Joker – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 31 Oct 2025 23:01:57 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Se il disagio è l’ultimo rifugio rimasto https://www.carmillaonline.com/2022/12/23/se-il-disagio-e-lultimo-rifugio-rimasto/ Thu, 22 Dec 2022 23:01:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75103 di Maurizio Marrone

Tutto chiede salvezza, regia di Francesco Bruni, Netflix, 2022.

Dal “cuore del racconto sullo smarrimento… si cammina in bilico sul filo del vuoto che non pretende di essere riempito, in un gioco di specchi sui singoli che si fanno comunità, stretti in un unico abbraccio”. Così scrive sull’“Espresso” del 24.10.2022 Beatrice Dondi nella sua bella recensione di Tutto chiede salvezza, la serie Netflix tratta dall’omonimo e celebrato libro di Daniele Mencarelli.

La vicenda narra di Daniele, un millennial tra i tanti, la cui vita si consuma identica a [...]]]> di Maurizio Marrone

Tutto chiede salvezza, regia di Francesco Bruni, Netflix, 2022.

Dal “cuore del racconto sullo smarrimento… si cammina in bilico sul filo del vuoto che non pretende di essere riempito, in un gioco di specchi sui singoli che si fanno comunità, stretti in un unico abbraccio”. Così scrive sull’“Espresso” del 24.10.2022 Beatrice Dondi nella sua bella recensione di Tutto chiede salvezza, la serie Netflix tratta dall’omonimo e celebrato libro di Daniele Mencarelli.

La vicenda narra di Daniele, un millennial tra i tanti, la cui vita si consuma identica a quella di altri come lui, tra famiglie normali, noia, serate di festa, alcol, un po’ di droga (ma neanche troppa) e un lavoro che si sopporta a malapena. Per Daniele la distanza dal mondo – cos’altro è il disagio psichico? – è come un rumore sordo che lo accompagna da sempre, un’ombra muta così familiare che stenta a riconoscerla; ma c’è e probabilmente c’è sempre stata. Un malessere battente che striscia silenzioso e inesorabile come un serpente sulla sabbia, fino a quando esplode in un attacco psicotico che è come un urlo di dolore disperato e lacerante. Daniele si sveglia legato al letto del reparto psichiatrico di un ospedale, dopo che a suo carico le autorità, insieme ai genitori, hanno disposto un trattamento sanitario obbligatorio di una settimana. Quando si riprende non ricorda nulla di quello che è accaduto (lo farà in seguito) e, ovviamente, non accetta di essere stato sbattuto in quell’inferno insieme ai matti. “Io nun c’entro un cazzo co’ voi, io nun so’ come voi” grida ai suoi compagni di stanza, con la bava alla bocca e gli occhi ricolmi di un terrore liquido e incredulo. Ma invece lui è proprio come loro, anima persa in un mondo che ha smesso di dire Noi e ostenta tronfio la propria deriva. Ed è con loro, con i “matti” con cui condivide la stanza – Mario, Gianluca, Alessandro, Giorgio e Madonnina – che, come in un romanzo di formazione, Daniele suo malgrado intraprende il viaggio che lo porterà a dare un volto alla maschera anonima del suo dolore. Un viaggio fatto di pareti scrostate, di urla sguaiate e improvvise, di infermieri e psichiatri inariditi dalla routine, di sguardi che condannano e compatiscono, di sedute terapeutiche in cui non ci si ascolta; un viaggio fatto di tempo vuoto, di quel vuoto che sembra impossibile da riempire ma che tutti ci dicono che invece lo dobbiamo riempire fino all’orlo. Ma un viaggio fatto anche di comprensione, ascolto, complicità, risate, abbracci e goffi minuetti; ma anche di scazzi, insulti e litigi. Un viaggio fatto con loro, con i matti con cui condivide l’inferno. Con i matti Daniele ritrova un pezzetto di vita che sembrava persa per sempre, nella quale, timidamente, l’Io ridiventa Noi; con loro Daniele non si sente più estraneo al mondo e, forse per la prima volta, assapora il senso della parola comunità.

Nell’Istituzione negata1 Franco Basaglia sosteneva che nel percorso terapeutico è essenziale riconsegnare il malato a una vita comunitaria, a un agire condiviso e partecipato, dal quale la malattia, o il modo in cui veniva trattata all’epoca, lo aveva sradicato. Basaglia non era certo un cantore entusiasta del sistema, ma nella sua visione, peraltro tutt’altro che ortodossa, siccome il mondo dei “non malati” rimane in ultima istanza ancora e sempre il luogo dell’agire comune, coinvolgere il paziente in una gestione collettiva, ad esempio, delle decisioni significa, anziché isolarla, reinserire la sua disabilità in un contesto di pratiche e dinamiche socialmente condivise. Dalla dissociazione dell’individuo isolato che affoga nel disagio si deve quindi tornare alla socialità del vivere in comune. Ma che succede se invece, come osserva giustamente Dondi, è proprio nel cuore del disagio mentale che i singoli si fanno comunità, “stretti in un unico abbraccio”?2 Di cosa ci parla questo scarto dell’immaginario, questa inversione dannata per la quale il dolore condiviso – perché di questo si tratta – diventa l’unica casa comune in cui dall’Io si passa al Noi? Ci parla di un sistema al collasso che, smarrita ogni forma di empatia, ha scardinato le relazioni primarie del vivere insieme e si è lanciato ad occhi bendati in una folle corsa verso la sua compiaciuta autodistruzione. Alcuni lo chiamano Antropocene; un Alzheimer della specie secondo Matteo Meschiari, per il quale, in vista della propria fine

l’umanità sta ridefinendo il proprio presente, i sistemi di valori, le priorità politiche ed economiche; in altre parole sta già anticipando alcuni effetti sociali del dopo-collasso, accettando soluzioni estreme, messe a tacere per decenni sotto le ceneri dell’ultimo conflitto mondiale: l’ homo homini lupus, l’occhio per occhio, l’individualismo al di sopra di ogni legge giuridica e morale, il rancore sociale come arma di clan, la propaganda e la pratica xenofoba, l’orgoglio per la nuda vita e il disprezzo per la cultura e il sapere, il desiderio di vendetta collettiva, la violenza di governo verso i migranti, i marginali, i poveri.3

Il personaggio di Tutto chiede salvezza è il simbolo di una generazione che vive il senso di inadeguatezza, ormai, come un tratto naturaliter dell’esistenza ma che, allo stesso tempo, ha il terrore di darle un nome. Perché se una cosa la nominiamo poi quella diventa reale. E se il tuo dolore ha un nome che tutti possono riconoscere (depressione, infelicità, psicosi, stramberia, devianza, povertà e chi più ne ha più ne metta) e non si conforma all’individualismo che, con le zanne bene in vista, impera sovrano, allora il sistema ti rigurgita ai margini in forma di scoria. Un altro celebre deviante, il Joker di Todd Philips, all’inizio del film si chiedeva: “Sono solo io, o la gente sta impazzendo là fuori?” Anche Daniele a un certo punto si domanda se è lui a essere sbagliato o se non è forse il mondo a essere impazzito. La domanda è tanto semplice, quanto cruciale e la risposta, purtroppo, è sotto gli occhi di ognuno. Ecco che, allora, costruire una casa di tutti nel disagio psichico e far crescere il germe della comunità in un contesto che, di primo acchito, sembrerebbe espungerlo alla radice, diventa metafora di un gesto di disperata e radicale resistenza. La salvezza per tutti e tutto, che Daniele chiede alla fine della serie, non si trova più in un mondo ormai perduto, ma nell’altrove di un sottomondo che tutti guardano con orrore, ma nel quale, insieme, faticosamente, si cerca di ricomporre il senso delle proprie vite spezzate.

