John Sinclair – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 11 Dec 2025 06:43:21 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Controcultura, musica ribelle e critica rivoluzionaria https://www.carmillaonline.com/2025/01/08/cultura-ribelle-e-politica-rivoluzionaria/ Wed, 08 Jan 2025 21:00:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85879 di Sandro Moiso

Mario Maffi, La cultura underground, Giuseppe Laterza & Figli. Roma-Bari 1972, pp. 472

Questo libro è nato come libro di intervento politico. Non vuole cioè cadere in quell’obbiettività tanto cara al sistema che tutto uguaglia, tutto smorza e tutto svuota, concludendo con il solito gloria che tutti i salmi chiude. Il periodo della «cultura underground» e della sua trasformazione politica è un periodo di estrema importanza nella storia americana, e quindi mondiale: conoscerlo e comprenderlo significa entrare in prima persona nei nodi dei problemi; ed entrarvi in prima persona significa mettere se stessi a disposizione della soluzione. Nessun [...]]]> di Sandro Moiso

Mario Maffi, La cultura underground, Giuseppe Laterza & Figli. Roma-Bari 1972, pp. 472

Questo libro è nato come libro di intervento politico. Non vuole cioè cadere in quell’obbiettività tanto cara al sistema che tutto uguaglia, tutto smorza e tutto svuota, concludendo con il solito gloria che tutti i salmi chiude. Il periodo della «cultura underground» e della sua trasformazione politica è un periodo di estrema importanza nella storia americana, e quindi mondiale: conoscerlo e comprenderlo significa entrare in prima persona nei nodi dei problemi; ed entrarvi in prima persona significa mettere se stessi a disposizione della soluzione. Nessun distacco, ma piena partecipazione critica e polemica: questo si richiede sia a chi studi questo argomento sia a chi lo divulghi sia, infine, a chi ne sia convolto in un modo o nell’altro. ( Mario Maffi, La cultura underground – 1972)

Nel 1972 uscì in Italia un libro di Mario Maffi che, insieme alla Guida alla musica Pop di Rolf-Ulrich Kaiser pubblicato appena un anno prima negli Oscar Mondadori, avrebbe soddisfatto la fame di informazione e di interpretazione “politica” di chi, come il sottoscritto, aveva colto nelle trasformazioni in atto nella musica “giovanile” proveniente da oltre Oceano, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, importanti elementi e sintomi del cambiamento in corso, non soltanto, anche se e forse soprattutto, dal punto di vista generazionale.

Però, mentre il libro di Kaiser, uscito in Germania nel 1969, si occupava quasi esclusivamente di musica rock e pop, quello di Maffi, La cultura underground, affrontava con un respiro assai più ampio e una capacità interpretativa ben definita politicamente tutti gli aspetti di una controcultura ribelle e antagonista, underground come si diceva allora, che dai movimenti sociali di rivolta e protesta americani aveva preso spunto.

Certo, sia il libro di Kaiser che quello di Maffi, in Italia erano stati preceduti nell’intento dall’uscita della rivista Re Nudo, la prima e la più longeva espressione, di natura libertaria e situazionista, della controcultura dagli anni successivi al Sessantotto. Fondata a Milano nel novembre 1970 da un gruppo di intellettuali, artisti e militanti, tra i quali Andrea Valcarenghi, Gianni De Martino, Dario Fo, Marco Fumagalli, Gianfranco Manfredi, Claudio Rocchi, Gianni Emilio Simonetti, Michele Straniero, Massimo Villa, e il cui numero zero fu pubblicato nel novembre del 1970 come supplemento al numero 19 di «Lotta Continua»

Quasi subito quella prima “redazione” del giornale si sarebbe divisa sul tema dei finanziamenti e della pubblicità. Così nel giugno di quell’anno parte del gruppo redazionale, capeggiato dai membri dell’”ala situazionista” mise in atto una sorta di scissione, che rimase, però, una provocazione temporanea, considerato che subito dopo «Re Nudo» tornò a essere guidato da Valcarenghi.

Nel numero di gennaio del 1972 la rivista lanciò la proposta di dare vita a un nuovo movimento ispirato ai “White Panthers” statunitensi di John Sinclair: un tentativo di unire i tradizionali temi contro-culturali all’impegno “classista” nei confronti di temi come l’aborto, il divorzio, le condizioni nelle carceri, il disagio delle periferie urbane. Ma questa iniziativa portò ancora una volta ad una scissione da parte di alcuni redattori romani, indirizzati a una visione più hippie della rivista, che avrebbe comunque proseguito la sua attività fino al 1980.

