprendono costantemente e mandano in diretta streaming l’intero processo creativo che ha l’obiettivo di dare vita a uno spettacolo teatrale. Questa è la loro storia raccontata da uno dei reclusi. F.C.)

20 dicembre 2020 – Primo giorno di reclusione. Volontaria. C’è il sole a Napoli e il profumo del mare che….

“Sono un carcerato eccezionale e spero di rimanere tale per tutto il tempo che dovrò trascorrere sotto questa rubricazione”.

Subito si impone a schiaffo Gramsci impertinente col suo monito e rovina l’inizio ordinario e rassicurante del mio racconto. Nubi di zizzania coprono di presagi il sole partenopeo.

Entro in teatro con un certo entusiasmo, è quasi un anno che non vedo un palcoscenico. Sorrisi, progetti, buoni propositi, pacche sulle spalle ed abbracci tra i partecipanti. Noi adesso lo possiamo fare, toccarci, siamo tutti tamponati, da oggi siamo “conviventi”, ci tocchiamo molto.

Giornalista all’ingresso – cosa ha pensato quando le è stato proposto di vivere insieme ad altri 5 tra attori drammaturghi e registi dentro il Teatro Bellini di Napoli?
Io (questa la so) – ogni attore amerebbe chiamare casa il teatro.
Giornalista (più provocatorio) – resterete fino a che il governo non si deciderà a riaprire i teatri?
Io – Ah ah ah! (risata di chi ignora ciò che è di là da venire) si.
Giornalista (giudicante) – non crede sia un gesto un pò folle?
Io (pedante) – la follia porta gli eroi dei romanzi al trionfo se viene dalla volontà di chi vuole il mondo come deve essere.
Giornalista (in pressing) – perché lo fate?
Io (preso in contropiede) – perché ho capito che tutti i burli sono zurli, lei vede un burlo, è uno zurlo? Non necessariamente perché non tutti i zurli sono burli (risposta evasiva tipica di chi non ha un solido parere).
Giornalista – (pausa) Ah ah ah (risata di chi cerca il significato laddove potrebbe non esserci)! Grazie.
Io – buonasera.

Clausura, reclusione, isolamento, come devo chiamare questo gesto politico-artistico? Decido di non voler indugiare nel termine coloniale “lockdown”.

Entro, guardo distrattamente il fuori per un’ultima volta e subito sono inghiottito da drappi e velluti, affreschi, decorazioni e ori, costumi d’epoca e…e….luci al neon. Azz… non avevo previsto il fattore luce al neon. Con un guizzo estraggo, non visto, il cellulare.

Io – “ok google” – e poi – “si può sopravvivere senza sole?”

Google – “secondo quanto trovato sul web oltre alla conseguente carenza di vitamina D dovuta alla mancata esposizione solare, vivere nell’oscurità costante indebolisce salute fisica generale e mentale”.

Lo sguardo al “fuori” che da ora in poi chiameremo il “Difuori” diventa meno distratto, più preoccupato, la fantasia scade i pensieri nella nebbia, viaggio nei ricordi e giungo ad un amore impossibile, intorno a me tutto in assolvenza si stinge di bianco e nero, ed io divento Humphrey Bogart e dico addio per sempre al Difuori che ha il volto di Ingrid Bergman. Senza che me ne accorga scappano dalle labbra le parole – “we’ll always have Paris”. Mi allontano lentamente fino a scomparire accompagnato da un gendarme, le trombe squillano. Dissolvenza. Fine

Il camerino dove passerò la mia residenza forzata è il numero 47, faccio la smorfia e mi appare Totò morto accanto a Silvana Pampanini scosciata, che mi da i numeri, 1,75 per 4,80 metri, le misure della mia nuova abitazione. Lo standard stabilito dal Centro Prevenzione Torture del Consiglio d’Europa, stabilisce la misura minima in 6 metri quadri. Ci rientro pelo pelo. C’è il classico specchio con molte lampadine colorate, importante per il trucco scenico. Un po di fondotinta chiaro per me che ho la pelle olivastra, glielo devo a Sasà, il disegnatore luci, che si incazza sempre perché – “non ti illumini! Tu sei buono solo a prendere il buio”. Un letto di Ikea riempie quasi tutto il lato largo del mio loculo, è messo a filoparete e mi guarda onesto. Poi una rella per gli abiti. Bagno senza bidet…non dirò a nessuno che userò il lavandino per un uso promiscuo. La doccia non ha la pressione sufficiente per attivare la caldaia, quindi l’acqua è fredda. Il pensiero va ad una frase  che ho archiviato con un asterisco nel cervello, detta da Rino, l’amministratore di compagnia, l’unica che al momento ricordo tra mille dettagli più utili: “abbiamo tre casse di vino rosso nel camerino numero 9”. Confortante. Ora so dove andare a piangere nei momenti di solitudine.  Sono soddisfatto. 

Evvai! Comincia un’avventura che racconterò ai posteri. Mi dico tra me e me a voce troppo alta. Un tuono risuona spaventoso proveniente dal Difuori scrocchia via il mio pensiero. Comincia a piovere ininterrottamente.

Prima riunione di compagnia, incontro i compagni di squadra:
Personaggi ed interpreti:
Licia, regista drammaturga, di Bari
Lorenzo, drammaturgo regista, di Napoli
Alfredo, io, attore anziano, di Roma
Matilde, attrice lanciata, veneta
Federica, attrice molto richiesta, di Palermo
Pier Giuseppe, performer, che è cancellato perché ha abbandonato il campo di gioco, portandosi via il pallone al trentatreesimo giorno di reclusione. Ma di questo non so se voglio parlare.
Reparto tecnico:
Salvatore, responsabile tecnico, lui ha piazzato mille telecamere in teatro, non puoi scappare al suo sguardo Orwelliano. Lui è The Big Brother.
Noemi le beau, produzione esecutiva, nessuno l’ha mai vista mangiare, si narra che si nutra di scarti di scenografie.
Maurizio e Francesco, gentili, magri e gran lavoratori, macchinisti e all’occorrenza supereroi.