Probabilmente tutti hanno ancora negli occhi le immagini degli sfollati ucraini che, all’inizio della guerra, si rifugiavano negli scantinati e nei sotterranei delle città per sfuggire alla devastazione che si consumava sopra le loro teste, mettendo in scena un altrettanto straniante rovesciamento di piani tra mondi contrapposti. Nell’immaginario horror l’universo ctonio – si pensi a Stranger things o allo splendido Noi di Jordan Peele – è il luogo simbolico dell’antimondo per definizione. La dimora di ogni principio di disgregazione, il regno di Ade, dell’ombra incarnata in cui ogni relazione è frantumata e in cui si inverano le nostre paure più profonde. Ma proprio questo universo, l’antro sotterraneo, freddo, pauroso, buio e inospitale di una metropolitana dismessa, diventa invece teatro di una comunità che cerca di risorgere dalle proprie ceneri. Corpi tremanti, sguardi persi, occhi umidi, volti anneriti e rughe profonde. Ma si cucina, si canta, si raccontano favole ai bambini intorno a un fuoco improvvisato. Si reimpara a vivere insieme perché il mondo di sopra è esploso. Un pezzo di umanità che – si parva licet, come Daniele e i matti con cui condivide la stanza – si ritrova in un luogo inaspettato a rifondare se stessa.
L’intreccio un po’ azzardato di queste due metafore ci offre lo scenario di un sistema in frantumi che mette in fuga l’idea stessa di comunità e performa quella che Ernesto De Martino chiamava la crisi definitiva della presenza, che è valorizzazione intersoggettiva della vita. Proprio in riferimento ai deliri psicotici De Martino diceva:

In realtà l’esserci nel mondo si identifica con la stessa vita della cultura e i ‘mondi’ degli psicotici diventano relativamente comprensibili solo come rischio vissuto di non poterci essere in nessun mondo culturale umano. Tali ‘mondi’ sono antropologicamente importanti in quanto denunziano una tentazione immanente allo stesso ordine culturale, la tentazione di annientarsi.4

Una tentazione alla quale l’Antropocene sembra non essere più in grado di sottrarsi.


  1. Cfr. F. Basaglia, L’istituzione negata, Einaudi, Torino 1973. 

  2. B. Dondi, Tutto chiede salvezza, che bello il viaggio sulla nave dei pazzi, 24.10.2022. 

  3. M. Meschiari, La grande estinzione. Immaginare ai tempi del collasso, Armillara, Roma 2019. 

  4. E. De Martino, La Fine del Mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 1977, p. 191. 

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L’alieno, il pipistrello e il clown tragico. Transiti identitari e impotenze visive https://www.carmillaonline.com/2022/08/28/lalieno-il-pipistrello-e-il-clown-tragico-transiti-identitari-e-impotenze-visive/ Sun, 28 Aug 2022 20:52:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73308 di Gioacchino Toni

«Le due grandi serie Alien e Batman narrano in fondo la stessa storia, ma lo fanno all’incontrario. Il primo (Alien) racconta il farsi Identico dell’Altro, il secondo (Batman) racconta il farsi Altro dell’Identico. Se Alien è un mostro protettivo (almeno nei confronti della donna da cui vuole far partorire la propria progenie), Batman è dal canto suo un protettore mostruoso. In quanto grandi mitologemi del cinema contemporaneo, entrambi usano la mediaticità del cinema per mantenere in equilibrio (e nello stesso tempo per scaricare) le due forze antitetiche che li fondano [...]]]> di Gioacchino Toni

«Le due grandi serie Alien e Batman narrano in fondo la stessa storia, ma lo fanno all’incontrario. Il primo (Alien) racconta il farsi Identico dell’Altro, il secondo (Batman) racconta il farsi Altro dell’Identico. Se Alien è un mostro protettivo (almeno nei confronti della donna da cui vuole far partorire la propria progenie), Batman è dal canto suo un protettore mostruoso. In quanto grandi mitologemi del cinema contemporaneo, entrambi usano la mediaticità del cinema per mantenere in equilibrio (e nello stesso tempo per scaricare) le due forze antitetiche che li fondano (e che in essi si esprimono): la minaccia e la rassicurazione, l’alterità e l’identità» (p. 123).

In queste righe che aprono il capitolo dedicato alle due serie di film che Gianni Canova, L’Alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo (Bompiani 2022) [su Carmilla], sceglie come terreno privilegiato di analisi di quei processi di crisi che investono e di cui danno consapevolmente conto i film negli ultimi decenni del vecchio millennio, ponendosi al contempo come avvisaglie della contemporaneità più recente, esplicita la centralità che ha assunto il rapporto alterità/identità in un periodo storico segnato da grandi trasformazioni sia a livello materiale che di immaginario.

Alien e Batman anziché collocarsi nettamente all’interno delle polarizzazioni minaccia/rassicurazione ed alterità/identità, transitano tra di esse trovando nell’ibridazione la loro specifica connotazione costitutiva, inoltre, continua Canova, l’alieno e il pipistrello sembrano aver bisogno l’uno dell’altro:

Alien trova cioè in Batman la figura mitopoietica necessaria a bilanciare la sua ambigua minacciosità con un’altrettanto ambigua rassicurativà, mentre per Batman vale esattamente l’opposto. Nel rapporto chiasmico che le lega, le due figure danno vita dunque a un sistema di compromesso, o a una coincidentia oppositorum: per certi versi, sostituiscono a loro volta l’aut aut del moderno con l’et et del postmoderno. E perimetrano un territorio immaginario in cui fra minaccia e rassicurazione (ma anche fra identità e alterità, fra visibilità e invisibilità, fra riproposta delle forme classiche e crisi dei processi di significazione) non c’è più contrapposizione esclusiva, ma solo e sempre coabitazione inclusiva (p. 124).

Si tratta di serialità tipicamente postmoderne, costruite sulla mescolanza e sulla contaminazione di codici e linguaggi, che, rifuggendo la logica fordista della catena, optano per la reticolarità, costruite come sono attorno a “un mostro senza volto” (Alien) o a un “eroe mascherato” interpretato di volta in volta da attori differenti (Batman). Sono serie fondate su criteri di

flessibilità, multidimensionalità e pluricorporeità (sia attoriale sia testuale) […] in cui tra un episodio e l’altro non c’è più, necessariamente, né ripetizione né sviluppo diegetico […] in cui “la differenza eclissa la norma” in un processo di ottimizzazione del “marchio di fabbrica” che ha bisogno di espandersi in ogni direzione, di dilatarsi al massimo. E di autoriprodursi incessantemente, in ogni modo e in qualsiasi direzione. (pp. 126-127).

La questione della riproducibilità, del resto, è ricorrente in entrambi casi; nel caso del mostro alieno questa si palesa con la sua ossessione riproduttiva che lo pone alla costante ricerca di corpi entro cui poter generare la propria discendenza, nel caso dell’eroe oscuro di Gotham City si insite invece sul suo stato di orfano che si trova ad agire da “macchina celibe” improduttiva.

Canova ricorda come, negli anni Cinquanta, nell’indagare la figura dell’alieno nella fantascienza, già Roland Barthes avesse sottolineato la sostanziale incapacità nella cultura occidentale di immaginare l’Altro, tanto da risolvere il “controllo sociale dell’alterità” «attraverso un atto di appropriazione e di ridefinizione morfologica che lo rendeva in tutto e per tutto omologo all’Identico» (p. 128). Evidentemente, continua Canova, si è trattato di processo di rimozione di comodo destinato a durare poco, visto che già sul finire degli anni Settanta l’immaginario occidentale si è trovato a fare i conti con “il ritorno del rimosso” e ciò, soprattutto nella cultura statunitense, si colloca all’interno di quel progressivo eclissarsi della figura del nemico esterno. Per certi versi è proprio nel venir meno «di un oggetto esterno su cui scaricare e a cui attribuire la responsabilità delle proprie paure persecutorie [che] la società occidentale le proietta in un mostruoso “fantasma circolante, senza forma o confini”, a cui dà tout court il nome archetipo di Alien» (p. 129).