Dopo aver fatto, doverosamente, omaggio a quel primo tentativo in Italia di coniugare, piuttosto disordinatamente, cultura giovanile e politica “antagonista”, occorre tornare a rivolgere lo sguardo al testo di Maffi, che si distinse subito per chiarezza d’intenti e unitarietà di interpretazione di fenomeni apparentemente distanti e ben distinti tra di loro.

La prima edizione, replicata nel 1973, si divideva in due sezioni, che sarebbero state mantenute sia nella successiva edizione in due volumi sempre per la casa editrice Laterza nel 1980 che nella riedizione del 2009 per la casa editrice Odoya. La prima, intitolata Dalla cultura underground al Movement, costituiva quella eminentemente politico-culturale, mentre la seconda, La produzione artistica underground, era principalmente suddivisa tra nuovo cinema, musica rock e teatro. Con un suddivisione che, fin dalle prime pagine della Premessa, privilegiava nettamente l’interpretazione politica e classista di quelle nuove manifestazioni musicali, letterarie, cinematografiche e teatrali provenienti dagli States più che quella meramente estetica. Così scriveva infatti l’autore nelle prime pagine della prima edizione:

La pubblicazione di questo libro coincide con un momento tutto particolare del dissenso interno americano, momento che da più parti viene definito di riflusso. In linea di massima, si tratta di una diagnosi corretta, pur nella limitatezza delle etichette. Effettivamente, il Movement è in una fase di stasi, di riconsiderazione, anche di disorientamento; ma sarebbe profondamente ingenuo pensare che questa fase altro non sia che il lento e graduale ritorno all’ovile del giovane ribelle. La gratuità di un’analisi simile discende proprio da un fraintendimento di ciò che è stato il dissenso americano in tutte le sue forme, e soprattutto dall’ignoranza storica che impedisce di comprendere la natura, gli sviluppi, il significato e le prospettive potenziali di simili «movimenti».
In questa fase di riflusso, il Movement sta scontando in realtà le proprie debolezze teoriche, i propri errori ideologici, le proprie posizioni confuse: alla grande esplosione incontrollata, istintiva, anarcoide, strategicamente non chiara, segue necessariamente il periodo del disorientamento, dell’analisi, dell’auto-critica, se si vuole; il momento della ricerca d’una chiarezza ideologica, di una intransigenza politica (dapprima rifuggite e osteggiate, ora ritenute sempre più indispensabili), attraverso la riconsiderazione di tutte le azioni e di tutti gli errori.
[…] Il periodo di stasi del Movement è quindi non rinuncia e ritorno all’accettazione dei valori della società capitalistica, ma studio, verifica, sfrondamento di tutte quelle posizioni quasi idealistiche, quasi romantiche, volontaristiche, che hanno costituito il nucleo – e la debolezza – della protesta giovanile. Può darsi che ciò non sia ancora qualcosa di completamente consapevole, di razionalmente compreso, ma la tendenza generale – che dovrà anche superare lo sconforto, la delusione e il pessimismo subentrati – è questa: lo dimostra proprio il graduale affermarsi di nuovi gruppi su basi più chiaramente marxiste, legati in origine all’operaio nero, ma con il programma dichiarato di raggiungere quello bianco per una lotta comune sul luogo di lavoro1.

Se è vero che il ricco testo di Mario Maffi costituiva, e ancora costituisce, un autentico viaggio attraverso le esperienze della beat generation, i problemi dell’individuo e della droga, la politica e la guerra nel Vietnam, i gruppi pacifisti, gay e femministi, le organizzazioni delle minoranze etniche e del dissenso più radicale espresso dal Black Panther Party e dai Weather Underground, le sperimentazioni del cinema e del teatro, la produzione musicale da Bill Haley ed Elvis Presley ai Fugs e Frank Zappa, è anche vero che queste note di metodo iniziali sono ancora fondamentali per orientarsi nella valutazione dei movimenti sociali, non solo americani, sviluppatisi nel corso degli ultimi decenni.

