Jonathan Demme – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 01 Nov 2025 21:00:42 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il reale nelle/delle immagini. La simulazione incarnata https://www.carmillaonline.com/2016/02/01/reale-nelledelle-immagini-la-simulazione-incarnata/ Mon, 01 Feb 2016 22:30:28 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27595 di Gioacchino Toni

schermo empaticoVittorio Gallese, Michele Guerra, Lo schermo empatico. Cinema e neuroscienze, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015, 318 pagine, € 25,00

Il saggio, scritto da un neuroscienziato ed un teorico del cinema, indaga la relazione che lega lo spettatore alle immagini cinematografiche, il tipo di rapporto intersoggettivo che si instaura tra gli spettatori ed i mondi possibili della finzione prodotti dal cinema. Le neuroscienze hanno da tempo evidenziato quanto l’intelligenza umana sia legata alla corporeità degli individui e come quest’ultima si realizzi pienamente attraverso l’esperienza. Il corpo ha un ruolo [...]]]> di Gioacchino Toni

schermo empaticoVittorio Gallese, Michele Guerra, Lo schermo empatico. Cinema e neuroscienze, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015, 318 pagine, € 25,00

Il saggio, scritto da un neuroscienziato ed un teorico del cinema, indaga la relazione che lega lo spettatore alle immagini cinematografiche, il tipo di rapporto intersoggettivo che si instaura tra gli spettatori ed i mondi possibili della finzione prodotti dal cinema. Le neuroscienze hanno da tempo evidenziato quanto l’intelligenza umana sia legata alla corporeità degli individui e come quest’ultima si realizzi pienamente attraverso l’esperienza. Il corpo ha un ruolo centrale nelle pratiche di simulazione che gli individui mettono in campo tanto nella vita quotidiana, quanto nelle esperienze estetiche e mediate. La risonanza motoria che il linguaggio cinematografico è capace di generare nello spettatore è un tema scarsamente affrontato dagli studi sul cinema, in questo saggio viene proposto un approccio al cinema caratterizzato come “estetica sperimentale”, intendendo con estetica la percezione multimodale del mondo attraverso il corpo.

Forti dell’idea che le neuroscienze possano contribuire a comprendere il funzionamento del cinema ed il suo rapporto con gli spettatori, gli autori si propongono di articolare un nuovo modello di percezione e dell’iniziale comprensione del mondo da essa generata che possa essere applicato tanto all’esperienza della vita reale, quanto a quella del mondo della finzione cinematografica. Da ciò la definizione della teoria della “simulazione incarnata” (embodied simulation) che, sostengono gli autori, costituisce un «meccanismo di funzionamento di base del sistema cervello-corpo dei primati, uomo incluso» (p. 15). Grazie a ciò, affermano Gallese e Guerra, risulta possibile instaurare una relazione diretta non-linguistica con lo spazio, gli oggetti, le azioni e le sensazioni altrui attraverso l’attivazione di rappresentazioni sensori-motorie e viscero-motorie del cervello del fruitore. Una delle ipotesi del saggio ritiene che tale meccanismo sia coinvolto nella generazione delle capacità immaginative umane. «La simulazione incarnata […] costruisce sulle evidenze neurofisiologiche un modello integrato ed empiricamente fondato della relazione con le immagini e coi film», tale teoria tenta di chiarire «importanti aspetti della costruzione del film, della sua ricezione e della sua specificità estetica» (p. 15).

Gli autori intendono ricavare dalle neuroscienze un contributo alla percezione delle immagini e costruzione delle relazioni tra individuo e realtà e tra individuo ed altri suoi simili. L’approccio neuroscientifico al cinema proposto dal saggio sottolinea la volontà di dialogare con altri approcci e discipline ed intende darsi come obiettivo «il sapere coniugare in maniera proficua la dimensione esperienziale e in prima persona con la ricerca dei sottostanti processi e meccanismi sub-personali espressi dal cervello e dai neuroni che lo compongono» (p. 16).

Gallese e Guerra sono convinti che vedere il mondo significa sempre anche guardarlo per capirlo; «l’esperienza visiva del mondo è il risultato di processi di integrazione multimodale, di cui il sistema motorio è un attore principale» (p. 16). L’integrazione multimodale di ciò che viene percepito avviene sulla base delle potenzialità d’azione (intenzionali) espresse dal corpo (inserito in un mondo abitato da simili). Attraverso la simulazione incarnata si costruiscono le rappresentazioni non verbali dello spazio e ci si rapporta in modo altrettanto non verbale alle cose ed agli altri esseri umani. La simulazione incarnata descrive, da un punto di vista funzionale, meccanismi neurali che mettono l’individuo in risonanza col mondo dando luogo ad una relazione dialettica tra corpo e mente, soggetto ed oggetto, io e tu. I due studiosi sottolineano che, pur avendo tratti in comune con l’empatia, la simulazione incarnata non può essere identificata con essa avendo un’applicazione assai più diversificata e vasta. Nel saggio viene delineato anche il concetto di “simulazione liberata”, una particolare espressione della simulazione incarnata che consente di comprendere meglio «la particolarità e insularità estetica dell’esperienza della […] finzione narrativa cinematografica» (p. 17), mostrando affinità e differenze rispetto all’esperienza di ciò che viene definito “mondo reale”.

Il saggio inizia (Primo capitolo) definendo le basi epistemologiche e neuroscientifiche poi applicate nei capitoli seguenti, di seguito (Secondo capitolo) vengono esaminate le forme della soggettività dispiegate dal cinema, indagando come esso abbia tentato di «creare una sovrapposizione credibile tra lo sguardo della macchina da presa ed il punto di vista dello spettatore, delegando alla macchina la responsabilità di simulare l’immanenza di un corpo umano entro lo spazio dell’inquadratura» (p. 18). Successivamente (Terzo capitolo) vengono analizzati i diversi movimenti di macchina ed i tipi di risonanza motoria che questi inducono nel pubblico e (Quarto capitolo) vengono indagati i diversi tipi di montaggio analizzandone le ricadute sullo spettatore. Nell’ultima parte del testo (Quinto capitolo) si riflette sul primo piano e sulla texture dell’immagine cinematografica ed, infine, (Sesto capitolo) si ragiona sul cinema del futuro a partire dalle tecnologie che ne rivoluzioneranno le capacità di coinvolgimento.

Uno dei due studiosi, Vittorio Gallese, ha fatto parte del gruppo che nei primi anni ’90 ha individuato i “neuroni specchio” e da tale ricerca è emerso come si attivino i medesimi neuroni nel presiedere e controllare un movimento tanto in chi lo compie, quanto in chi lo guarda compiere. Ciò ha evidentemente aperto numerose riflessioni circa le modalità di apprendimento e l’empatia.
Dal punto di vista cinematografico, l’obiettivo di ogni regista è, per certi versi, quello di coinvolgere lo spettatore sino a portarlo “dentro” al film. Lo spettatore, pur seduto in poltrona al cinema, quando osserva un film è capace di “simularsi in azione” all’interno di quello spazio bidimensionale che è lo schermo. A partire dalla teoria della simulazione incarnata, legata alla scoperta dei neuroni specchio, gli studiosi tentano di capire in che modo il cinema favorisca tale tipo di immedesimazione.