Di fatto, nell’immaginario degli ultimi due decenni Alien “eccita” le fantasie di alterità e negozia la loro controllabilità sociale. Dà una forma all’Altro e lo rende visibile, ma segnala anche il pericolo che si annida nel nostro ostinarci a volerlo vedere. Di fronte a un pantheon cinematografico sempre più sguarnito di eroi, Alien offre al contempo un appagamento al bisogno inconscio di minacciosità e una garanzia che quella minaccia non diverrà mai reale (pp. 130-131).

La serie Alien, esplicitando sin dalle modalità con cui si compone il titolo del primo film (da una serie di brevi linee bianche) il suo rifarsi a un meccanismo generativo che prevede l’identico produrre il diverso e il differente generarsi a partire dall’uguale, si inserisce all’interno dell’archetipo del mostro proteiforme. La serie Batman deriva invece dall’archetipo dell’ibrido (uomo/pipistrello, roditore/volante ma è tale anche per la sua transcodificabilità e flessibilità multimediale).

Non è difficile vedere come entrambe le serie palesino un «legame metaforico (e metalinguistico) con la dimensione della filmicità» (p. 132): Batman diviene tale dopo essere restato orfano di ritorno dal cinema, pertanto la sua scelta può essere vista come «risposta nemesiaca a un dolore immeritato che ha interrotto il piacere conseguente a un consumo scopico» (p. 132), Alien, invece, «emerge dalle tenebre in cui è sepolto quando un raggio di luce fende la caverna in cui giace […] e si proietta direttamente sul suo organismo» (p. 132).

Seppure in maniera diversa, Alien e Batman sono due figure di transito identitario: il primo «cerca di sfuggire alla sua alterità fecondando il corpo di una donna che renda la sua progenie simile a lei, ma si vede continuamente respinto nella sua corsa verso l’identico dai rifiuti che riceve e dall’orrore che provoca, tanto da essere ogni volta rigettato all’indietro, verso le regioni buie e oscure dell’informe» (p. 133), il secondo, invece, controlla i suoi spostamenti tra i suoi due estremi identitari potendo contare sulla reversibilità.

Un’ulteriore metamorfosi di Batman deriva dalla sua rilettura gotica e spettrale dell’archetipo che lo conduce nel «buio di una città che sembra essere immersa nella stessa luce sporca e malata del pianeta di Alien, che comincia a proiettare nel cielo il suo marchio luminoso» (p. 134), quasi a rimandare a quella proiezione archetipa che, da bambino, di ritorno dal cinema, ha indirizzato il suo destino al desiderio di vendetta.

Se in Alien tutti sono in qualche modo stranieri che abitano i diversi luoghi in una situazione di transito, gli abitanti di Gotham City, città priva di estranietà rispetto a cui costituirsi identitariamente come differenza, intrattengono con il luogo relazioni di appartenenza e di identificazione, facendo tutti parte della medesima razza-cultura. In tale realizzazione del sogno occidentale autocentrico e solipsistico, la

figura minacciosa dell’Altro inteso come barbaro, diverso o straniero che preme ai confini e minaccia di entrare, secondo quella sindrome invasiva che costituisce la vera fobia epocale della società occidentale di fine millennio, nel mondo finzionale di Batman è esclusa a priori. L’Altro, a Gotham City, non viene da fuori, nasce da dentro. Emerge all’improvviso dalle viscere della città, appare nel buio livido delle sue notti. E la sua alterità è tanto più traumatica quanto più è avvertita, appunto, come endogena: quanto più marca ed evidenzia cioè una frattura che spacca in due un corpo etnico-sociale apparentemente coeso, rivelando il ritorno della differenza laddove sembrava non dovesse esserci che identità (p. 142).

Analogamente Alien e Gotham City si mostrano entità informi e mutevoli che adottano rapporti mimetici nei dei confronti dei corpi con entrano in contatto: «Alien assume la forma dei corpi in cui penetra, Gotham City si fa imprimere una forma da coloro che lottano per il suo dominio» (p. 144). Mentre «Gotham City è il luogo dell’Identico che genera al proprio interno l’Altro (architettonico, antropologico, etico, segnico), il cosmo di Alien è il luogo dell’Altro che si riplasma perennemente all’insegna dell’Uguale» (p. 146).

Entrambe le serie, sottolinea Canova, operano un indebolimento delle forme codificate e consolidate della della figura del viaggio. In Batman, pur trovandosi sempre nello stesso luogo, si ha l’impressione dell’altrove, di essere di volta in volta in luoghi diversi, in Alien, pur non essendo mai nello stesso posto, è come se lo si fosse in quanto i luoghi si presentano uguali. «L’estetica postmoderna della rovina (architettonica in Batman, meccanico-metallica in Alien) serve dunque ai creatori di Batman per produrre una spazialità differenziata ed eterogenea nei territori dell’Identico, mentre viene usata dai creatori di Alien per omologare la radicale alterità del mostro, imbrigliandola dentro spazi diegeticamente diversi ma iconicamente identici» (p. 148).

L’uomo-pipistrello e l’alieno tentano di sottrarsi allo sguardo altrui, di essere ridotti ad oggetto scopico. Il primo lo fa sia sul piano iconico (mascherandosi) che su quello diegetico (intervenendo nel racconto per impedire agli altri di fotografarlo o di filmarlo), il secondo agisce sul piano scopico (occultandosi).

L’inafferrabilità visiva dell’alieno, sottolinea Canova, non è però dovuta alla sua particolare conformazione fisica e iconica, che si scoprirà mutevole pur conservando sempre una componente animalesca sessualmente marcata irriducibile alla razionalità tecnica con cui si trova a fare i conti. La sua inafferrabilità è sopratutto cinematografica:

Alien è un mostro instabile o indecidibile non per le sue intrinseche caratteristiche teratologiche […] quanto per le modalità con cui viene messo in scena. Risulta instabile nella misura in cui diventa oggetto scopico. Allora si sottrae alla vista, sfugge e si nasconde, elude le trappole della tassonomia percettiva. E porta sullo schermo il trauma della inidentificabilità del visibile. Non basta vederlo per conoscerlo, per capirlo, per dargli una forma. La sua apparizione segna lo scacco della vista, è un evidente sintomo della sua crisi (p. 156).

Alien palesa come il limite dello sguardo non risieda soltanto nel fuoricampo; anche ciò che si fa intercettare dallo sguardo può non lasciarsi comprendere. «Alien è il sintomo esplicito di una frattura fra il vedere e il conoscere: la visibilità non garantisce più la conoscenza, non certifica alcuna verità. Produce piuttosto incertezza, indecisione, instabilità» (p. 156).

Alien sfugge al dominio dello sguardo sia per le modalità con cui è messo in scena visivamente che perché ogni sua apparizione diegetica manda in tilt i dispositivi tecnologici della visione. Nel suo continuo e simultaneo apparire-sparire è possibile scorgere «uno dei segni più radicali del disagio attraverso cui lo sguardo filmico svela a se stesso il proprio collasso epocale, e ne prende atto (o lo esorcizza) cercando – ancora una volta – di metterlo in scena » (p. 159)

Alien è anche un soggetto scopico inquietante, oltre che sfuggente: oltre a sottrarsi allo sguardo umano ne mette in campo uno proprio, “altro”, disorientante. L’intera serie è disseminata di sguardi senza padrone non attribuibili a qualche personaggio e nemmeno interpretabili come visioni diegetiche di un narratore esterno. Ad inquietare nella serie «non è tanto un differente modo di vedere, quanto il fatto che non è mai del tutto chiaro chi sta vedendo o guardando per noi. È la scoperta che la radicale alterità di cui Alien è portatore si esprime in uno sguardo del tutto simile al nostro (o a quello che i modi di rappresentazione e la retorica del cinema ci hanno abituato a percepire come “nostro”)» (p. 161).