Non tutti occidentali, non tutti caratterizzati da grandi innovazioni artistiche, culturali e musicali (anche se il rap dei ghetti delle metropoli europee costituisce una nuova forma di comunicazione che deve essere analizzata e compresa2 ), ma tutti espressione di contraddizioni che, comunque, devono essere seriamente prese in considerazione. Evitando, però, di confondere l’azione e la reazione spontanee con una tattica o, addirittura, una strategia da applicare fiduciosamente, anche in contesti molto diversi da quelli di origine.

Il libro di Maffi, alla sua uscita, rappresentava proprio la volontà di interpretare un movimento di ampia portata senza per forza accettarne tutti i comportamenti o le idee espresse dal suo interno. Un metodo che prendeva le distanze sia dalla acritica accettazione dei fenomeni legati agli hippies e al pacifismo di stampo peace and love and drugs, come avveniva per esempio nel caso di Re Nudo o almeno di una sua ampia componente, ma anche dalla condanna espressa nei confronti di quei fenomeni espressi dal Movement portata avanti, anche in questo caso acriticamente, dalla tradizione del partito togliattiano, dai marxisti-leninisti e anche da una parte, probabilmente maggioritaria della Sinistra Comunista cui faceva riferimento lo stesso autore, prendendo però, in maniera più che evidente, le distanze dall’ultimo articolo scritto da Amadeo Bordiga (18891970) su «il programma comunista» nel 1968, dove tutti i movimenti giovanili e studenteschi venivano implacabilmente liquidati, non riconoscendo in essi le differenze da quelli che avevano invece caratterizzato i movimenti nazionalisti e guerrafondai che avevano caratterizzato gli anni precedenti il Primo conflitto imperialista mondiale3.

La stesura di quel testo, per lo stesso autore, all’epoca non ancora trentenne, costituì probabilmente una sorta di rivolta generazionale, in famiglia per così dire, vista la sua vicinanza alle posizioni espresse dal Partito Comunista Internazionale, di cui «il programma comunista» era l’organo di stampa. E forse è dovuta anche a questo aspetto la passione che anima le pagine di un libro che, in una prosa polemica e incisiva, passa in rassegna gli aspetti sociali e culturali di un’intera epoca, sondandone le origini e le profonde motivazioni individuali e collettive.

Così, anche se oggi quell’originaria freschezza che accompagnò il secondo e ultimo Rinascimento americano è andata perduta4, il libro di Mario Maffi ha ancora molto da insegnare e ricordare non soltanto alle generazioni più giovani, ma anche a chi non è mai uscito dalle maglie di una interpretazione rigida di un marxismo trasformato in dogma oppure che, ancor più comunemente, non ha saputo far altro che abbandonare, con la scusa della delusione e della raggiunta “maturità”, la strada maestra della rivoluzione.

«Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente.» (K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca – 1845/1846)


  1. M. Maffi, La cultura underground, Giuseppe Laterza &Figli. Roma-Bari 1972, pp. V- VII.  

  2. Come ha provato a fare Louisa Yousfi con Restare barbari. I selvaggi all’assalto dell’Impero, DeriveApprodi, Roma 2023.  

  3. Si veda: A. Bordiga, Nota elementare sugli studenti e il marxismo, «il programma comunista», n. 8, 1-15 maggio 1968.  

  4. Il “primo” Rinascimento americano è ricollegabile all’espressione coniata dal critico letterario Francis Otto Matthiessen nel 1941, che faceva riferimento al movimento del trascendentalismo e al più generale movimento letterario e culturale fiorito negli Stati Uniti intorno a esso tra la vigilia della seconda rivoluzione industriale e la Guerra di Secessione, i cui principali rappresentanti erano stati Ralph Waldo Emerson, Walt Whitman, e Henry David Thoreau.  

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Kick out the jams, moterfuckers! Wayne Kramer (1948 – 2024) https://www.carmillaonline.com/2024/02/19/kick-out-the-jams-moterfuckers-wayne-kramer-1948-2024/ Mon, 19 Feb 2024 21:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81093 di Sandro Moiso

«Fuori dai coglioni, fottutissimi stronzi!». Quante volte dovremmo urlarlo ogni giorno, ad ogni ora, nel confronti di compagini politiche, culturali e musicali che, sotto le vesti del perbenismo borghese, sensibile soltanto all’odore dei soldi, oppure dell’alternativa liberal correct e della provocazione studiata a tavolino da manager ed esperti di marketing, ci assillano in ogni momento attraverso i media, i social e finti dibattiti politici (televisivi o in presenza poco importa)?