notorius_keyTra i diversi esempi riportati dal saggio, vale la pena soffermarsi su una sequenza di Notorius (di Alfred Hitchcock, 1946), realizzata attraverso un movimento di macchina che riflette l’immedesimazione dello spettatore. Si tratta della sequenza in cui la protagonista, Alicia, interpretata da Ingrid Bergman, deve rubare la chiave al marito per accedere alla cantina in cui si trovano alcune pericolose bottiglie di uranio. Hitchcock avverte lo spettatore dei pericoli che la donna corre mostrando l’ombra dell’uomo oltre la vicina porta del bagno socchiusa. Il regista inglese è un maestro nel giocare con la suspense dello spettatore (vero obiettivo del film, essendo la trama narrata in realtà molto esile e pretestuosa) ed in questa scena decide di ricorre ad un movimento di macchina che è una “falsa soggettiva” cioè, ad un certo punto, la macchina da presa inizia a muoversi in avanti attraverso un «movimento complesso, che piega lievemente verso sinistra e man mano che procede si abbassa verso la superficie del tavolo fino a enfatizzare il dettaglio del mazzo di chiavi. Proprio nel momento in cui il mazzo è, per così dire, a portata di mano, un taglio di montaggio ci mostra Alicia, in figura intera, ancora ferma sulla soglia della stanza» (p. 95). Lo spettatore carica quel movimento di un significato corporeo, cioè “si muove” convinto che la protagonista si stia avvicinando al tavolo, poi il regista mette a fuoco le chiavi stimolando nello spettatore la simulazione del gesto dell’afferrare, cioè attivando quei neuroni canonici che stimolano tale tipo di funzione. In quel momento lo spettatore ritiene che la missione della donna sia andata a buon fine, che le chiavi siano ormai state prese, mentre, improvvisamente, scopre che la donna è restata ferma sulla soglia. Tale forma di proiezione dello spettatore all’interno dello spazio del film, fino alle chiavi, è stata solo una forma di simulazione, dunque il film, giocando con la capacità proiettiva dello spettatore, lo ha portato a muoversi in quello spazio, perché, fino a quel momento, ad essersi mosso è lo spettatore cinematografico, mentre a non averlo fatto è la protagonista che restata ferma.

«La simulazione motoria ci ha a tal punto trascinati nel vivo della sequenza che quando Hitchcock ci mette di fronte all’irrealtà di quel movimento (che è stato soltanto una proiezione mentale del personaggio, e nostra) siamo come frustrati: Alicia non si è affatto avvicinata alle chiavi, è ancora ferma sulla soglia, lo scarico di tensione che si era consumato nel momento del dettaglio sul mazzo di chiavi viene annullato, e la suspense rilanciata con potenza ancora maggiore» (p. 98).

silence of the lamb 01Nell’indagare come i diversi tipi di montaggio abbiano ricadute sullo spettatore, tra gli altri, il saggio ricostruisce la celebre sequenza tratta da Il silenzio degli innocenti (The Silence of the Lambs, di Jonathan Demme, 1991) in cui gli agenti, credendo di aver individuato il luogo in cui si nasconde il serial killer, finiscono con il fare irruzione nell’abitazione sbagliata mentre, altrove, nel medesimo momento, l’agente Sterling, interpretata da Jodie Foster, si trova, sola, alla porta del pericoloso assassino. Il film mostra alternativamente l’esterno dell’abitazione del serial killer, ove la polizia sta circondando la casa, e l’interno ove l’uomo tiene prigioniera la nuova vittima.

silence of the lamb 2La sequenza si protrae facendo credere all’osservatore che si tratti del medesimo luogo ed al suonare del campanello da parte di un agente sotto copertura (si finge un fiorista che deve consegnare un pacco) l’uomo si appresta, dopo essersi ricomposto, ad aprire la porta e, solo in quel momento, si apprende che si tratta di due luoghi differenti: la polizia fa irruzione in un’abitazione disabitata mentre il serial killer, altrove, apre la porta alla solitaria Sterling che indaga autonomamente. In questo caso, scrivono gli autori del saggio, «la suspense non è gestita attraverso movimenti di macchina particolari, o attraverso pratiche di sovrapposizione di sguardi, ma si fonda su un impiego magistrale e ingannevole del cosiddetto montaggio continuo, prendendo in contropiede la piena fiducia che lo spettatore ripone in questa diffusissima tecnica narrativa. Il montaggio continuo caratterizza la stragrande maggioranza dei film, dei video […] questa tecnica […] si è dimostrata nel tempo la più capace di farci accedere con naturalezza alla dimensione della finzione narrativa» (p. 175).

Secondo Gallese e Guerra tali modalità narrative intendono creare sequenze di inquadrature che agli occhi dello spettatore devono essere percepite come “oggettive”, capaci di rendere intelligibili i rapporti di intersoggettività e le situazioni in cui si vengono a trovare i personaggi e quando tale “oggettività” viene meno, ciò viene esplicitato da un cambio di prospettiva, come nel caso delle inquadrature in soggettiva. Neuroscienziati e psicologi della visione hanno recentemente osservato come «le convenzioni formali su cui si fonda questo tipo di montaggio (che viene etichettato come “hollywoodiano”, ma è diffuso in tutte le produzioni) sono compatibili con le dinamiche naturali dell’attenzione e delle nostre aspettative sulla continuità di spazio, tempo e azione e i modi in cui siamo in grado di soprassedere alle differenze tra i film e la realtà ci offrono un’ottima prospettiva di studio anche su come utilizziamo quotidianamente i medesimi processi fisici e cognitivi impiegati al cinema nel percepire la continuità del mondo reale» (pp. 175-176)

Il film, sappiamo, è costruito attraverso una concatenazione di immagini raccordate il più delle volte attraverso un montaggio continuo. In un film hollywoodiano contemporaneo si trovano circa un migliaio di diverse inquadrature, nel caso di un film d’azione possono tranquillamente essere anche il doppio. L’unità spazio-temporale e causale tra le diverse sequenze viene percepita tale nonostante il flusso percettivo sia in realtà dato da una lunga successione discontinua di immagini. Si tenga presente, sottolineano gli autori, che le immagini che raggiungono i nostri occhi sono continuamente interrotte dall’abbassarsi delle palpebre che interrompono per circa 150 millisecondi il flusso visivo dieci/quindi volte al minuto, dunque da ogni minuto di visione della realtà vengono a mancare 1,5 – 2,2 secondi di immagini. Inoltre, ogni minuto, i nostri occhi compiono tra i 2 ed i 5 movimenti saccadici (rapidi movimenti degli occhi eseguiti per portare la zona di interesse a coincidere con la fovea) che determinano un momento di cecità della medesima lunghezza di quello indotto dagli ammiccamenti. Da tale punto di vista, sostengono gli autori, occorre dire che la visione della realtà e la visione di un film hanno in comune una condizione di discontinuità. Il montaggio ha pertanto saputo trarre vantaggio dalla natura della visione sfruttandone le caratteristiche al fine di potenziare il senso di continuità che consente allo spettatore di immergersi nella narrazione cinematografica.
Diversi studi empirici hanno dimostrato che una narrazione per immagini che sfrutta il montaggio continuo viene compresa facilmente anche da chi non ha avuto contatti precedenti con il linguaggio cinematografico. Inoltre, altre ricerche hanno dimostrato che durante la visione di un film lo spettatore adatta ammiccamenti e movimenti saccadici a quanto sta osservando sullo schermo; gli intervalli fisiologici dell’occhio tendono a concentrarsi maggiormente nei momenti in cui l’attenzione per quanto viene proiettato diminuisce (es. durante un’interruzione tra un evento e l’altro). Quando il taglio del montaggio coincide con i momenti di ridotta attenzione, questo viene meno percepito dal pubblico. «L’efficacia delle tecniche di montaggio continuo dipende moltissimo dalla tipologia di immagini che si succedono prima e dopo il taglio» (p. 195).
Nella normale visione quotidiana i momenti di pausa visiva o di movimento degli occhi non compromettono l’esperienza soggettiva dell’individuo di una visione continua e coerente col mondo e ciò è dovuto alla capacità di anticipare l’esistenza, la localizzazione spaziale e i contenuti di ciò che si osserva grazie alle precedenti esperienze visive. Il montaggio continuo si basa sul rapporto tra anticipazione predittiva di ciò che verrà visto successivamente e percezione continua degli eventi narrati. Nel cinema si parla a proposito di ciò di “regola dei 180°”, cioè lo spazio in cui si filma deve essere pensato come diviso a metà da un asse ai cui antipodi prendono posto la macchina da presa e lo spazio profilmico (spazio ove si svolge l’azione da riprendere). Quando il montaggio non rispetta la “regola dei 180°” (“scavalcamento di campo”) viene fortemente notato dal pubblico; l’infrazione della regola determinerebbe un montaggio discontinuo in cui l’inquadratura successiva al taglio è ripresa da una posizione della macchina da presa che oltrepassa la linea dell’asse. Gli autori sottolineano come uno scavalcamento di campo comporti un’inversione speculare di quanto ripreso prima del taglio e lo spettatore si trova a sperimentare un’inversione della prospettiva egocentrica, perciò, «la seconda inquadratura montata violando la regola dei 180° non rappresenta soltanto un’incongruenza da un punto di vista visivo, ma si caratterizza anche per una profonda incongruenza sensori-motoria, causando una temporanea sospensione della simulazione incarnata mediante cui ci immergiamo nella scena [favorendo così] la focalizzazione della nostra attenzione sul taglio più che sul contenuto dell’azione filmata» (pp. 197-198). La dissonanza percettiva causata dall’assistere ad una sequenza montata violando al regola dei 180° viola le «aspettative sensori-motorie generate dalla nostra esperienza di interazione corporea e fattuale col mondo [ed interferisce] con il funzionamento dei meccanismi cerebrali che normalmente presiedono alla nostra produzione di azioni e alla loro osservazione quando eseguite da altri» (p. 198).