I meccanismi di negoziazione fra Altro e Identico, attorno a cui ruota la problematica della definizione identitaria, sono riconducibili ai nemici di Batman ed a quelli di Alien, in particolare Ripley, che viene presentata come una novella Artemide, divinità della guerra e del parto allo stesso tempo, icona combattiva e chiamata a svolgere funzioni di maternità surrogatoria in difficile equilibrio tra l’umano e il bestiale. Come Artemide, Ripley vive ai margini, abita spazi liminali sulle frontiere dell’Altro, proprio come Batman che mascherandosi si fa altro da sé per rapportarsi con un’Alterità caratterizzata da una sorta di aspirazione frustrata al godimento. I suoi antagonisti, infatti, si presentano come creature infelici che esorcizzano il godimento negato simulandolo in maniera teatrale e narcisista smisurata:

diventano “altri”, insomma, nel momento in cui ambiscono a uscire dall’ordine quotidiano del dovere e della responsabilità per entrare anche solo virtualmente nel regime del godimento. È questo che Batman trova intollerabile in loro: il fatto che vivano come occasione gaudiosa quella stessa maschera che egli sente come scissione sofferta e dolorosa. In loro, insomma, Batman punisce tutto ciò egli non sa, non può e forse non vuole essere (p. 167).

Le due serie non presentano alcuna evoluzione del racconto, non presentano alcuno sviluppo:

“mettono in forma” una sofisticata dialettica fra l’Altro e l’Identico, poi (meglio: nello stesso tempo) attuano anche su di sé – sul proprio organismo seriale – quel farsi altro da sé che hanno tematizzato sul piano funzionale. Il che significa rappresentare un equilibrio e nello stesso tempo renderlo precario. Eccitare una pulsione e contemporaneamente inibirla. Evocare una forma e simultaneamente visualizzare un sintomo di crisi nei suoi processi di significazione (p. 174).

Ed è proprio «in questo equilibrio tensivo tra messa in forma e deformazione, tra iconofilia e iconoclastia, tra sfiguramento ed epifania della figura, che Alien e Batman acquistano un rilievo strategico nello scenario del cinema contemporaneo e danno voce a un conflitto e a un destino davvero – a modo loro – epocali» (p. 176).

Se c’è un «interprete emblematico e paradigmatico della nostra contemporaneità» (p. 7), scrive Canova nel capitolo aggiunto alla nuova edizione de L’alieno e il pipistrello, questi è Joker. Ed è proprio lui a togliere la scena a Batman nel Joker (2019) di Todd Phillips, eroe mancato che per un momento si trova a dare il volto-maschera alle frustrazioni e alla rabbia di una società alla deriva ma che non saprà/vorrà sfruttare l’occasione per farsi eroe di una rivolta collettiva nel momento in cui si viene a trovare tra una folla in tumulto che potenzialmente potrebbe trasformare il disagio individuale in desiderio collettivo di rivolta.

Quello messo in scena da Phillips, interpretato da Joaquin Phoenix, è soltanto l’ultimo di una serie di Joker che hanno tentato di scalzare la figura di Batman da Gotham City. Ne Il cavaliere oscuro (The Dark Knight, 2008) di Christopher Nolan, ad esempio, Joker (Heath Ledger) è presentato come un personaggio interessato al collasso della ragione, all’implosione di ogni forma di convivenza civile e, soprattutto, scrive Canova, mira

a dimostrare che in ogni essere umano, compresi gli eroi che lo combattono, alligna una cattiveria immotivata e radicale come quella di cui lui stesso è espressione: di fronte alla paura, ogni essere umano può diventare un mostro, ogni individuo che si ritiene “offeso” può mostrare il lato più oscuro di sé e rivelarsi peggiore di chi è responsabile dell’offesa […] Joker produce l’orrore come forma precipua di disgregazione sociale, come sfida all’idea stessa di giustizia (p. 211).

Nel fare della giustizia una questione centrale del film, Nolan «produce volutamente nello spettatore una sensazione vorticosa di caos e di vertigine, in cui a volte sfuggono i nessi causali fra azione e reazione, ma in cui quel che risulta chiaro – dall’inizio alla fine – è proprio la confusione in cui precipita l’idea stessa di legge e di legalità. Nessuno è del tutto “giusto”, nel Cavaliere oscuro. Neppure Batman» (pp. 211-212)

Ne Il cavaliere oscuro, costruito com’è sulla dualità, se tutte le individualità che si ergono a protagonisti escono sostanzialmente sconfitte, i cittadini asserragliati sui battelli minati tentano invece di affrontare l’emergenza e la paura attraverso una convivenza civile, lasciando intendere, scrive Canova, di poter fare a meno di supereroi.

Il decennio che separa il film di Nolan da quello di Phillips conduce «in un mondo completamente cambiato e in cui la convivenza civile sembra minata alla radice dal serpeggiare del rancore, del risentimento e dell’indignazione per l’ingiustizia dilagante» (p. 213).

Nel suo film Phillips mette in scena l’ultima di una lunga serie cinematografica di incarnazioni dell’archetipo del “clown tragico” che pur vedendosi respinto nella sua professione è al contempo condannato a una risata priva di una corrispondenza emotiva che non gli permette la rimozione del comico. Il Joker che ride suo malgrado è un eroe mancato che si accontenta di combattere la sua battaglia individuale «per l’eliminazione del sorriso e della risata dal mondo» (p. 215). Già, perché nel soffocante spazio concentrazionario quale è diventata, o è sempre stata, la città in cui vive (viviamo), ridotta a una successione di scale, corridoi, cunicoli, tunnel e anfratti vari, c’è davvero poco da ridere.

 

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Joker di Todd Phillips https://www.carmillaonline.com/2019/10/21/joker-di-todd-phillips/ Mon, 21 Oct 2019 21:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55487 di Mauro Baldrati

Io e il mio vecchio amico Pierfrancesco Pacoda, giornalista culturale de Il resto del Carlino e di Frigidaire negli anni ’80, quando io ero redattore a Roma, siamo sopravvissuti alla nostra lontananza (dodici anni a Milano del sottoscritto a lavorare come fotografo). L’amicizia è rimasta intatta e attiva, anche per solide condivisioni di gusti, musicali (i punk, la new wave, e anche il rock-blues del decennio precedente), artistici, letterari e cinematografici. Amiamo i film e i libri ultraviolenti, con delitti efferati e, possibilmente, torture (merce un po’ rara [...]]]> di Mauro Baldrati

Io e il mio vecchio amico Pierfrancesco Pacoda, giornalista culturale de Il resto del Carlino e di Frigidaire negli anni ’80, quando io ero redattore a Roma, siamo sopravvissuti alla nostra lontananza (dodici anni a Milano del sottoscritto a lavorare come fotografo). L’amicizia è rimasta intatta e attiva, anche per solide condivisioni di gusti, musicali (i punk, la new wave, e anche il rock-blues del decennio precedente), artistici, letterari e cinematografici. Amiamo i film e i libri ultraviolenti, con delitti efferati e, possibilmente, torture (merce un po’ rara però). Qualche volta ci siamo chiesti: ma perché ci piace tanto la violenza? La mia risposta, che lui mi pare condivida, è che richiama la violenza che abbiamo dentro. E in questo va spazzata via l’obiezione che i film violenti ne favorirebbero l’emulazione. E’ esattamente il contrario: la rappresentazione della violenza in forma artistica serve per scaricarla su obiettivi innocui, e quindi esorcizzarla. La rappresentazione della violenza è una pratica di antiviolenza.