Gli MC5 (Motor City Five) di Detroit lo urlarono una volta per tutte con un brano musicale dallo stesso titolo contenuto nell’album omonimo uscito nel 1969 per [...]]]> di Sandro Moiso

«Fuori dai coglioni, fottutissimi stronzi!».
Quante volte dovremmo urlarlo ogni giorno, ad ogni ora, nel confronti di compagini politiche, culturali e musicali che, sotto le vesti del perbenismo borghese, sensibile soltanto all’odore dei soldi, oppure dell’alternativa liberal correct e della provocazione studiata a tavolino da manager ed esperti di marketing, ci assillano in ogni momento attraverso i media, i social e finti dibattiti politici (televisivi o in presenza poco importa)?

Gli MC5 (Motor City Five) di Detroit lo urlarono una volta per tutte con un brano musicale dallo stesso titolo contenuto nell’album omonimo uscito nel 1969 per l’etichetta discografica Elektra. I cinque di Detroit (Motor City) ovvero Rob Tyner (voce, 1944-1991), Fred “Sonic” Smith (chitarra, 1949-1994), Wayne Kramer (chitarra, 30 aprile 1948 – 2 febbraio 2024), Michael Davis (basso, 1943-2012) e Dennis Thompson (batteria, 1948), attualmente unico sopravvissuto del gruppo, si erano conosciuti intorno alla metà degli anni ’60 quando erano ancora studenti delle scuole superiori a Lincoln Park, una cittadina della contea di Wayne, nella regione metropolitana di Detroit.

Davis e Thompson erano subentrati nel 1965, al posto del bassista Pat Burrows e del batterista Bob Gaspar che avevano lasciato il gruppo quando Fred Smith (futuro marito di Patti Smith) e Wayne Kramer avevano iniziato a sperimentare muri di feedback e rumore bianco con le loro chitarre, ispirandosi entrambi al free jazz di Archie Shepp, Sun Ra e John Coltrane ancor più che a Jimi Hendrix.

Rob Tyner era entrato prima come manager, con il suo vero nome di Rob Derminer, dei Bounty Hunters, il gruppo originario formato da Wayne Kramer con Fred Smith al basso, Leo Le Duc alla batteria e Billy Vargo come seconda chitarra, ma poi aveva cambiato il suo nome diventandone di fatto il frontman e cantante. Ma, in realtà, lui e Wayne si erano conosciuti quando erano ancora ragazzini, entrambi provenienti, come poi tutti gli altri membri, da famiglie operaie di quella che all’epoca era considerata la capitale mondiale della produzione automobilistica.

Wayne se ne era andato di casa a diciassette anni, in un ambiente in cui tutti, comunque, si conoscevano sia per condizione di classe che per provenienza geografica, poiché gran parte di quegli operai, bianchi e neri, erano giunti a Detroit dal Sud degli Stati Uniti dopo la guerra, perché avevano sentito dire che lì avrebbero trovato lavoro.

Erano, in qualche modo, dei reietti quegli eredi della classe operaia, e sapevano di esserlo, come migliaia di altri ragazzi della loro stessa età che vivevano nei sobborghi cittadini a quell’epoca. Che alle spalle non avevano l’estate dell’amore di San Francisco, ma dello stesso anno, il 1967, la più grande rivolta urbana di quel decennio. Durante la quale la Guardia Nazionale, per sedare i disordini, aveva dovuto impiegare anche l’aviazione
Questo elemento, insieme all’ascolto del jazz d’avanguardia, fu sicuramente alla base del disastro sonoro che uscì dalle due chitarre di Kramer e Smith che, di fatto, costituirono sia il tappeto di distorsioni su cui si svilupparono le loro canzoni che il proto-punk cui, nel giro di pochissimo tempo, si ispirarono altri gruppi della stessa area metropolitana: gli Stooges di James Newell Osterberg Jr. (1947, in arte Iggy Pop), gli Up, i Grand Funk Railroad (originari di Flint, a nord-ovest di Detroit), la James Gang oppure Alice Cooper, in un elenco che per motivi di spazio rimane qui incompleto.