Su tutti Daniele Russo, autore del format, direttore del teatro e uomo estremamente sexy, forse troppo.
Se fossimo nei titoli di coda di un film ora ci sarebbe “e con”, a sottolineare l’importanza dell’attore: Rino, direttore di produzione nonché mamma di tutti noi. Nel tempo libero, addetto ai fornelli. Abbiamo stabilito due regole auree: martedì mozzarella e sabato pizza, per il resto Rino fa miracoli con una piastra elettrica piazzata al bar del teatro. Quando non fa scattare l’allarme antincendio, friggendo i fiorilli ripieni pastellati, spadella lenticchie e vagonate di verdure in genere. Ma per favore, basta con le carote lesse!! Il momento dei pasti è l’unico momento di insieme goliardico in una reclusione di gran lavoro.

Dicevamo. Riunione di compagnia. La prima. Sguardi sconosciuti conditi di gentilezza ci sfiorano negli approcci sorridenti della prima conoscenza. Nessuno sapeva nulla dell’altro. A leggere i curricula l’unico criterio utilizzato per la scelta sono le opposte provenienze artistiche e geografiche. Sarà divertente penso, nella diversità la ricchezza. Si ode ancora un ulteriore tuono nefasto.

Ad ospitare la nostra permanenza è il Teatro Bellini, un tempio del 1870. A Napoli si dice “ ‘O San Carlop’a grandezza e ‘o Bellini ‘p ‘a bellezza!”. Conosco bene questo teatro ci ho recitato molte volte, mai però avrei pensato che un giorno avrei utilizzato la sala grande, 870 posti a sedere tra platea e 5 ordini di palchetti, come mio salotto personale, dove trascorrere in lettura, con un bicchiere in mano, le serate pensose e solitarie, accendendo non la abajour, ma mille lucine di platea e mille proiettori da palcoscenico ad illuminare con 150 kW il libro che mi accompagnerà al sonno. Alla faccia del risparmio energetico. Ed accendo anche l’impianto audio da millemila watt, alla faccia di chi mi vuol male: “Look for the silver lining”, Chet Beker. Mi sdraio sul letto di scena.

“Sono un uomo malato … Sono un uomo cattivo. Un uomo sgradevole. Credo di avere mal di fegato. Del resto, non capisco un accidente del mio male e probabilmente non so di cosa soffro”.

Ora tu dimmi che c’entrano le Memorie dal Sottosuolo in un momento così romantico. Ridacchio del mio pensiero.

“Probabilmente pensate, signori, che voglia farvi ridere?” – di nuovo mi sfuggono le parole del maestro.

“Vi siete sbagliati anche in questo. Non sono affatto l’uomo allegro che forse credete”.

L’ho fatto di nuovo. Mi escono vive le parole di un uomo morto. Perché se tocco qualcosa di sublime mi appare la visione sottosopra del mondo?

Mi alzo in piedi, pronto al confronto con l’altro me, inutile opporre resistenza, conquisto il proscenio, accendo il microfono, distorco dal mixer il suono in uscita e finalmente mi libero stridendo in modo metallico:

“sì, proprio nei medesimi momenti in cui ero più capace di riconoscere ogni sottigliezza di tutto ciò che è sublime ed elevato…mi capitava non già di riconoscere, ma di commettere azioni così indecenti, che … ma sì, insomma, che magari tutti commettono, ma…che non andavano assolutamente commesse. Quanto più ero cosciente del bene e di tutto quel “sublime ed elevato”, tanto più mi sprofondavo nel mio limo e tanto più ero capace di invischiarmene completamente”.

Sento dei rumori dalla platea, guardo avanti e mi aspetto che entri Liza, la prostituta del racconto. Invece è Lorenzo il drammaturgo mio collega, con un pesce rosso in mano. Avrei preferito la prostituta. Provo a chiedere a Lorenzo se vuole interpretare, ora, la puttana, per me  … declina cortesemente.

Ecco, ho parlato di pesce rosso. Un dettaglio del quale devo rendervi edotti. L’esperimento sociale al quale sto partecipando con il mio corpo politico si chiama – “Zona Rossa”-, il simbolo è un pesce rosso in una bolla. Ognuno di noi ha un pesce rosso vivo e vibrante a cui badare. I nomi che abbiamo dato ai nostri animaletti rivelano un pò i caratteri delle persone che siamo:
“Cardone”, che è il nome del fidanzato di Licia, la proprietaria.
“Paura”, che è il sentimento primo provato da Matilde entrando qui.
“Splinter” perchè Federica è una burlona che ama segue le tartarughe ninja.
“Focaptain”, perché Lorenzo a volte è inintellegibile.
“Carmen” che è morta nello scarico del bagno di Giuseppe prima che lui ci abbandonasse perché stufo di noi.

Il mio si chiama Polluce protettore dei naviganti, vive tra l’Ade e l’Olimpo, praticamente un bipolare. E’ figlio di Leda che fu messa incinta da Zeus travestitosi da cigno. Una violenza sessuale mitologica in piena regola. Sento già i passi dei censori revisionisti che annusano discriminazione, pregiudizio ed insulto gratuito e sono pronti a cancellare Zeus dalla storia dell’uomo per metterci al suo posto Don Matteo.

Federica -“Che stiamo facendo qui?”
Licia – “Che senso ha questa scelta?”
Matilde – “Per chi lo stiamo facendo?”
Lorenzo – “………..” sta in silenzio e riflette, è silente e riflettivo.
Si accende una discussione, si infuoca, i punti di vista divergono si intrecciano e danzano in punta di fioretto.
“E sciabbole stanno appese e ‘e foderi cumbattono”. Questa non me la sento di tradurvela. Ed ancora
Licia – “la cultura è necessaria?”
Federica – “Il teatro è necessario?”
Matilde – “Che vuol dire essere artista oggi?”
Lorenzo – “…………” osserva e prende nota, un osservatore notante.
Eccolo di nuovo, il mio pensiero anarchico ed indipendente vola e va a posarsi altrove, più forte della penna. 

Di colpo si abbassano le luci di sala, un controluce color ghiaccio descrive una sagoma. Sono io, anziano, cieco, stanco. Avanzo piano e trovo seduto tra tagli laterali di luce azzurra un sacerdote cattolico. Sono ateo, ma ho chiesto un sacerdote. Mi siedo vicino a lui e parte un effetto sonoro tipo “battito del cuore” ad accompagnare la confessione del mio testamento. 

Io – “ho commesso il peggiore dei peccati che possa commettere un uomo. Non sono stato felice. Che i ghiacciai della dimenticanza possano travolgermi, disperdermi senza pietà. I miei mi generarono per il gioco arrischiato e stupendo della vita, per la terra, l’acqua, l’aria, il fuoco. Li defraudai. Non fui felice. Compiuta non fu la loro giovane volontà. La mia mente si applicò alle simmetriche ostinatezze dell’arte, che intesse nullerie. Mi trasmisero valore. Non fui valoroso. Non mi abbandona. Mi sta sempre a fianco l’ombra d’esser stato un disgraziato”.