Così, anche ora che abbiamo superato gli anni ruggenti, la postadolescenza e le avventure pericolose, continuiamo a vederci, con appuntamenti più o meno settimanali, per una pizza seguita da un film.

L’ultimo che abbiamo visto insieme è stato Joker, l’evento dell’anno, si potrebbe dire. Qui a Bologna imperversa. Al Lumiere, dove proiettano in lingua originale coi sottotitoli, sabato non siamo riusciti a entrare. E Martedì, ci è stato detto, idem. Così abbiamo riprovato giovedì, trovando una fila chilometrica al Medica Palace, che per fortuna è la sala più grande della città. Il 90% era costituito da under 30, cosa che immediatamente mi ha mandato in crisi. I giovani sono esuberanti, parlano, mangiano, accendono i cellulari per controllare la pagina FB. Io il film voglio guardarlo in religioso silenzio. Però questi ragazzi, studenti fuorisede, sono diversi. L’abbiamo sperimentato con l’ultimo Tarantino, altrettanto gremito di giovani e addirittura giovanissimi. Stanno zitti, guardano e ascoltano e neanche mangiano. Bellissimi.

Per cui ci siamo fatti forza, abbiamo sopportato il trauma della fila e siamo entrati. Abbiamo trovato due posti senza comitive alle spalle, laterali (perché io riesco a sedermi solo nell’ultimo posto laterale), e ci siamo preparati mentalmente.

Joker. Ero prevenuto, come spesso mi accade. Odio le omologazioni, le mode che dominano, per cui tutti corrono a vedere i film che impazzano, mentre altre opere meno cool ma bellissime vanno semideserte. Inoltre avevo letto una messe di stroncature: gli americani, il Washington Post, il New York Times, anche Marie Claire, e naturalmente sul web, dove le stroncature, in stile trollesco, sono praticamente un must. L’accusa più ricorrente è che sia un film studiato a tavolino per essere grande, col risultato di essere invece piccolo, e scontato. Insomma, un film falso, forzatamente didascalico.

Perdio, mica una robetta da poco. Macigni. Film fasullo, artificioso. Film fallito.

Al diavolo, non abbiamo rilevato nulla di tutto questo. Non intendo sprecare il mio e il vostro tempo per riassumere la trama, ultraraccontata sui media mainstream e sul web. Vorrei invece sottolineare che se c’è un aspetto dell’opera che ci ha colpiti è la sincerità. E’ un film tutt’altro che falso. E’ sincera l’interpretazione di Joaquin Phoenix, che è praticamente sempre in scena, magro, ossuto, mobile, che fa di se stesso un’opera di body art. E’ sincera la sua difficoltà di adeguarsi al mondo, che lo schiaccia col disprezzo e l’indifferenza (comportamenti che in un certo senso lui attira, coi suoi atteggiamenti strambi, con la risata compulsiva, sintomo della sua sofferenza psichiatrica). Qualcuno ha scritto che evoca Taxi Driver, a me ha evocato Baudelaire. Era altrettanto emarginato, contraddittorio, rancoroso. Come il futuro Joker si sente fallito e ingiustamente ignorato, e i suoi spettacoli sono sempre di serie B, così Baudelaire falliva tutte le conferenze. Ma il fatto è che era un pessimo conferenziere: si impappinava, gesticolava, pronunciava battute sciocche che poi se le rideva da solo, mettendo in imbarazzo il pubblico. Dopo il disastro di Bruxelles fece la sua performance alla Joker scrivendo uno dei libri più violenti, razzisti e vendicativi della storia della letteratura: La capitale delle scimmie. Invece Arthur Fleck, che come il piccolo Baudelaire ha avuto un’infanzia segnata da una tragica infelicità, e dalla violenza, fa una scelta più pratica: diventa un genio del male, il nemico giurato di Batman. Il demone che ride.

Arthur muta in un essere autenticamente cattivo, perché esprime una carica eversiva senza sconti, una furia distruttiva che sgorga dalle cavità nere della società, dalla tragedia sociale che distrugge l’individuo anche come creatura collettiva (“E adesso con chi parlo?” chiede Arthur alla psicologa, mentre gli comunica che hanno appena tagliato i fondi dell’assistenza e quindi non potrà più riceverlo). Un essere che scardina ogni ordine, ogni morale, ogni ipocrisia (“Tu mi hai invitato qui, nel tuo programma, solo per prenderti gioco di me” dice a un cialtronesco Robert De Niro, prima di sparargli in faccia in diretta TV).

E proprio come Baudelaire, che nella sua meschinità di uomo vile, contraddittorio e perdente diventa un poeta inimitabile, così Arthur, frustrato, pazzoide e patetico, sale i gradini di una poesia nera, mostruosa e apocalittica.

Ma attenzione: Joker è un demone. Anche Hitler lo è. Ma non ha nulla di eversivo. Anzi, il contrario. Il demone nazista è l’estremizzazione terminale del Potere, dell’imperialismo capitalista che massacra i popoli per rubare le risorse e renderli schiavi (decine di migliaia di deportati che lavorano e muoiono in schiavitù nelle imprese tedesche).

Poi, soprattutto come ex lettore accanito di fumetti, non posso esimermi da alcune critiche: il suo diventare un eroe pop è rappresentato in maniera un po’ troppo sbrigativa e semplicistica; vanno bene i riferimenti, le incursioni nei vari generi, ma non lo scadimento nel “fumettismo”. Inoltre il finale è a mio avviso volutamente simbolico, mentre andava arricchito con alcuni cenni sulla definitiva mutazione in Joker, con l’evasione dal manicomio, la clandestinità e il crimine puro.

Però non sono mancate alcune scene che all’appassionato strappano un brivido: la comparsa di Bruce Wayne bambino (cioè il futuro Batman), quando Arthur si reca alla villa del ricco padre di Bruce, che lui considera anche suo padre, per un delirio narcisistico della madre, che lavorava come inserviente nella villa Wayne. E poco dopo la metà del film quando si alza, potente, seduttiva, la “voce della brughiera” di Jack Bruce, il cantante-bassista di una delle più strepitose band di rock-blues anni ’60, i Cream, per i quali io ho avuto una sorta di vera e propria infatuazione.

E basterebbe questo, solo questo, per fare di Joker un film indimenticabile.

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Fuori dal tunnel: cattivi e primitivi https://www.carmillaonline.com/2016/11/09/dal-tunnel-cattivi-primitivi/ Wed, 09 Nov 2016 22:00:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34410 di Sandro Moiso

venaus-aggressivi Marco Aime, Fuori dal tunnel. Viaggio antropologico nella val di Susa, Meltemi editore 2016, pp.300, € 22,00

Alessandro Senaldi, Cattivi e primitivi. Il movimento No Tav tra discorso pubblico, controllo e pratiche di sottrazione, Ombre Corte 2016, pp.214, € 18,00

Come scriveva Jean Baudrillard nel 2002, (Jean Baudrillard, La violenza del globale in Power Inferno, Raffaello Cortina Editore 2003, pag. 63) a dare scacco al sistema nel mondo attuale potranno essere soltanto specifiche particolarità che non costituiscono obbligatoriamente un’alternativa, ma che appartengono sicuramente ad un altro ordine. Si trattava, [...]]]> di Sandro Moiso

venaus-aggressivi Marco Aime, Fuori dal tunnel. Viaggio antropologico nella val di Susa, Meltemi editore 2016, pp.300, € 22,00

Alessandro Senaldi, Cattivi e primitivi. Il movimento No Tav tra discorso pubblico, controllo e pratiche di sottrazione, Ombre Corte 2016, pp.214, € 18,00

Come scriveva Jean Baudrillard nel 2002, (Jean Baudrillard, La violenza del globale in Power Inferno, Raffaello Cortina Editore 2003, pag. 63) a dare scacco al sistema nel mondo attuale potranno essere soltanto specifiche particolarità che non costituiscono obbligatoriamente un’alternativa, ma che appartengono sicuramente ad un altro ordine. Si trattava, per il filosofo, sociologo e semiologo francese “di uno scontro quasi antropologico tra una cultura universale indifferenziata e tutto ciò che, in qualsiasi campo, conserva qualche tratto di un’alterità irriducibile”.