Dal punto di vista musicale, in una città in cui il proletariato bianco si frammischiava al proletariato afro-americano, grande era stata anche l’influenza del blues e del rhythm’n’blues di cui, precedentemente, si erano appropriati altri gruppi seminali quali i Woolies (resi celebri da una più che travolgente versione di Who Do You Love di Bo Diddley), i Rationals di Scott Morgan (che raggiunsero il successo grazie a una versione proto-garage di Respect di Otis Redding) e, soprattutto, Mitch Ryder con i suoi Detroit Wheels, autentico padrino di tutta la musica bianca e arrabbiata che sarebbe venuta a partire dalla fine degli anni Sessanta dall’area di Detroit. Ma, nella sostanza, la novità dirompente rappresentata dagli MC5 fu quella di costituire la prima rock’n’roll band apertamente politicizzata. Nelle parole rilasciate dallo stesso Wayne Kramer in un’intervista a Pat Wadsley, Tre anni di galera e quindici di Rock, negli anni Ottanta:

C’erano anche i Fugs, ma erano più underground, mentre noi combinavamo la retorica politica con il rock’n’roll […] Il rock è stato sempre qualcosa di politico: lo era Chuck Berry, lo erano i Doors. Il rock’n’roll ha sempre rappresentato la ribellione dei giovani contro il potere.
All’inizio tutte le nostre idee erano ad un livello molto semplice e grezzo. Eravamo ragazzotti che venivano dalla strada e sapevamo solo che potevano fregarci se solo avessero voluto, in qualsiasi momento.

Da questo primitivo sentimento di oppressione sociale derivano sicuramente le parole urlate da Rob Tyner all’inizio di Motor City Is Burning, nel primo e più riuscito album del gruppo:

“Fratelli e sorelle, voglio dirvi una cosa! Sento un sacco di chiacchiere da un sacco di stronzi seduti su un sacco di soldi dicendomi che sono l’alta società. Ma voglio che voi sappiate una cosa, se me lo chiedete: questa è l’alta società! Questa è l’alta società!“

Così mentre, da un lato, ogni loro concerto era definibile come “una forza catastrofica della natura che la band era a malapena in grado di controllare”, dall’altro, i giornali conservatori definivano le loro esibizioni “orgasmi collettivi, ubriacature selvagge, valanghe di suono scaricate alla rinfusa sul pubblico, traboccanti di oscenità e slogan.” Sesso, droga, protesta e rock’n’roll riuscivano dunque a colpire nel segno. Ma fu l’incontro con John Sinclair, il teorico e attivista delle White Panthers a definire meglio l’attitudine di Kramer e compagni:

Quando arrivò John non fece altro che dire le stesse cose in termini politici e noi fummo d’accordo. Pensammo che aveva proprio ragione. Era un poeta, un critico e un organizzatore. Era l’unico che riuscisse a comunicare con noi, a trasformare un gruppo di maniaci del rumore in un complesso musicale che potesse esibirsi e continuare a far funzionare il tutto nel tempo1.

Nato a Flint, nel 1941, John Sinclair fu tra gli organizzatori del giornale underground di Detroit, “Fifth Estate”, alla fine degli anni ’60; contribuì alla formazione della Detroit Artists Workshop Press; lavorò come giornalista jazz per “Down Beat”dal 1964 al 1965, essendo un esplicito sostenitore del nuovo movimento del Free Jazz e fu uno dei “Nuovi Poeti” presenti alla seminale Berkeley Poetry Conference nel luglio 1965. Nell’aprile del 1967 fondò l’”Ann Arbor Sun”, un giornale underground, mentre dal 1966 al 1969 è stato il manager degli MC 5. Sotto la sua guida la band abbracciò la politica rivoluzionaria della controcultura del White Panther Party, fondato in risposta all’appello delle Pantere Nere affinché i bianchi sostenessero il loro movimento.

Durante questo periodo, Sinclair, teorico dell’”amore armato”, fece in modo che la band fosse ingaggiata regolarmente al Grande Ballroom di Detroit, dove in seguito fu registrato dal vivo, il 30 e 31 ottobre 1968, il loro primo album, Kick Out the Jams. Stava gestendo gli MC5 al momento del loro concerto gratuito fuori dalla Convenzione Nazionale Democratica del 1968 a Chicago, quando la band fu l’unico gruppo ad esibirsi prima che la polizia interrompesse la massiccia manifestazione contro la guerra in Vietnam. Lui e la band si separarono nel 1969. Nel 2006, Sinclair si è riunito però ancora all’ex-bassista degli MC5 Michael Davis per lanciare la Music Is Revolution Foundation.