bergman002A partire dall’incipit di Persona (di Ingmar Bergman, 1966) Gallese e Guerra analizzano la valenza tattile e apatica determinata dalla visione di volti, mani, corpi od oggetti in primo piano, riprodotti decisamente fuori scala. L’opera del regista svedese rappresenta sicuramente uno dei film maggiormente legati all’espressività fisica del corpo, mostrato soprattutto attraverso il volto e le mani, e della materialità degli oggetti e della natura. Con tale opera Bergman «riesce a fare della visione il centro espressivo della psicologia dei personaggi e della loro ambigua ricezione da parte degli spettatori, incastonando il tutto in una riflessione metacinematografica sul rapporto tra realtà e rappresentazione, tra ruolo pubblico (di attrice, di infermiera, di madre mancata) e indefinibile identità personale, tra narrazione esplicita di sé e la sottotraccia delle pulsioni e delle memorie implicite che ne scindono la coerenza e ne modificano l’equilibrio, tra dialogo e monologo» (p. 211).

L’ipotesi che intendono verificare i due studiosi è che «il primo piano esalti le qualità riguardanti il dettaglio anatomico, la tessitura, trama e consistenza fisico-materiale dell’immagine, in modo da privilegiare una risonanza tattile e aptica da parte dello spettatore nei confronti delle stesse immagini, grazie all’evocazione potenziata della simulazione incarnata» (p. 217)

L’identificazione immersiva e la partecipazione da essa generata rispetto alle immagini cinematografiche passa attraverso una risonanza motoria con movimenti, azioni ed espressioni dei diversi personaggi, che non richiederebbe il ricorso all’ingrandimento dell’immagine. Il primo piano invece, sostengono gli studiosi, «esalta e focalizza la visione dello spettatore sugli aspetti più materici degli oggetti ripresi, siano essi volti, mani, paesaggi o costruzioni e oggetti prodotti dalla mano umana» (p. 217). A suffragare tale ipotesi concorrono alcune recenti scoperte relative alla «neurofisiologia del sistema somatosensoriale che ne hanno messo in luce la natura multimodale: […] il sistema corticale che mappa le sensazioni tattili, infatti, non si attiva solo quando esprimiamo un contatto sul nostro corpo, ma anche quando lo vediamo esperire a qualcun altro» (p. 217).

Lo schermo empatico si rivela un valido contributo al dibattito circa il nuovo il rapporto tra immagini e reale che, ormai da qualche tempo, viene indagato da diverse angolature. Il fatto che le modalità di fruire le immagini audiovisive siano per molti versi analoghe alle modalità con cui si fruisce il mondo reale offre spunti di riflessione importanti anche al fine di comprendere meglio quello che sembra essere ormai una sorta di groviglio inestricabile in cui risulta sempre più complicato discernere tra reale e finzionale. Il saggio si chiude in un interessante riflessione sul cinema del futuro a partire dalle tecnologie che ne rivoluzioneranno le capacità di coinvolgimento dello spettatore.

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Divine Divane Visioni (Cinema di papà 05/06) – 58 https://www.carmillaonline.com/2014/04/24/divine-divane-visioni-cinema-papa-0506-58/ Thu, 24 Apr 2014 21:46:46 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=14199 di Dziga Cacace 

Adesso trovo interessante perfino un ignorante

DDV5801 darko574 – Donnie Darko di Richard Kelly, USA 2001 e Cacace groupie Il caso cinematografico degli ultimi anni, uscito dopo l’11 settembre, malcagato da pubblico e critica e poi riscoperto come stracult qualche anno dopo. In effetti qualcosa di intrigante c’è. Mi ha divertito, però poi ho ripensato a loop, a universi paralleli e al coniglione, seduto di fianco al protagonista al cinema, diventato l’immagine icastica del film, e l’impressione s’è trasformata nella nebulosa certezza di una supercazzola di cui sarei stato vittima in tempi normali, figuriamoci ora, dopo gravidanza e [...]]]> di Dziga Cacace 

Adesso trovo interessante perfino un ignorante

DDV5801 darko574 – Donnie Darko di Richard Kelly, USA 2001 e Cacace groupie
Il caso cinematografico degli ultimi anni, uscito dopo l’11 settembre, malcagato da pubblico e critica e poi riscoperto come stracult qualche anno dopo. In effetti qualcosa di intrigante c’è. Mi ha divertito, però poi ho ripensato a loop, a universi paralleli e al coniglione, seduto di fianco al protagonista al cinema, diventato l’immagine icastica del film, e l’impressione s’è trasformata nella nebulosa certezza di una supercazzola di cui sarei stato vittima in tempi normali, figuriamoci ora, dopo gravidanza e paternità. Non so, non ho più gli strumenti per capire. O forse non ho voglia di scrivere perché son stanco e giocare e fare il papà ti lascia poco tempo per giocare a fare il critico. Vedo pochi film e allora mi concedo ancora qualche concerto, specie se si tiene a 400 metri da casa, come tre sere fa, quando al Transilvania ho intervistato un gruppo di quattro biondazze svedesi che – altro che il pop trinariciuto degli Abba o il metal tricotico degli Europe – indulgono in un ottuso, innocuo e tutto sommato divertente hard rock. Si tratta delle Crucified Barbara: in slang svedese le “Barbara” sono le bambole gonfiabili da pornoshop, loro, in realtà, sono annoiate da continue domande sessiste e decise a dimostrare sul palco il loro valore, presentando il primo album In Distortion We Trust. Le incontro in un angusto camerino e prima di vederle mi balenano in testa i classici pensieri da galletto italico in mezzo all’orda di scandinave in caccia sulla costa romagnola. L’approccio è abbastanza neutro e le quattro stanghe sono disponibili alla chiacchiera.
DDV5802 Crucified BarbaraSguazzo felice nei luoghi comuni sciorinando il repertorio che mi è proprio e cito Bjorn Borg, Stenmark e Volvo e loro mi apostrofano (giuro) “maskiaccijo, spagetti, parmesano e piza”. Gliene vengono recapitate poi otto in camerino. Dopo aver cianciato di chitarre e ampli provo il diversivo politico e finisco sulla guerra in Iraq. La svolta: la chitarrista Klara dai sinceri occhioni blu sembra l’unica vogliosa di darmi retta e mi mette le mani sulle ginocchia quando dà appassionatamente del sacco di merda a Bush, definito “evidentemente un cretino, vero?”. Le altre tre Crucified Barbara democriste preferiscono chiarire che tengono separate le opinioni politiche dai loro testi. Che parlano di crapula, libero scambio sessuale e generale godimento dei piaceri della vita, come dimostra in un angolo del camerino il mucchio di lattine di birra vuote. A questo punto rimane a parlare con me solo Klara. Le altre si truccano o si preparano per il concerto, lei mi invita a bere assieme qualcosa, “together alone”, sottolineando con occhiate ammiccanti. Ammazza. Rispondo come un poliziotto: sul lavoro, no grazie, non bevo. E poi, cazzo, sono un neopapà! Per chi mi hai preso, per un groupie? Sul palco il quartetto è un uragano platinato, ancora acerbo per il metallaro intransigente, un sogno fattosi realtà per quello dalla bocca buona, magari impastata dagli alcolici. A guardarle siamo però una ventina di spettatori (il promoter dà la colpa alla neve… mah!). Alzo comunque il mio boccale verso Klara, lei risponde skol e mi fa segni eloquenti di fermarmi dopo i bis. Saluto la vichinga con stolida refrattarietà e torno a casa di corsa: non ho mai avuto l’età per certe cose, neanche quando l’avevo. (Dvd; 1/2/06)