Anche se queste parole erano state scritte a seguito di una riflessione sull’allarme suscitato dall’attacco alle Twin Towers nel settembre del 2001, col passare del tempo è diventato sempre più evidente che le interpretazioni dei conflitti sociali e di classe date nel corso del ‘900 non sono più in grado di per sé di spiegare le dinamiche sottostanti ai movimenti reali che si oppongono all’attuale modo di produzione e di dominio e, ancor meno, di determinarne tattiche e strategie.

E’ un intero sistema di categorie e di ideologie che è in qualche modo fallito.
Le promesse implicite nel modello di sviluppo proposto dal capitalismo, in tutte le sue varianti occidentali e asiatiche oppure liberali o stataliste, hanno dimostrato la labilità e la fallacia dei loro presupposti, finendo però col riversare il proprio fallimento anche su tutte quelle ideologie che pur facendo del capitalismo l’obiettivo delle proprie critiche hanno comunque finito con il non abbandonarne i presupposti paradigmatici e continuato a condividerne nell’immaginario lo stesso territorio politico. Inclusa gran parte del marxismo, sia eretico che ortodosso.

Lo sviluppo, l’ampliamento della produzione industriale, il benessere legato al consumo di massa, sia di servizi che di beni materiali o immateriali, non solo non sono stati alla reale portata di tutti, ma anche là dove, pur in forme diverse, più ci si è avvicinati a tale obiettivo (Europa, USA, Giappone), tali valori paradigmatici e condivisi hanno mostrato la loro fragilità temporale, la loro vacuità e la loro sostanziale dannosità, ideologica e ambientale, trasformando un sorriso di rassegnata soddisfazione nel sogghigno squarciato del Joker.

In altre parole: i presupposti dell’espansione capitalistica e delle sue meraviglie sono venuti a mancare o, per lo meno, hanno mostrato non solo come queste fossero destinate ad una cerchia sempre più ristretta di investitori/sfruttatori, ma anche come tale gioco al rialzo (più investimenti, più produzione, più ricchezza per tutti, più investimenti, etc.) non fosse altro che un mantra ipnotico e devastante per la maggioranza della specie umana, sia in termini di realizzazione individuale che sociale.

Insomma se la visione socialista del mondo, sia nella sua variante socialdemocratica e riformista che in quella rivoluzionaria, è in qualche modo superata, lo è non perché è fallito il socialismo reale o perché una miriade di partiti e formazioni di sinistra ed ultra-sinistra è stata progressivamente sconfitta e/o riassorbita dall’avversario, ma piuttosto per il fatto che il loro presupposto storico-politico non si discostava troppo da quell’idea di progresso, di organizzazione politica partitica e di sviluppo che condivideva con il nemico a partire fin dall’Illuminsimo e dalle due grandi rivoluzioni del XVIII: quella francese e quella industriale. Progresso e sviluppo senza fine e al di là di ogni confine.

Che con la globalizzazione economico-finanziaria sembravano aver raggiunto il loro apice, ma che, con le attuali vittorie, per non dire trionfi, dei cosiddetti populismi dalla Brexit a Trump,1 vedono invece detonare tutte le loro contraddizioni in maniera asimmetrica e nel cuore del sistema. Movimenti sismici che sembrano trasmettere onde telluriche sempre più vicine e apparentemente imprevedibili, destinate a frantumare le certezze sia dei sostenitori dell’espansione basata sulla speculazione finanziaria e bancaria (da Renzi alla Clinton2) che di un antagonismo sociale talvolta ancora radicato in un immaginario politico che, come nel caso di “Born In The USA” di Springsteen per la corsa alla presidenza degli Stati Uniti appena conclusasi, giova ormai di più alla causa della conservazione che a quella del superamento dell’attuale modo di produzione.

Per tutti questi motivi l’alterità irriducibile di un movimento come quello No Tav sviluppatosi nella e a partire dalla val di Susa, ormai da più di 25 anni, non può essere facilmente irreggimentata nelle interpretazioni classiche della sociologia e delle ideologie politiche. Infatti, anche se la componente anti-capitalista e ambientalista è sicuramente forte, è altrettanto vero che molti altri aspetti (locali, individuali, storici, geografici e culturali solo per ricordarne alcuni) concorrono a determinarne le caratteristiche e la combattività.

Non a caso due delle più recenti ed interessanti opere uscite nel corso degli ultimi mesi sono state pubblicate una, quella di Meltemi, nella collana Biblioteca/Antropologia e l’altra, quella di Ombre Corte, nella nuova collana Etnografie. Scelte non tanto determinate dagli editori quanto dalle metodologie utilizzate e rivendicate dai due autori per analizzare la forza e la capacità di resistenza, sviluppo ed offensiva dimostrate dal tale movimento nel corso degli anni.

Entrambi i testi si pongono, infatti, in una dimensione altra rispetto alla semplice rievocazione dei fatti e delle lotte oppure della ricostruzione delle vicende politico-economiche che hanno portato alla scelta e all’autentica truffa della realizzazione di una linea ferroviaria ad alta velocità per il trasporto delle merci che proprio nella val di Susa doveva transitare.
Non siamo di fronte ad una semplice, per quanto ricca, oral history3 né, tanto meno, ad una appassionante ricostruzione della dialettica conflittuale venuta a realizzarsi tra lotte del Movimento e decisioni mafiose, imprenditoriali e governative.4

Una delle principali caratteristiche di tale movimento è infatti quella che vede, al di là delle simpatie e delle celebrazioni nei suoi confronti manifestatesi sia dentro che fuori i confini nazionali, il forte radicamento sociale e territoriale dei suoi militanti e delle loro ragioni porsi ben al di là dei normali limiti politici, sindacali, generazionali e di classe che hanno spesso determinato le caratteristiche dei movimenti del ’900.

Un movimento che non solo, come tutti i grandi rivolgimenti sociali della storia, ha prodotto una nuova cultura, nuovi valori, una nuova visione dei rapporti umani e politici, una nuova concezione di quelle che dovrebbero essere le scelte ambientali ed economiche, ma anche, e soprattutto, una irriducibile volontà di resistere per costruire una differente comunità umana.
Una comunità che oltre a riprendersi lo spazio intende, come afferma Wu Ming 1 in una delle più felici intuizioni del suo ultimo libro, riprendersi il tempo. Non poi, non dopo la fine della lotta e la vittoria, ma subito. Qui, ora e adesso. Dove spazio e tempo coincidono, come la fisica contemporanea ci ha da tempo avvisati.

fuori-dal-tunnel Come questo sia diventato possibile, nel corso dei venticinque anni di lotta in cui tale movimento si è dispiegato, non può essere soltanto una vecchia lettura politica a spiegarcelo; così l’antropologo Marco Aime, docente di Antropologia culturale presso l’Università di Genova, si sforza di penetrare il segreto di tale efficace resistenza creativa attraverso interviste e testimonianze raccolte sul campo che, più che elencare ancora una volta eventi e ragioni che hanno accompagnato e accompagnano tutt’ora la lotta, sono destinate a rivelarne l’intrinseca esperienza umana e comunitaria. Con i propri riti, le proprie narrazioni e le proprie riflessioni, individuali e collettive.