Dopo una serie di condanne per possesso di marijuana, Sinclair fu condannato a dieci anni di carcere nel 1969 dopo aver offerto due joint a un’agente della narcotici sotto copertura. La severità della sua condanna scatenò diverse proteste pubbliche che culminarono nel John Sinclair Freedom Rally alla Crisler Arena dell’Università del Michigan ad Ann Arbor nel dicembre 1971. Tre giorni dopo la manifestazione, Sinclair fu rilasciato dal carcere quando la Corte Suprema del Michigan stabilì che le leggi statali sulla marijuana erano incostituzionali.

Nel 1972 Sinclair fu accusato di cospirazione per distruggere proprietà governative insieme a Larry Plamondon e John Forrest, ma in appello la Corte Suprema degli Stati Uniti emise una decisione storica, vietando l’uso da parte del governo degli Stati Uniti della sorveglianza elettronica domestica senza un mandato, liberando ancora una volta Sinclair e i suoi coimputati2. Sui motivi della rottura con Sinclair, Wayne Kramer si sarebbe in seguito espresso così:

Si arrivò alla rottura con John e con tutto il partito delle White Panther. Forse accadde perché in quel periodo John stava per essere condannato ad una pena detentiva e quando capisci che stai per andare in prigione cominci a diventare nervosissimo. Di solito te la prendi con tutti quelli che hai intorno oppure giuri di smetterla. John invece, per reazione, divenne ancor di più un militante convinto. A quel tempo non sapevo ancora cosa vuol dire avere davanti la prospettiva di andare in galera, lo imparai solo più tardi, così non potevo capire la sua esplosione di militanza [In precedenza] tutto era iniziato come una specie di club atletico-sociale, poi decidemmo di metterci a fare sul serio. Le Black Panthers erano tipi duri? Anche le White Panthers dovevano esserlo. Le Black Panthers avevano armi? Anche noi allora e se loro sparavano anche noi dovevamo sparare. Ci esaltavamo con la retorica del momento, ma quando decidemmo alla fine di non avere più niente a che fare con loro, capimmo che il nostro attivismo era consistito nel suonare e pagare i conti delle attività di quel partito da operetta 3.

La fine degli MC5 sarebbe arrivata nel 1971, quando la band perse il contratto discografico con l’Atlantic, che aveva sostituito quello con la Elektra, e non riusciva più a suonare. Fino a quando Mick Farren (1943-2013), capo della sezione inglese delle White Panthers e cantante della band proto-punk inglese dei Deviants (tre album tra il 1967 e il 1969) riuscì a organizzare un loro tour europeo in concomitanza con un festival musicale. Ancora dai ricordi di Kramer:

Non ci pagarono, ma ci diedero i biglietti per il viaggio, così cercammo di farci ingaggiare per qualche altro concerto in Inghilterra. Partimmo per Londra dove rimanemmo per circa un anno. Era l’ultimo viaggio all’estero degli MC5, sapevamo che non saremmo rimasti insieme ancora per molto. Ci fu poi quella tournée, la migliore che avessimo mai avuto, Avrebbe dovuto durare sei settimane, dieci giorni in Scandinavia poi l’Inghilterra, la Francia, con apparizioni alla televisione e alla radio, per finire con due settimane in Italia. Avremmo potuto separarci con stile alla fine della stessa, avendo qualche migliaio di dollari in tasca per incominciare qualcosa di nuovo, ma quando stavamo per partire arrivò la moglie del cantante: disse che non avrebbe lasciato venire suo marito. Risposi che ero pienamente d’accordo con lei sul fatto che suo marito non avrebbe dovuto cantare in un complesso, per il semplice fatto che non ne era all’altezza. A spassarsela fra un concerto e l’altro era bravissimo, ma solo a far quello. Pensavo però che avendo firmato un contratto avrebbe dovuto rispettarlo, se non altro perché se non fosse venuto avrebbe messo in difficoltà tutti noi. Finimmo però per partire senza di lui.