DDV5803 manchurian575 – The Manchurian Candidate di Jonathan Demme, USA 2004
Ma sì, dài: film più che gradevole, ben costruito, recitato e fotografato. Demme è come sempre molto politico, anche quando fa il thriller per le massaie e gioca con le teorie del complotto: in fondo – se si hanno orecchie disposte a sentire – ci dice molto più lui in queste due orette che certa stampa italiana nell’ultimo decennio. (Dvd; 4/2/06)

DDV5804 Sideways576 – Solleticante al palato, Sideways di Alexander Payne, USA 2004
Due compari, il precisino Miles e il farfallone Jack, si concedono una settimana di golf e degustazione di vini, prima che il secondo convoli a nozze. Ma Jack ha la religione della pussy e combina un casino dopo l’altro, di cui subisce sempre le conseguenze anche il povero Miles che si accontenterebbe solo di qualche buona bottiglia… Commedia carina, delicata, recitata bene, ben musicata, ben dialogata, con ambientazioni e argomenti interessanti. Okay, poi esco dalla mia borghesia interiore, mi guardo da fuori, mi disprezzo e aggiungo: un filmetto così ti riconcilia con la vita, ma so anche che tra due anni non me lo ricorderò più né avrò voglia di rivederlo. È un film sincero, direi, ma è anche troppo facilone il pubblico. (Dvd; 11/2/06)

DDV5805Heat577 – Io non capisco Heat, di Michael Mann, USA 1995
Anni fa era stato un caso, con ampio battage pubblicitario per vendere l’evento: finalmente Pacino e De Niro in una stessa scena. Un can can mediatico insopportabile coi critici prezzolati a riempire le pagine degli spettacoli ripercorrendo le carriere dei due attori. Stavolta il rigoroso e straight Bob fa il delinquente, mentre il dissipatore di talento finalmente tornato all’ovile Al è un poliziotto tutto d’un pezzo. Poi, assunto il film e incassato l’anticlimax della scena in comune con campi e controcampi insipidi, ero rimasto abbastanza indifferente: pellicola discreta, ma niente di che, colpito solo dal momento immenso in cui De Niro rivela alla sua compagna di non essere quello che lei credeva. Rivisto – so di dire una cosa grossa – m’è sembrato una porcata muscolare, noiosissima e asinina. Tutto spiattellato in scena in modo evidente, senza profondità, e con un Val Kilmer che pensa di essere ancora in Top Secret. Mah. Non ho mai amato granché Mann, per cui il mio parere val quel che vale (nel senso che non ritrovo una poetica condivisibile né mi sforzo di farlo). Però Heat ha fan sfegatati, ma proprio tantissimi, che – sbaglierò – compatisco sinceramente. (Dvd; 18/2/06)

DDV5806 The Village578 – Il trappolone The Village di M. Night Shyamalan, USA 2004
Un villaggio dell’Ottocento in Pennsylvania, dove si vive isolati dal mondo, terrorizzati da qualunque contatto esterno. Ma c’è un però… La ricetta è la solita: costruzione lenta, incantamento, progressiva perdita di controllo sensoriale dello spettatore, ipnosi e poi – ta-dah! – colpo di scena che ti lascia lì, come un imbecille, a prendere ceffoni logici per i prossimi cinque minuti di film, continuando a dirsi: ah, ma quindi…. Oh: ‘sto maledetto Shyamalan m’ha fregato anche stavolta. Bel cast, regia pulita, obiettivo raggiunto (anche se pigliare per il culo uno che dorme 4 ore a notte e già di suo tanto sveglio non è, non so quanto sia onesto) e interessanti possibilità di lettura: la regia mette in scena neanche troppo metaforicamente la sindrome d’accerchiamento di un’America che rimanda ai padri pellegrini, rinchiusa su se stessa, che rifiuta l’incontro col diverso e sogna un ritorno edenico a un mondo premoderno. Shyamalan fa sempre il finto tonto, e poi, invece. (Dvd; 26/2/06)

DDV5807 Crash579 – Troppo perfetto, Crash di Paul Haggis, USA 2005
Premio Oscar niente male. Una riflessione sul razzismo e sui rapporti umani, graziata da bellissima fotografia, ottimi attori e montaggio intelligente. Ed è un film scritto talmente bene (con l’incrocio post-altmaniano di diverse vicende) da risultare paradossalmente anche un po’ falso, troppo meccanico, come se il regista ammirasse narcisisticamente la sua bravura nel mescolare le vicende per portarle con tempismo preciso al crash finale (che vediamo in testa alla vicenda). Però, dài, non lamentiamoci. (Dvd; 11/3/06)