Si sente in lontananza un brusio a più voci sempre più forte fino a diventare assordante :

“Franceschini, completando un’opera di destrutturazione della tradizione italiana…..il nostro teatro è girovago per vocazione e storia….oltre ad aver precarizzato il lavoro…volano per il Turismo…il concetto di “alzate di sipario” era ugualmente funzionale….quale effettivo interesse e amore ci sia per la Cultura…il primo obiettivo è il business… oltre che la conservazione della memoria collettiva…lo spacchettamento del Ministero…va colto però un aspetto positivo…” . Silenzio.

Il Teatro ha fallito? I greci antichi non avrebbero mai immaginato che duemila anni dopo una pandemia come quella dell’ Edipo re avrebbe soffocato il teatro. Cancellato i lavoratori dello spettacolo nel silenzio. Abbiamo realizzato che non siamo essenziali. Solo ora. Ma la nostra  pandemia è iniziata da molto prima. Il teatro ha abbandonato la piazza ed il dibattito pubblico tempo fa. 

Ehi, dico a te. In che cosa ti posso essere utile io in quanto attore? Te lo chiedo veramente. Se te lo chiedesse un idraulico, immagino che sapresti precisamente cosa rispondere, se te lo chiedesse un avvocato anche e così via. Ma un attore a cosa ti può essere utile? Ad intrattenere e divertire? Scenderesti in piazza per difendere la cultura? 

La mia regista insiste che il nostro vivere in teatro è testimonianza del corpo politico, mi spiega che ciò che stiamo facendo è far diventare il nostro corpo il centro della comunicazione sociale, culturale, psicologica. Non è soltanto immagine esteriore di sé ma si fa veicolo di valore e disvalore. 

Senza essere visto ordino due Ceres su Glovo.

(continua)

La prima foto è di Michele Amoruso, la seconda di Guido Mencari.

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Il reale delle/nelle immagini. Spettacolo e irrealismo della società reale https://www.carmillaonline.com/2017/10/01/39984/ Sat, 30 Sep 2017 22:01:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39984 di Gioacchino Toni

A partire dall’analisi debordiana della società dello spettacolo e dalla pratica del détournement situazionista, Alessandro Cutrona, nel suo L’attualità della mise en abyme nelle opere di Peter Greenaway e Charlie Kaufman (Mimesis, 2017), si occupa di quei rapporti di somiglianza tra un’opera ed il suo contenuto, tra la realtà mostrata e quella contenuta, che danno vita ad un gioco interpretativo senza fine.

Marc Augé, a partire dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, ha insistito sul processo di finzionalizzazione come caratteristico dell’epoca contemporanea: alla realtà si starebbero sostituendo le immagini, come evidenziato dal fenomeno che vede sempre [...]]]> di Gioacchino Toni

A partire dall’analisi debordiana della società dello spettacolo e dalla pratica del détournement situazionista, Alessandro Cutrona, nel suo L’attualità della mise en abyme nelle opere di Peter Greenaway e Charlie Kaufman (Mimesis, 2017), si occupa di quei rapporti di somiglianza tra un’opera ed il suo contenuto, tra la realtà mostrata e quella contenuta, che danno vita ad un gioco interpretativo senza fine.

Marc Augé, a partire dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, ha insistito sul processo di finzionalizzazione come caratteristico dell’epoca contemporanea: alla realtà si starebbero sostituendo le immagini, come evidenziato dal fenomeno che vede sempre più spesso la realtà riprodurre la finzione [su Carmilla]. Se da una parte il reale ama replicare il finzionale, è vero anche che spesso quest’ultimo tende, e forse proprio per questo, a fare del primo il suo tratto distintivo

generando effetti visivi o letterari di contenuto dentro contenuto, come il romanzo dentro al film o viceversa, citazionismi religiosi o mitologici raffigurati o “girati” dentro una scena che con le allusioni non hanno nulla in comune. La mise en abyme dà vita a un doppio, come nel caso dello specchio, condividendo con questo l’artificio o la stregoneria che gli consente un simile effetto. La mise en abyme fa di ciò che ha originato un medium, un ingresso da attraversare, investigare e forse anche da riempire, poiché è proprio lì che si cela l’essenza di un’opera. La creazione di un’entità (persona o oggetto) come doppione di un’entità primaria possiede un’elevata somiglianza a tal punto da far cadere in stato confusionale chi osserva o legge; eppure, nonostante la considerevole attendibilità, questa risulta evanescente, intangibile e parzialmente confutabile, poiché l’accesso dentro l’abisso è collocato all’infinito. Conseguentemente, la mise en abyme produce una trascrizione che riverbera quel principio auratico custodito nell’opera originale. Un’ombra senza tratto distintivo alcuno, poiché calco di un’autentica natura (p. 91).

Cutrona ricorda come a partire dalla tragedia greca il termine spettacolo implichi l’atto del guardare qualcosa o qualcuno da parte di un pubblico, dunque si tratta di un’esperienza antropica dipendente inizialmente da riti religiosi, poi caratterizzata dal legarsi del mito del dramma al racconto. Lungo tale percorso la storia dello spettacolo ha finito con l’intrecciarsi fortemente con quella dei media dando vita ad un rapporto contraddittorio.

Il fascino delle rappresentazioni ha contribuito a modificare la percezione ed i valori dell’uomo, tanto che lo stesso capitale si è sempre più smaterializzato «mediante un’evoluzione da merce a immagine e da immagine a merce […] È lo Zeitgeist della nostra epoca, è proprio da lì, che tutto inizia e finisce, non c’è altra forma di creazione di un hic et nunc, se non quella di un continuo set cinematografico, che si tratti degli studios di larga fama piuttosto che, quelli di un talk show […] di casa nostra. Le regole non cambiano, il gioco ha sempre un solo fine: mimare la vita» (p. 12). Inutile, sembrerebbe, provare a resistere o scontrarsi sul terreno dello spettacolo in quanto quest’ultimo pare in grado di assorbire qualsiasi forma di opposizione facendola propria.