Io e Fred facemmo a turno i cantanti, senza sapere neanche la metà delle parole delle canzoni o cantandole nella tonalità sbagliata. Fu un’esperienza orribile, la peggiore della mia vita: si arrivava in un posto, c’era il finanziatore con la moglie, si mangiava qualcosa, si beveva, dicevamo le solite cose. «Come siamo contenti di essere qui» eccetera eccetera. Poi salivamo sul palco, facevamo uno spettacolo pietoso e quando tornavamo nei camerini se ne erano andati tutti, non riuscivamo a trovare nessuno per farci pagare. Gli italiani, visto come andavano le cose, cancellarono i nostri spettacoli: «Paghiamo per cinque e ne vengono soltanto quattro. Potete scordarvelo». Questo capitava mentre Sinclair era in prigione.4.

Una descrizione impietosa della fine di una leggenda, com’è giusto che sia, ma i travagli per Kramer erano ancora soltanto agli inizi. Tornato a Detroit, Kramer avrebbe iniziato a collaborare con il suo idolo Mitch Ryder, ma anche quest’ultimo avrebbe ben presto iniziato a dare segni di follia con comportamenti anomali e pericolosi, per sé e per gli altri che lo circondavano. Come ancora racconta Wayne: « Era diventato pazzo perché aveva venduto più di dieci milioni di dischi senza mai riuscire a vedere un centesimo, per cui non si fidava più di nessuno. Alla fine aveva dato di fuori di brutto ».

Così Kramer, dopo aver girovagato tra complessini nemmeno degni di esser ricordati, musiche pubblicitarie e infimi club, avrebbe finito con l’approdare, grazie anche alle proprie dipendenze, ai giri più che loschi legati al commercio e allo spaccio di droga. Eroina e cocaina. Come ricordava ancora nell’intervista già citata:

Mi arrestarono diverse volte in quel periodo per delle scemenze, non voglio neanche parlarne, non è interessante. Ritengo, adesso che ho avuto un po’ di tempo per pensarci su, di essere arrivato a immischiarmi in quel tipo di traffici anche perché ne ero attratto, mi sembrava di essere un ribelle […] Ma il fatto è che se non riesci nella musica perdi tempo e denaro, ma se sbagli in quel tipo di affari vai in galera o ci rimetti la pelle […] così un affare oggi, un affare domani mi ritrovai davanti ad un giudice per aver cercato di vendere cocaina a due agenti federali […] Il giudice disse: « Per il suo caso, signor Kramer, la legge prevede tre anni di reclusione». Prima mi aveva detto un massimo di cinque, per cui ero contento e mi dicevo: « Va bé, me li farò», ma in quello si alza un impiegato del tribunale e dice: « Vostro onore, c’è un errore, la legge prevede cinque anni di carcere ». E il giudice: « Insomma, tre o cinque che siano… Faremo una via di mezzo, gliene darò quattro » […] Lo sceriffo mi mise una mano sulla spalla e alle sei di quella sera ero chiuso in prigione.

Dopo gli anni di galera iniziò la lenta, faticosa risalita. Prima con l’esperienza, ancora una volta fallimentare, con i Gang War messi insieme ad un altro noto tossico e loser, Johnny Thunders, poi via via con dischi solisti o con compagni più affidabili. Dieci in tutto tra la fine degli anni Ottanta e il 2004, non molto. Eppure, eppure….

Wayne ha dimostrato, insieme a Fred “Sonic” Smith e agli altri suoi compagni di un effimero, violento, selvaggio e spericolato viaggio che la “musica giovanile” può essere ben altro da ciò che, oggi, gruppi tardo-glam o finti rapper e veri trapper vogliono proporre come novità musicali e artistiche. Lanciando, contro di loro e i vari promotori del business dello spettacolo, quell’indomito e sempre attuale grido di rabbia e disprezzo: Kick Out the Jams, Motherfuckers!!


  1. P. Wadsley, intervista a Wayne Kramer, cit.  

  2. Alcuni degli scritti di John Sinclair tradotti in italiano sono reperibili in J. Sinclair, Va tutto bene, traduzione di A. Prunetti, Stampa Alternativa 2006 e J. Sinclair, Guitar Army. Il ‘68 americano tra gioia, rock e rivoluzione, traduzione di A. Prunetti, Stampa Alternativa 2007.  

  3. P. Wadsley, intervista, cit.  

  4. Ibidem.  

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