DDV5808 Jefferson Airplane580 – Fly Jefferson Airplane di Bob Sarles, USA 2004 e, voilà, i Toto
Se non siete già a conoscenza dei Jefferson Airplane, ecco il filmetto che potrebbe farvi scattare la passionaccia. In un’ora e venti ripercorriamo le tappe fondamentali di uno dei gruppi che (assieme a Grateful Dead, Big Brother and the Holding Company e Quicksilver Messenger Service) ha fatto la storia del costume e del sound di San Francisco a fine anni Sessanta, quando tutti i giovani andavano a perdersi a Haight Hasbury. Con un racconto succinto e anarchico, trovate il sapore di quell’epoca e di un gruppo contraddittorio che, per primo, venne ingaggiato da una major pur cantando di pillole e funghetti che espandevano la conoscenza. E non era finita: vennero gli album destrutturati e anche i proclami politici guevaristi, tanto che Godard li filmò a cantare la rivoluzione su un tetto di New York (ben prima che lo facessero i Beatles). I reduci hanno le idee tuttora chiarissime e non hanno perso il gusto per la provocazione (si veda Grace Slick – faccia d’angelo e voce che trasuda sesso – pittata di nero in prima serata televisiva all’alba dei Settanta). A Woodstock erano fuori fase, ad Altamont presero delle botte, ma nel primo pop festival di Monterey fecero capire che il mondo stava per cambiare. La rievocazione è pacifica (anche se i Jefferson furono litigiosissimi) e la regia si concentra sulle immagini piuttosto che sulle parole. Ed è un bel vedere, tra liquid show e grafiche psichedeliche. Sottotitoli in italiano approssimativo, ma sono musica e colori a emozionare (anche nei ricchi bonus). Feed your heeeead! Passando ad altro, in settimana incontro Steve Lukather dei Toto, chitarrista celeberrimo eppure bistrattato dalla critica. Io, del gruppone da classifica, ho ricordi frustranti: una festa di terza media, la notte artificiale alle quattro del pomeriggio con le tapparelle abbassate, nello stereo la Rettore (Kamikaze Rock’n’Roll Suicide, oh: bellissimo!), i Queen (Hot Space, ‘nzomma) e i Toto (IV, ‘na palla). Rosanna era il singolo ballabile e le ragazze attuavano la tremenda tattica del braccio a squadra, rigido, che rendeva impossibile qualunque avvicinamento oltre il lecito. Ecco. Cos’altro so di loro? Niente! Perché i Toto, pur vendendo qualche milionata di dischi, hanno sempre sofferto d’invisibilità. Pericolosamente propensi alla canzone dedicata (non scherzo: Anna, Lorraine, Angela, Pamela, Carmen, Lea), indulgevano nel ballatone da classifica. Ergo: presi per il culo a più riprese dalla stampa che voleva eroi marci di cui spettegolare, non stucchevoli professionisti. Incontro Lukather all’Hilton di Milano e subito chiarisce che non ce l’ha con me e la stampa in generale. Lo chiarisce più e più volte, perché invece gli rode ancora il culo da impazzire (“Sono trent’anni che devo scusarmi… ma di che cosa?”). Singolarmente i membri dei Toto hanno suonato nei dischi più venduti della storia della musica e Steve ha prestato la sua chitarra a un migliaio di progetti, gli mancano solo il sirtaki e il ballo del mattone. “Dicevano che eravamo peggio della chemioterapia, hanno pure chiesto che i nostri genitori fossero sterilizzati… ma si può?”. Ecco il punto dolente: “Nel 1983 Rolling Stone ci ha offerto la copertina e noi, dopo tutti i maltrattamenti subiti, ci siamo rifiutati… 8 Grammy Award e neanche una citazione!”. Poverino, offeso. Non so che dire. La sera sono al PalaMazda, tutto esaurito, come diversi dei diecimila presenti. Il repertorio del gruppo è in bilico tra rock e fusion ma sempre in una cornice pop, con voci in armonia a rischio diabete. Arriva il momento degli assoli, dove si sciorina la tecnica della band. Il batterista Simon Phillips conclude un quaresimale lavoro sui tamburi che non mi ha dato alcuna emozione e poco lontano da me si alza uno spettatore che comincia a battere ostentatamente le mani facendosi vedere da tutta la gradinata, segue scroscio entusiasta di applausi, con tutti che fanno sì con la testa come a testimoniare l’apprezzamento tecnico. Sono fuori luogo: seppur parzialmente impedito da un clamoroso attacco di orchite piazzo il fugone prima che arrivino le hit. Mi sa che la critica, caro Lukather, qualche ragione ce l’aveva, eh. (Dvd; 15/3/06)

DDV5809 Roma581 – Il lercio Roma di Aa.Vv., Gran Bretagna/USA/Italia 2005 e la 4 stagioni di Uli Jon Roth
Ottimo prodottino televisivo sulla Roma di Giulio Cesare, con bassezze, tradimenti e sesso e azione a profusione. Tra mille polemiche, la versione di RaiDue è stata tagliata (immagino nelle parti genitali) ma ci ha comunque divertito assai. Probabilmente siamo stati gli unici a vederla, infatti la share televisiva è risultata miserabile e non vedremo mai sulla tivù generalista la seconda serie, scommettiamo? (Ehi: NOI – la Rai, intendo – siamo quelli che hanno finanziato Il regno 2 di Lars von Trier e non l’abbiamo MAI mandato in onda né distribuito, capito il genio italico?). Mentre Roma era in onda ho incontrato un altro dei miei musicisti strambi, Uli Jon Roth, chitarrista originale degli Scorpions quando non avevano ancora fatto la fortuna dei venditori di accendini con le loro ballad emetiche. Si presenta alle prove al Black Horse di Cermenate in zoccoli bianchi da paramedico, capelli radi davanti ma chioma fluente dietro, l’aria vagamente assente. Avrebbe dovuto essere in Italia ieri, ma ha perso l’aereo. È un vecchio hippie, pacifista e pragmatico, contento di suonare per pochi ciò che piace a lui. Cioè un mischione tra Hendrix e Vivaldi, Beethoven e Mussorgski. È in un momento un po’ difficile: gli hanno pignorato il castello in cui viveva e mi chiede se so di qualche affare in Italia, vuole i merli e le torri, lui. Il promoter mi confessa sconsolato che ha in garage, da anni, degli orrendi cigni di gesso che Uli ha comprato in un precedente tour. Quando siamo a cena, forse perché ispirato dalla denominazione vivaldiana, mi chiede cosa contenga la 4 stagioni. Mi faccio capire e allora sceglie una funghi. È vegetariano e non vuole le acciughe. Lo accompagno in albergo, dove va a cambiarsi per il concerto e al ritorno siamo su un furgoncino, vicino al collasso strutturale, sparato a palla sulla Milano Laghi: dietro di me, in concentrazione ascetica, Roth a occhi chiusi, le mani appoggiate a due chitarre ai suoi lati, in pellicciotto arabescato, pantolone con argenteo effetto graticciato e stivali scamosciati. Se ci ferma la Polstrada finiamo in manicomio per direttissima. Poi, quando è sul palco, Uli Jon fa impallidire molti chitarristi rinomati. Occhi chiusi a inseguire i guizzi della creatività, sa essere velocissimo ma preferisce il buon gusto dell’interpretazione (nei limiti del genere) e concede ai fedeli accorsi il repertorio storico degli Scorpions e diverse divagazioni blues fluide e barocche. A me sembra di essere in una candid camera. Però piacevole, sai? (Diretta su RaiDue; 17, 24, 31/3/06 e 7, 21, 28/4/06)

DDV5810 Profondo rosso582 – Profondo rosso di Dario Argento, Italia 1974
Ennesima visione, sempre molto soddisfacente. Noto un impercettibile rallentamento nel secondo tempo e le tante parti di commedia ad alleggerire l’orrore vero delle parti de paura. Che sono sempre grandiose, e la musica è geniale: quanto autentico terrore può farti provare una filastrocca infantile, eh? Ah, già che ci sono: prima di Natale vado a Roma in aereo e il caso vuole che di fianco a me sia seduta (o meglio: sciolta) Asia Argento, praticamente in coma, le mani sporche con scritti su dei nomi e dei numeri di telefono. Dormicchia rantolando per tutto il viaggio e io, perbenista dentro e fuori, mi dico: “Adesso ‘sta qui vomita, vedrai”. A un certo punto si sveglia all’improvviso facendomi venire un colpo, si mette dritta e prende il libro che stavo leggendo per vederne il titolo: lo legge (Ogni cosa è illuminata, mica cazzi), si alza gli occhiali scuri, mi guarda e crolla di nuovo nel sonno, bofonchiando. A un certo punto mi sembra che non respiri più e ho un flash: Dario Argento intervistato in tivù che mi accusa di aver lasciato morire sua figlia. Poi, quando arriviamo a Fiumicino, scende dall’aereo come se nulla fosse, ovviamente. Questo il mio grande incontro con Asia, probabilmente una fantasia. (Dvd; 1/4/06)

DDV5811 The COnversation583 – Il misconosciuto The Conversation di Francis Ford Coppola, USA 1974
Mooolto bello e spesso dimenticato, tra i vari Padrini dell’epoca. È un thriller angosciante, chilled out, sottile, recitato alla grande da Hackman e dove è protagonista la paranoia. Chi ascolta chi? E – al di là del plot – si può sempre rimanere neutrali? Film amaro come un blues al sax, ha dalla sua anche un clamoroso score pianistico di David Shire (l’ex marito di Talia Shire, Adrianaaaaa!). (Dvd; 9/4/06)

584 – Killer’s Kiss di Stanley Kubrick, USA 1955
Ottimo! Secondo film di Kubrick, espressionista, ritmato e fotografato da dio, con quel gusto realistico che il regista aveva già dimostrato nel suo lavoro di reportage per Look. Il pugilato come andrebbe ripreso e il noir come andrebbe raccontato (salvo la fine, direi): Barbara e io al tappeto. (Dvd; 16/4/06)