All’interno di un capitalismo votato all’immateriale, ogni oggetto conta in quanto merce ed a contare è la sua forma simbolica. Se il valore di un bene, oltre che dalla quantità di lavoro necessaria a produrlo, dipende sempre più dalla condivisione che l’immagine-merce e merce-immagine riescono ad ottenere, allora, suggerisce Cutrona, «più forte è il lancio dell’immagine-merce più visibile e condivisibile è la merce-immagine, pertanto si tratta dell’odierno valore di scambio, il potere della circolazione che conta sull’astrazione. Lo spettacolo in tutte le sue forme è attualmente il titolare della produzione, l’unica risorsa che si fa immagine della società capitalistica avanzata» (p. 12). Sarebbe dunque nello spettacolo che risiede il vero motore dell’irrealismo della società reale, visto che sempre più spesso il reale tende a richiamare o duplicare la finzione-spettacolo rendendo sempre più indistinguibili i due mondi.

Guy Debord indica come caratteristiche di quella che definisce società dello spettacolo integrato (sintesi di spettacolo concentrato e spettacolo diffuso) «il rinnovamento tecnologico; la fusione economico-statale; il segreto generalizzato; il falso indiscutibile; un eterno presente» (pp. 14-15) e, suggerisce Cutrona, «Il rinnovamento tecnologico, l’eterno presente e il falso indiscutibile, sono le proprietà del mondo postmoderno» (p. 15). Essendo entrati in un’epoca in cui l’individuo tende ad avere un contatto con la realtà soltanto attraverso le immagini – si pensi, ad esempio, come la ripresa effettuata con lo smartphone rimpiazzi l’osservazione diretta dei luoghi attraversati – lo spettacolo oggi sembra rappresentare

la struttura scheletrica dell’odierna società dei consumi, sorretta da un rapporto sociale tra individui, a sua volta mediato da immagini. Se il bene principale è l’immagine, il consumatore contemporaneo è lo spettatore, il proletariato a cui si riferiva K. Marx si è evoluto nella classe dei famelici spettatori di fantasmagoria, certamente più consapevoli di un tempo. Curiosità e zelo determinano l’approccio a sperimentare nuove dinamiche e modalità di fruizione che, in questo punto culturale idealizzano l’audiovisivo come fondamento del dialogo collettivo, linfa vitale dell’l’imago-sfera (quel serbatoio di innumerevoli immagini fluttuanti disponibile a tutti), popolata da binari di ogni paese (p. 15).

Se in generale, rispetto al passato, è comunque sicuramente cresciuta la coscienza critica degli spettatori nelle modalità di fruire la realtà e le sue rappresentazioni, vale la pena soffermarsi sui tentativi di resistenza e di conflittualità più consapevoli ed a tal proposito Cutrona passa in rassegna alcune proposte della Psicogeografia, nella sua messa in discussione del luogo, e del fenomeno Lettrista, anticipatore di alcune linee di forza proprie dell’Internazionale Situazionista.

La Deriva Lettrista implica un modo di intendere libero finalmente da ogni pregiudizio, un’osservazione attenta dello spazio ma anche degli avvenimenti che ci circondano, capacità questa, di sottolineare il valore in ogni dettaglio. Qualunque spazio, una città, un paesaggio, smette di essere agli occhi di un Lettrista un appezzamento di terra, ma un’area contenente svariati codici dettati da un’ideologia dominante, visualizzarli costituisce la prima finalità. Una critica radicale per azzerare la società della merce e rendere l’uomo libero.
Analoga pratica è la Deriva Situazionista, ancora una volta la liberazione dai dispositivi ambientali percepiti come dispotici. Un volontario smarrimento tra il vagare e il cercare senza meta e scopo; il senso di questo sbigottimento, è aprire la mente verso nuovi, inattesi e magari anche, estranianti aspetti della realtà. Una sorta di training sensoriale che consente di avvertire nuove intuizioni, percezioni ed esperienze estetiche attraverso cui i soggetti si relazionano (pp. 23-24).

Arriviamo così al détournement situazionista, pratica che

mira a far deviare chi lo pratica da certi alienanti e dispotici meccanismi culturali, specialmente se legati alla comunicazione di massa, recepiti in forma acritica […]. Il détournement può essere visto come una deriva che procede, però, da un’idea di critica politica o culturale finendo col modificare oggetti estetici già dati (testi, immagini, suoni, ecc.) […] Una pratica combinatoria che, trova un senso inaspettato per “dirottare” il principale intento di quello specifico codice comunicativo. Testi o immagini risultano estranei, inattesi e portatori di una nuova direzione di significato che originariamente non avevano. Il détournement è definibile come un particolare caso di Deriva attivato sul fronte storico-culturale e mediatico della società dello spettacolo (p. 24).

Da tempo Jean Baudrillard insiste nel segnalare come la società contemporanea sia ormai talmente alienata da farsi manifestazione di illusione (le merci), in cui lo spettatore finisce con l’essere un lavoratore a sua insaputa ed i mezzi di comunicazione, a partire dalla televisione, hanno contribuito enormemente a tale trasformazione.

Nel suo saggio, Cutrona sottolinea giustamente come ben da prima dell’avvento della cultura di massa, eventi riguardanti la collettività si erano manifestati tanto nell’antichità, quanto in età medievale e, agli albori della modernità, nel periodo rinascimentale ma, sostiene lo studioso, oggi «l’uomo e i suoi sentimenti, sono ormai ridotti a merce in codici e algoritmi» (p. 25), dunque questi utenti-spettatori vengono costantemente monitorati ed analizzati per vendere loro insieme al prodotto «anche un pezzo di ideologia racchiusa in esso» (p. 25).

Venendo al meccanismo della mise en abyme, ovvero alla questione specifica del volume di Cutrona, secondo Andrè Gide in un componimento si trova la coincidenza «tra il narratore (costruzione letteraria e testuale) con il narratario (il personaggio che compare nel testo come eventuale ed ipotetico destinatario di ciò che il narratore enuncia, il lettore reale, può identificarsi nel personaggio che “legge” fino a coinciderci)» (pp. 27-28); siamo dunque di fronte ad un’esperienza riflessiva che attraverso un procedimento d’identificazione astratta conduce ad un ragionamento. «Una duplicazione interna all’autore, dapprima, che dà vita ad una forma d’arte, che vive una vita propria, come una realtà autonoma, libera ed indipendente. Racchiude in se stessa, in modo univoco, l’opera dentro l’opera. Un soggetto sdoppiato, già connaturato nel proprio sé, decide di creare un oggetto, un’estensione del proprio sé, mediante idee o congetture, più o meno astratte, che seguono un cammino proprio, in un destino temporalmente sconosciuto» (p. 28).