Scrive Aime: “A differenza dei movimenti di protesta del recente passato, quelli attuali non si costituiscono nella classica forma di partito, né cercano alleanze con i partiti esistenti, ma soprattutto, nella maggior parte dei casi, vengono avversati dai partiti istituzionali, tanto di destra quanto di sinistra. E’ il caso del No-Tav, ma anche di altre realtà antagoniste simili.
Se in passato un movimento di protesta veniva in qualche modo accolto da una parte politica e le sue rivendicazioni trovavano una sponda istituzionale, oggi non è così o almeno non lo è nella stessa misura […] Destra e sinistra, conservatorismo e progressismo, sono divenuti leggere sfumature di un modello pressoché consolidato, fondato sul profitto, che richiede un consenso generale di chi governa e in cui etica, ideali e valori non trovano più spazio. Come non trova più spazio riconosciuto la communitas […] La communitas in quanto anti-struttura ha il fondamentale compito di fungere da contrappeso al modello dominante. Quando tale contrappeso viene a mancare, il rischio è un senso di soffocamento, di oppressione tipico di una realtà mono-dimensionale, che progressivamente si chiude su se stessa […]Il caso della valle di Susa diventa allora paradigmatico di una comunità che propone un’alternativa e che la difende per oltre venticinque anni contro un fronte istituzionale quasi unanime formato da forze politiche tradizionalmente rivali tra di loro, ma accomunate da una identica visione che privilegia lo “sviluppo” e l’economia letti in un’ottica macro rispetto alle esigenze locali. Visto in una cornice più ampia il movimento no-tav esprime un disagio piuttosto diffuso nei confronti di un modello economico sempre più dominato da interessi ristretti, da una sempre minore redistribuzione e da un sempre maggiore attacco all’ambiente. Un disagio che il movimento è riuscito a organizzare in protesta e in proposta.
” (pp. 285-290)

Ecco allora che il titolo del testo, Fuori dal tunnel, ci dice molto, perché qui non si tratta più di analizzare ciò che accade nello scavo e per la realizzazione della “Grande opera di importanza strategica” ma, piuttosto, la proposta di uscita dal tunnel senza sbocco in cui l’attuale modo di produzione si è infilato, abbagliato soltanto dalle logiche del profitto e del dominio incontrastato.
Fuori dal tunnel , però, anche per l’attenzione che la vita comunitaria del Movimento merita, così come la meritano le riflessioni dei suoi militanti.

Io sono passato dal considerare il nemico e il combattere noi contro di loro a combattere me stesso, sono o il nemico, perché con le mie scelte e abitudini ho contribuito a creare il tessuto sociale per questo mostro che è nato e vive di vita propria nella totale indifferenza delle popolazioni, a causa di milioni di persone che hanno comportamenti che favoreggiano questa cosa5

Più volte, nelle conversazioni con attivisti No-Tav delle manifestazioni, mi sono sentito dire rasi del tipo: «In fondo ci si diverte anche». E questa è un’altra cifra caratteristica di questo movimento ed è un ulteriore dato che conferma la dimensione di communitas, perché l’ironia è una delle forme di comunicazione tipiche delle antistrutture. Gli scherzi, le battute, il sarcasmo hanno l’effetto di sovvertire la struttura dominante delle idee. «Il riso e gli scherzi, attaccando la classificazione e la gerarchia, sono ovviamente simboli atti a esprimere la comunità nel senso di rapporti sociali non gerarchizzati e indifferenziati» scrive Mary Douglas.6 Insomma, il burlone alleggerisce per tutti l’oppressività della realtà sociale, facendo piazza pulita del formalismo in generale.” ( pag. 157)

Come anche la lotta condotta da alcuni militanti contro i provvedimenti disciplinari presi nei loro confronti dalla Procura di Torino, e la vicenda di Nicoletta Dosio in particolare, ben testimoniano.
Rimane comunque il problema del tentativo in atto da parte delle istituzioni statali, forse unico nella storia delle lotte degli ultimi decenni in Italia, di criminalizzare un’intera comunità: quella della bassa val di Susa.

Osserva ancora Aime: ”Ogni conflitto nasce da una relazione ed è qui che nasce il pensiero relativista; dalla possibilità di conoscere ed eventualmente riconoscere la differenza. Laddove questo conflitto viene impedito o negato ci troviamo di fronte all’imposizione di un’unica verità dogmatica, che non prevede alternative, né spazi di traducibilità.
La mancanza di alternative possibili o ipotizzabili è a un tempo causa ed effetto di un’operazione di chiusura. Se ciò che pensiamo è il vero e l’assoluto, allora non esiste possibilità di declinarlo in altri modi, non sono possibili altri mondi, altre realtà. Pensando in questo modo, ci isoliamo da, impedendo l’accesso a chiunque sia portatore di cambiamento. Se poi quel qualcuno è tra noi, va espulso o messo a tacere.
” (pag.287)

cattivi-e-primitivi Proprio di questo aspetto repressivo di espulsione, reclusione e silenziamento del Movimento No Tav e dei suoi militanti si occupa invece il testo di Alessandro Senaldi edito da Ombre Corte. Ricercatore indipendente nel campo della sociologia della devianza e del mutamento sociale, impegnato nello studio criminologico dei movimenti sociali, l’autore, nell’affermare l’importanza scientifica del Movimento No Tav, dichiara che: “Il movimento in questione trova la sua particolarità nella sua storia e nei risultati raggiunti. Nato come movimento territoriale all’inizio degli anni novanta del secolo scorso, ha saputo cambiare pelle con il mutare del tempo, adattandosi alle diverse fasi che la storia gli imponeva e bloccando, di fatto, la realizzazione dell’opera. Dopo venticinque anni dalla sua «fondazione» il dato che ci viene consegnato è quello di un movimento ancora in salute, che non ha pari nel nostro paese per costanza e quotidianità di iniziativa. Proprio la sua intergenerazionalità lo rende particolarmente interessante, in quanto, col tempo, ha assunto un ruolo totalizzante nel contesto valsusino, implementando una propria pedagogia, dei propri miti, una propria storia, fino ad arrivare a vere e proprie pratiche mortuarie. Un movimento che orienta e accudisce le giovani generazioni, le fa crescere ed infine le conduce fino alla propria uscita dalla scena. Un movimento che si inscrive e sovrappone all’esperienza esistenziale dei singoli, arricchendola e fornendogli una nuova dimensione ontologica.” (pp. 7-8)

Per questi motivi si rivela particolarmente utile l’uso del metodo etnografico, proprio per analizzare sia le strategie e i discorsi messi in atto dalla compagine istituzionale per realizzare l’opera e fronteggiare il movimento che vi si oppone sia quelle messe in atto dalla controparte.
L’etnografia per Senaldi è una necessità: “La scelta del metodo etnografico è stata una scelta «dovuta». Quest’ultimo ha infatti peculiarità proprie, che ben si prestano allo studio dei diversi temi affrontati nella ricerca. Inoltre consente di muoversi con una certa libertà all’interno delle maglie strette del paradigma scientifico, in quanto respinge la formulazione rigida e preconcetta di teorie e fa procedere queste ultime di pari passo con la ricerca; favorisce peraltro l’impiego di un approccio trans-disciplinare che abbatte i confini tra aree di conoscenza.” (pp. 8-9)