Qui tutte le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 58)

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Divine divane visioni (Urlando furioso 04/05) – 50 https://www.carmillaonline.com/2013/06/28/divine-divane-visioni-urlando-furioso-0405-50/ Thu, 27 Jun 2013 22:01:09 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=6933 di Dziga Cacace

Farmacia di turno, lucri sul nervoso (Elio e le storie tese)

ddv5001494 – La truffa e la fuffa di Se mi lasci ti cancello di Michel Gondry, USA 2004

Premetto: avevo mal di testa, ero stanco, mal disposto e seduto troppo vicino allo schermo. Aggiungiamo che lo sceneggiatore del film, girato dall’acclamato regista di videoclip Gondry, è quel Charles Kaufman che mi sta già parecchio sulle palle come responsabile dello script del perfuntorio Essere John Malkovich, commesso da Spike Jonze e a cui tanti avevano abboccato (spunto folle e geniale, ok, ma esaurito in un [...]]]> di Dziga Cacace

Farmacia di turno, lucri sul nervoso (Elio e le storie tese)

ddv5001494 – La truffa e la fuffa di Se mi lasci ti cancello di Michel Gondry, USA 2004

Premetto: avevo mal di testa, ero stanco, mal disposto e seduto troppo vicino allo schermo. Aggiungiamo che lo sceneggiatore del film, girato dall’acclamato regista di videoclip Gondry, è quel Charles Kaufman che mi sta già parecchio sulle palle come responsabile dello script del perfuntorio Essere John Malkovich, commesso da Spike Jonze e a cui tanti avevano abboccato (spunto folle e geniale, ok, ma esaurito in un quarto d’ora e amen). Anche questo Se mi lasci ti cancello (e complimenti vivissimi ai distributori nostrani per la scelta del titolo) gode già di fama clamorosa. Però io, dopo cinque minuti di proiezione, sono già “fuori” dal film, incapace di farmi coinvolgere, straconvinto dei miei pregiudizi. L’idea del film è intrigante: esiste una terapia particolare per rimuovere il ricordo di una persona cui si è legati affettivamente e Joel e Clementine (Jim Carrey, sottotono, e Kate Winslet, adorabile) vi hanno fatto ricorso. Solo che – attento allo spoiler – lo spettatore gonzo casca nell’abile tranello e scoprirà presto (o tardi, dipende dalla freschezza neuronale) che l’incontro tra i due piccioncini messo in testa al film è la conclusione, non la premessa, di quanto segue. I due si erano “cancellati”, ma in un immane e residuale sforzo mnemonico si erano dati appuntamento per il futuro, per ricominciare da capo. Mi sa che tanto per cambiare si sia rubacchiato dalle parti di Dick, ma calando l’intuizione in un racconto pretenzioso, dove ci si crede autori se ti si polverizzano i coglioni con dialoghi estenuanti e sopra le righe (cosa che nella testa di taluni fa tanto “artista”). La regia non mi colpisce granché, comunque, né i sussulti di montaggio gggiovane. Il film è piaciuto tantissimo, dicevo: alla critica specializzata e al pubblico hip e in America s’è parlato di capolavoro assoluto. C’è l’amore vero, unico, disperato, tenace etc. etc. E certo. Ora: siccome ho scritto con la destra mentre la sinistra mandava nemmeno troppo metaforicamente a cagare il regista, quale valore ha il parere di uno che ha vissuto tutta la proiezione come una tortura, dandosi del belinone perché già sapeva a cosa sarebbe andato incontro? Nessun valore! Oppure tantissimo, perché è ben questa vaccata presuntuosa che mi ha ridotto ulteriormente così, eccheccazzo, e non ritratto, no. Io sono un vecchio bilioso, ma se devo vedere un regista che fa i numeri, preferisco Godard e a un maldestro presuntuoso preferirò sempre un maldestro ignorante perché suo è il regno dei cieli. Ecco. Poi, mi sbaglierò perché mi pare di essere solo contro tutti e, anche se miliardi di mosche apprezzano la merda, io il dubbio ce l’ho sempre. Ma anche se sbaglio, dov’è la novità? (Cinema Mediolanum, Milano; 31/10/04)

ddv5002495 – L’immancabile Appuntamento a Belleville di Sylvain Chomet, Francia/Canada/Belgio 2002
La strana avventura di nonna Souza e del cane Bruno che, aiutati dalle trillanti Triplettes (trio canoro dedito al consumo di rane) finiscono in una Belleville americana per liberare il nipote ciclista Champion, prigioniero della mafia francese che lo fa correre per scommesse. Delirante trama che gioca coi luoghi comuni sui francesi (nasoni da avvinazzati, passione per le due ruote) e sugli americani (tutti grassissimi e ottusi), con ritmo e comicità assolutamente europei (e un po’ catatonici). Omaggi sparsi a Jacques Tati, Fausto Coppi, Eddy Merckx, Django Reinhardt, Glenn Gould, Josephine Baker e in generale al mondo innocente e swingante del dopoguerra. Disegnato con stile spigoloso e deformazioni fisiche caricaturali, Appuntamento a Belleville immagina città tortuose, caotiche, grottesche, “mordillane”, con tratto gradevolissimo, ricchezza cromatica, animazioni intelligenti e gag visive azzeccate. Film carino e inaspettato, molto autoriale nell’irriducibile lontananza dal gusto comune, per niente children friendly. E ciò nonostante mi è incredibilmente piaciuto. (Dvd; 9/11/04)

ddv5003496 – Il truccato Kiss Symphony The DVD, di due cialtroni, USA 2003
Cosa rende così irresistibile truccarsi con biacca e rossetto come dei vampiri spaziali e agitarsi su degli zatteroni? I Kiss devono averlo capito più di trent’anni fa, tant’è che, col loro hard rock piacevolmente banale, son riusciti a diventare un fenomeno (sub)culturale condiviso dai fan di mezzo mondo. Un pubblico entusiasta che aderisce al rito liberatorio e infantile della performance collettiva, dove lo spettacolo si consuma sia sul palco che in platea, tra spettatori mascherati che tiran fuori la linguaccia e fanno le corna. Stavolta il carico ce lo mette la Melbourne Symphony Orchestra, pittata al bacio per una folle notte di r’n’r, e il menu è completo: arrangiamenti roboanti, sangue finto a litri, esplosioni pirotecniche e trovate sceniche esagerate. In un tripudio visivo che, a voler essere molto generosi, rimanda al teatro kabuki o a una consapevolezza camp, le brave famiglie godono di tre ore di trasgressione soft, sottolineata dall’occhiuta regia (dei carneadi, per me, Jonathan Beswick e Victor Burroughs) che non tralascia alcun florido petto femminile offerto ai machissimi Gods of Thunder. Ma con consueta ipocrisia, il flashing non si concretizza, lo si suggerisce soltanto… maledizione! Mi prende male e noto talento imprenditoriale, faccia tosta e poca ironia, se no il gioco viene meno bene: praticamente Frank’n’Furter del Rocky Horror Show senza l’anima e il ragionamento, solo l’involucro esteriore. E la chitarra sfasciata nel finale non è sintomo della rabbia esistenziale di Hendrix o Townshend, ma solo l’esplicita metafora di ciò che è stato fatto alla musica. E vabbeh. Dvd consigliabile solo a fan sfegatati o insospettabili amanti degli zoccoloni seventies. Niente sottotitoli, ma francamente non si perdono grandi dialoghi. Film-concerto esagerato e artificioso e pezzo mio offeso e ingiusto – perché questi cazzoni alla fine mi son simpatici -, ma non ho altro da dichiarare. (Dvd; 18/11/04)