Se la narrazione è un modo di organizzare la realtà, sostiene Cutrona, allora opere come i romanzi ed i film sono da intendersi come delle istruzioni utili per creare un processo immaginativo ed il «meccanismo narrativo che vi è dietro ad una delle forme scelte, ha a che fare con la nostra percezione della realtà. In questo processo, una realtà si trova entro un’altra realtà, la prima, è caratterizzata da precise coordinate: la porzione del suolo di mondo che stiamo occupando, la seconda, è quella che immaginiamo mediante stimolazione, ora illusione, ora realtà» (p. 34). Probabilmente è il linguaggio audiovisivo ad offrire le possibilità più complesse di quella mise en abyme capace di rivoluzionare la percezione, «potenziando la prospettiva di visione, mediante una registrazione del reale, caustica per gli occhi dello spettatore e urtante per la sua sensibilità, creando non a caso, il suo artificio con precisione millimetrica, provocando una vertigine fra illusione e realtà» (p. 47).

A questo punto nel saggio ci si occupa di opere pittoriche, letterarie e cinematografiche a partire da alcuni dipinti di Jan van Eyck e Diego Velázquez a rappresentanza delle tante opere che hanno fatto ricorso alle proprietà di duplicazione proprie dello specchio inserito nella scena o del quadro nel quadro. Ed è proprio nella pittura fiamminga del XV secolo che può essere facilmente rintracciato, suggerisce Cutrona, il principio creativo della mise en abyme. Si pensi ad esempio al celebre ritratto de I coniugi Arnolfini (1434) di Jan van Eyck, dipinto che ad ogni scansione visiva rivela nuovi particolari e nuove tracce da indagare, per non parlare poi della presenza dello specchio, elemento chiave della mise en abyme, «che raddoppia l’ambiente almeno in due dimensioni, mostrando le spalle dei protagonisti, e non solo» (p. 30). Nel corso del XVII secolo Diego Velázquez è soprattutto attraverso il meccanismo del dipinto nel dipinto, del mettere un’immagine all’interno di un’altra, che costruisce la mise en abyme; si pensi a produzioni come Las Meninas (1656), Le Filatrici (1657) e Cristo in casa di Marta e Maria (1620).

In ambito letterario la tecnica della mise en abyme è indagata da Cutrona in opere come Questo non è un racconto (1772) di Denis Diderot, romanzo breve caratterizzato dal meccanismo del racconto nel racconto, L’idolo delle Cicladi (1965) di Julio Cortázar, che narra le vicende di tre archeologi alle prese con un manufatto dai poteri magici e della raccolta di racconti di genere fantastico Finzioni (1944) di Jorge Luis Borges. Di quest’ultima raccolta Cutrona indaga i racconti in cui si palesa la mise en abyme più esplicitamente: Tlön, Uqbar, Orbis Tertius (1940), ove l’immaginazione è «il solo ed unico medium che riflette una realtà, dentro una realtà, che non esiste materialmente ma idealmente» (p. 36), La Biblioteca di Babele (1941), in cui il gioco della «ripetizione, o ri-presentificazione della realtà si manifesta in un “collocato all’infinito”, da qui: en abyme» (p. 36), e Il giardino dei sentieri che si biforcano (1941), racconto ove libri e labirinti «offrono al lettore continue e infinite possibilità: di creazione, proiezione e duplicazione della realtà» (p. 36). Questi scritti di Borges, sostiene Cutrona, rappresentano una dimostrazione di come siano infinite «le possibilità, i livelli, le strutture, che danno vita ad un ordine: finito e infinito, reale o virtuale, scritto, dipinto o rappresentato, che fonda radici su un caos apparente ed ermetico» (p. 37).

Per quanto riguarda la produzione cinematografica il riflesso allo specchio rappresenta la mise en abyme per eccellenza e tale gioco di riflessi può offrire allo spettatore parecchi suggerimenti circa i protagonisti; dal riflesso allo specchio è possibile cogliere la loro vanità o il disgusto che provano per se stessi, il volere identificarsi nel riflesso o il timore provato nei suoi confronti.

Nel saggio vengono affrontati diversi film a partire da Lo studente di Praga (Der student von Prag, 1913) di Stellan Rye, ove «il doppio, possiede una consistenza autonoma e diviene un doppio persecutorio per il giovane studente. Si tratta della fuoriuscita di una parte del sé, e indica forse, l’esistenza di una dimensione inaccessibile» (p. 40).
In Dr. Jekyll and Mr. Hyde (1931) di Rouben Mamoulian, lo specchio svolge un ruolo importante nel gioco di riflessi, duplicazioni ed identificazioni di Jekyll/Hyde ed in Quarto potere (Citizen Kane, 1941) di Orson Welles, Cutrona si sofferma sulla celebre inquadratura in cui, sul finire del film, la solitudine di Charles Foster Keane viene suggerita attraverso un gioco di riflessi infiniti ottenuti dal riflettersi del protagonista su uno specchio posto di fronte ad un altro specchio.
In Fino all’ultimo respiro (À Bout de souflle, 1960) di Jean-Luc Godard, non mancano giochi di sguardi e riflessi tra i protagonisti davanti allo specchio e per quanto riguarda Taxi Driver (1976) di Martin Scorsese, lo studioso si sofferma inevitabilmente sul celebre monologo allo specchio del protagonista interpretato da Rober De Niro.
Per quanto riguarda Femme Fatale (2002) di Brian De Palma, l’analisi fa riferimento all’inquadratura costruita sul film nel film in cui vediamo la protagonista intenta a guardare alla tv La fiamma del peccato (Double Indemnity, 1944) di Billy Wilder.
In Secret Window (2004) di David Koepp, il protagonista, in preda al suo alterego, si trova riflesso “in maniera surreale” allo specchio come nel dipinto La riproduzione vietata, (1937) di René Magritte ed in Harry Potter e i doni della morte (Harry Potter and the Deathly Hallows – Part 1, 2, 2010) di David Yates, lo studioso fa riferimento tanto alla suddivisione dell’anima del signore oscuro Lord Voldemort in varie parti che al meccanismo generale proprio dell’intero ciclo Harry Potter in cui è possibile «riscoprire nuove interpretazioni come un gioco che cambia le sue regole di continuo, anche a distanza di anni; soffermandosi, i livelli di finzionalità espletati nella saga non lasciano traccia di alcun artificio, piuttosto, richiamano l’attenzione in un percorso rocambolesco tra realtà e finzione» (p. 45).
Infine, un doveroso esempio di cinema d’animazione conduce Cutrona ad affrontare Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki, film in cui «lo specchio non riproduce solamente la realtà, ma la altera, la manipola» (p. 45).