Scelta che deriva oltre che dal percorso biografico e dalla militanza pluriennale all’interno del movimento No Tav del ricercatore, anche dal fatto che, come già affermava Danilo Montaldi,7 nel metodo etnografico “è possibile ritrovare espliciti fini «etico-politici». Questo perché «gli angoli visuali incidono in modo detrminante sulla rappresentazione, sulla narrazione e sulla creazione stessa della realtà».8 Questa considerazione è ben riferibile al caso della vicenda Tav, in cui vi sono almeno due divisioni diverse della «realtà dei fatti»: quella narrata dai diversi livelli di potere e quella del movimento che si oppone alla realizzazione dell’opera. La scelta metodologica è quindi determinata dalla necessità di fare emergere il punto di vista del movimento No Tav, le sue pratiche, le sue rappresentazioni e narrazioni; oltre che dall’occasione di «documentare l’esperienza di soggetti sociali trascurati dalla storiografia e dalla ricerca sociale».9 In sostanza «dar voce a chi voce non ha»”. (pag. 9)

Anche nel caso del testo edito da Ombre Corte, il titolo è rivelatore: Cattivi e primitivi. Due termini che riassumono inequivocabilmente l’immagine che i fautori delle Grandi Opere vogliono dare di coloro che a tali opere si oppongono.
Cattivi perché dannosi per gli interessi della Nazione e primitivi perché inadeguati e impreparati per le meraviglie della modernità. Tutto sommato un giudizio che accomuna i valsusini, ma anche tutta la storia dei movimenti di classe e anti-sistemici più radicali, a tutti quei popoli espulsi dalla Storia con la violenza della modernità.

La Storia, lo si sa, la scrivono i “buoni” e i “progressisti”; gli altri resteranno sempre tra i popoli senza storia o tra i vinti perché cattivi o inutili. Ma ciò che ha funzionato per secoli non è detto che debba funzionare obbligatoriamente ancora in futuro. Il mantra del cambiamento istituzionale, dal “Sì” al Referenduma alla TAV, ormai traballa insieme a tutto il sistema che li ha ideati e non ancora prodotti, mentre la partita è ancora tutta da giocare. Però su un campo di gioco e con regole totalmente differenti, come potrebbero dire i killer di Pulp Fiction ideati da Quentin Tarantino.

La ricerca di Senaldi si riferisce, principalmente, ad un periodo di osservazione e partecipazione ad iniziative, eventi, vita quotidiana, lavori e pratiche giornaliere riconducibile all’estate del 2013.
La parte centrale del mio lavoro è rappresentato da interviste non strutturate. Più precisamente ho raccolto delle «interviste in profondità» che cercavano di indagare la ricostruzione che gli attivisti danno dei dispositivi di controllo implementati, le dimensioni motivazionali e i mutamenti biografici e relazionali delle persone che partecipano alla lotta.” (pp. 9-10)

Grazie a tale metodo, ne deriva un coro di voci anonime, ma autentiche che delineano collettivamente le scelte, i discorsi e le strategie del movimento nel suo insieme. Fungendo così da perfetto contraltare al discorso e alle pratiche repressive istituzionali.
Non ci sono categorie di No Tav che non siano soggetti a tali pratiche poliziesche, e non si tratta di un provvedimento riguardante solo gli attivisti più duri. Durante la mia permanenza ho avuto modo di dialogare con alcuni attivisti appartenenti al gruppo «Cattolici della Valle», che, ridendo, mi hanno fatto notare come, essendo quelli che visitano più spesso il cantiere, andando a pregare lì ogni mattina, sono conseguentemente quelli più schedati e fermati dalle FF.OO. Qui […] pur essendo mantenute – soprattutto dal punto di vista pubblico – le pratiche discorsive di discernimento tra «buoni» e «cattivi», si assiste tuttavia a un evidente cortocircuito nel rapporto tra queste ultime e le pratiche del controllo poliziesco. Sarebbe a dirsi che nell’attacco a tutto campo delle tattiche antagoniste in questione, ritroviamo nuovamente la volontà di applicare una reductio ad unum del controllo ed estendere così lo status di non cittadini.” (pag.127)

Si dimostra in tal modo perché, così come gli antropologi che compiono ricerche sul campo in ambienti lontani dalle pratiche del mondo civilizzato oppure da quest’ultimo relegati al di fuori della legalità e del suo riconoscimento giuridico devono fare, oggi chi si occupa di lotte realmente antagoniste è altrettanto costretto a studiare il suo soggetto come “altro” dalla società che lo ha prodotto e che pur combatte, riportando il discorso su quella irriducibile, e andrebbe aggiunto inevitabile, alterità di cui si è parlato all’inizio di questa lunga recensione.

Alterità che, nonostante gli sforzi dello Stato e dei suoi galoppini mediatici ed ideologici, non può e non vuole essere relegata in una sorta di “riserva indiana”, come forse anche qualche benpensante democratico vorrebbe intendere la lotta No Tav nel suo contesto. Anche perché, nonostante gli sforzi imponenti, “Anche sul versante giuridico, come su tutti gli altri livelli, il dispositivo sembra però in affanno. La sensazione è che la compagine istituzionale stia, rispetto ai soli confini geografici della Valle, tentando l’applicazione casuale dei dispositivi di controllo disponibili, attraverso un procedimento che potremmo definire di «trial and error». Un procedimento per il quale – anche a seconda delle fasi evolutive della lotta – gli attori preposti al governo della popolazione e al suo controllo affiancano ai dispositivi volti al disciplinamento (accumulando saper sulla società) quelli miranti alla neutralizzazione e all’espulsione dei non cittadini, insieme a tattiche di polizia e giudiziarie che puntano invece alla deterrenza. Questo affanno, questo tentativo di usare tutti i mezzi possibili dimostra la difficoltà che la compagine istituzionale avverte nel controllare e leggere la conflittualità sociale.” (pag. 160) Che, aggiungerei, non vuole e non sa più leggere finendo col credere soltanto più nel proprio discorso: farsesco e fuorviante allo stesso tempo.

contrees Due ottimi libri, interessanti e documentatissimi, per comprendere e andare oltre le letture ormai “istituzionalizzate” di uno dei movimenti più vivaci ed innovativi della realtà europea contemporanea. Mi permetto però, e soltanto a questo punto, di suggerire che, per capire a fondo le trasformazioni in atto nelle lotte più significative, sarebbe necessario anche la traduzione in lingua italiana dell’inchiesta parallela condotta attraverso cinquanta interviste a militanti NO Tav italiani e ad altri cinquanta militanti francesi della Zad di Notre-Dame-des-Landes, prodotta ed edita dalle compagne e dai compagni del Colletivo Mauvaise Troupe: Contrées. Histoire croisées dela zad et de la lutte No TAV dans la Val Susa, Éditions de l’éclat 2016, pp.412


  1. Si veda in proposito il mio https://www.carmillaonline.com/2016/06/24/outsiders-vs-establishment/  

  2. Sulla scarsa credibilità elettorale e sull’inevitabile sconfitta della candidata democratica si veda ancora il mio https://www.carmillaonline.com/2016/05/02/donne-sui-tre-lati-della-barricata/  

  3. Come quella già efficacemente prodotta a cura del Centro sociale Askatasuna: A sarà düra! Storie di vita e di militanza no tav, DeriveApprodi 2013  

  4. Come nel caso dell’ultimo testo di Wu Ming 1, Un viaggio che non promettiamo breve, Einaudi Stile Libero 2016  

  5. cit . in Aime, pp. 205-206  

  6. M. Douglas, Antropologia e simbolismo, il Mulino, Bologna 1985, pp. 76, 88  

  7. D. Montaldi, Militanti politici di base, Einaudi 1971  

  8. Gianfranco Carofiglio, L’arte del dubbio, Sellerio Editore 2007, pag. 15  

  9. Alessandro Dal Lago e Rocco De Biasi, Un certo sguardo. Introduzione all’etnografia sociale, Laterza 2002, pag.XXXII  

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