ddv5004497 – Troppo poche Nine Hundred Nights, di Michael Burlingame, USA 2001
In un’oretta ricca d’interviste e immagini d’epoca, la parabola artistica e umana dei Big Brother and the Holding Company, il gruppo di San Francisco che, con l’arrivo di Janis Joplin, ebbe un improvviso e clamoroso successo, per poi finire nel dimenticatoio quando la cantante – dopo 900 notti assieme – decise di cambiare aria. Janis Joplin era una ragazzona texana di buona famiglia, butterata, insicura (anche sessualmente) e vogliosa di rivincita. A Port Arthur la definivano “il più brutto uomo del college”. E allora lei se ne andò a Frisco per cantare il blues con l’intensità e il dolore di una big mama nera, spesso ubriaca come un carrettiere e vestita come uno sguaiato troione. I Big Brother erano hippie volenterosi ma musicalmente un po’ pedestri: se riascoltate i bootleg del periodo, è un festival di scordature e stonature, note smangiate, entrate fuori tempo e fraseggi balbettanti. Però c’era del gran coraggio, quello che ti rende non un virtuoso, ma un artista sì, uno che prova a percorrere in modo diverso una strada magari vecchia: ascoltatevi l’alchimia inarrivabile della rilettura di Summertime di Gershwin, con due chitarre acide che si inseguono, mentre la biondona soffre e geme, ma veramente, come se si portasse sulla schiena una balla di cotone e il dolore esistenziale di tutti, non solo del popolo nero. I quattro maschiacci strafattoni, riuniti in una comune di Marin County si dimostrarono i comprimari perfetti per  Janis: ne venne fuori una musica rivoluzionaria, pulsante, viva e innovativa, che centrifugava tradizione ed elettricità, blues, gospel, country e psichedelia. Nelle belle clip di repertorio la Joplin incendia il palcoscenico: batte i piedi, urla, piange, ride, blatera, beve, ulula e tratta male i suoi compagni (e son momenti di imbarazzo vero). Li mollerà in braghe di tela, consegnandoli all’anonimato di dischi trascurabili. Lei andrà invece a Woodstock (performance non eccelsa tecnicamente, ma sofferta e vera) e morirà durante la registrazione del fenomenale postumo Pearl. Sad, sad story, come nelle più classiche dodici battute. Ma eccellente documentario (sottotitolabile), ricco di bonus sfiziosi. (Dvd; 28/11/04)

ddv5005498 – Doloroso e necessario, The Agronomist di Jonathan Demme, USA 2003
Serata libera. Con imprevedibile vitalità decido di uscire di casa e andare al cinema. Ma non c’è nulla che mi attizzi e allora scelgo l’impegno. L’agronomo è Jean Dominique, borghese creolo che ha dedicato la sua vita a denunciare la dittatura dei Duvalier padre e figlio, per finire ucciso nel 2000, in una Haiti “democratica” solo sulla carta. Commosso atto d’affetto nei confronti di un amico, The Agronomist è il frutto di anni di interviste ed è “il” documentario come andrebbe fatto: con partecipazione, humour e commozione, senza dimenticare che si sta raccontando una storia. Quella di un popolo schiavo, quella di un uomo libero e anche quella di un regista diviso tra Hollywood e impegno. Certo, Jean Dominique, era il soggetto ideale: comunicativo, spigliato, ironico, ma Demme ha saputo organizzare tutto senza risultare pedante o freddo. The Agronomist ci dice quanta paura faccia una piccola radio libera (era Radio Haiti Inter) in un paese svenduto alla casta militare allevata in USA. E, visto che ormai non si può neanche affrontare la questione della guerra in Iraq senza essere tacciati di estremismo, solleva qualche umile dubbio: lo Jean Dominique esiliato a New York ma testimone della connivenza di Washington con gli assassini di Port-Au-Prince, era forse un antiamericano? E Jonathan Demme, regista premio Oscar, con un film così rinnega forse la sua patria? Mah. Pessima proiezione trapezoidale e pubblico scarso in sala (eravamo appena in cinque; Haiti non è materia da seratona, francamente). E a proposito di libertà di stampa, giacché la calata negli inferi di Haiti sembra remota: Enrico Mentana (mica Andrei Zhdanov, dico Mentana) è stato silurato perché evidentemente non risulta controllabile come lo si vorrebbe. Al suo posto la cameriera Rossella: il pranzo è servito. (Cinema Eliseo, Milano; 29/11/04)

ddv5006499 – L’artificioso e non così intelligente A.I. Artificial Intelligence di Steven Spielberg, USA 2001
Praticamente quello che ho visto è: Pinocchio ha un incontro del terzo tipo. Ad Oz. Spielberg prova a fare il Kubrick, ma regge manco un quarto d’ora, poi lo prende la fiaba e non riesce a non raccontarci tutto, a lasciare qualcosa di misterioso, alla nostra, di immaginazione. Se A.I. ha un grosso difetto è questo dover rappresentare ogni cosa, ogni snodo narrativo. La partenza e il finale, che mettono in relazione un essere artificiale e un essere umano, riescono – per vie traverse, ricatti emozionali, colpi bassi, ma anche una non disprezzabile analisi psicologica – a essere credibili e quasi commoventi, compiendo il miracolo di farci provare dell’affetto per David, un androide con la faccia da cazzo di Joel Osment (lo stesso inquietante rimbambito de Il sesto senso: voglio vedere quando diventa grande se gli danno ancora qualche ruolo. Goditela finché puoi, caro). Tutto il resto dell’odissea del protagonista, in fuga dagli umani, accompagnato ad altri robot, sa – ma guarda un po’ – di artificioso. Fotografia splendida, scenari grandiosi (e inventivi, come la Manhattan prima sommersa e poi congelata), tensione costante. Ma anche il progressivo distacco dalle emozioni (e dalle aspettative) provate nella prima parte del film. Quello che poteva e probabilmente doveva essere una riflessione sull’amore e sul potere della fantasia, pecca di superficialità e cade in cliché usurati, perdendo poesia in cambio di qualche effettaccio. A Spielberg succede troppo spesso perché sia casuale: peccato. Però c’è passato. (Dvd; 7/12/04)

ddv5007500 – Ingiudicabile, Fracchia la belva umana di Neri Parenti, Italia 1981
Qui siamo dalle parti della leggenda, quando effettivo valore del film e ricordi drogati confluiscono in un complotto della memoria… perché – e mi tolgo subito il dente – Fracchia la belva umana è una buona commedia, in alcune parti vicina alla perfezione, ma non è quel monumento che la mia infantile inclinazione pretendeva. Nel 1981 la spinta propulsiva di Paolo Villaggio s’era esaurita da un po’: Fantozzi contro tutti (1980) diretto da Villaggio stesso assieme a Parenti, era ancora divertente, ma si sentiva già che era venuta a mancare la mano di Luciano Salce, regista intelligente e arguto. Neri Parenti – a suo modo anche lui un intellettuale, appassionato del cinema muto – si dimostra invece sciatto nel mettere in scena in maniera approssimativa, senza minimamente curarsi del ritmo e della qualità delle gag. Il cinismo degli sceneggiatori (tra cui ancora una volta Benvenuti e De Bernardi) rasenta l’incredibile: si ricicciano situazioni vecchie almeno un decennio (il confronto tra Fracchia e il direttore Gianni Agus), se ne riciclano a pacchi da Fantozzi (pari pari, congiuntivi sbagliati compresi) e addirittura si fa ricorso all’omaggio/furto con Chaplin (la scena della bomba che s’infila nella giacca del protagonista, vecchia di sessant’anni e già ripresa ne Il secondo tragico Fantozzi!). La trama però non è niente male: il timido e pavido Fracchia ha un improbabile doppio: è identico al nemico pubblico numero uno, la Belva Umana. Il quale ha due talloni d’Achille: è allergico al cacao e ha una madre sicula troppo espansiva (il grandissimo Gigi Reder). Avversario della Belva il gigantesco commissario Auricchio, il ruolo della vita per Lino Banfi. Questo commissario ottuso e dalla parlata isterica, perseguitato dal povero appuntato De Simone, è uno dei punti di forza del film. Peccato che il ritmo sia altalenante per tutto il primo tempo. Il film è tutto in discesa soltanto dopo la notevole scena ambientata al ristorante “Gli incivili” (ove si possono delibare saltinculo alla mignotta): qui, Banfi viene accolto dall’immortale stornello E benvenuti a ‘sti frocioni e se non vi commuovete lì mi chiedo come abbiate passato i vostri anni Ottanta. Notevoli, oltre alla “ex puttanazza prostituta palermitana” che imbottisce di cibo il povero Fracchia, anche “gli apostoli della rapa” Neuro (Francesco Salvi) e Pera (Massimo Boldi) e un grandioso confronto (anche attoriale) tra la Belva e Auricchio, a casa del protagonista. Alla fine il film, per quanto inattaccabile, è imperfetto ed è un peccato, perché poteva essere un modo per allontanarsi dal fagocitante modello fantozziano che ha fatto recitare Villaggio come il suo ragioniere da allora sino ad oggi. L’unica differenza tra Fracchia e Fantozzi è che il primo ha un vago (e incongruo) accento genovese e non tiene famiglia. Uguale tutto il resto, anche l’amara conclusione che ci ricorda ancora una volta che non sarà nell’aldilà che otterremo giustizia. Ma dette tutte ‘ste fregnacce e tornato in me stesso… no, capolavoro no, ma quasi. Dài, sì. (Dvd; 14/12/04)