La mise en abyme, però, sostiene Cutrona, oltre che come un artificio, una mistificazione del reale, dovrebbe essere intesa come estensione del pensiero, come strumento utile per indagare «una porzione di tempo, spazio, privo di fondo e temporalità» (p. 92). Per certi versi la mise en abyme può essere paragonata ad un sogno che «attinge dal reale ma lo ricrea in uno spazio mobile, vicino ma distante al contempo, lasciando un’impronta senza alone alcuno» (p. 92).

All’interno dell’attuale epoca caratterizzata dall’ipertrofia visiva, l’individuo-voyeur tende a credere a – e sentirsi rappresentato da – tutto ciò che passa davanti ai suoi occhi come si trattasse di verità indiscutibile. Meglio sarebbe, sostiene Cutrona, «tenere ben presente i punti di vista critici dei Lettristi prima e Situazionisti dopo, i quali, teorizzavano una certa libertà da ogni dispositivo percepito come dispotico e controllato, annullando di fatto, il pensiero umano; come ha sostenuto del resto anche Baudrillard, affermando che il soggetto non esiste, e al suo posto invece vi è un sistema capitalistico avanzato nel quale è inevitabile rispecchiarsi» (pp. 92-93).

Ciò che fa del «manovratore di emozioni la divinità di una società dello spettacolo fatiscente andrebbe criticamente contrastata», suggerisce lo studioso, in quanto «si limita esclusivamente a mimare la vita, inseguendo l’arte per il gusto dell’arte, piuttosto che provare interagire con essa, al fine di impreziosirla, mediante un osmotico processo di parole e immagini» (p. 93). È a partire da tale ragionamento che si analizzano I misteri del giardino di Compton House (The Draughtsman’s Contract, 1983) e L’ultima tempesta (Prospero’s Books, 1991) di Peter Greenaway. La prima opera, strutturata su complesse stratificazioni narrative, «ha instillato l’idea che la mise en abyme non enfatizza esclusivamente la percezione visiva, ma giustifica in un certo qual modo, la propria esistenza per il solo fatto di essere portatrice del frammento di un originale» (p. 93). Il secondo lavoro di Greenaway preso in esame, invece, secondo lo studioso dimostra come il cinema possa ricorrere ad artifici «per dimostrare che un testo non è mai soltanto un testo, bensì, l’inizio di un percorso che produce effetti nella mente dello spettatore. Un viaggio ipertestuale che si serve continuamente di mise en abyme per tracciare l’esistenza di un legame tra la ripresentificazione di un contenuto e la stimolazione di un processo immaginativo appena iniziato, omaggiando l’estetica che ha sempre garantito un senso alla struttura diegetica rappresentata» (p. 93).

I film Il ladro di orchidee (Adaptation, 2002), diretto da Spike Jonze e scenggiato da Charlie Kaufman, e Synecdoche, New York (id., 2013) scritto e diretto da Charlie Kaufman, rappresentano un esempio di come le trovate narrative della sceneggiatura siano traducibili in racconto audiovisivo. «È evidente la sintesi che la mise en abyme o più precisamente in questo caso la metalessi, risulti utile a sintetizzare le silhouette psicologiche di un personaggio, e quindi la sistematica coincidenza tra autore, regista, sceneggiatore, attore protagonista. Ben distante da ogni rigore logico, la sostituzione di un’istanza narrativa con un’altra comporta una forte tematizzazione di ruoli e figure nel quadro-film» (pp. 93-94).

Il metalinguaggio al quale si perviene attraverso l’opera nell’opera – il teatro, il romanzo o il dipinto all’interno di un audiovisivo – mostra che un film non è semplicemente una serie di fotogrammi e, soprattutto, come bene esplicitato da Synecdoche, New York di Kaufman, che risulta impossibile rappresentare il reale a causa del suo essere in continuo divenire. Dunque, la mise en abyme deve essere intesa «come un’entità mutaforma che rende possibile il trasferimento di una proprietà in un’altra, plasmando continuamente struttura (dalla pittura alla sceneggiatura sino al film e alla videoarte) non compromettendo mai, quel principio auratico racchiuso in un’opera» (p. 94).

Consapevole di come i nuovi media abbiano rivoluzionato le modalità percettive dell’individuo, Cutrona, nella parte finale del libro, si sofferma anche sul computer game  The Sims (1999) sviluppato da Will Wright, mostrando «le potenzialità di una realtà riprodotta su scala, selezionando dall’interno storie di tutti i giorni, che si intrattengono col reale mediante relazioni […] Giocare a The Sims consegna all’utente o spettatore, una visione corredata di illustrazioni mediante l’uso di una Gestalt che si serve di un’identificazione unitaria» (p. 95). Dunque, il volume, oltre a concentrarsi sulla «mise en abyme come modello di coincidenza, sovrapposizione o ripresentificazione di storie tra personaggi come avviene nella metalessi» (p. 10), si occupa anche del ritratto del reale visto da un particolare angolo di prospettiva e visione: «il metagaming, grado evoluto ed espanso di percezione, sperimentazione e comprensione» (p. 10). In questo ultimo caso lo studioso si concentra su The Sims, gioco che deve il suo successo alla particolare capacità di trasporre il proprio sé in una dimensione altra ricca di aspirazioni e sogni. «Una sessione di gioco può rappresentare un modo per fronteggiare i problemi del reale, transitando dentro la propria vita non solo come spettatore, mediante un percorso virtuale e interpersonale» (p. 81).