ddv5008501 – Abbiamo ancora Fame chimica di Antonio Bocola e Paolo Vari, Italia/Svizzera 2003
Ritorno al mio amato cineclub, il Lumière di Genova, per presentare Fame chimica nell’ambito della rassegna su cinema e urbanistica organizzata dalla soul sista Hilda e appendice della manifestazione Urban Regeneration, del cui concorso per cortometraggi sono giurato. Scopro, dal librone delle firme e dei commenti presente alla cassa, che cinque anni fa avevo annunciato al compianto Marco Polese che Fame chimica era ormai scritto e che presto lo avrei presentato nella nostra amata grotta, umida e buia. Il destino ha voluto che il film fosse realizzato in tempi biblici e che Marco non potesse vederlo. Peccato: la serata è per lui. Ci sono solo una settantina di persone, ma per il Lumière è un incassone. Il film parte e Paolo e io andiamo a berci una cosa con Claudio ed Enrico, i due sodali che dirigono la sala da anni, in attesa del consueto dibattito. Finiamo in un curioso bar nei dintorni, gestito e frequentato da rumeni. Sembra di essere alla periferia di Bucarest e gli avventori cantano Celentano e i Ricchi e poveri. Dopo la straniante esperienza (ma non male!), torniamo in sala in tempo per rivedere il finale del film: mi commuovo e dopo i titoli ci sottoponiamo alle domande di rito. Il pubblico genovese è freddo e riservato come da tradizione e sono i familiari e gli amici ad animare la serata. Piacevole discussione, ma la magia delle liti infuocate, della curiosità e della partecipazione di dieci anni fa s’è persa. Solo il critico Claudio Bertieri, fiammeggiante polemista, osserva il condivisibile difetto del film (la reiterazione dei finali e la debolezza della chiusura). Per il resto si parla della crisi del cinema italiano e mondiale e, fatalmente, anche della morte dei cineclub, strozzati da spese insostenibili (affitti, SIAE, cassieri, proiezionisti, pulizie) e dall’impossibilità a mantenersi con la seconda visione (stroncata dall’avvento del Dvd). E poi la mia generazione s’è ritirata e non è stata sostituita da nessuno. È la vita! Rimane solo la resistenza delinquenziale: cineclub clandestini come TAZ, dove proiettare Dvd fottendosene del diritto d’autore. Intanto, sul fronte critico, un’ultima novità: l’annuario di Cineforum dedica poche righe a Fame chimica e Stefano Savio liquida un film che vanta inviti, partecipazioni e vittorie in diversi festival stranieri, con l’accusa di provincialismo nell’indugiare sulla lingua parlata dei protagonisti. Mah! Una vocina mi dice: sii sportivo, Cacace! Impara a incassare le critiche! Elabora! Okay, elaboro. E rispondo con la signorilità che mi è stata riconosciuta da tanti avversari in estenuanti diatribe critiche: amici che scrivete di cinema sulla carta patinata di Cineforum, vi prego: prendete coraggio e affrontate la vita vera. Uscite dalle sale dove vi rovinate la vista e andatevene tutti affanculo! (Cineclub Lumière, Genova; 15/12/04)

ddv5009502 – L’infelice Stagione 5 di Sex and the City, di Aa.Vv., USA 2002
È la serie girata durante gli ultimi mesi del 2001 e risente decisamente del clima post 9/11. Gli episodi sono stati ridotti (8 contro i consueti 18) e ne è venuta fuori una stagione minore, attendista, che mette poca carne al fuoco non avendo il tempo per svilupparla. Succedono comunque cose gustose: Carrie diventa autrice letteraria e i suoi articoli sono raccolti in un libro di successo; l’avvocato Miranda cresce il piccolo Brady tenendosi a distanza, ma non troppo, dall’adorabile Steve; la P.R. Samantha, divorata dalla gelosia, lascia l’allupatissimo uomo d’affari Richard (James Remar, l’Ajax de I guerrieri della notte!); la brava ragazza Charlotte ottiene il divorzio e comincia una love story col più improbabile dei pretendenti: un coinvolgente e bruttissimo legale. Come andrà a finire? Qui, rispetto al passato sono accentuate le situazioni sessualmente esplicite. C’è molto nudo e un episodio (il quarto) è un compendio sulle possibilità del rapporto orale. Tutto molto divertente e liberatorio, sempre tenendo presente che siamo nell’ambito della trasgressione commerciabile per le masse: sesso e famiglia, cementate dall’ipocrisia, vendono sempre, e non è un caso che parallelamente alla rivendicazione della loro libertà sessuale, le quattro amiche perseguano a ogni costo un tranquillizzante matrimonio o il grande amore romantico. Ma chi sono io per giudicare? Tra le guest star della serie l’elegante Candice Bergen, amore dei miei 15 anni, e la bollente Heather Graham. (Dvd; 16, 26, 28, 30/12/04)

Shrek503 – Il fiacco Shrek 2 di Andrew Adamson, USA 2004
L’Orfeo – già il cinematografo “con lo schermo più grande d’Italia” – riapre i battenti dopo alcuni mesi di lavori, con due nuove sale aggiunte. Decidiamo al volo di andare subito a vederci un bel cartone per bimbi grassi, come ormai siamo diventati (ma Barbara è incinta). Risultato? Mah! Shrek 2 è clamorosamente blando, con scarsa densità di situazioni e battute. In originale, l’eccezionale cast di voci ha probabilmente supplito alla mancanza di dialoghi brillanti, ma per noi italiani rimane solo un testo anemico che fa (colta e fredda) satira sulle fiabe e su Hollywood, moderna città delle favole. Rispetto al primo episodio, Shrek 2 perde in irriverenza e cattiveria, regredendo infantilmente e limitando la sfrontatezza a scorregge e caccole. Eccellenti disegno e animazione, ma manca un po’ la vicenda. Peccato. A Cannes il film è stato osannato, non essendo evidentemente conosciuti il progenitore della saga e i tanti cartoni “adulti” della Pixar: cari criticonzi da quotidiano, pagherete tutto, pagherete caro. A fine film, luci accese una frazione di secondo dopo il “nero” del primo titolo, nonostante ci sia una scena aggiuntiva due minuti dopo, scena che siamo costretti a vedere a luci accese (e non valeva niente). Sintomatico che i cinema si rinnovino, salvo che nei confronti dello spettatore: odore di vernice, ambienti freddissimi, stesse cassiere rincoglionite di sempre. Francamente era meglio prima. Era sempre meglio prima, comincio a credere. (Cinema Orfeo, Milano; 17/12/04)

Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 50)

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