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La “Dittatura della Maggioranza” https://www.carmillaonline.com/2013/07/14/la-dittatura-della-maggioranza/ Sat, 13 Jul 2013 22:01:55 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=7494 Note a margine ed eretiche considerazioni in merito a Televisione di Carlo Freccero, Bollati Boringhieri, Torino, 2013, 172 pagine, € 9,00

di As Chianese

ChianFreccIl reale è quello che vede la maggioranza (Jorge Luis Borges)

Il regista Alberto Negrin, nel 1972, girò lo sceneggiato poliziesco Lungo il fiume e sull’acqua cercando di superare alcuni limiti tecnici insiti, eppur tacitamente accettati, nella stessa “confezione classica” della narrazione televisiva del Servizio Pubblico Nazionale. Nessun problema di censura, vulnus politico da (pre)lottizzazione, diktat bulgaro o codice di autoregolamentazione da eludere; si cercava unicamente di frantumare una “forma” ma anche, in maniera criticamente legittima quanto [...]]]> Note a margine ed eretiche considerazioni in merito a Televisione di Carlo Freccero, Bollati Boringhieri, Torino, 2013, 172 pagine, € 9,00

di As Chianese

ChianFreccIl reale è quello che vede la maggioranza (Jorge Luis Borges)

Il regista Alberto Negrin, nel 1972, girò lo sceneggiato poliziesco Lungo il fiume e sull’acqua cercando di superare alcuni limiti tecnici insiti, eppur tacitamente accettati, nella stessa “confezione classica” della narrazione televisiva del Servizio Pubblico Nazionale. Nessun problema di censura, vulnus politico da (pre)lottizzazione, diktat bulgaro o codice di autoregolamentazione da eludere; si cercava unicamente di frantumare una “forma” ma anche, in maniera criticamente legittima quanto proditoria nella modalità risolutiva poi adottata, un limite puro ma già in odore di spuria giustificazione. Per ottenere certe particolari inquadrature, negli angusti spazi degli studi di registrazione forniti dalla Rai, Negrin chiese ai macchinisti di cooperare con l’arredatore affinché fosse la scenografia – la cartapesta e il compensato – ad adattarsi e “muoversi” a seconda delle esigenze della macchina da presa e non viceversa. È una richiesta assolutamente “cinematografica”, all’epoca quantomeno tacciabile di mera vezzosità autoriale. Un ghiribizzo. Per una televisione italiana che aveva addirittura già adattato Delitto e castigo (1963) e I Buddendrook (1971) facendo propria la volontà di perseguire la nobile utilità sociale di biblia pauperum.
In studio, per quelle che furono anche le raffinate messe in scene di Anton Giulio Majano, tutto invece era già allestito su tre robuste pareti, lasciando uno spazio comodo ma fatalmente distante alle possibili soluzioni di regia da adottare. Così Negrin richiese la costruzione e l’arredamento di una “quarta parete”, piazzando i mezzi tecnici al centro esatto della scena, fin dentro l’azione. Ottenne in questo modo una profondità e un dinamismo mai percepiti prima sul piccolo schermo italiano, optando per l’utilizzo di telecamere imbracate sulle spalle dell’operatore e confidando nell’abile capacità mimetica dei microfonisti.
La coraggiosa rinuncia alla macchina fissa servì, quasi da sola, ad attuare una rivoluzione semi-copernicana della percezione stessa dell’azione in una finzione scenica televisiva di largo consumo; lasciando ad altri l’utilizzo di quelle ingombranti macchine fisse che, per stretta volontà degli ingegneri costruttori, riuscivano a realizzare scarsi movimenti, dai novanta centimetri da terra fino ad un’altezza massima di un metro e settanta. L’escamotage era quindi compiuto, la porta sonoramente spalancata.

La soluzione è, idealmente, la progenitrice tecnica di quelle riprese effettuate oggi su L’isola dei famosi dove, accettando la schizofrenia del reality e della tv che rappresenta e celebra se stessa, va in onda una realtà modificata nella sua “mediatica” percezione, mossa unicamente dallo share. Se, come ha affermato Jean Cocteau, “il cinema è la morte al lavoro”, la televisione italiana degli ultimi quattordici anni potrebbe essere stata una strenua, quanto incompiuta, “prova tecnica di resurrezione”. Sull’Isola non esistono pareti arredate ma grandi scenari naturali, l’habitat stesso è inusuale per la finzione. Ancora telecamere mobili e operatori posti nel centro esatto dell’azione, con concorrenti/interpreti che fingono pedissequamente di ignorare l’apparato tecnico e le maestranze che li circondano ogni giorno. La schizofrenia da indurre allo spettatore non è di quelle da considerarsi blande, giustificabile con la sola e abusata “sospensione dell’incredulità”. La “quarta parete” non è più da annettere, da costruire e arredare, ma è assolutamente la prima da abbattere per provvedere, poi, a eliminare l’intero concetto di teatro di posa o studio di registrazione.
La scenografia è una natura resa ostile e perigliosa solo nella narrazione (si pensi a La fattoria), mentre interpreti ed elementi decorativi del set, nella loro libera intercambiabilità affidata al televoto nazional-popolare, vengono messi sullo stesso e identico piano. L’esagerato seno al silicone, esposto da ogni angolazione dalla concorrente di turno del Grande Fratello, nega di per sé la reale utilità di ogni funzionale scenografia di sorta. La protesi è il significante, la sua assoluta ed essenziale (utilitaria) “plastificazione”.
Arriverà a sostituire anche la trama, il filo logico degli stessi eventi. Se “il medium è il messaggio”, la televisione che rappresenta e giustifica se stessa arriva al punto culminante di esser fruita dai suoi stessi realizzatori e viceversa. Ogni ideale “parete” è stata così abbattuta; telecamere nascoste inquadrano corpi da réclame fingendosi colpevolmente, celatamente, calate in un contesto reale e quindi altamente scabroso. Non c’è il pudore dei b-movie scollacciati di quella che fu la “nuova commedia” nostrana degli anni Ottanta, non si rende necessario neanche il pretesto della doccia o l’infantile gioco del dottore e l’infermiera. La barzelletta da caserma dei militari onanisti. Il “buco della serratura” si nobilita nel formato 16:9 della tv al plasma, rigorosamente comprata a rate e collegata al relativo decoder.

Un recente dossier sulle “nuove forme di dipendenza patologica” ha sottolineato come l’utilizzo di siti Internet pornografici gratuiti, veda oggi un incremento di visioni in streaming e di upload di filmati assolutamente amatoriali, realizzati con cellulari moderni e senza prevedere alcun tipo di intenzione preliminare. Il voyeurismo, premeditato o estemporaneo che esso sia, quindi abbatte la parete della forma, elimina il canone di bellezza, spodesta la drammaturgia e prescinde, diabolicamente, dal concetto stesso di responsabilità (il cyberbullismo). Pensare che questo scenario possa essere scaturito da una lettura in chiave profetica, più che criticamente distopica, del film Videodrome (1983) di David Cronenberg, oggi è quanto mai legittimo.
Quasi utilizzassero il principio del periscopio, le telecamere o gli obbiettivi degli smartphone emergono dalla “finzione” per spiare retroscena di delitti agghiaccianti e a sfondo rigorosamente sessuale, ponendo l’indagine e l’introspezione al grado zero dei codici inquirenti e informativi del reportage. Il fine ultimo potrebbe essere quello dello snuff-movie. Il voyeurismo patologico, applicato ad accadimenti di cronaca nera, come il delitto Scazzi, rischia d’essere inserito nel novero identico delle motivazioni del reality. Ne determina lo schema e la liturgia, facendo del dramma reale una messa in scena dove è il colpevole a essere selezionato per mero decadimento empatico.
Così il piccolo schermo ci costringe all’invito a cena con delitto, a un’interminabile sessione collettiva di Cluedo dove fioccano pruriginose accuse, infamie, più che sensati profili psicologici degli imputati, anamnesi di sorta e ricordi edulcorati delle vittime. Nel caso dell’assassinio di Sara Scazzi l’intrusione della televisione è assimilabile a una sorta di pretestuoso, quanto ovviamente disfunzionale, accanimento terapeutico. È il cugino della vittima a giocare a carte scoperte, fra lauti cachet per ospitate nei salotti pomeridiani e pressanti richieste di partecipazione ad Uomini e Donne. E così che, partendo da un delitto atroce, si arriva infine al sorriso tonto ma rassicurante di Lele Mora, alla narcosi narcisista del danaro cash e dell’esposizione mediatica immediata.
Si giunge così in tv, accantonato e quasi vilipeso il merito, al di là del bene e del male. Gli stessi assassini, d’altronde, a più riprese sono comparsi inizialmente sul Servizio Pubblico per dirsi innocenti e chiedere chiarimenti di sorta, giustizia assoluta al “tribunale catodico” composto da disperati spettatori. È il foro degli ultimi, la corte di ladri e imbroglioni, che giudica il delitto più grande assolvendo il proprio status, legandolo alla necessità del campare e mai al piacere. Come in M – Il mostro di Düsseldorf (1931) di Fritz Lang, s’attende la confessione pietosa, il mostro che si rivela bambino abusato o il ghigno sardonico a reti unificate.

La realtà viene strumentalizzata, posta in modo tale da influenzare coscienze e intimi giudizi; la sua rappresentazione diviene dibattito e crea sterile divisione. Si giunge così alle estreme e irrimediabili conseguenze (il caso di Meredith Kercher), da intendersi fallacemente come fisiologica, processuale, “fine dei giochi”. La “quarta parete” è divenuta indispensabile nel solo e risibile plastico della scena del crimine, esposto durante Porta a Porta come vuoto centro dell’azione. Dove, appena un attimo prima, a ogni suono di campanello gentile, si discuteva simpaticamente di diete per l’estate, situazioni politiche da sbrogliare e suicidi di imprenditori, iniezioni di fiducia e di botox, precariato ed operai disperati.
La (s)drammatizzazione è la pietra filosofale del nostro tempo. Lo share ha vestito i panni vistosi del Re Mida e accettato di buon grado la sua mitica e dorata maledizione. Non è metallo nobile ciò che la dittatura della maggioranza elargisce, né pane per denti sani o panacee assolute.

Negli anni Sessanta e Settanta il ritardo tecnico che accettava di evitare, con difficoltà non imbarazzata, le riprese in esterni era l’inautentica ma possibile discolpa della televisione “da camera”. Quella simile al crepitante “caminetto”, magari col corpo spigoloso in legno, dal riflesso catodico capace di creare familiare aggregazione.
Quelle scene dalla fotografia terribile, accentuate negli sceneggiati da un bianco e nero impietoso, per le quali si ricorreva ad una mini-troupe estranea alle stesse maestranze in studio, erano la summa di un posticcio innegabilmente tangibile. Deposito sul fondo del prodotto. La rappresentazione di un falso possibile ma ben tollerato. La clava di cartapesta brandita minacciosamente dal forzuto Maciste, presente in tanti peplum nostrani.
Eppure questo limite, nel codice genetico dello sceneggiato originale (verrebbe quasi da dire nel format), fungeva già da impianto teatrale della narrazione e permaneva nella recitazione enfatica degli stessi attori, come una necessità travestita da punto assoluto di forza. L’influenza del teatro e, soprattutto, della letteratura richiamavano direttamente alla “cultura alta”. Erano parte attiva di quel capitale intellettuale da investire e non da sperperare, la parete da costruire e giammai da abbattere.
Le lunghe pause riflessive di Gino Cervi nei panni di Maigret, che in realtà servivano all’indimenticato attore per spirare i molti “pizzini” incollati alle pareti con le battute da recitare, travestivano d’arte un chiaro bisogno umano. Mostrare il trucco era il vero peccato, smascherare la truffa necessaria per un intrattenimento non fine a se stesso, quasi didascalico nel suo innocente perpetrarsi.
Il gioco di prestigio per la gioia stupita di ogni invitato alla festa catodica.

Rompere l’incanto non è crimine da poco. Abbatte il desiderio, spingendo allo sconforto del “realismo”, verso lidi mai prima lambiti. Mostra al sospiroso spettatore, dalle ultime fila dei posti seduti, le screpolature sui talloni della ballerina di fila dell’avanspettacolo da strapese. Le calze smagliate, il belletto steso per coprire graffi e imperfezioni. Il resto è perversione. Eppure, novità assoluta, al borghese dalle ultime fila – omarino rigorosamente “ad una dimensione” – quel decadimento svelato ed esibito piace. Diviene forma di abietta, lasciva, soddisfazione. Scoprirla è pruriginoso quanto eccitante, violarla gli è oggi necessario. Riprenderla, conservarla in video, è opera di testimonianza preziosa. È l’archivio digitale, un tempo su Ampex, della condizione umana.
Non è la misura della speranza di Borges, liricamente lenitiva, (l’amabile imperfezione che muove la bellezza naturale). Piuttosto il Mondo nuovo di Huxley, “Comunità, Identità, Stabilità”. Concetti emanati, diktat da attuare. Le ultime righe di George Orwell, quelle rivelatrici e necessarie del 1984 ipotizzato e già passato: “…tutto era a posto, la lotta era finita. Era riuscito a trionfare su se stesso. Ora egli amava il Grande Fratello”.

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